Il Mereghetti

dizionario enciclopedico di cinema

Il Mereghetti, dizionario enciclopedico dei film.

Citazioni

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  • Melodramma moralistico e lacrimevole [...] recitato ai limiti del dilettantismo. Sprecato anche il gusto tutto napoletano per la truffa. (Accadde tra le sbarre; 2003, p. 22)
  • [...] accuratissima la ricostruzione d'epoca, raffinata e sensuale la regia che, a dispetto dell'accusa di calligrafismo, si dimostrò capace di un'analisi sociale e psicologica di sorprendente maturità. (Addio giovinezza!; 2003, p. 31)
  • Blade Runner e il finale di 2001: Odissea nello spazio, Cronenberg e la saga di Godzilla vengono allegramente contaminati nel più costoso e delirante film d'animazione mai realizzato in Giappone. Per chi non ha familiarità col fluviale fumetto omonimo, la storia – date le molte ellissi – è difficilmente decifrabile. Innegabile, comunque, il fascino visivo: il tratto è inconfondibilmente nipponico, ma animazione e colori sono spesso stupefacenti. (Akira; 2003, p. 54)
  • Uno dei primi, insuperati esempi di western realista che distrugge il mito del cowboy coraggioso e virile e dà inizio alla dissoluzione del mito della frontiera. [...] la regia di Wellman scardina ogni drammatizzazione negando dignità all'eroe romantico per rendere la sua cronaca ancora più implacabile, anche perché non trasforma chi dà la caccia agli assassini in una folla assetata di sangue, ma situa con rara esattezza psicologica le reazioni dei contadini e la loro autodifesa in un quadro sociale decisamente innovativo per i tempi. [...] La Fox era contraria al progetto e per risparmiare decise di non girare in esterni, ma la ricostruzione in studio finì per accentuare l'atmosfera claustrofobica del film e aumentarne la forza drammatica. (Alba fatale; 2003, p. 56)
  • Primo e unico film di un abile sceneggiatore che costruisce un film a tesi, rigorosamente antimaccartista in nome, però, della retorica dei valori americani. (Al centro dell'uragano; 2003, p. 60)
  • Magari fosse trash: non riesce a far ridere neanche involontariamente. (Alex l'ariete; 2003, p. 64)
  • [...] Disney creò un'opera anomala, ai limiti della sovversione, dove lo spirito già non ortodosso di Carroll diventa quasi iconoclasta. (Alice nel Paese delle Meraviglie; 2003, p. 67)
  • Uno dei film hollywoodiani che ha saputo esprimere con maggior forza ed efficacia un messaggio pacifista e antimilitarista: gli anni non hanno tolto forza all'opera e anche i tagli imposti dalla produzione [...] non fanno che accrescere l'impatto visivo delle violentissime e molto realistiche scene di battaglia – riprese con bellissime carrellate laterali – tanto da dar l'impressione che Milestone metta «più energia a far morire i suoi personaggi che a farli vivere» [Lourcelles]. (All'ovest niente di nuovo; 2010, p. 112)
  • Del romanticismo sottile di Fisher qui rimane poco: più sangue e soprattutto molto più sesso, con pesanti incongruenze ideologiche e narrative dal momento che viene a mancare la tradizionale opposizione tra la marcata sessualità del Conte e i repressi costumi vittoriani delle sue vittime. (Le amanti di Dracula; 2003, p. 92)
  • Vent'anni dopo I vitelloni, Fellini [...] ripensa alle proprie origini, mescolando come sempre amore e odio, distacco e nostalgia, giudizio e complicità. E come sempre, facendo tutto a Cinecittà, passaggio notturno del transatlantico Rex compreso. Film apparentemente in tono minore, ma in realtà tra i più coesi e riusciti. (Amarcord; 2010, p. 138)
  • Commediola rosa che utilizza i modi dei film dei telefoni bianchi per alzare un inno strapaesano all'amicizia con le truppe americane: [...] il film – neorealisticamente – fa parlare gli americani nella loro lingua [...] e, girato tra le rovine della guerra, conserva ancora oggi un suo valore documentaristico. (Un americano in vacanza; 2003, p. 103)
  • Sherman seppe usare a vantaggio del film la tensione che si creava sul set tra le due primedonne, aumentando così l'elettricità dei loro duetti [...], è un film avvincente e agrodolce [...]. (L'amica; 2003, p. 106)
  • Il primo dei quattro film girati da Clair negli Usa, in cui il compromesso raggiunto tra il suo stile e la presenza della diva finisce per scontentare tutti. Firmato dal regista e da Norman Krasna, il meccanismo narrativo tipicamente clairiano, fatto di incastri, mascheramenti, equivoci e doppi, riduce l'attrice a una specie di manichino impacciato, e i troppo frequenti rimandi ad altri film, sia dello stesso regista sia interpretati dalla Dietrich, concorrono a spersonalizzare ulteriormente la storia. (L'ammaliatrice; 2003, p. 113)
  • Forse un po' scontato nella conclusione troppo «positiva», il film ha tuttavia un grande impatto emotivo: l'atmosfera dei quartieri popolari e dei suoi frustrati abitanti è toccante e Cagney è perfetto nell'interpretare un gangster che sa di aver fallito ma che conserva tutta la sua dignità. (Gli angeli con la faccia sporca; 2003, p. 144)
  • [...] malinconico e inquietante (nel passato della donna c'è, forse, la presenza in un bordello di lusso), il film si regge tutto sul fascino misterioso della Dietrich, condannata a scegliere tra due uomini che sono fondamentalmente «uguali». Lubitsch si concede solo pochi tocchi comici (i commenti dei domestici all'inappetenza degli ospiti) e il film al botteghino fu un mezzo fallimento. (Angelo; 2003, p. 146)
  • Indimenticabile quando canta (a cavalcioni di una sedia) Ich bin die fesche Lola, la Dietrich è però limitata da un personaggio abbastanza convenzionale che solo la sua sensualità riesce a far dimenticare. Molto più composita la prova di Jannings che nel descrivere il decadimento morale di un uomo tocca, nelle scene finali, i vertici delle sue grandi interpretazioni mute (come L'ultima risata). (L'angelo azzurro; 2003, p. 146)
  • Melodramma tutto giocato sul doppio, che permette alla Davis (nell'unico film di cui fu anche produttrice) di interpretare due personaggi opposti (con qualche trucco che lascia ancora stupiti [...]). Peccato che la sceneggiatura di Catherine Turney, dopo un bell'inizio, non sappia liberarsi da una certa artificiosità nello sviluppare l'intreccio, dimenticando per strada il personaggio che forse poteva dare uno sviluppo inaspettato alla storia [...] interpretato da Dane Clark. Bernhardt non risparmia nessuna delle atmosfere notturne e nebbiose da lui predilette, ma finisce per sottolineare ancora di più l'incredibilità della storia. (L'anima e il volto; 2003, p. 151)
  • Film di commissione [...] che Rossellini [...] accettò di dirigere per pure ragioni alimentari: lo stile naturalistico del testo, a cui non mancano neppure un paio di scene madri, non ha niente a che vedere con l'idea rosselliniana di cinema: e i risultati lo dimostrano. (Anima nera; 2003, p. 153)
  • Nato come tentativo di ripetere il successo di Riso amaro [...], il film [...] non risente della sua origine di commissione. Costruito con una struttura a flashback che incastra le scene nell'ospedale (girate con occhio documentaristico) con quelle dei ricordi, è tutto giocato sulle opposizioni che lacerano il personaggio di Anna [...]: ne esce così un appassionato ritratto femminile nel quale il senso del dovere si scontra con il richiamo dell'erotismo. (Anna; 2003, p. 154)
  • Per il suo film d'esordio, Calderone sceglie un torbido ritratto di famiglia con risvolti psicoanalitici ma lo racconta con troppe concessioni alle grazie svestite della Muti e (soprattutto) della Giorgi. La Cortese, nel ruolo della madre, fa la solita scena da «isterica dannunziana». (Appassionata; 2003, p. 168)
  • Dal romanzo omonimo di Erich M. Remarque, un affresco melodrammatico sulla situazione dei rifugiati, tra ideali democratici e folclore. Boyer è troppo elegante per essere un povero perseguitato e la Bergman fuma per far capire che non è una donna per bene. Ma Laughton è grande come aguzzino nazi in cerca di piaceri proibiti. (Arco di trionfo; 2003, p. 179)
  • Per alcuni è il peplum mai realizzato, con dèi e mostri (creati dal celebre Ray Harryhausen) insolitamente infantili e fragili, che rivelano tutta la libertà, l'ironia e l'intelligenza di un adattamento (di Jan Read e Beverley Cross) che rilegge maliziosamente la mitologia greca alla luce del debole contemporaneo. Spettacolare l'uso naturale degli esterni (Palinuro e i templi greci di Paestum), perfetta la cadenza del ritmo, vivace la scelta dei colori: nel suo genere, un film sorprendente e unico. (Gli Argonauti; 2003, p. 180)
  • Il regista, già sceneggiatore del Fuggitivo, guarda a X-Files e all'Invasione degli ultracorpi, con prevedibile corredo di effetti speciali. Buono per una domenica pomeriggio di pioggia. (The Arrival; 2003, p. 187)
  • Spesso sembra che al regista non interessi raccontare una storia, ma semplicemente giocare con maschere, musiche, pavoni e tappeti: e tuttavia riesce a trasmettere un'allegria contagiosa, infantile e sofisticata. Una festa per gli occhi e le orecchie, che sfida ogni tentativo di etichetta, e ha anche il pregio di non andare per le lunghe. (Asik Kerib - Storia di un ashug innamorato; 2003, p. 194)
  • Da Agatha Christie, con un cast prestigioso, un'elegante ricostruzione d'epoca e qualche lungaggine di troppo. Il doppiaggio elimina il meglio, cioè il bizzarro inglese parlato dagli stranieri, che porta indirettamente alla soluzione del mistero. Un irriconoscibile Finney è Hercule Poirot. (Assassinio sull'Orient Express; 2010, p. 285)
  • Un ottimo esempio di cosa è possibile fare con un budget irrisorio. (L'astronave degli esseri perduti, p. 206)
 
Anthony Quinn in Attila
  • Ricostruzione kolossal delle invasioni barbariche dell'anno 450: grandi mezzi (è stata impiegata anche la Cavalleria dell'Esercito italiano), contrasti di civiltà (anche se i barbari sono più simpatici della corte romana), intrighi di potere (con la Loren nei panni della sorella dell'imperatore che si offre ad Attila), ma anche la sensazione di un bigino riletto col senno di poi. (Attila; 2003, p. 212)
  • Un salutare inno alla rivolta e al carpe diem, significativamente collocato un anno prima dei fatidici anni Sessanta. Un gran successo, nonostante l'eccessiva enfasi melodrammatica di Robin Williams. O forse proprio in virtù di questa. Oscar alla sceneggiatura di Tom Schulman. Al di là delle qualità artistiche il film ha comunque un grande merito: aver scatenato l'immaginario pedagogico di tutta una generazione costretta a subire una pedagogia che di immaginario non ha più niente. (L'attimo fuggente; 2010, p. 305)
  • Partendo da un intreccio semplice e lineare [...] Zinnemann elabora una straordinaria psicofenomenologia della vigliaccheria e della vendetta che però, grazie a una profonda sensibilità noir, libera da ogni manicheismo per sprofondare personaggi e spettatori in un incubo visivo e morale senza scampo, dove torto e ragione non hanno più senso e regna solo un ambiguo desiderio di violenza. Teso, denso, disperato, con due protagonisti all'altezza e un'insolita Mary Astor nel ruolo della prostituta comprensiva. (Atto di violenza; 2003, p. 213)
  • Curiosa commedia che scherza su temi allora molto concreti (c'è anche il tentativo di costruire una casa in una notte, che cinque anni più tardi sarà al centro di Il tetto) ma non riesce a sollevarsi dalla farsa goliardica. (Auguri e figli maschi!; 2003, p. 214)
  • Curiosa «opera parallela» che aggiorna situazioni e personaggi di Puccini in una sorta di rilettura popolare dei temi della resistenza antinazista. Coerentemente con la sua carriera fatta di film-opera e drammi lirici, Gallone intreccia in maniera indissolubile lirica e vita come a voler rivendicare, anche nei momenti più drammatici della storia nazionale (il film si svolge a cavallo del 4 giugno 1944, quando Roma fu liberata), la centralità della tradizione melodrammatica nazionale (e quindi, indirettamente, di tutta la sua carriera di regista), capace anche di ispirare sentimenti civili e passioni libertarie [...]. (Avanti a lui tremava tutta Roma; 2003, p. 218)
  • Allevato da una coppia di cani da pastore [...] il maialino Babe impara ad accudire le pecore (da cui riesce a farsi obbedire perché invece di abbaiare gli ordini, li chiede con dolcezza) e, ribaltando il suo destino «naturale» – che è quello di finire in padella – convince il padrone (Cromwell) di essere così bravo da farsi iscrivere a una gara per cani da pastore. Una favola moderna (con tanto di morale: anche le regole più secolari si possono infrangere), dove gli animali – veri – conquistano il primo piano lasciando gli umani sullo sfondo. [...] questo «film per bambini» racconta con una naturalezza accattivante e coinvolgente il potere infinito delle buone maniere e l'entusiasmo della sovversione (l'oca che vuole sostituirsi al gallo per annunciare il sole). (Babe - Maialino coraggioso; 2003, p. 233)
  • [...] si rivelò a distanza un horror da cineteca, tutto giocato sui turbamenti del non-detto e su un raffinato geometrismo delle immagini. Fondamentale l'uso della luce [...] che contribuì a interiorizzare il contenuto del film e a provocare un'identificazione più forte e più profonda dello spettatore con i personaggi. Indimenticabili le scene dell'inseguimento notturno e della minaccia in piscina [...]. Simon è perfetta come donna-felino, terrorizzata prima ancora che terrorizzante. (Il bacio della pantera; 2003, p. 238)
 
Virginia Belmont ne Il bacio di una morta
  • Dal romanzo di Carolina Invernizio, un «film d'appendice» discreto nel suo genere, e dallo stile più sobrio rispetto a quello della scrittrice. (Il bacio di una morta; 2003, p. 239)
  • [...] un giallo poco convincente nella soluzione, ma interessante per i giochi di cinema nel cinema che anticipano quelli di Brian De Palma. Il piano sequenza iniziale è da applausi, il resto è routine. Lugosi, nei panni di un produttore sospetto, ha un ruolo insignificante. (Bacio mortale; 2003, p. 239)
  • L'umorismo di Brooks a volte è greve, a volte molto cerebrale: i protagonisti vedono la cassetta di Balle spaziali per conoscere in anticipo il seguito della storia; il mostriciattolo di Alien esce dallo stomaco di John Hurt che si lamenta: «No, ancora!». (Balle spaziali; 2003, p. 248)
  • Ritmo serrato e suspense (da antologia l'ultimo tentativo di fuga di un bandito che si arrampica su una gomena ma non riesce a superare il disco di metallo che impedisce ai topi di salire sulla nave) ma soprattutto buone osservazioni d'ambiente. (Bandiera gialla; 2003, p. 256)
  • [...] la non disprezzabile risposta del produttore De Laurentiis ai kolossal hollywoodiani: il gigantismo è utilizzato al meglio da Fleischer per sottolineare le contrapposizioni simboliche che attraversano l'esistenza di Barabba – la luce e le tenebre, la morte e la resurrezione – e che danno al film un autentico spirito religioso, praticamente unico in superproduzioni di questo tipo. (Barabba; 2003, p. 259)
  • Un grandioso affresco umanitarista, pieno di nobile retorica, nel quale si sentono echi di Victor Hugo e di Dostoevskij: al centro c'è la descrizione – mai disperata – del «pozzo senza fine e senza fondo della miseria umana», dalla cui esplorazione i vari personaggi (e il regista con loro) trovano la forza di continuare la loro missione in favore delle miserie altrui. Per inseguire la moltitudine di personaggi che popolano il film, Kurosawa utilizza da maestro il CinemaScope, privilegiando i campi lunghi, anche se rimane in parte schiacciato dalle sue ambizioni e dagli intenti didascalici. (Barbarossa; 2003, p. 261)
  • Una vera tragedia degli equivoci, forse il miglior film di Chiarini: l'esigenza di raffinatezza formale tipica del «calligrafismo» (di cui il regista era uno degli esponenti di punta) qui si combina con uno stile vigoroso evidente anche nei personaggi minori (l'acidissima zia del notaio interpretata da Teresa Franchini, piccolo capolavoro di battute e recitazione), capace di creare un'atmosfera incandescente e mortifera con cui alludere agli umori dell'epoca ben oltre la riduzione letteraria. Merito indubbio dell'operazione va alla sceneggiatura [...]. A Barbaro, in particolare, viene da attribuire la forte connotazione sociale che rende leggibile il film anche in chiave di dramma di classe. Notevole la presenza palpitante della Ferida, attrice di regime generalmente impiegata in ruoli aggressivi e sensuali, che attraversa il film come un fantasma introducendo un clima «fantastico» abbastanza insolito nel cinema del periodo. (La bella addormentata; 2003, p. 277)
  • Sbilanciato dal punto di vista narrativo, soprattutto per la stereotipata recitazione da «cattivo» di Francis X. Bushman, il film ha comunque due momenti indimenticabili, la battaglia navale e la famosa corsa delle bighe, che non ha nulla da invidiare per tensione e perfezione tecnica a quella girata da Andrew Marton nel 1959, anche per merito delle scenografie di Cedric Gibbons e degli effetti speciali di Kenneth Gordon MacLean. (Ben-Hur; 2003, p. 288)
  • [...] un film agiografico ma misurato. (Bernadette; 2003, p. 292)
  • La pellicola che ha segnato una svolta nella carriera di Woo (fino ad allora autore di wuxiapian e film comici) e nel cinema di Hong Kong, inaugurando il genere del mélo-noir metropolitano in cui le sparatorie iperrealiste sostituiscono i duelli tradizionali. I temi sono quelli classici di Woo: l'elogio dell'amicizia, la difesa anacronistica di un mondo votato all'autodistruzione, la violenza stilizzata dove si mescolano lacrime e sangue. L'impianto da film popolare e certe ingenuità dispiacciono agli occidentali abituati ai successivi lavori del regista, ma il respiro è epico e travolgente. Un trampolino di lancio anche per Chow, che ruba la scena nella parte dell'ex killer umiliato, con impermeabile e occhiali scuri. (A Better Tomorrow; 2016, p. 552)
  • Versione moderna dell'opera di Shakespeare (neppure citato nei titoli, forse perché l'Italia era in guerra con la Gran Bretagna) ambientata nella periferia romana, ma poco aiutata da due attori fuori parte. (La bisbetica domata; 2003, p. 308)
  • Benché ibrido e sbilanciato [...] è comunque un film-chiave nell'opera del regista perché presenta già molti dei suoi elementi caratteristici: la costruzione della suspense, l'eroina bionda, la labilità del confine tra innocenza e colpa, la caccia all'uomo in un luogo famoso (qui il British Museum) e l'attenzione per le innovazioni tecniche [...]. (Blackmail; 2003, p. 311)
  • Molti critici vecchi e giovani hanno comunque benedetto l'operazione: i primi lieti di un horror che – per forza di cose – gioca tutto sul fuoricampo e sul mistero non spiegato, i secondi per moda. In definitiva, solo uno scherzo goliardico più interessante per i semiologi e i sociologi che per gli spettatori comuni, anche se in curiosa ed emblematica sintonia con il finto realismo e l'estetica «sporca» dei film del Dogma danese. (The Blair Witch Project - Il mistero della strega di Blair; 2003, p. 313)
  • Una farsa sfilacciata, dove soggettisti (Age e Scarpelli) e sceneggiatori (Metz, Marchesi, Vecchietti e Amendola) cercano di far sorridere con equivoci e trovatine inoffensive (le assurde penitenze della gara di canasta, i trucchi per non pagare il conto al ristorante). (Una bruna indiavolata!; 2003, p. 345)
  • Una commedia gialla raffinata e piena di ironia, [...] fondata – secondo un meccanismo di «spostamento» narrativo tipicamente hitchcockiano – non tanto sulla scoperta del ladro vero quanto sul tema dell'identità del ladro presunto. (Caccia al ladro; 2003, p. 363)
  • [...] gli stereotipi dei film coi minatori ci sono tutti, ma gli inverosimili abiti della Dietrich giustificano da soli la visione e la scazzottata finale è insolitamente violenta. (I cacciatori dell'oro; 2003, p. 366)
  • Tra comicità e patetismo, un mondo di risorse e umanità che Loy aveva già esplorato nelle sue indagini televisive, affidato all'estro agrodolce di Manfredi. (Café Express; 2010, p. 537)
  • Ambientazione inusuale, claustrofobica e notturna, e recitazione avvincente fino all'epilogo risolutore. (La campana del convento; 2003, p. 380)
 
Caterina Boratto in Campo de' Fiori
  • [...] si intravedono elementi pre-neorealisti (le dispute al mercato, la scena con la Boratto in prigione, quelle della balia in Abruzzo). E i toni della commedia sono abbastanza lontani dagli schemi estetici dell'epoca, con accenni di critica sociale (i «borghesi» che giocano d'azzardo) e qualche divertente notazione sul maschio conquistatore [...]. (Campo de' Fiori; 2003, p. 382)
  • [...] Camerini abbandona i consueti temi piccolo-borghesi e realizza una genuina commedia d'ambientazione popolaresca. [...] la censura fascista manipolò il film a tal punto da rendere incomprensibile la sua presunta componente eversiva. (Il cappello a tre punte; 2003, p. 395)
  • [...] si regge tutto sulla bravura degli interpreti. Peccato che Guinness abbia imposto di ridurre (per invidia?) il ruolo di Bette Davis [...]. (Il capro espiatorio; 2003, p. 398)
  • Nonostante la presenza di sceneggiatori come Richard Matheson e Robert Bloch (Russ Jones, non accreditato è l'autore del secondo segmento) e un cast di primo piano, è uno dei film a episodi meno riusciti della Amicus. L'umorismo nero, caratteristico di queste produzioni, funziona solo nell'ultimo episodio; e la blanda regia di Duffel si limita a qualche inquadratura sbilenca nei momenti cruciali. (La casa che grondava sangue; 2003, p. 414)
  • Come Robinson Crusoe (senza cannibali e con un po' di zen in più), una parabola sulla necessità di perdere tutto per ritrovare se stessi attraverso il confronto con una natura insondabile e indifferente dalle vicende umane. Ma se Defoe teorizzava la fuga dalla società neoindustriale del capitalismo selvaggio, Zemeckis-con le armi della civiltà digitale che finge di ripudiare- non vede l'ora di riportare indietro il suo eroe, anche se (quasi) rinuncia al lieto fine hollywoodiano. Scritto da William Broyles jr. Girato con tempi di lavorazione molto lunghi (sedici mesi: nella pausa tra le riprese, durata un anno, il regista ha diretto Le verità nascoste) per consentire a Tom Hanks (meritata la nomination all'Oscar) di dimagrire 22 chili. (Cast Away; 2014, p. 690)
  • Splendido melodramma gotico sul tema di Barbablù e della sposa-vittima. Price è una grandiosa incarnazione del male, Gene Tierney una succube perfetta. Prodotto da Lubitsch che non poté dirigerlo per una malattia, è il film con cui esordisce Mankiewicz e nel quale è già presente il tema portante di tutta una carriera: la forza della parola, usata come il più forte degli elementi drammatici, della quale ci si serve per affrontarsi, studiarsi, combattersi e annientarsi. (Il castello di Dragonwyck; 2003, p. 427)
  • Uno dei più alti esempi di noir anni Quaranta, dramma dell'ossessione e della predestinazione, nel quale un tragico fatalismo sottolinea l'impotenza dell'individuo a liberarsi dall'influenza perversa e avvelenata che il passato ha sul presente. Ognuno dà il meglio di sé, e l'acme è raggiunto nella scena in cui Mitchum aspetta la dark lady in un bar messicano: non accade nulla, ma c'è tutto il senso del film. (Le catene della colpa; 2003, p. 428)
  • Western antimilitarista dove Ford inizia a riflettere sulla vecchiaia [...]: non a caso la sceneggiatura [...] si «inventa» due colpi di scena finali – la memorabile carica nella tempesta contro il campo indiano e il richiamo di Brittles come responsabile delle guide – per permettere al suo eroe di chiudere il film (e la carriera) in bellezza. Indimenticabile Wayne mentre monologa sulla tomba della moglie con un cielo da delirio sullo sfondo. (I cavalieri del Nord Ovest; 2003, p. 434)
  • Tra gli ultimi sussulti del cinema dei telefoni bianchi: l'azione, ovviamente, si svolge in Ungheria, ma non manca qualche cenno ai tempi difficili. (Centomila dollari; 2003, p. 442)
  • Thriller con la pretesa di elevarsi al di sopra del cinema di genere, ma che risulta solo fiacco e noioso. (Il cervello dei morti viventi; 2003, p. 449)
  • Dramma eccessivo (anche nella lunghezza) e volutamente sgradevole, con un finale sorprendentemente misurato, malgrado il colpo di scena. Le performance di Joan Crawford e soprattutto di Bette Davis hanno un che di masochistico che Aldrich accentua inserendo spezzoni di film nei quali le due attrici recitavano in gioventù [...]. (Che fine ha fatto Baby Jane?; 2003, p. 458)
  • Ottima produzione con un grande ritmo e un bel cast: restano memorabili una misteriosa e seducente Veronica Lake e William Bendix, nel ruolo della brutale guardia del corpo. (La chiave di vetro; 2003, p. 462)
  • Commediola zavattiniana (lo sceneggiatore cullava questo progetto dal 1934) sulle tentazioni della modernità e del successo e sulla conseguente perdita di identità. Ma la sceneggiatura [...] non va molto più in là della giustapposizione dei singoli episodi, troppo diseguali: di una facile melodrammaticità quelli dei due De Filippo, solo sbozzato quello di Fabrizi, improbabile quello di Chiari. (Cinque poveri in automobile; 2003, p. 486)
  • [...] il film colpisce ancora per il suo realismo e il ritratto cupo e disperato del mondo della malavita. Ottima prova della Davis, e di Eduardo Ciannelli nella parte del boss, chiaramente ispirato alla figura di Lucky Luciano. (Le cinque schiave; 2003, p. 486)
  • Piccolo noir della Rko, prodotto da Howard Hughes su misura per l'esuberante sex appeal di Jane Russell (che si esibisce in un paio di canzoni, accompagnata al piano da Hoagy Carmichael): il tema del passato che ritorna è trattato in maniera pittosto superficiale, ma la lunga caccia all'uomo finale – con un elicottero all'inseguimento di un'auto tra paesaggi desertici – è girata con grande abilità e un ottimo crescendo d'azione. (La città del piacere; 2003, p. 493)
  • L'ottavo lungometraggio di Miyazaki (unico sceneggiatore) è il suo risultato finora più alto, anche se i temi che lo percorrono (l'infanzia come sogno di cui ritardare la fine, l'armonia animista delle cose, il pittoricismo delle immagini) sono già tutti nei suoi lavori precedenti. Le invenzioni visionarie e poetiche sono incessanti e sempre felici, tra memorie di Alice nel paese delle meraviglie, iconografia shintoista, teatro kabuki e surrealismo. E si fondono per creare un universo sorprendente e a tratti cupissimo, che disattende le leggi della logica e della fisica, e dove non è possibile discernere tra buoni e cattivi. I personaggi si stagliano nella memoria in sequenze di grande durezza (l'iniziale mutazione dei genitori), di delicata poesia (il memorabile viaggio in treno sulla ferrovia sommersa), di indefinibile suspense (l'arrivo notturno del traghetto da cui fuoriescono silenti gli ospiti della «colonia»). Ottima colonna sonora di Joe Hisaishi. (La città incantata; 2003, p. 495)
 
Doris Duranti in Clandestino a Trieste
  • Un tentativo di ricucire le ferite della guerra con buona volontà e fede nella giustizia: decisamente troppo, anche perché la recitazione è sotto il livello di guardia. Curiosa solo l'ambientazione tra Monfalcone e Trieste e lo squarcio semidocumentario sul potere di comunicazione della radio. Tratto da un racconto di Camillo Del Signore, sceneggiato da Diego Fabbri e Turi Vasile, che non risparmiano alla Duranti i peggiori stereotipi di mangiauomini e madre senza cuore. (Clandestino a Trieste; 2003, pp. 500-501)
  • [...] è un thriller raccontato col ritmo della commedia, pieno di colpi di scena, realizzato con eccezionale senso dei caratteri. Il moralismo di fondo di Hitchcock, poi, si diverte a complicare la storia [...]. (Il club dei 39; 2003, p. 505)
  • Le immagini mostrano ma non raccontano, alludono ma non dicono. Proliferano simboli e visioni inaudite (decine di libri messi ad asciugare sui tetti e sfogliati dal vento, pesci che si dibattono fuor d'acqua, greggi che invadono una chiesa, angeli della morte che scendono dal soffitto): lo spettatore non deve però decifrarli pedantemente, ma immergersi in essi, come in un quadro o in una musica. (Il colore del melograno; 2003, p. 515)
  • [...] il film racconta, con i toni struggenti dell'epica familiare, la fine di un'epoca che si conclude con la morte del vecchio Morgan (Crisp) nel crollo di un pozzo minerario. Una fine dolorosa, che Ford rievoca con partecipazione ma senza nascondere l'inadeguatezza di quel mondo (e di quei valori) di fronte ai mutamenti sociali: ai suoi eroi non resta che sopportare in silenzio la propria sconfitta, come il reverendo Gruffydd (Pidgeon) che non ha il coraggio di accettare il proprio amore per Angharad Morgan (O'Hara) e così fallisce come uomo e come ministro di culto. (Com'era verde la mia valle; 2003, p. 528)
  • [...] tradimenti, passioni, ragion di Stato e un drammatico epilogo in una spettacolare evocazione storica di grande magnificenza visiva. Certe verbosità del dialogo e le ingenuità della trama si dimenticano facilmente davanti alla straordinaria prova della Davis, che per interpretare la brutta regina Elisabetta (che nei suoi attacchi di furia rompeva gli specchi per non vedersi) si fece rasare di cinque centimetri i capelli, indossò una parrucca rossa e si fece truccare con un fondotinta bianco e gessoso. Al contrasto fra i protagonisti, poi, corrispose fedelmente quello fra gli attori, perché la prima donna Bette Davis mal sopportava la concorrenza di Errol Flynn, al posto del quale avrebbe voluto Laurence Olivier. (Il conte di Essex; 2003, p. 553)
  • Un ennesimo remake a basso costo dove il ridicolo prevale sull'horror. (Il conte Dracula; 2003, p. 554)
  • [...] è un melodramma avventuroso che naturalmente privilegia la storia d'amore rispetto alla Rivoluzione, anche se Feyder, pur non muovendosi dall'Inghilterra, riesce a ricreare piuttosto bene l'atmosfera russa [...]. La Dietrich, splendida, qui sfodera una sensualità molto più esplicita che nei film di Sternberg (basta vedere il bagno nella tinozza dopo essere sfuggita ai bolscevichi). Sontuosamente prodotto da Alexander Korda, l'unico in Gran Bretagna che potesse rivaleggiare con Hollywood. (La contessa Alessandra; 2003, p. 554)
  • Un kolossal made in Italy che cerca di mediare esigenze spettacolari con il rispetto per la verità storica: gran lavoro degli sceneggiatori [...]. (Costantino il Grande; 2003, p. 581)
  • Il modello è La fiamma del peccato, i risultati sono molto più modesti ma comunque in grado di soddisfare gli amanti del noir. La Novak è una dark lady debuttante e convincente. (Criminale di turno; 2003, p. 587)
  • La sceneggiatura di Dudley Nichols (e le imposizioni del Codice Hays) semplificano il romanzo di Graham Greene Il potere e la gloria (da cui è tratto il film e dove il prete era alcolizzato e viveva con una donna), ridimensionando le implicazioni morali per enfatizzare la dimensione drammatica. Il ritmo è discontinuo e lo schematico simbolismo religioso alla lunga disturba, ma lo stile è quello di un maestro e la fotografia di Gabriel Figueroa è eccellente. (La croce di fuoco; 2003, p. 591)
  • Una vera e propria operazione nostalgia [...] curata nella ricostruzione dell'ambiente e lenta nel ritmo, come prescrive la pagina deamicisiana. (Cuore; 2003, p. 599)
  • Melodramma edificante tratto da Cuore di De Amicis, che sfrutta poco gli spunti potenzialmente cinematografici del racconto (le avventurose peripezie del protagonista) per dare la precedenza alla sfera dei nobili e patetici sentimenti filiali. (Dagli Appennini alle Ande; 2003, p. 606)
  • Non un capolavoro del noir (messinscena e regia, per quanto impeccabili, sono piuttosto anonime), e tuttavia un film interessante sul tema della disillusione postbellica e sul trauma psicologico del rientro in una società moralmente alla deriva, preludio alla nascita di quella dark lady che ossessionerà per anni il cinema americano. [...] Bravissimi Ladd nella parte del reduce spaesato e la Lake in quella della salvatrice che, con il suo carico di sensuale ambiguità, arriva ad alterare anche il tradizionale personaggio della «buona». Inizialmente il colpevole doveva essere Buzz, vittima di guerra tanto simpatica quanto inquietante [...]. Indimenticabile la scena in cui la Lake, al volante di notte, «abborda» Ladd a piedi sotto una pioggia torrenziale. (La dalia azzurra; 2003, p. 607)
  • Una favola fantastica in stile Tolkien, rielaborata dai creatori dei Muppets: l'intreccio è banale, ma i pupazzi sono spettacolari. (Dark Crystal; 2003, p. 618)
  • Una situazione tipica della commedia cameriniana – lo scambio di persona – diventa lo strumento di una satira raffinata contro la superbia e la beneficenza interessata dell'alta borghesia. (Darò un milione; 2003, p. 619)
  • Diligente l'ambientazione, compassata la sceneggiatura, complessivamente impacciato il cast. (David e Golia; 2003, p. 622)
 
Gregory Peck e Susan Hayward in Davide e Betsabea
  • Un'accurata ma noiosa versione cinematografica del celebre episodio biblico (l'amore adulterino del re David per la moglie di un suo ufficiale) che gli attori cercano di vivacizzare come possono. (Davide e Betsabea; 2003, p. 622)
  • Tipico film catastrofico, che fa propri tutti gli stereotipi del genere. Ha avuto un sensazionale impatto orrorifico sul pubblico, e tale risvolto sociale conta molto di più delle sue qualità artistiche, decisamente scarse. (The Day After - Il giorno dopo; 2003, p. 622)
  • La sceneggiatura di Bill Marsili e Terry Rossio gioca con i soliti paradossi temporali, sorvolando sulla plausibilità dell'elemento fantascientifico e tentando fin che può di arginare facilonerie e incongruenze. Il gioco regge mezz'ora, poi svacca inesorabile nell'action movie bombarolo con storia d'amore e happy ending di rito. In realtà, Scott vorrebbe rappresentare paure contemporanee: e se avalla ambiguamente (come già nel suo precedente Nemico pubblico) una tecnologia che viola la privacy a fin di bene, azzecca però un paio di sequenze tecnicamente complesse (come l'inseguimento in auto tra passato e presente) e l'ambientazione nella Louisiana in ricostruzione dopo l'uragano Katrina. (Déjà vu - Corsa contro il tempo; 2010, p. 905)
  • Ottima l'idea di partenza, quella di ambientare un horror in un cinema dove si proietta un film dell'orrore dagli influssi malefici. Ben presto gli spettatori cominciano a trasformarsi in mostri. Peccato che la sceneggiatura, dopo un'ora, annaspi, e gli attori siano risibili. (Dèmoni; 2003, p. 640)
  • Frullato di luoghi comuni dell'horror contemporaneo, con pesanti riferimenti a Gremlins e a Videodrome, e senza una trama degna di questo nome. (Dèmoni 2... L'incubo ritorna; 2003, p. 640)
  • […] è uno dei più bei film sull'amicizia e sul rapporto dell'uomo con la natura, semplice ed emozionante come solo i capolavori sanno essere. Commovente il modo con cui Kurosawa sa raccontare l'ingenuo animismo di Dersu (il suo parlare al fuoco e al vento, all'acqua e alla tigre), ma anche il suo senso di fratellanza universale (quando lascia qualche provvista nella capanna per il prossimo, eventuale occupante). (Dersu Uzala - Il piccolo uomo delle grandi pianure; 2003, p. 643)
  • Il film [...] risente della sua origine teatrale ma sa far rivivere con emozione e intensità le persecuzioni del clero durante il Terrore. (I dialoghi delle Carmelitane; 2003, p. 653)
  • Film catastrofico, tedioso e pieno di buoni sentimenti. (Il diavolo alle 4; 2003, p. 658)
 
Yul Brynner ne I dieci comandamenti
  • La magniloquenza e il gigantismo non tolgono però al film la sua appassionata carica emotiva e le libertà storiche che DeMille si è preso (per esempio nel personaggio di Nefertiti/Anne Baxter) colorano la storia con alcune sfumature ancor oggi godibili. (I dieci comandamenti; 2003, p. 664)
  • Gioco tra gatto e topo con molti capovolgimenti, che sfrutta al meglio l'ambientazione claustrofobica. Tocchi d'ironia, massicce dosi d'azione, effetti visivi strabilianti, una suspense ininterrotta e Bruce Willis che azzecca una delle sue parti migliori: che cosa si può volere di più? (Die Hard - Trappola di cristallo; 2003, p. 666)
  • [...] questo film è prima di tutto una dolente parabola sull'intolleranza e la superstizione. Ma anche un'acuta riflessione sull'impossibilità di attribuire schematicamente colpe e assoluzioni: ogni personaggio, e Anne in primo luogo, manifesta una personalità ambigua e contraddittoria, che non permette allo spettatore di dare giudizi certi. Certa è solo la condanna al dolore, unico mezzo possibile per raggiungere purezza e chiarificazione (che Dreyer sintetizza nel volto tormentato di Lisbeth Movin), e il peso dell'orrore, di cui si è insieme vittime e responsabili (come nella scena finale in cui Anne, circondata da chierichetti salmodianti, decide di confessare). (Dies irae; 2003, p. 666)
  • Curioso ma irrisolto ritratto del disfacimento morale di una classe sociale, troppo «estremo» per non sembrare contraddittorio. La povertà affettiva della ricca famiglia milanese, la non confessata ambiguità di chi (Milian) in fondo non è che un mantenuto, l'ambigua generosità del falso prete non riescono mai a trasformarsi in elementi di analisi di quella disgregazione sociale a cui fa riferimento il titolo, rimanendo episodi fini a se stessi anche per l'oggettiva inconsistenza dell'antagonista proletario (Salvatori), la cui unica caratteristica sembra essere l'invidia della ricchezza. (Il disordine; 2003, pp. 676-677)
  • Il miglior Frankenstein del ciclo Hammer e l'ultimo grande film di Fisher che, nella cornice del racconto gotico, inserisce una riflessione sulla diversità solo abbozzata negli episodi precedenti. (Distruggete Frankenstein!; 2003, p. 678)
  • [...] è una specie di Viale del tramonto pieno di cliché [...] ma non privo di fascino negli assoli della Davis (specie nella scena del provino, prima quando tenta di fare la giovane sexy e poi quando, riguardandosi, si accorge di quanto sia stata patetica). (La diva; 2003, p. 679)
  • Un affresco composito di un mondo senza più nessun punto di riferimento [...]. Ben presto divenne un cult movie anche all'estero, diffondendo l'uso di neologismi come «paparazzo». (La dolce vita; 2010, p. 990)
  • [...] è un film che sa utilizzare a proprio vantaggio le ristrettezze del budget: Siegel punta tutto sulle scene d'azione e di violenza, girate e montate con uno stile nervoso e tranciante, e lascia in secondo piano i risvolti psicologici della storia, così da far emergere una «contiguità» fisica ma anche (im)morale tra gangster e poliziotti, in precario equilibrio sul filo che divide il Bene dal Male (come appunto succede a Jack che quasi non s'accorge di essersi trasformato in un bandito). (Dollari che scottano; 2003, p. 688)
  • [...] un'esangue biografia modello esportazione, girata nel centenario della morte del santo. Perde il confronto con il Don Bosco del '35, diretto da Goffredo Alessandrini. (Don Bosco; 2003, p. 694)
  • Un film superficiale ma ben confezionato: l'intrigo funziona, il ritratto della città [Torino] e della società incuriosisce, gli attori sono bravi. (La donna della domenica; 2010, p. 1006)
  • Di notevole c'è l'atmosfera mortifera che riflette quella di un'epoca (vedi il coevo Ossessione), splendidamente resa dalla fotografia di Massimo Terzano: un clima che aleggia sin dalla prima, memorabile sequenza del funerale sotto la pioggia, prosegue con l'ostinato senso di vuoto degli interni, cui fa da contrappunto la solitudine delle cime, e culmina nell'enorme croce commemorativa che staziona per mesi nella casa degli sposi. (La donna della montagna; 2003, p. 701)
 
Joan Bennett ne La donna del ritratto
  • [...] un noir avvincente che ripropone il tema più caro al regista: il sottile confine tra innocenza e colpevolezza, raccontato con una narrazione minuziosamente realistica ma sviluppato con un andamento potentemente onirico. Uno dei migliori ritratti del grigiore borghese e di quello che può nascondere dietro la sua faccia rispettosa. (La donna del ritratto; 2003, p. 702)
  • Fantasia e realtà storica si intrecciano in questo film che mescola i generi con leggerezza e humor. Soldati [...] non mitizza la figura del protagonista e ne racconta il lato picaresco [...] più di quello guerresco; così come la corte dei Borboni [...] è descritta con un'ironia contagiosa [...]. A Stoppa, nei panni di un giuda invidioso e fanfarone, il compito di arricchire la pellicola con il ritratto dell'avidità umana e fare da contrappeso melodrammatico a un primattore che avrebbe potuto scivolare nella maniera di se stesso. (Donne e briganti; 2003, p. 711)
  • Bellissime le scenografie di Ken Adam, come la sala da guerra del Pentagono. (Il dottor Stranamore, ovvero: come imparai a non preoccuparmi e ad amare la bomba; 2010, p. 1040)
  • Dracula, che non a caso arriva sul finire del secolo, ha il merito di approfondire e sintetizzare a livello popolare i sottintesi ideologici del vampirismo ottocentesco, che - grazie a la cinema - avranno un grande seguito anche nel Novecento. (2003, p. 729)
  • [Sul Conte Dracula] Il conte transilvano è in pratica l'ultimo degli eroi romantici: alle prese con l'irrazionale, il magico, il misterioso, in sospeso tra il Bene e il Male, la Vita e la Morte, la Morte e l'Immortalità. Naturalmente è destinato alla sconfitta in una società che si è votata alla Scienza (e più tardi alla tecnologia), ma non prima di aver scosso alle fondamenta il sistema di valori su cui tale società è fondata. (2003, p. 729)
  • [Sul Conte Dracula] Ciò che più sorprende in lui è l'assenza di rimorso, la noncuranza delle conseguenze delle sue azioni. Agli occhi degli altri personaggi maschili del romanzo, che sotto la guida del dottor Abraham si schierano a tutela dell'ordine ideologico costituito, Dracula è l'incarnazione di Satana senza senso di colpa, del potere senza limiti, del sesso senza coscienza né controllo. (2003, p. 729)
  • Interessante rilettura del personaggio inventato da Bram Stoker, di cui Badham (e lo sceneggiatore W. D. Richter) accentua l'aspetto di fascinazione erotica, grazie anche alla scelta di farlo interpretare dall'italoamericano Frank Langella: ne esce il ritratto di un seduttore «byroniano», alla disperata ricerca dell'assoluto, solitario e romantico, che si prende gioco delle convenzioni sociali e combatte i tabù puritani, offrendo alle sue vittime non solo la condivisione del desiderio del sangue ma soprattutto una festa dei sensi e un autentico delirio erotico. (Dracula; 2003, p. 732)
  • Non per tutti i gusti, ma negli anni conserva un suo strano fascino. (Dracula cerca sangue di vergine... e morì di sete!!!; 2003, p. 732)
  • Coppola (che ha utilizzato la sceneggiatura di James Hart) vede Dracula come Lucifero e angelo caduto, con una lettura che non è delle più abusate, capace di dare al personaggio una statura epica che sorprende chi conosceva la malinconia romantica del Nosferatu di Herzog. Ma poi lo appesantisce con un immaginario cattolico e sessuofobo, tutto giocato sull'ambivalenza di angelo e bestia, piacere e morte, che lascia freddi. (Dracula di Bram Stoker; 2003, p. 732)
 
Christopher Lee nel ruolo del Conte Dracula in Dracula il vampiro
  • Molto fedele allo spirito del romanzo di Bram Stoker, questo film definisce l'aspetto moderno di Dracula (i canini sporgenti sono un'invenzione di Fisher e l'interpretazione di Christopher Lee aggiunge un tocco di inquietante perversità al personaggio letterario). (Dracula il vampiro; 2003, p. 732)
  • Non una parodia come ci ha spesso abituato Brooks, ma uno strano pastiche tra scontato citazionismo (di cui fa le spese soprattutto la versione di Coppola) e un'ormai stanca comicità goliardico-caotica. (Dracula: morto e contento; 2003, p. 732)
  • Il tocco di Fisher si ritrova nella condanna di ogni moralismo (il Male incarnato da Dracula, ma anche l'eccesso di puderie di una delle due coppie, proprio per questo vittime designate del vampiro) e soprattutto nella lettura parareligiosa del mito di Dracula, visto come un nuovo anti-Cristo. (Dracula, principe delle tenebre; 2003, p. 733)
  • Quasi un remake non dichiarato di 1972: Dracula colpisce ancora!, prodotto dalla Hammer. Ma la formula è quella tipica dell'horror commerciale degli anni '90: humour nero, splatter e colonna sonora metal. [...] Una stupidaggine, voluta e prodotta da Wes Craven. (Dracula's Legacy - Il fascino del male; 2003, p. 733)
  • Film per ragazzi intelligente e ben diretto la cui uscita nelle sale è passata praticamente inosservata. (Il drago del lago di fuoco; 2003, p. 733)
  • L'ambizioso tentativo del produttore Selznick di bissare il successo di Via col vento e di fare della moglie Jennifer Jones una superstar: 6 milioni di dollari per la produzione, 2 per il lancio pubblicitario, il fiato sul collo al regista Vidor (che non terminò neppure il film), musica tonitruante (di Dmitri Tiomkin) e una fotografia sanguigna di tramonti e fuochi. [...] l'eccesso di titanismo e le esagerazioni melodrammatiche (quasi ridicole) vengono abbondantemente riscattate dalla pulsante carica erotica di Jennifer Jones. (Duello al sole; 2003, p. 746)
  • Esordio nella regia del premio Oscar per gli effetti speciali di 2001, che risponde al pessimismo di Kubrick con una dichiarazione di ottimismo ecologico. Uno dei pochi film (con il molto posteriore Alien) dove il peso degli effetti speciali non soffoca la dimensione umana del racconto. Anzi, Trumbull arriva a «umanizzare» i simpatici robot che aiutano Dern (bravissimo) nella sua opera. Poetico e affascinante. (2002, la seconda odissea; 2003, p. 749)
  • Piccolo gioiello della fantascienza inglese, ispirato al romanzo La morte dell'erba di John Christopher, che teorizza «da destra» la supremazia dell'istinto animale nell'uomo: tesi che il film esemplifica con una chiarezza quasi imbarazzante, soprattutto durante il lungo viaggio. Filmato con bel piglio documentario. (2000: la fine dell'uomo; 2003, p. 749)
  • La Maggenti, anche autrice della sceneggiatura, mette molta carne al fuoco (i pregiudizi non riguardano solo la sessualità ma anche la razza e il censo), ma fortunatamente rifugge dal politically correct e si lascia andare con raffinata naturalezza al racconto di una storia d'amore che cresce pian piano e non si dimentica. Notevoli le due attrici protagoniste, praticamente esordienti. (Due ragazze innamorate; 2003, p. 754)
  • [...] il film punta il suo fascino non sugli scenari futuristici (anzi, è improbabile che nel XXI secolo tutto sia così simile a oggi) ma sulla apocalittica visione del destino dell'uomo e della voracità cannibalesca del potere. Belle le ambientazioni in una New York notturna e decadente, costantemente avvolta in una nebbia inquinante, superbe le interpretazioni di Charlton Heston e di E.G. Robinson nel suo ultimo, commovente, ruolo. (2022: i sopravvissuti; 2003, p. 750)
  • La leggenda dell'ebreo errante aggiornata all'olocausto. [...] porta l'impronta del soggettista Giovan Battista Angioletti, responsabile dello squilibrio tra le due parti del film, dove dal mitico si passa alla minuziosa descrizione delle brutalità naziste, narrate però con partecipata passione. (L'ebreo errante; 2003, p. 766)
  • La Kristel è bellissima, ma oltre che antivergine è antiattrice. (Emmanuelle l'antivergine; 2003, p. 785)
  • È un agente delle assicurazioni o una perfetta ladra high-tech la giovane Virginia Baker (Zeta-Jones), che si associa col vecchio marpione scozzese Robert MacDougal (Connery: dichiara dieci anni in meno) per il furto di fine millennio a Kuala Lampur? E soprattutto, vuole fregarlo o cascherà tra le sue braccia? Quasi tutto come in un giallo-rosa di una volta (niente sesso e violenza), se non che i ladri alla fine scappano col malloppo: ma perché si dovrebbe fare il tifo per loro? Solo perché grondano fascino (almeno nelle intenzioni dei produttori)? Sceneggiatura più arrabbiata di quello che sembra, a firma di Ron Bass e William Broyles. Cinema commerciale di vacuità insostenibile, anche se eseguito professionalmente. (Entrapment; 2010, p. 1131)
  • Dal dramma omonimo di Arthur Miller, una delle più intense interpretazioni di Robinson, perfetto nel descrivere il dramma di questo capitalista che non vuole ammettere i propri errori e ingannando la legge non potrà evitare lo scontro col figlio. Un eccesso di verbosità nuoce però al progredire della tensione. (Erano tutti miei figli; 2003, p. 793)
  • Un film sottilmente ipocrita, non solo perché, con scarso coraggio, non fa vedere nulla, ma anche perché Lulú, alla fine, viene riportata all'ovile dal provvidenziale maritino. L'erotismo dal punto di vista femminile resta una pia intenzione. (Le età di Lulù; 2003, p. 813)
  • [...] il film vuole essere una rivendicazione dell'onore nazionale, in sintonia con la retorica di quegli anni. Rivisto oggi, si fa ancora apprezzare non per l'ingenua occasione propagandistica (comunque più diretta a difendere l'unione degli italiani che a esaltarne gli slanci espansionistici, più «isolazionista» che «nazionalista») ma per le sue qualità di forte figuratività e per la capacità con cui ne esalta l'epica narrativa [...]. (Ettore Fieramosca; 2003, p. 816)
  • Da sempre interessato alle trasposizioni cinematografiche di opere letterarie, Soldati questa volta ci prova con il romanzo omonimo di Honoré de Balzac, ma semplifica troppo i caratteri, riducendoli quasi a caricature, ed esagera in teatralità, sia nella messinscena che nella direzione degli attori. Tumiati sembra più simile all'Avaro di Molière che a Grandet, la Valli, la più misurata e convincente di tutti gli interpreti, non sempre appare a suo agio. Notevole, come sempre nei film del regista, la cura formale, soprattutto nel taglio elegante delle inquadrature. (Eugenia Grandet; 2003, p. 817)
 
Fosco Giachetti in Fari nella nebbia
  • Un film schietto e istintivo per l'epoca [...] immerso in un'atmosfera popolare torbida, sensuale e aggressiva, solitamente non tollerata dal regime. È il segno che qualcosa sta davvero cambiando nel cinema italiano, sempre più deciso ad allontanarsi dai telefoni bianchi e a mettersi in sintonia con il malessere del cosiddetto «realismo poetico» francese degli anni Trenta. La svolta decisiva avverrà con Ossessione, ma in Fari nella nebbia si possono cogliere degli spunti tematici e cinematografici in qualche modo anticipatori. (Fari nella nebbia; 2003, p. 850)
  • Mastrocinque dirige con notevole competenza tecnica un film sfarzoso (specie per l'epoca) e corrusco, e indovina alcune sequenze di follia melodrammatica (merito soprattutto della recitazione sovraccarica e quasi ophulsiana della Ferida). Peccato che non abbia un'idea di regia unitaria, e si perda in ridicoli intermezzi a base di pecorelle e meli fioriti. Il clima dell'epoca non giustifica la squallida macchietta dell'usuraio ebreo. (Fedora; 2003, p. 862)
  • Uno dei melodrammi più neri e tragici di Stahl, che utilizza al meglio l'ambigua bellezza della Tierney per scandagliare le contraddizioni di una felicità cercata con tale foga da diventare impossibile. (Femmina folle; 2003, p. 865)
  • [...] il film sopperisce con un ritmo vertiginoso alle carenze di sceneggiatura [...] e offre uno spettacolo fantasioso e spesso divertente. (Il feroce Saladino; 2003, p. 869)
  • Di fronte a questo adattamento (di Jim Uhls) del romanzo di Chuck Palahniuk, la critica si è divisa: grido di rivolta contro una società post-consumista o pericolosa apologia di un neotribalismo fascista? Smisuratamente ambizioso ma anche autoparodico, il film appare alla fine confuso e impari al compito che si prefigge: sagace nell'individuare certi sintomi (crisi maschile, fuga dalla realtà, scissione della personalità), abile a stordire – soprattutto all'inizio – con una messa in scena visionaria (notevole la fotografia di Jeff Cronenweth), capace di colpire a fondo con il cinismo (memorabile il culturista cui sono spuntate le tette, interpretato dal cantante Meat Loaf), ma senza saper riflettere in modo articolato sui problemi evocati. In definitiva americano quanto un talk show un po' esagitato. (Fight Club; 2010, p. 1252)
 
Amedeo Nazzari ne La figlia del capitano
  • [...] fu uno dei film più costosi realizzati in quel periodo in Italia, una specie di risposta classica e disillusa di Camerini, attraverso una scelta narrativa fatta di passioni e colpi di scena, all'imperante umanitarismo neorealista. Indimenticabile Nazzari, vero protagonista del film che rimane impresso soprattutto nella scena finale, mentre se ne va, di spalle, verso la morte. (La figlia del capitano; 2003, p. 876)
  • [...] il film è uno straordinario ritratto di una certa America di provincia, puritana e intollerante, su cui il regista innesta, attraverso il personaggio del giornalista (Kennedy), una spietata riflessione sui meccanismi del consenso e sul ruolo dei mass media. [...] Lancaster, in una delle sue più dense interpretazioni [...]. (Il figlio di Giuda; 2003, p. 884)
  • Flop commerciale, anche se non tutto è da buttare in questo film ambizioso, vorticoso e sovraccarico. Meglio peccare per eccesso che per difetto. (Il filo del rasoio; 2003, p. 887)
  • [...] è un horror psicologico che sintetizza magistralmente, sia nei contenuti che nella forma, suggestioni di varia provenienza: espressioniste (il mercante d'arte come il dottor Caligari, la fuga del mostro sui tetti, i forti contrasti chiaroscurali, le angolazioni inclinate); romantiche (il mito del Faust, l'amore passione più volte frustrato, l'idealizzazione della figura femminile e la conseguente disillusione); surrealiste (i quadri dell'ex pittore, ora burattinaio); ma soprattutto il film è un esplicito e raffinatissimo omaggio al cinema tedesco delle origini: Ulmer infatti era stato allievo di Murnau e aveva collaborato, ufficialmente come scenografo, a sette suoi film, tra cui Faust, Aurora e Tabù. (La follia di Barbablù; 2003, p. 906)
  • Il deserto ricostruito in studio fa da sfondo a un dramma psicologico di origine teatrale [...] che introduce nel noir elementi nuovi e offre a Bogart la sua prima interpretazione di successo, nei panni di un gangster antieroe che avrebbe fatto scuola. (La foresta pietrificata; 2003, p. 910)
  • Fiacca commedia degli equivoci di ambientazione ungherese [...]: solo la Magnani – il cui personaggio non fa mistero della propria ambigua «attività» notturna – riesce a trasmettere un po' di esuberante realismo a una recitazione altrimenti senza grazia. (La fortuna viene dal cielo; 2003, p. 914)
  • [...] è una deliziosa e disincantata commedia dove lo sguardo di Lubitsch (nell'ultimo film che diresse per intero) si fa più nero e sarcastico. La sua disillusa ferocia non risparmia nessuna classe sociale [...]. (Fra le tue braccia; 2003, p. 921)
  • [...] è un ritratto agiografico piuttosto ordinario, in cui il regista rinuncia a una rilettura personale per soddisfare le esigenze del pubblico medio internazionale. Non male il cast, e commovente a tratti l'interpretazione di Dillman. (Francesco d'Assisi; 2003, p. 922)
  • Girato con uno stile spoglio e fluido (cosi da lasciare molto spazio alla scenografìa e conseguentemente all'atmosfera opprimente), il film evita gli effetti troppo facili o le scene troppo cruente (anche per non urtare la sensibilità del pubblico di allora), ma riesce a descrivere i pericoli e le tentazioni della scienza e contemporaneamente a fare della creatura una «rappresentazione simbolica e metafisica dell'uomo, tormentato e diviso tra la riconoscenza e l'odio per un creatore che l'ha fatto così imperfetto» [Lourcelles]. (Frankenstein; 2010, p. 1318)
  • Ultimo dei cinque film della saga di Frankenstein diretti dal grande regista inglese per la Hammer: Cushing è un mad doctor emblematicamente rifugiatosi in un manicomio, ma l'atmosfera del film limita le invenzioni visive e la fotografia di Brian Probyn fa rimpiangere il sanguinio technicolor di Jack Asher. (Frankenstein e il mostro dell'inferno; 2003, p. 927)
 
Luisa Ferida ne I fratelli Castiglioni
  • Ritratto amaro dell'avidità umana, che nel passaggio dalla «tragicommedia» di Alberto Colantuoni alla sceneggiatura di Emanuele Caracciolo e del regista accentua i toni farseschi e melodrammatici (con la nipote [Ferida] scacciata di casa perché ragazza-madre e naturalmente sospettata di aver circuito il morto), evidenziati da una regia troppo espressionista per non sembrare esagerata. (I fratelli Castiglioni; 2003, p. 930)
  • Dramma processuale con un certo climax che, lontano dai manicheismi patriottici, trova un approccio anticonvenzionale al tema del tradimento. (Il fronte del silenzio; 2003, p. 938)
  • [...] il film cerca di recuperare le utopie e gli incubi orwelliani, ma dopo un buon inizio scade rapidamente nello schematismo e nella prevedibilità. (La fuga di Logan; 2003, p. 943)
  • Un piccolo capolavoro del melodramma fantastico [...]. La sceneggiatura di John Patrick si destreggia con grande abilità nel continuo passaggio tra i diversi tempi della narrazione riuscendo a rendere avvincente una storia fatta soprattutto di rimpianti e di azioni mancate: a dare coesione alla trama è una incondizionata dichiarazione di fiducia nella forza dei sentimenti e dell'amore, dimostrata per antifrasi attraverso l'infelice rapporto di Rollo e Lark [...] e rivissuta in parallelo dal legame nascente tra Grizel e Pax. Così, anche il tragico epilogo – legato alla violenza della guerra – finisce per ribadire, con la forza dell'amour fou, il messaggio di speranza nella capacità umana di far trionfare i sentimenti sulle paure e gli egoismi. (Fuga nel tempo; 2003, p. 944)
  • Uno strano melodramma [...] pieno di fraintendimenti e di situazioni-limite per l'epoca (tutte le famiglie possibili nel film sono a pezzi e non si ricompongono, tutti i personaggi femminili sono donne sole e indipendenti), che all'enfasi sentimentale predilige i toni smorzati e termina in modo sorprendentemente aperto. Alla base c'è l'idea che tutti soffrono per la mancanza di amore ma evita con cura soluzioni estreme, optando per un registro quotidiano e verosimile che è una rarità nei film italiani dei primissimi anni Quaranta. (La fuggitiva; 2003, p. 945)
  • Potente e incisiva versione cinematografica del romanzo omonimo [...] dove il regista attenua la violenza contestatrice della denuncia sociale (pur sottolineando con energia la presa di coscienza di Tom che scopre la lotta di classe) mentre racconta con partecipata passione il dramma e il disorientamento di chi, sradicato dalla propria terra, deve attraversare un'America che stenta a riconoscere [...]. Memorabile e struggente la prima parte, più complessa e «rooseveltiana» ma meno toccante la seconda, riscattata da un finale indimenticabile [...]. Perfetta la dura e drammatica fotografia di Gregg Toland e la recitazione di tutto il cast. (Furore; 2003, pp. 957-958)
  • Il film che ha lanciato Bruce Lee sulla ribalta internazionale imponendo la magistrale padronanza dell'attore nell'eseguire la tecnica del kung-fu. (Il furore della Cina colpisce ancora; 2003, p. 958)
  • Nella lettura della Cavani, Galileo diventa un campione della Chiesa rinnovata del Concilio vaticano II, che si oppone al vecchiume della curia reazionaria. Un atto di accusa contro l'arroganza del potere, didascalico nell'esposizione, televisivo nel ritmo, ma con una buona descrizione dell'universo papalino e un protagonista all'altezza. (Galileo; 2003, p. 963)
  • Un poliziesco teso e cupo con un finale insolito, [...] risente un po' dell'origine teatrale [...]. (La gang; 2003, p. 965)
  • [...] doveva essere una semplice operazione commerciale, ma Lang seppe farne un piccolo classico del noir: basta vedere come risolve la scena chiave del delitto, tutta giocata sul non mostrato. Manovrando specchi e ombre con uno «stile inesorabile», Lang dà corpo alle tenebre che avvolgono la parte migliore di Hollywood. (Gardenia blu; 2003, p. 970)
  • Una rivisitazione storica ilare e leggera, che si colora, nel finale, di toni satirici (gli opportunisti che accolgono Garibaldi a braccia aperte) che richiamano La kermesse eroica di Feyder. [...] Non banali alcuni richiami alla pittura italiana di soggetto risorgimentale – Lega e Fattori in particolare. Originale, per il cinema italiano del tempo, la costruzione a flashback (è Caterina vecchia che racconta la storia). (Un garibaldino al convento; 2003, p. 970)
  • La sceneggiatura questa volta attinge addirittura da Solaris di Tarkovskij, oltre che dal solito Ritorno al futuro. Ma per chi non è già fan della serie, la faccenda è irrimediabilmente noiosa, e gli effetti speciali non bastano. (Generazioni; 2003, p. 978)
  • Uno dei più famosi film di guerra italiani, chiaramente dalla parte del regime [...]. La propaganda è però più evidente nella seconda parte, in cui prevalgono i drammi dei personaggi riferiti con abbondanza di retorica. La prima, invece, completamente dedicata all'infuriare della battaglia, rivela un senso dell'azione scopertamente debitore del western americano [...]. (Giarabub; 2003, pp. 988-989)
  • Uno degli ultimi film girati da Hitchcock in Inghilterra, prima della grande stagione hollywoodiana, e non dei meno interessanti [...]. Molte sequenze stupiscono per le invenzioni e le trovate, orchestrate con una maestria e un gusto dell'umorismo nero che diventeranno immagini di marca del maestro e che trovano la loro perfetta fusione nell'ultima scena, quella che secondo Rohmer e Chabrol contiene il più bel carrello in avanti della storia del cinema: una «panoramica» aerea che attraversa lentamente tutta la sala da ballo per scendere e individuare l'assassino, un batterista truccato da nero che ha un tic agli occhi. Non tutto è memorabile, però sono molti i brani da antologia. (Giovane e innocente; 2003, p. 1013)
  • Solenne dramma storico-religioso [...] costruito su misura per la diva hollywoodiana più spirituale dell'epoca, che due anni prima aveva interpretato il personaggio a teatro con grande successo. Frutto di lunghe e minuziose ricerche storiche, risulta un po' rigido e pomposo, alla ricerca di un arduo equilibrio tra parola e immagine. (Giovanna d'Arco; 2003, p. 1019)
  • Spike Lee tenta la commedia sofisticata in chiave pedagogica e autoriflessiva, centrando il bersaglio dell'eleganza formale ma non quello dell'ironia e, perché no, della cattiveria (la sua, una volta, era proverbiale): in Girl 6 funziona lo stile alla Woody Allen, newyorkese con brio, ma la morale della storia – telefono e macchina da presa si specchiano l'uno nell'altra ai danni di artiste giovani, belle e virtuose – fa rimpiangere immediatamente il cinismo di Altman in America oggi (e anche, sul piano della narrazione, la sua maestria compositiva: qui non si va molto al di là di una serie di episodi cuciti sommariamente). (Girl 6 - Sesso in linea; 2003, p. 1024)
  • [...] il film è ancora abbastanza gracile nella sua struttura narrativa, ma il montaggio sa dare un buon ritmo alla storia. (Giuditta di Betulia; 2003, p. 1027)
 
Haruo Nakajima in Godzilla nel ruolo del personaggio omonimo
  • Nato dall'incubo della bomba (con evidenti sottintesi antiamericani) ma anche dalla paura tipicamente giapponese della «minaccia che viene dal mare», il film oggi può apparire datato per la semplicità degli effetti speciali [...] ma l'occhio con cui Honda guarda a questo mostro veramente cattivo, insensibile e spietato è soffuso di una tristezza e di una malinconia autentica e ancora toccante. (Godzilla; 2003, p. 1039)
  • Più che un gaio softcore è uno pseudodramma della gelosia, banale e stanco. (Goodbye Emmanuelle; 2003, p. 1043)
  • Scritto dal regista con Bernd Lichtenberg (debitrice del racconto Rip van Winkle di Washington Irving!), una commedia fondata su un paradosso esile ma accattivante: che il socialismo reale sia stato vissuto dai suoi militanti come una specie di «grande madre», con i difetti e i pregi di un'ingombrante genitrice. Non mancano idee irresistibili, come i falsi telegiornali che millantano una riunificazione alla rovescia, coi berlinesi dell'Ovest in fuga dalle «false certezze» del liberismo; ma le metafore sono eccessive, certe citazioni sono fuori luogo (la testa di Lenin che vola sulla città come il Cristo della Dolce vita di Fellini) e il trono troppo brioso della prima parte – molto ben recitata – stride con la svolta mélo finale. Straordinario successo in patria. (Good Bye, Lenin!; 2016, p. 1913)
  • Un tipico women's picture dell'epoca d'oro di Hollywood [...]. La sontuosità della messinscena, la fotografia di Tony Gaudio e i pezzi di bravura delle due protagoniste fanno dimenticare la macchinosità dell'intreccio. (Il grande amore; 2003, p. 1050)
  • [...] La grande luce colloca all'estero il personaggio interpretato da Elsa De Giorgi, donna fatale, simbolo del Vizio e del Male (a cui fa da contraltare, nel paesino, nientemeno che la Vergine Maria), ma – a differenza di altri film dell'epoca – ambienta in Italia l'ingiustizia da cui la storia prende il via e dà prova di un originale impasto linguistico mescolando dialetti meridionali, genovese e spagnolo. (La grande luce; 2003, p. 1057)
  • Uno straordinario melodramma, l'unico delle sue sette regie in cui Ida Lupino si mette anche in scena. [...] il film evita da subito il facile moralismo sul comportamento dell'uomo, descritto non come una persona che voglia «un doppio piacere», ma piuttosto come qualcuno che cerca disperatamente una situazione di equilibrio. La critica della regista è invece tutta per il modello femminile ai tempi imperante, quello incarnato dalla moglie «legittima», concentrato di quelle qualità americane (ambizione, successo, indipendenza) che finiscono per destabilizzare l'istituzione del matrimonio e che si rivelano fredde e vuote, come fredda e vuota è la casa in cui abita. Un melò che rifiuta il manicheismo e che, giocando d'ellissi e sottintesi, si sforza di «raffreddare» una materia altrimenti incandescente. (La grande nebbia; 2003, p. 1058)
  • Il primo film ad alto budget di Siodmak, enfatico e ridondante, ma non privo di trovate di regia degne della sua fama. (Il grande peccatore; 2003, p. 1059)
  • Lirismo e realismo sociale spesso fanno a pugni, e sia Montand che la Valli sono poco credibili come pescatori, ma il tono asciutto costituì comunque una novità nel cinema italiano dell'epoca. (La grande strada azzurra; 2003, p. 1063)
  • Camerini adotta ritmi e situazioni della commedia degli equivoci per tracciare uno spaccato della piccola borghesia italiana, con una punta di sentimentalismo e una di perfidia. Gli italiani vi si riconobbero e ne decretarono il successo. (I grandi magazzini; 2003, p. 1065)
  • [...] elementare e approssimato come whodunit, il film è più interessante per l'immagine che trasmette sulle follie americane [...] e la dichiarata polemica contro la decadenza morale delle classi ricche [...]. (Grattacieli; 2003, p. 1067)
  • Estremamente sadico (la censura italiana ha tagliato almeno '7), ottiene solo di incupire e deprimere lo spettatore. (Hellbound: Hellraiser II - Prigionieri dell'inferno; 2003, p. 1102)
  • La quinta puntata della saga dei Cenobiti (qui meno presenti che nelle precedenti) ha una struttura da thriller pliziesco, mentre le suggestioni horror rimandano ad Allucinazione perversa e alla serie di Nightmare. Tra ralenti da telefilm e qualche immagine patinata, almeno si cerca un po' di originalità: i fan che non pretendono troppo possono gradire. (Hellraiser 5: Inferno; 2003, p. 1103)
  • Il quarto capitolo della serie è un pasticcio senza capo né coda, che risente di vicende produttive disastrose: la Miramax cacciò il regista Kevin Yagher (che si rifiutò di firmare il film), chiamò Joe Chappelle a dirigere alcune scene e rimontò il tutto. Le creature dell'inferno non fanno più paura, ma sembrano arteriosclerotiche; il gore c'è ma è indolore, e l'interesse dei fan è annullato. (Hellraiser - La stirpe maledetta; 2003, p. 1103)
  • Opera prima di Clive Barker, lo scrittore inglese troppe volte definito il successore di Stephen King, è una geniale e spregiudicata discesa nell'immaginario infernale, popolato di incubi maestosi e fantasie sadomaso. I temi del sesso e della morte, della carnalità e della dissoluzione della carne sono messi a fuoco lucidamente in un esemplare contesto di torbida visionarietà. (Hellraiser - Non ci sono limiti; 2003, p. 1103)
  • Clive Barker si tira da parte e Pinhead diventa protagonista a tutti gli effetti, aspirando a rimpiazzare Freddy Krueger nell'immaginario horror degli anni Novanta. Effetti speciali ormai stravisti, e noia che regna sovrana. (Hellraiser III; 2003, p. 1103)
  • [...] uno dei capisaldi del filone pornosoft, patinato e assolutamente non erotico ritratto di una donna contenta di essere vittima. (Histoire d'O; 2003, p. 1108)
  • Più che un horror, il secondo film prodotto da Val Lewton per la Rko (dopo Il bacio della pantera) è un dramma psicologico girato come un lungo sogno ininterrotto [...]. Al centro del film il conflitto tra il potere della ragione (qui la scienza della medicina che non riesce a guarire Jessica) e quello delle forze oscure rappresentate dalla cultura vudù, che a turno i protagonisti del film cercano di piegare alle proprie esigenze con risultati incontrollabili. (Ho camminato con uno zombi; 2003, p. 1109)
  • Forse il più affascinante film di Sternberg (sceneggiato da Manuel Komroff), interamente dominato dalla presenza dell'eros [...]. Le scenografie, espressionistiche, barocche, angoscianti, sono supporto perfetto all'azione del personaggio centrale e toccano punte di una magnificenza visiva ai limiti del delirio (tanto che Ejzenštejn trasse ispirazione da questo lavoro per il suo Ivan), così come i costumi disegnati da Travis Banton. (L'imperatrice Caterina; 2003, p. 1135)
  • Influenzato da un Bataille riletto attraverso le componenti più sadomasochistiche della cultura giapponese, il film rifiuta polemicamente la realtà storica per rinchiudersi in una «minuziosa, insostenibile, affascinante descrizione dei suoi rituali di possesso sessuale» [P. Mayersberg], nuova e ulteriore rappresentazione dell'alienazione sociale da parte del più immoralista e visionario dei registi nipponici [Nagisa Ōshima]. (L'impero dei sensi; 2003, p. 1136)
  • [...] è una gangster story priva di vera suspense e di colpi di scena, ma con un cast stranamente assortito e un'atmosfera non spregevole. (Incatenata; 2003, p. 1144)
  • Le complicatissime premesse dell'ottima sceneggiatura (scritta dal regista) sono mirate a costruire un concitato e appassionante action movie fantascientifico che vuole riflettere sul nostro presente: un mondo in cui il capitalismo ha ridotto l'uomo a merce e in cui, letteralmente, il tempo è diventato denaro. L'impresa del reietto che si ribella al destino sfidando l'estabilishment rielabora in modo originale sia il mito di Robin Hood sia quello di Bonnie e Clyde, rivendicando una resistenza neo-umanista alle logiche di un Potere che ha amplificato la disuguaglianza sociale. Un film-scommessa molto personale (e coerente con le opere migliori di Niccol), a cui si perdonano volentieri qualche inverosimiglianza e un paio di scivoloni mélo, ma che non ha purtroppo goduto né del favore della critica né di quello del pubblico. (In Time; 2014   manca l'edizione in bibliografia)
  • Commedia sexy malamente ispirata a Le imprese di un giovane dongiovanni di Apollinaire: trine, merletti e cura dell'ambientazione non arricchiscono granché un film svogliatamente erotico. (L'iniziazione; 2003, p. 1168)
  • Melodramma meno convenzionale di quello che la trama faccia immaginare, anche perché il personaggio di Toso, déraciné segnato dalla violenza della guerra ed ecologista ante litteram (educa i cani da caccia ma è contro la caccia), è decisamente insolito nel panorama dell'epoca. (Gli innocenti pagano; 2003, p. 1171)
  • Stanca pellicola sui buoni sentimenti nell'Italia del dopoguerra. (L'intrusa; 2003, p. 1185)
  • [...] melodramma tratteggiato con enfasi e approssimazione, su tematiche impervie e delicate che richiederebbero altra padronanza. (Io e Dio; 2003, p. 1194)
  • Vuota commedia che si vorrebbe di costume, da un soggetto di Riccardo Pazzaglia, sulla fame di sesso frustrata dalle regole del decoro borghese. Tutto però finisce in barzelletta, come l'idea di far recapitare (per un errore dell'anagrafe) la cartolina precetto alla fidanzata, il che permette di far vedere Rossella Como mentre si spoglia (castamente) per la visita di leva. Meglio i titoli di testa che sintetizzano l'idea del film in pochi minuti, accompagnati dalla canzone di Domenico Modugno. (Io, mammeta e tu; 2003, p. 1197)
  • Il western che ha creato la leggenda cinematografica di Jesse James: la casa produttrice (Fox) lo avrebbe voluto idealista, leggendario, mitico. King lo fece umano, legato alla famiglia, perfetta incarnazione dei più profondi ideali americani. (Jess il bandito; 2003, p. 1228)
  • [...] una coproduzione italo-tedesca dal cast stravagante e dal clima tra il morboso e il risibile: uno dei film che Romina Power vorrebbe dimenticare, dove si mostrava (semi)nuda. (Justine, ovvero le disavventure della virtù; 2003, p. 1240)
  • Un feroce e lucido melodramma sociale sulle relazioni personali impostate come rapporti di potere [...]. (Le lacrime amare di Petra von Kant; 2003, p. 1262)
  • Lucida e profonda analisi della dura realtà di quegli anni, è il punto più alto della collaborazione tra De Sica e Zavattini [...]. De Sica [...] dimostrò quanto fosse vincente la sua scelta di utilizzare attori non professionisti [...]. (Ladri di biciclette; 2003, p. 1264)
  • [...] è un film insolito per Hitchcock, austero nello stile e malinconico nel tono, con un finale lieto solo formalmente [...]. Grazie anche alla splendida interpretazione di Fonda e di Vera Miles (la moglie che crolla sotto i colpi del destino), Il ladro si trasforma in un apologo quasi bressoniano sulla paura inconscia di vivere, segnata dal peccato e dalla predestinazione alla colpa. (Il ladro; 2003, p. 1264)
  • Inconsueta prova di Festa Campanile, che si ispira a un suo romanzo per affrontare un tema più serio del solito, ma il risultato, anche per alcune indulgenze a una comicità facile e volgare, è inferiore alle attese. (Il ladrone; 2003, p. 1267)
  • Un thriller originale e appassionante, nel quale la tensione e il dramma toccano momenti molto coinvolgenti. (La lettera accusatrice; 2003, p. 1290)
  • La Hammer si appoggia agli Shaw Brothers in un momento di crisi, ma il connubio tra horror gotico e kung fu non funziona: i combattimenti che punteggiano gratuitamente l'intreccio appaiono forzati, così come le relazioni amorose che sbocciano tra i membri delle due diverse razze. Suggestivi, invece, i vampiri d'oro del titolo (sono i discepoli di cui si serve Dracula per il suo macabro rituale di dissanguamento delle vittime), che appaiono tra fumi e luci colorate. (La leggenda dei 7 vampiri d'oro; 2003, p. 1283)
  • Trasposizione cinematografica di un'antica leggenda georgiana, dove si mescolano orgoglio nazionalista e mistica del sacrificio, è un'opera visionaria, coloratissima, dove il regista distrugge la struttura lineare del racconto in brevi scene autonome. [...] Sullo schermo si alternano così oggetti simbolici e animali stilizzati, personaggi e panorami che possono sconcertare per la loro «discontinuità», ma che offrono anche momenti di solenne bellezza e di appassionato folclore. (La leggenda della fortezza di Suram; 2003, p. 1283)
  • Vladimir Nabokov è riuscito nel difficile compito di adattare il suo romanzo (a cui ha tolto l'annunciata morte-castigo della ragazza), e Kubrick ne ha reso bene la mistura di satira e deformazione grottesca con cui insegue una delle linee di forza del proprio cinema: la caparbietà ossessiva con cui i suoi personaggi percorrono le proprie strade. Rispetto al romanzo, Quilty diventa il motore segreto della storia, cinico e mostruoso doppio del professor Humbert [...]. Così Mason, per quanto all'altezza del ruolo, si fa spesso rubare la scena dall'ambiguo e prometeico Sellers, il cui istrionismo prefigura quello del Dottor Stranamore. Sue Lyon col lecca lecca a forma di cuore ha fatto epoca, ma la sua carriera è praticamente finita qui e il film è uno dei meno erotici che si possa immaginare su un tale soggetto. (Lolita; 2003, p. 1310)
  • Uno dei primi grandi successi di Macario, che mette a punto il suo personaggio di piccolo-borghese [...] che non si ribella ai potenti, ma cerca di evitarli. La sceneggiatura [...] escogita situazioni brillanti e paradossali che verranno riprese pari pari, più di quarant'anni dopo, in Chi più spende... più guadagna [...]. (Lo vedi come sei... lo vedi come sei?; 2003, p. 1315)
  • Tentativo di horror metafisico padano (ma Pupi Avati aveva fatto di meglio) accolto nella più assoluta indifferenza, dimostrazione di com'è difficile girare in Italia storie fuori dai soliti schemi. (Luci lontane; 2003, pp. 1320-1321)
  • [...] a suscitare dubbi non è la verità di quanto raccontato, bensì la confezione. Mullan [...] usa senza sfumature le armi del grottesco e della caricatura, ed è con i mezzi più plateali che estorce allo spettatore la rabbia e le lacrime. (Magdalene; 2003, p. 1346)
 
Mariella Lotti nel ruolo di Mariastella in Malacarne
  • Un curioso e torbido melodramma di ambientazione siciliana che mescola bozzetti veristici (le scommesse degli uomini al bar), squarci documentari (la pesca al tonno), tensioni – e superstizioni – religiose e conflitti di classe. Manca un'idea unificante nella sceneggiatura [...], il personaggio di Nazzari è improbabile come «balio asciutto», mentre quello di Mariastella – prima santarellina, poi mantenuta di lusso e alla fine penitente contrita – è troppo stereotipato. Eppure l'universo di paese, dove povertà e invidia muovono i comportamenti delle persone (e hanno spesso conseguenze tragiche), è raccontato con bella incisività e un «verismo» che non è mai folcloristico. (Malacarne; 2003, p. 1359)
  • Fisher creca nuovi spunti per ridare interesse all'argomento; i dialoghi tra la ragazza resuscitata e la testa dell'amato sono divertenti, l'erotismo è più esplicito del solito, ma il film è di quelli che interessano solo i fan del genere. (La maledizione dei Frankenstein; 2003, p. 1362)
  • L'aggettivo «pruriginoso» sembra essere stato inventato per film così, che allora (grazie a un comune senso del pudore diverso e alla relativa fama della piccola e mostruosa Ionesco, già immortalata dalla mamma Irina in una serie di foto osé) aveva un suo pubblico. Pretese quasi alte (tra gli sceneggiatori e dialoghisti spuntano Peter Berling, Barbara Alberti e Amedeo Pagani) di costruire un mondo crudele e fiabesco senza adulti; svolgimento piatto e inconcludente. Malgrado la presenza del cane lupo Xylot, nessun aggancio zoofilo. (Maladolescenza; 2003, p. 1359)
  • Ultimo, fallimentare tentativo di ricomporre la coppia principe dei melodrammi di Matarazzo: nella sceneggiatura [...] c'è uno dei temi forti del mondo matarazziano (la centralità della famiglia – qui in negativo, visto che si comporrà solo alla fine del film – di cui la donna-madre è insieme schiava e vittima) ma tutto sembra stanco e prevedibile e l'ingombrante presenza del bambino squilibra il film verso un melassoso patetismo. (Malinconico autunno; 2003, p. 1364)
  • Ispirato all'ottavo dipinto della Carriera di un libertino di Hogarth, il film di Robson è una singolare anticipazione dei temi del Marat-Sade di Peter Weiss (portato sugli schermi da Peter Brook), con la sua polemica contro i rigori della ragione: incarnata nel perverso Sims, la razionalità svela la sua componente cinica e crudele, mentre chi viene identificato con la follia dimostrerà di essere più umano, solidale, spontaneo e caritatevole. Così, lo scontro che altrove (ad esempio nel precedente La settima vittima) è tra il Bene e il Male qui diventa meno metafisico, più concreto, di ordine morale e politico insieme e l'antitesi tra egoismo e carità ne innesca altri, come quello tra pessimismo e utopismo alla Rousseau, tra Tories e Whigs. (Manicomio; 2003, p. 1371)
  • [...] vi si ritrovano molti dei temi di Fuga in Francia: la violenza vista dagli occhi di un innocente, il cinismo tragico di chi ha scelto di stare dalla parte sbagliata. Ciannelli disegna un bel personaggio, che cita Pascal e Spengler (memorabile il monologo in cui immagina Venezia nel futuro, sommersa dalle acque); ma i suoi antagonisti sono più scoloriti. Convince la trasformazione di Venezia in una città di confine, notturna e plebea, che ricorda la Vienna del Terzo uomo. (La mano dello straniero; 2003, p. 1375)
  • [...] un film edificante che spinge spudoratamente sul pedale della commozione. Un must delle sale parrocchiali di una volta. (Marcellino pane e vino; 2003, p. 1380)
  • Una commedia in costume nell'èra dei telefoni bianchi [...] dove la scarsissima moralità aristocratica viene messa in riga da un borghese tutto d'un pezzo, dotato di un'incrollabile fiducia in se stesso e nei suoi «nobili» principi di carriera&famiglia. Ma se il personaggio di Nazzari è fin troppo ideologico (e francamente noioso) nella sua eccessiva virtù, per buona parte del film si respira un'insolita atmosfera di disinvolta decadenza che rimanda quasi all'universo di Lubitsch [...]. (I mariti (Tempesta d'anime); 2003, p. 1389)
  • Sottilmente morboso (Hitch voleva mostrare una passione feticista) e generalmente sottovalutato (specie dal pubblico), un thriller psicologico [...] dove la suspense – meglio ancora che in Io ti salverò – si concentra su un segreto che la protagonista si porta dentro dall'infanzia. Uno dei più riusciti giochi hitchcockiani sull'ambiguità, la reticenza e l'allusione. (Marnie; 2003, p. 1396)
  • In felice contrasto tra laconicità e barocchismo semionirico, la quintessenza dei film hollywoodiani dell'epoca, antirealistici e stilizzati. La Dietrich, pur restando femme fatale e sfinge, per una volta si sottomette al maschio; la scena finale in cui si toglie le scarpe nella sabbia per seguire Tom ha ispirato Bertolucci per Il tè nel deserto. (Marocco; 2003, p. 1396)
  • Sopravvalutato ai tempi come un esempio di neorealismo americano (personaggi privi di glamour, dialoghi quotidiani, lunghe inquadrature) è, molto più semplicemente, un'onesta commedia sentimentale, con ottimi attori. (Marty, vita di un timido; 2003, p. 1398)
 
Peter Cushing nel ruolo del barone Frankenstein ne La maschera di Frankenstein
  • Cushing è ottimo, ma la regia di Fisher non è così geniale come vogliono molti cinefili. (La maschera di Frankenstein; 2003, p. 1401)
  • La sana morale del West, incarnata da Wayne (burbera e grezza ma sostanzialmente positiva, come dimostra l'eroismo suicida dei sottufficiali ubriaconi), si inchina comunque alla leggenda, come succederà anche in L'uomo che uccise Liberty Valance. Ford mostra una certa sensibilità, per l'epoca, nel trattamento degli indiani. Ma il suo elogio dello spirito della cavalleria è meno convincente che nei film successivi – causa anche la frammentazione narrativa e l'innesto forzoso di una love story tra John Agar e l'ex bimba prodigio Shirley Temple. (Il massacro di Fort Apache; 2003, p. 1405)
  • Intrigante spy story [...] che all'epoca ottenne poco successo di critica sia per una certa nebulosità dell'intreccio sia per la «non convincente» interpretazione della Garbo. In realtà, proprio grazie all'attrice, Mata Hari fissò un modello di donna fatale imprescindibile per il cinema a venire. (Mata Hari; 2003, p. 1406)
  • I fratelli Wachowski, anche sceneggiatori, attingono alle filosofie orientali e alla fantascienza di Philip K. Dick (e mettono in mano a Neo Simulacri e simulazione di Baudrillard) per asserire che il mondo è illusione e la realtà virtuale è un incubo. I Wachowski riescono a tenere sotto controllo un intreccio complesso, ma forse non sono all'altezza per costruire una saga che ha l'ambizione di coronare quasi mezzo secolo di fantascienza letteraria e cinematografica; e sono troppi i debiti non dichiarati, da Zardoz a Terminator. Non mancano, però, la suggestione e il divertimento. (Matrix; 2003, p. 1411)
  • La sceneggiatura di John Houghton tenta di aggiornare le gesta del vampiro ai tempi della Swinging London e sovrappone Dracula con l'Anticristo: ma l'esperimento non convince. (1972: Dracula colpisce ancora!; 2003, p. 1451)
  • Penultimo film di Gallone: un pesante drammone storico, il cui maggiore interesse è il lussuoso cast. (La monaca di Monza; 2003, p. 1489)
  • Al suo primo film parlato, Lang continua a impiegare con maestria le metafore visive e le immagini evocative che avevano fatto grande il muto, e insieme si vale in modo assai moderno delle risorse del sonoro. (M - Il mostro di Düsseldorf, 2010, p. 2089)
  • Radiografia di un'impasse non solo generazionale (nonostante don Giulio sia con ogni evidenza Michele Apicella in abito talare), è un film «sgradevole» nel rivendicare il proprio essere nevrotico, moralista, «adolescenziale». Raggelante nella sua lucidità, [...] coglie con precisione il punto di rottura degli anni Ottanta, reso perfettamente nella scena del ballo in chiesa al ritmo sconsolato ma anche sognante di Ritornerai. In televisione l'essenzialità cinematografica del regista viene penalizzata, eppure averne avuti di film così, dove la religione è una questione di «fede» in sospeso, l'amore (individuale e collettivo) è una dichiarazione d'impotenza, la solitudine è l'unica, miserabile conquista e la fuga non è un'arte, bensì una soluzione dopo tante prove. (La messa è finita; 2003, p. 1427)
  • Wyler ricostruisce la realtà al dettaglio (si vantava di aver spedito le sue attrici a vestirsi ai grandi magazzini), privilegia lo scavo psicologico, enfatizza l'impegno civile, ma lo stile è tutt'altro che naturalistico. Visto che il direttore della fotografia è Gregg Toland (Quarto potere), le invenzioni a base di specchi e riflessi abbondano, anche se sono fuse perfettamente con la narrazione. Celebre la sequenza delle allucinazioni sonore di Fred all'interno dell'aereo abbandonato. Certe impennate melodrammatiche appaiono invecchiate, ma il film attende di essere rivalutato. (I migliori anni della nostra vita; 2003, p. 1444)
  • È tutta leoniana l'idea di riflettere sul crepuscolo dei miti e insieme sulla loro necessità, omaggiando il western americano (da Ford a Peckinpah, il cui nome viene letto su una lapide) e il proprio stesso cinema, mentre gli ammiccamenti comici vengono dal successo di Lo chiamavano Trinità... Il risultato è ibrido: i toni elegiaci stridono con gli sganassoni e le facezie di Hill, e certe divagazioni volgarotte (la sequenza dell'orinatoio, aggiunta in corso di riprese) sono discutibili. La confezione è professionale, e lo stile si distacca da quello del maestro (vedi i ralenti alla Peckinpah), anche se Valerii si limita a fare da esecutore. (Il mio nome è Nessuno; 2016, p. 2753)
  • [...] De Sica si allontana dalle scelte narrative del neorealismo, procedendo per accumulo di situazioni, abolendo le psicologie e mescolando elementi favolistici (la nascita di Totò sotto un cavolo, i poteri magici di Lolotta) a una visione squisitamente morale (il potere corruttore della proprietà, la forza dirimente della bontà). (Miracolo a Milano; 2003, p. 1461)
  • Ambientato quasi sempre in una bisca che sembra un girone infernale, dei melodrammi esotici del regista è uno di quelli più vicini al gusto moderno: visionario, estenuato, senza nessuna redenzione, ma non privo di ironia. La perversione dei personaggi e il clima di corruzione (notevoli le prostitute chiuse nelle gabbie, che sembrano uscire da qualche film di Fellini) all'epoca fecero scalpore, tanto che von Sternberg non girò più per una decina d'anni. La Tierney splende di luce propria; le acconciature della sfortunata Munson avrebbero meritato l'Oscar. (I misteri di Shanghai; 2003, p. 1473)
  • Un melodramma complicato e pieno di incongruenze [...]. La storia è francamente irreale [...], la recitazione (specie dell'inebetito Serato) poco più che da filodrammatica, ma la straordinaria fotografia di Piero Portalupi, astratta ed espressionista nello stesso tempo, giustifica da sola la visione del film. (Monastero di Santa Chiara; 2003, p. 1490)
 
Alida Valli ne Il mondo le condanna
  • Molte ingenuità moralistiche annegano qualche spunto interessante, soprattutto sulla pelosa carità dei borghesi. La Valli, comunque, sia nella versione bionda che in quella bruna, è davvero bellissima e riscatta un film che non sa decidersi tra suggestioni da realismo poetico francese d'anteguerra e banalità da fotoromanzo. (Il mondo le condanna; 2003, p. 1494)
  • La regia anonima e il soggetto vetusto (firmato da Dino Risi) tarpano le ali a due protagonisti perfetti nel loro ruolo. (Montecarlo; 2003, p. 1502)
  • Sasdy si ispira alla vicenda dell'ungherese Erzsebet Bathory (raccontata anche da Borowczyk in un episodio di I racconti immorali) e prosegue il suo percorso di critica al potere: coloro che condannano la contessa a una fine atroce non sono certo stinchi di santo. Ma dei suoi film per la Hammer è il meno efficace: le troppe concessioni al morboso stridono col tentativo di rendere tragica la sorte della contessa, tratteggiata come una donna incapace di accettare la vecchiaia. (La morte va a braccetto con le vergini; 2003, p. 1511)
  • Non bastano gli attori a dare interesse a un thriller scontato [...]. (Il mostro che uccide; 2003, p. 1515)
  • L'originalità di Arnold fu di rappresentare il mostro in chiave quasi simpatica, e di accentuare i sottintesi sessuali. (Il mostro della laguna nera; 2003, p. 1515)
  • Un giallo dai risvolti melodrammatici, interessante solo per l'intensità della recitazione di Bette Davis. (Nebbia a San Francisco; 2003, p. 1545)
  • Uno degli archetipi del gangster-movie, teso e vibrante, costruito con sequenze brevi ed ellittiche, capaci di dare il senso di una scelta di vita violenta e insieme romantica. Nonostante gli anni, il film stupisce ancora per la modernità della recitazione di Cagney, implacabile coi nemici e tenero con la mamma, e per i bei dialoghi di Kubec Glasmon e John Bright. La scena in cui schiaccia un pompelmo in faccia alla fidanzata che si lamenta (Clarke) è entrata nella storia del cinema, e quella finale, in cui il suo corpo, ucciso e legato come una mummia, viene messo davanti alla porta di casa per cadere quando il fratello la apre, è ancora sconvolgente. (Nemico pubblico; 2003, p. 1555)
  • Forse il miglior film di Samperi [...], meno pruriginoso del solito. (Nenè; 2003, p. 1556)
  • Film noir senza vero fascino (sceneggiato da Jonathan Latimer), in cui gli scherzi del destino giungono a mettere ordine in un mondo dove regnano immoralità e impunità. Curiosa, comunque, la superficialità sentimentale dell'uomo, alla quale fa da contraltare l'interessato cinismo delle donne (con punte di sessualità esplicita e sfacciata nel personaggio della Hayward, abituata a farsi mantenere dagli amanti). (Nessuno mi crederà; 2003, p. 1560)
  • Occasione mancata secondo lo stesso Ray, il film [...] riesce comunque a rendere efficacemente la specularità fra la violenza dell'uomo di legge e quella dell'emarginato, sullo sfondo di un conflitto città/natura che vede progressivamente la rabbia perdersi nel paesaggio. (Neve rossa; 2003, p. 1562)
  • Tuttora considerato anticomunista, in realtà condanna non tanto la Rivoluzione quanto la degenerazione stalinista, e proprio l'inquietante ritratto del regime sembra legittimare una lettura della vicenda secondo un'ottica italiana [...]. Si tratta di uno dei primi segnali di insofferenza nei confronti della retorica celebrativa di regime, uno sguardo diverso che qualche mese dopo, con Ossessione, rimbalzerà definitivamente dagli schermi in tutta la sua potenza espressiva. La Valli è indimenticabile nella sua bellezza senza tempo e senza speranza. (Noi vivi - Addio, Kira; 2003, p. 1576)
  • Uno dei più allucinanti horror di tutti i tempi: la violenza è più suggerita che mostrata, ma certe situazioni richiedono nervi molto saldi. Tra attori e regista vi era un pessimo rapporto, il che spiega in parte l'atmosfera di tensione che si respira nel film. (Non aprite quella porta; 2003, p. 1578)
  • Elegante ma freddo remake del capolavoro di Murnau, attento soprattutto alla creazione di un'atmosfera algida e funerea, dove le sorti dei personaggi sono predestinate sin dal principio. Questa lenta progressione (il film dura 40' in più dell'originale di Murnau pur essendogli molto fedele) verso la tragedia ha il suo punto di forza in Kinski, che rinnova la figura classica del vampiro facendone un personaggio stanco e distante, quasi restio a seguire la propria inclinazione di mostro necrofilo. (Nosferatu, il principe della notte; 2003, p. 1592)
  • Incauto debutto alla regia di un produttore e sceneggiatore: in una fotografia ricercata, che finisce per produrre cartoline stucchevoli, il cast internazionale barcolla su una storiella male impostata, e Kinski straborda con risultati ben diversi dal film di Herzog, facendo rimpiangere gli eccessi dei suoi innumerevoli B-movie. (Nosferatu a Venezia; 2003, p. 1592)
  • Il film doveva essere un trampolino di lancio per la Sten, che il produttore Goldwyn voleva trasformare in una nuova Garbo: l'attrice deluse le attese, ma Vidor – appassionato al tema del confronto città/campagna – riesce a vivificare il racconto descrivendo in modo originale la vita rurale dello scrittore di città. Un finale, per quei tempi, insolitamente cupo e drammatico. (Notte di nozze; 2003, p. 1602)
  • Geniale saggio sul cinema come voyeurismo, pulsione necrofila e insieme scopofila (il bisogno morboso di contemplare), capace di legare indissolubilmente Eros e Thanatos, il film, scritto da Leo Marks, è chiaramente una metafora sull'arte della visione (come lo era stato La finestra sul cortile, ma qui molto più crudele e imbarazzante) [...]. Clamorosamente sottovalutato all'epoca della sua uscita (un critico britannico scrisse che si sarebbe dovuto «prenderlo con la paletta e buttarlo subito nella fogna più vicina»), sprizza in realtà intelligenza da ogni scena, oltre a rappresentare una sorta di punto di partenza per il thriller moderno, da Brian De Palma in poi. (L'occhio che uccide; 2003, p. 1623)
  • Ormai un piccolo classico del cinema dell'orrore, grazie soprattutto alla mano di Franju, che mescola con maestria fantasia e realismo, morbosità e lirismo, in un crescendo che culmina nella straordinaria sequenza finale. (Occhi senza volto; 2003, p. 1625)
  • Più che un thriller, la storia di un amore impossibile, e il ritratto di un assassino ambiguo ma mai veramente antipatico, indimenticabile rappresentazione di quello che potrebbe essere davvero il diavolo. Hitchcock (che appare come un giocatore di bridge in treno) era fiero della collaborazione di Thornton Wilder alla sceneggiatura, che però è dispersiva e piena di episodi accessori. Invecchiato e fastidioso il doppiaggio italiano, come anche la musica di Tiomkin. (L'ombra del dubbio; 2003, p. 1638)
  • [...] un noir melodrammatico teso e raffinato, con un inizio irresistibile (l'assassinio dell'amante), una messinscena accuratamente sinistra (persino il fogliame umido e frusciante desta sospetti), un cast britannico eccellente e una Davis capace di alternare calcolo e isteria con passaggi da brivido. Toni Gaudio firma una fotografia magnetica, tutta giocata di taglio sulla bianca luce diffusa della luna piena. Wyler lavora con precisione maniacale (tanto da litigare violentemente con la star) per far emergere il cuore di tenebra nascosto nella colonia tropicale prossima alla dissoluzione. Max Steiner commenta il tutto con una colonna sonora ossessiva, in cui colpa e destino rimbalzano su due sole note. Peccato per il doppio finale punitivo, conforme alle regole del Codice Hays (la Davis viene uccisa dalla donna cinese, che presumibilmente sarà arrestata mentre il racconto di Maugham si chiudeva, con molta più ipocrisia, su un trionfo collettivo del cinismo), che però non compromette un autentico gioiello hollywoodiano, frutto di un talento registico e di una squadra di professionisti fuori dal comune. (Ombre malesi; 2003, p. 1641)
  • Tradizionale giallo sceneggiato dalla moglie del regista Alma Reville con sorpresa finale (del genere che Hitchcock non amava troppo), con un paio di elementi molto originali per l'epoca: l'uso della voce fuori campo del personaggio per esprimerne i pensieri, e la presenza di un assassino che si traveste da donna. (Omicidio; 2003, p. 1643)
  • Un duro spaccato urbano, insolito nel cinema della Nuova Zelanda. Partendo dalla violenza, dalla miseria e dall'emarginazione che aliena la famiglia (ma senza cadute nel vittimismo), Tamahori gira con l'energia combattiva di Milius e la rabbia di Loach, alla ricerca della cultura maori perduta da consegnare alle nuove generazioni insieme alla ritrovata dignità femminile. (Once Were Warriors - Una volta erano guerrieri; 2003, p. 1645)
  • Cinque anni bastano a smarrire le ambizioni socio-etnologiche del prototipo, anche se lo sceneggiatore (e autore del romanzo d'origine) è sempre Alan Duff. I dilemmi morali sono tranciati con l'accetta, il clou del film sono i pestaggi (belli tosti), ma si respira anche un'aria genuina e simpaticamente dimessa. Film ad alto tasso di testosterone da sale di periferia, come non se ne fanno più. (Once Were Warriors 2 - Cinque anni dopo; 2003, p. 1645)
  • Aggiornamento melodrammatico sui temi della sceneggiata [...]: al di là della riprova che la sfortuna si abbatte sempre sui poveri, il film stigmatizza con enfasi l'ipocrisia della società e rivendica la funzione positiva delle lettere anonime. (Onore e sangue; 2003, p. 1648)
  • Connubio di satira sociale e fantascienza [...], è uno dei film chiave degli anni Sessanta per la sua capacità di rompere con i generi tradizionali hollywoodiani e aprire il cinema a nuove forme espressive [...]. (Operazione diabolica; 2003, p. 1650)
  • Banale fumetto pieno di divagazioni turistico-cartolinesche, che scade nel ridicolo involontario. Erotico come una patata lessa, anche se in patria ha avuto problemi di censura specie per l'ultima sequenza, che alcune voci davano per non simulata. La presenza della Bisset è del tutto esornativa. (Orchidea selvaggia; 2003, p. 1656)
  • Commedia piacevole e garbata [...] e un po' osé per i tempi, tutta giocata all'interno del collegio tra ordine e trasgressione, disciplina e pulsioni (moderatamente) sessuali. (Ore 9: lezione di chimica; 2003, p. 1658)
  • Con molto sangue e poca sostanza, segna la fine del grande cinema gotico made in Britain prodotto dalla Hammer. (Gli orrori di Frankenstein; 2003, p. 1665)
  • Il ventinovenne Amenábar – anche sceneggiatore e autore delle musiche – appronta un'algida e funzionale imitazione dell'horror di una volta (con ovvio rimando a Suspense di Clayton): porte che sbattono, brividi metafisici e neanche una goccia di sangue. Ma il meccanismo narrativo è aggiornato ai tempi e un po' troppo furbetto, sia nella sorpresa (a dire il vero prevedibile) sia nel tema degli «intrusi» che occupano la casa: chi sono i legittimi proprietari, i vivi o i morti? Co-produzione internazionale (ci mette i soldi anche Tom Cruise) girata con stile impeccabile e anonimo, al servizio del virtuosismo della star. (The Others; 2003, p. 1671)
  • Un mito d'amore e di morte trapiantato in una cornice che potrebbe essere quella di un racconto di Fitzgerald: Lewin, anche autore della sceneggiatura, gira il suo film più arrischiato, contraddittorio e delirante – in una parola, il suo capolavoro. (Pandora; 2003, p. 1687)
  • Tra gobbi e lesbiche, falli veri e finti, un elogio delle case chiuse approssimativo e ripetitivo, percorso però da un innegabile vitalismo e da sprazzi di humour. (Paprika; 2003, p. 1695)
  • Pieraccioni (sceneggiatore con Giovanni Veronesi) ritorna senza simpatia e senza humour alla formula stantia di Fuochi d'artificio, tra sentimentalismo annacquato e pretese di sociologia spicciola. Le immagini da cartolina vorrebbero solleticare ancora una volta i sogni dell'italiano medio, ma i tentativi di involgarimento segnalano che si è giunti al fondo del barile. La Barbera ripropone il personaggio televisivo della siciliana Sconsolata, in una serie di pietose scenette che nulla c'entrano con la storia principale: eppure si deve anche a lei il successo del film, vincitore a sorpresa della sfida del Natale 2003. (Il paradiso all'improvviso; 2016, p. 3200)
  • [...] questo film si scontrò con l'autocensura del Codice Hays che impedì alla Warner di produrre un melodramma dove il rapporto d'amore superasse i limiti di una castissima relazione platonica. Resta comunque un elegante film in costume, ravvivato dall'interpretazione della Davis, misurata anche nei passaggi più commoventi. (Paradiso proibito; 2003, p. 1696)
  • Western che associa non sempre felicemente il conflitto fra uomo di legge e malavitosi a elementi comici, melodrammatici e addirittura musical. Spiritoso e divertente, mette in campo accanto a uno Stewart, che anticipa con strana serietà i temi dell'impegno morale e della volontà di riscatto dei suoi futuri film con Anthony Mann, un'inedita Dietrich, esordiente al western, più brillante che fatale. (Partita d'azzardo; 2003, p. 1704)
 
Ugo Tognazzi ne La paura fa 90
  • La storia, improbabile quanto complicata [...] è solo un pretesto per sfruttare la comicità un po' sguaiata di Tognazzi [...]. Qualche sfilata in passerella e un inizio e un epilogo curiosamente fantastici, in un eden che ricorda Scala al paradiso. (La paura fa 90; 2003, p. 1719)
  • [...] il motivo di maggior interesse del film sono le lunghe carrellate costruite sull'attrice che con la sua «confessione» fornisce una delle prove più convincenti di tutta la sua carriera. Per il resto si tratta di un melodramma piuttosto convenzionale sceneggiato da James Bridie, privo della necessaria tensione e forzatamente teatrale. Il cast è di ottimo livello, ma a volte pecca di eccessiva enfasi. (Il peccato di Lady Considine; 2003, p. 1725)
  • Un film politico e poetico allo stesso tempo, che all'inizio adotta i moduli della favola grottesca, con un surrealismo di stampo buñueliano, e poi sfocia via via in un dramma che ricorda le antiche tragedie greche. (Pentimento; 2003, p. 1733)
  • Anche se assomiglia un po' troppo a Suspiria, è uno dei migliori Argento di quel periodo, al quale si perdona l'abuso di heavy metal nella colonna sonora. (Phenomena; 2003, p. 1754)
  • Il film più noto di Wood ha la fama (immeritata: altri hanno fatto ben di peggio) di essere il più brutto della storia del cinema; negli Usa è stato oggetto di culto molto prima che Tim Burton dedicasse un biopic al suo autore, dove racconta tutti gli aneddoti sulla lavorazione (Lugosi, morto anzitempo, venne sostituito da un improbabile «sosia» che si tiene il volto coperto). Del film in sé restano memorabili le interpretazioni dilettantistiche di un gruppo di freaks scelti accuratamente (il lottatore Johnson, la presentatrice televisiva Vampira, il futurologo Criswell che recita prologo ed epilogo), le incredibili scenografie (un'astronave con tendine al posto delle porte), le incongruenze del racconto. Il pasticcio sarebbe quasi divertente (a cominciare dall'originale commistione di fantascienza e horror), se non andasse per le lunghe e non tentasse di elevarsi con un risibile messaggio pacifista. (Plan 9 from Outer Space; 2016)
  • Malgrado qualche momento in cui il ritmo cede, il decimo lungometraggio anime di Miyazaki (anche unico sceneggiatore) costruisce ancora una volta un mondo in cui mistero e irrazionale vengono accettati come eventi naturali, e dove i rapporti di causa ed effetto seguono regole (anche fisiche) insondabili. E in ciò conferma l'unicità della sua arte. Nuovo, questa volta, è l'uso di scenari molto semplificati (colori tenui, sfondi dipinti ad acquerello, scenografie essenziali) che però non ostacolano invenzioni narrative metaforiche (i «pesci-acqua» che gli adulti scambiano per onde e i bambini vedono nella loro reale forma animalesca), o rimandi ai miti fondanti della cultura giapponese (l'ambivalenza del mare, la centralità della figura femminile e la latitanza di quella maschile), encomiabilmente mai sottolineati. Le assurde fattezze di Fujimoto sono un omaggio allo stile di Osamu Tezuka. Incompreso da buona parte della critica, e snobbato dal pubblico. (Ponyo sulla scogliera; 2018, pp. 2346-2347)
  • Il risultato non è all'altezza delle ambizioni: Granger fa il nevrotico da manuale. Robson non ritrova la vena felice di altri suoi film. (La porta dell'inferno; 2003, p. 1807)
  • La regia di Stevenson illustra fedelmente il clima gotico e di persecuzione del romanzo [...] anche se non riesce a trovare una cifra interpretativa originale. Memorabili le scene nel collegio in cui è rinchiusa l'orfanella Jane, dove un direttore sadico fa morire la piccola Elizabeth Taylor sotto la pioggia. Affascinanti la fotografia a lume di candela di George Barnes e la scenografia di Wiard B. Ihnen e James Basevi. Grande partitura di Bernard Herrmann. (La porta proibita; 2003, p. 1807)
  • Una rilettura «moderna» delle Sacre Scritture: horror e spunti demoniaci, morti inspiegabili, riti ed esorcismi assortiti con sottile gusto morboso. (Il presagio; 2003, p. 1821)
  • Uno dei noir più cupi ed esasperati del periodo, tratto da un romanzo di Libbie Block (sceneggiato da Arthur Laurents) che nasconde dietro la trama un lucido apologo sul denaro e sul possesso. Qua e là lo stile di Ophuls lascia ancora meravigliati, con i suoi carrelli barocchi, ma le riprese erano state iniziate da John Berry (licenziato perché aveva superato il budget previsto) e il suo stile era tutto costruito sulla profondità di campo e sulle inquadrature disassate, alla Welles. Il risultato è un film ibrido, che risente del fatto di essere nato con due teste e che non riesce ad amalgamare bene il ritratto tutto psicologico e interiore di Leonora (probabilmente più dovuto a Ophuls) con quello più cupo e impressionista di Ohlrig (che risente dell'impostazione di Berry). (Presi nella morsa; 2003, p. 1822)
  • Tre anni dopo Perdutamente tua, Rapper ritrova lo stesso cast per un film molto diverso e ambizioso: un melodramma cerebrale costruito come un kammerspiel, in cui i personaggi si torturano col sorriso sulle labbra, mentono o sono lieti di comportarsi da vittime. Quasi nessuna figura di contorno, interni barocchi come in Welles o Wyler, strade sempre spazzate dalla pioggia: la cornice ideale per due tipi di follia diversa, quella istrionica di Rains (forse nella sua interpretazione migliore) e quella compressa e tormentata della Davis, che si controlla con grande intelligenza. (Il prezzo dell'inganno; 2003, p. 1826)
  • Esordio nella regia di un cino-americano (autore anche della sceneggiatura) ex funzionario di una major: tracce di misoginia, sadomasochismo, stanca omosessualità e proiezione quasi horror di un sistema malato e contagiato dal virus del potere assoluto. Senza la levità dei Protagonisti di Altman e con l'inevitabile livore di chi ha fatto troppa gavetta. (Il prezzo di Hollywood; 2003, p. 1827)
  • Un Hitchcock minore per la convenzionalità della sceneggiatura [...] ma non per l'eccellenza delle soluzioni tecniche [...] a cominciare dalla sequenza senza stacchi dell'aereo che cade in mare, ripresa dall'interno della cabina. Celebre l'idea dei mulini con le pale che girano controvento. (Il prigioniero di Amsterdam; 2003, p. 1831)
  • Ma chi non è un iniziato, e non coglie tutti i riferimenti alla serie, si addormenta dopo dieci minuti. (Primo contatto; 2003, p. 1839)
  • Melassosa rivisitazione del mito di Cenerentola [...]. Francamente noiose certe inutili digressioni fantastiche che danno forma ai sogni di Elisabetta; scontato il lieto fine, un po' meno l'odio con cui sono descritti i borghesi che vanno all'orfanotrofio [...]. (La principessa del sogno; 2003, p. 1845)
 
Macha Méril in Profondo rosso
  • A tutt'oggi il più abile dei film di Argento: un attacco deliberato ai nervi dello spettatore, martellato da un montaggio quasi subliminale, da una musica ipnotica (del jazzista Giorgio Gaslini e dei Goblin) e da esplosioni di violenza rimaste ineguagliate. (Profondo rosso; 2003, p. 1852)
  • Pacifismo all'acqua di rose in un film ingenuo e fiacco. (La protesta del silenzio; 2003, p. 1860)
  • Da un soggetto di James G. Ballard, un film che ignora la profondità dello scritto per puntare sugli effetti speciali (ottimamente realizzati da Jim Danforth) e sull'ambientazione. Divertente e spettacolare. (Quando i dinosauri si mordevano la coda; 2003, p. 1874)
  • Città contro campagna, corruzione contro onestà: nonostante le apparenze, niente a che vedere con l'esaltazione ruralista di Mussolini. Qui è lo spirito populista di Zavattini [...] a prendere il sopravvento sulla regia solitamente «tirannica» (ma sempre puntuale) di Blasetti. Del resto, la crisi coniugale e la compromissione amorosa non erano certo temi graditi al regime, soprattutto se introdotti da efficaci squarci di degradazione urbana. Un piccolo grande film che contribuì a incrinare irreparabilmente gli edificanti ritratti ufficiali, anticipando umori e caratteri che sarebbero emersi compiutamente nel periodo neorealista. Il cast è particolarmente ispirato, ma i tecnici non sono da meno [...]. (4 passi fra le nuvole; 2003, p. 1889)
  • Commedia agrodolce e dai toni moralistici, che si regge tutta sulla bravura di Eduardo grande attore sia comico che drammatico. (Ragazze da marito; 2003, p. 1925)
  • Una parabola sulla relatività della verità, con un'apertura umanitaria nel finale. Congegnato con grande abilità e un superiore senso di ironia, e girato con uno stile nervoso e molto moderno. Il film che ha reso noti Kurosawa, Mifune e la Kyo in Occidente, Leone d'oro a Venezia e Oscar per il miglior film straniero. Accusato di essere troppo europeizzante dagli occidentali (ma i racconti di Akutagawa da cui è tratto sono degli anni Dieci), e poco amato in patria (i produttori non volevano mandarlo a Venezia perché pensavano fosse poco esportabile): capita anche ai capolavori. (Rashomon; 2003, p. 1943)
  • Uno dei più singolari tra i film che si ispirano ai Vangeli, sceneggiato da Philip Yordan, rimontato dalla produzione perché considerato troppo violento, agiografico e manierato in certi momenti, ma anche sorprendentemente inventivo in altri (soprattutto la prima parte). Un film irrisolto, ed è un peccato perché molti dei motivi cari a Ray (il rapporto padre-figlio, il peso del passato sulle nostre azioni, il destino delle vittime, il ruolo dell'intercedente) rimandano a temi presenti nei Vangeli. (Il re dei re; 2003, p. 1949)
  • Insulso e goffo film in costume di un pioniere del genere. (La regina di Saba; 2003, p. 1954)
  • Fedele e imponente versione del romanzo di Lev Tolstoj, che nell'adattamento firmato da Renato Castellani (con la collaborazione di Juliane Kay) stempera il messaggio evangelico originale a favore di una moralità più laica e pragmatica. Se la struttura del racconto (con i suoi flashback a incastro che fanno scoprire poco alla volta la verità allo spettatore) è compatta e avvincente, così come la capacità di descrivere con poche battute l'ipocrisia e i pregiudizi che condannano Katjuša e portano invece a considerare con indulgenza il comportamento di Dimitrij, il vero punto debole del film è nella scarsa intensità dei due protagonisti, belli ma decisamente inerti. (Resurrezione; 2003, p. 1963)
  • Voluto da Will Smith per dirigere la storia vera di Gardner (sceneggiata da Steven Conrad), l'esordio statunitense di Muccino avviene nel migliore dei modi possibili: una nomination per Smith, buoni incassi sia in America che in Italia e una consacrazione professionale nella mecca del cinema. Quella che poteva essere la più scontata e zuccherosa delle storie (un uomo precipita ai gradini più bassi della povertà prima di risalire verso il successo) diventa il ritratto coinvolgente e credibile di un americano alle prese con le tante contraddizioni della vita e della società, che Muccino sceglie di raccontare utilizzando il più possibile ambientazioni dal vero -ricoveri per senzatetto compresi- per imprimere al film un'atmosfera credibilmente realistica (aiutato anche dalla fotografia di Phedon Papamichael). Frenando ogni facile concessione emotiva (le tante umiliazioni che Chris deve sopportare, la notte trascorsa nella metropolitana, l'egoismo degli amici) e controllando la recitazione di Will Smith, il mito dell'«edonismo reaganiano» finisce per essere letto da un'angolazione meno scontata e superficiale e l'eterna favola del successo a portata di mano diventa qualche cosa di più complesso e credibile. (La ricerca della felicità; 2016, p. 3700)
  • Il capitolo conclusivo della trilogia fordiana sulla cavalleria, dopo Massacro a Fort Apache e I cavalieri del Nord-Ovest, ha un tono leggero e ottimistico. Personaggi stereotipati ma amabili, e riuscite caratterizzazioni di contorno. [...] Un classico, anche se non un capolavoro [...]. (Rio Bravo; 2003, pp. 1978-1979)
  • [...] è il film più anomalo di Matarazzo che utilizza al meglio le possibilità offerte dal set all'aperto (fu girato tutto in ambienti naturali) per sfruttare i movimenti di macchina e la mobilità della gru. Nonostante i possibili punti di contatto con Riso amaro, il film si allontana dal naturalismo di De Santis per scegliere una strada originale e rischiosa (specie per il pubblico di quei tempi): raccontare una storia realistica con uno stile irrealistico (la recitazione della Martinelli non è mai naturale, ma ispirata a un ostentato distacco dalla realtà; le scene madri sono fredde e mai emotive) nel quale ribaltare le regole del melodramma (alla fine è il padre che si sacrifica, mentre la figlia non è costretta a sopportare le colpe dei padri). (La risaia; 2003, p. 1980)
  • Tecnicamente, i risultati sono ancora artigianali, ma il film – che accosta con un certo estro il fantastico e il quotidiano – la dice lunga sulle inquietudini e le paure dell'epoca. (Il risveglio del dinosauro; 2003, p. 1982)
  • Uno degli innumerevoli, e fra i minori, capitoli della saga di Frankenstein diretto da un regista che è anche un eccellente direttore della fotografia, ma che dimostrerà quanto vale in altri film. Décor raffinato come sempre per i prodotti Hammer. (La rivolta di Frankenstein; 2003, p. 1997)
  • Commovente ancora a distanza di anni, il film reagisce con il suo stile semplice e diretto alla retorica di tanti anni di fascismo [...]. (Roma città aperta; 2003, p. 2006)
  • Non un capolavoro, ma un noir di tutto rispetto [...] dove l'intrigo poliziesco passa in secondo piano di fronte allo studio psicologico di una coppia e dei suoi due caratteri e Siodmak racconta la storia di questa tragedia a due trasformando un thriller in un'opera intimista. La bella fotografia di George Barnes fa da cornice all'ottima prestazione della diva, naturalmente a suo agio nei panni della cinica maliarda [...]. (Il romanzo di Thelma Jordon; 2003, p. 2009)
  • Un noir ingiustamente sottovalutato, che lo sceneggiatore Charles Bennett riempie di dettagli fisici e clinici (le «ferite» reali e metaforiche di Mitchum, le «bugie» della Domergue) capaci di sottolineare la componente masochista del genere [...]. (Una rosa bianca per Giulia; 2003, p. 2014)
  • [...] Polanski sceneggia con fedeltà e mette in scena con sobrietà, rinunciando del tutto agli effetti speciali consueti per il genere. Rosemary's Baby è considerato a tutt'oggi il suo film migliore, l'unico completamente in grado di reinterpretare la lezione hitchcockiana in chiave personale e in rapporto al clima della società. Su un realismo descrittivo di fondo (personaggi, ambienti), Polanski innesta progressivamente un'angoscia surreale, tanto fantastica quanto inquietante, resa più intensa dall'umorismo beffardo, dalle acute osservazioni psicologiche e da un senso di ambiguità diffusa e persistente. (Rosemary's Baby - Nastro rosso a New York; 2003, p. 2017)
  • Per lo scarso successo ottenuto dalla serie in Italia, uscì con una promozione che non faceva alcun riferimento alla saga. (Rotta verso la Terra; 2003, p. 2021)
  • Per la prima volta invecchiati, i membri dell'equipaggio hanno rughe e capelli bianchi. Piuttosto risibili comunque, gli agganci all'attualità, e noiosi dialoghi. (Rotta verso l'ignoto; 2003, p. 2021)
  • Tardo e lutulento kolossal biblico [...]: l'ultimo film di Vidor. [...] Grandiose le scene di massa e le scollature della Lollo: il canto del cigno di un colosso di Hollywood, che però non ha mai dato il meglio di sé nelle superproduzioni. (Salomone e la regina di Saba; 2003, p. 2034)
  • Si ha l'impressione di essere alla fine di un'epoca e di un horror che non sa più stare al passo coi tempi. (I satanici riti di Dracula; 2003, p. 2049)
  • Siodmak immagina un serial killer a metà tra i personaggi di Poe e i mostri dell'espressionismo tedesco, ma storicamente cresciuto nell'epoca nazista. Dialoghi ridotti al minimo, contrasti chiaroscurali, deformazioni ottiche (l'allucinazione dell'assassino, che vede Helen senza bocca, o il primissimo piano del suo occhio che riflette la vittima), oggetti usati in modo simbolico: la regia punta sull'evidenza visiva, rielaborando suggestioni letterarie e psicoanalitiche in un incubo sfaccettato che continua a lasciare meravigliati. (La scala a chiocciola; 2003, p. 2053)
  • Tipica e ovvia commedia dei «telefoni bianchi», con una sognante Cenerentola italiana, particolarmente apprezzata – si diceva – da Mussolini. (Scampolo; 2003, p. 2054)
  • La progressiva débacle della funzionaria tutta d'un pezzo richiama Ninotchka, di cui Wilder era stato sceneggiatore, ma poi l'intreccio, tra giallo e storia d'amore, imbocca altre strade. Godibile, comunque, la caricatura del personaggio femminile americano, che esalta per contrasto la bellezza inquietante e perniciosa di Marlene. (Scandalo internazionale; 2003, p. 2056)
  • Vorrebbe essere una specie di Ultimo tango anni Ottanta sceneggiato da Lavia e Riccardo Ghione, in realtà è un filmaccio pretenzioso, con un erotismo che spinge allo sbadiglio o al riso. Si salva solo il cartone animato di Gibba [...]. (Scandalosa Gilda; 2003, p. 2057)
  • Curiosa fusione degli equivoci bonari della commedia all'ungherese [...] con le esigenze propagandistiche del regime: gli spunti comici dello zoticone scaraventato in un mondo di cui ignora le regole sono sviluppati solo in parte per lasciare spazio a un entusiasmo da «battaglia del grano» che privilegia i proclami sociali (con inserti sociali sulle case da costruire per i coloni e la necessità della meccanizzazione) e non si risparmiano nemmeno le inquadrature delle messi ondeggianti al vento, neanche fosse una versione autarchica del Vecchio e il nuovo ejzenstejniano. (Scarpe grosse; 2003, p. 2060)
  • Remake di Profumo di donna: tutte le gag possibili sui ciechi (compreso Slade al volante di una Ferrari) e uno spirito dolciastro che vorrebbe ispirarsi all'Attimo fuggente ma sa soprattutto di conformismo. La gigioneria di Pacino – doppiato in italiano da Giancarlo Giannini – si è meritata l'Oscar e comunque sa reggere le quasi tre ore del film. (Scent of a Woman - Profumo di donna; 2010, p. 2956)
  • Un melodramma strappalacrime racchiuso in un lungo flashback con cornice edificante: la summa del cinema matarazziano. L'unica novità rispetto agli altri film del regista è il ritratto di una donna completamente sola, tanto all'inizio quanto alla fine. L'insopprimibile carica erotica della Pampanini viene utilizzata in funzione del senso di colpa e della sofferenza da scontare. (La schiava del peccato; 2003, p. 2067)
  • Originale noir [...] che innesta uno strano triangolo sentimentale sui classici motivi della fuga e della vendetta. Disperato e romantico, girato con lo stile contrastato e folgorante del Mann migliore. Personaggi imprevedibili e ben delineati: l'unico radicalmente cattivo è il sadico Burr. (Schiavo della furia; 2003, p. 2068)
  • Ritenuto tradizionalmente il terzo capolavoro del neorealismo (dopo Roma città aperta, 1945 e Paisà, 1946 di Rossellini), è un brusco film-verità permeato dall'inconfondibile surrealismo fiabesco di Zavattini [...]. Nella prima parte la macchina da presa si muove al passo dei personaggi, secondo la poetica zavattiniana del «pedinamento» e della «distrazione», mentre in seguito si concentra più sui dettagli, sull'amicizia tra i due ragazzi e sulla vita nel riformatorio. Quest'ultimo approccio ha suscitato, soprattutto a distanza di anni, forti giudizi negativi sul moralismo desichiano. Rivisto oggi, Sciuscià [...] è una favola dolorosa, ingenua forse, ma piena di vigore ed emozionante nel suo umanesimo dimesso e marginale. (Sciuscià; 2003, p. 2071)
  • Gli effetti speciali in stop motion di Ray Harryhausen sono spettacolari, il film no. Le scenografie consentono di fare a gara a chi indovina gli anacronismi. (Scontro di titani; 2003, p. 2074)
  • Dopo il fallimento di Psycho, Van Sant accetta la regia di un film su misura per Connery (anche produttore, lo si vede dall'abbondanza di primissimi piani). La sceneggiatura di Mike Rich non eccelle per originalità (lo scontro interclassista rimanda a Will Hunting - Genio ribelle, il rapporto allievo-maestro a L'attimo fuggente, il climax finale a Scent of a Woman), la tensione omoerotica tra i due protagonisti cade nel vuoto: ma la confezione non fa una grinza, e la simpatia di Connery fa digerire un prodotto troppo pensato a tavolino. (Scoprendo Forrester; 2010, p. 2971)
  • La seconda guerra mondiale è iniziata, e Lubitsch, il cui stile era sinonimo di lusso e sofisticazione, cerca conforto in una Budapest piccolo-borghese da operetta, coltivando buoni sentimenti quasi dickensiani. L'ironia si fa impalpabile, il gioco degli equivoci aereo, e su tutto aleggia un indefinibile senso di malinconia. Come nei film di Frank Capra, l'ottimismo è sempre l'altra faccia di un pessimismo sul destino di solitudine cui, quasi sempre, è condannato l'individuo. (Scrivimi fermo posta; 2003, p. 2077)
  • Un omaggio favolistico ai protagonisti del cinema horror classico, in teoria dedicato ai minori di quattordici anni, in realtà troppo mite anche per loro. (Scuola di mostri; 2003, p. 2079)
  • Magni romanizza Pilato e, alla fine, lo fa diventare un eroe controvoglia, come molti personaggi della commedia all'italiana. Volenteroso tentativo di un regista colto-popolare di uscire dagli stereotipi e di confrontarsi con temi universali. (Secondo Ponzio Pilato; 2003, p. 2083)
  • Preminger definì «un incidente interessante» questo film girato scrivendo la sceneggiatura la notte prima delle riprese. Eppure il personaggio al di là del bene e del male di Diane è uno dei più complessi e dei più riusciti della sua filmografia. Tra noir e melodramma, con un senso della fatalità e della sconfitta (esemplare il perdente interpretato da Mitchum) che lo rende un piccolo classico; misconosciuto in Italia. (Seduzione mortale; 2003, p. 2086)
  • Dopo Vertigine, Preminger pone la Tierney al centro di un altro triangolo inquietante, dove le apparenze celano tormenti segreti. Ferrer, genio solitario del Male, perdente e masochista (si spinge all'autoipnosi), regge il confronto col cattivo del film precedente. Fotografia contrastata di Arthur Miller, musica spettrale di David Raksin, scenografie spesso astratte di Lyle R. Wheeler e Thomas Little: uno dei più affascinanti noir dell'epoca. (Il segreto di una donna; 2003, p. 2095)
  • [...] è un film che alla sua uscita fece scandalo per la crudezza con cui descriveva la violenza degli slum, ma rivisto oggi la sua presa di posizione a favore del professore progressista con gli occhi chiari e il cuore d'oro appare un po' facile. (Il seme della violenza; 2003, p. 2099)
  • [...] è il secondo viaggio infernale compiuto da Lattuada (dopo Il bandito) nell'Italia disintegrata dell'immediato dopoguerra. In un momento in cui il messaggio di speranza è quasi obbligatorio, il regista ritrae un universo livido e senza vie d'uscita, dove la messinscena crudemente realistica assume via via connotazioni simboliche. (Senza pietà; 2003, p. 2107)
  • Variazione moderna sul tema di Pigmalione e Galatea, Settimo velo evoca, in maniera lirica e romantica, i conflitti vissuti da due personaggi alla ricerca del loro equilibrio e li descrive (secondo gli stilemi resi popolari dai film di Gainsborough) come due persone malate, il cui fascino tenebroso nasce esplicitamente da legami sessuali, che però la regia tende a lasciare nell'ombra per permettere allo spettatore di esercitare al meglio la sua fantasia. Prodotto indipendente girato con pochi soldi ma molto talento [...]. (Settimo velo; 2003, p. 2127)
  • Uscito in origine come Katarsis e rieditato dopo due anni, forse il più scassato horror italiano di tutti i tempi. Si cala un velo pietoso sulla storia-cornice, con soubrette grasse e la «stella della canzone argentina» Sonia. (Sfida al diavolo; 2003, p. 2129)
  • Melodramma poliziesco sceneggiato da Henry Garson e R.W. Soderborg che sfrutta bene la cornice di normalità borghese (in cui però latitano le presenze tradizionali del marito e dei poliziotti), tentazione fatale per un cattivo dal cuore tenero. Ottime interpretazioni dei due protagonisti, ma è poco credibile lo strano rapporto che si crea tra di loro e nessun carattere è davvero approfondito. Ophuls è meno barocco del solito, ma appena la macchina da presa carrella si vede il suo genio. (Sgomento; 2003, p. 2132)
  • Gli episodi hanno diverso valore: il migliore e il più smaliziato è quello di Visconti, ma anche il filmino di famiglia di Rossellini è interessante [...]. Altrove si resta a livello del bozzetto e dell'aneddoto: segno che la stagione neorealista ormai era al termine. (Siamo donne; 2003, p. 2144)
  • Commediola all'acqua di rose [...] che scherza su alcune delle caratteristiche nazionali dell'italiano – la litigiosità condominiale, l'assenteismo assembleare – ma che offre soprattutto l'occasione per un paio di divertenti duetti tra Fabrizi e Peppino [...]. (Siamo tutti inquilini; 2003, p. 2145)
  • [...] è un melodramma freddo e visionario come può esserlo l'allucinazione di una moribonda. I conoscitori di Ophuls vi troveranno espressi compiutamente i temi dei suoi capolavori futuri: lo spettacolo come mondo illusorio e crudele, la mercificazione della diva (l'ultima immagine è quella della rotativa che ferma la stampa dei manifesti di Gaby), il gusto della perdizione. Ma anche i profani saranno colpiti da uno stile stupefacente che, a pochi anni dall'inizio del sonoro, non solo fa ancora tesoro di tutte le risorse del muto (ombre espressioniste, deformazioni, soggettive strabilianti), ma si serve di voci, rumori e musiche in maniera antirealista, a sottolineare l'atmosfera onirica. Deliziosamente ingenua la recitazione della Miranda, e oltraggiosamente gigionesca quella di Benassi. Ophuls è un regista che gioca sui contrasti e si serve delle imperfezioni: e, al di là dei toni sopra le righe e del divertimento formalista, sa inserire una nota di amarezza autentica. (La signora di tutti; 2003, p. 2149)
  • Abile film di propaganda bellica [...] che unisce una vena sentimentale crepuscolare a un efficace discorso antinazista descrivendo con bella intelligenza l'ambiente inglese. (La signora Miniver; 2003, p. 2151)
  • Interpretato da due attori in vero stato di grazia – con Claude Rains che tiene perfettamente la scena di fronte a una Bette Davis straordinaria nell'inventare i gesti e la dizione di una tipica ragazza viziata, che vive solo per l'adulazione degli uomini – il film ha anche alcuni risvolti non banali (come il tema della decadenza fisica) e affronta, per la prima volta in un melò femminile, il tema della discriminazione razziale degli ebrei (l'origine del marito rappresenta una barriera invalicabile nella conformista società newyorchese, di fronte alla quale anche la sua fortuna non può niente). (La signora Skeffington; 2003, p. 2152)
  • Uno Zampa minore, che parte con propositi di satira di costume, ma sceglie la strada della scontata commedia degli equivoci. (Signori, in carrozza!; 2003, p. 2156)
  • Classica commedia dei «telefoni bianchi», basata sull'equivoco sentimentale. Camerini ci mette di suo una sottile schermaglia classista, dove la simpatia va tutta al mondo degli onesti lavoratori, ma dove le gerarchie alla fine restano ben marcate. Impeccabile la fattura, con un ritmo che ha poco da invidiare alle commedie sofisticate d'oltreoceano, e disinvolto il cast. (Il signor Max; 2003, p. 2157)
  • Da pretenzioso thriller surrealista, il film di Argento si trasforma in uno Psyco a Trastevere: sempre sopra le righe e sprezzante della verosimiglianza, ma senza invenzioni visive (come ai bei tempi) che non compensano. Non bastano più quattro effetti digitali [...] per tenere in piedi un intreccio imbarazzante sia per la confusione che per i tratti patologici e misogini che ne emergono. E la «sindrome» del titolo – quella che proverebbero i turisti stressati da troppe opere d'arte – è solo un pretesto lasciato subito cadere. (La sindrome di Stendhal; 2003, p. 2162)
  • Uno dei primi noir di Hollywood, prodotto in economia dalla Fox (non c'è neanche una colonna sonora originale) ma con molti tratti che diventeranno costanti del genere sia nei temi (l'ossessione per una donna morta, l'ambiguità della colpa, la mancanza di protezione di fronte alla legge), sia nella messa in scena (luci contrastate, ombre proiettate sui muri). Il cast, tranne Cregar, vale poco; ma come whodunit il film è ben congegnato, e il finale è notevole. (Situazione pericolosa; 2003, p. 2168)
  • Discreta suspense e buoni attori in un prodotto di medio artigianato. (So che mi ucciderai; 2003, p. 2174)
  • La lost generation degli americani europeizzati in un inaffondabile e avvincente polpettone [...] pieno di esotismo a buon mercato. Una delle migliori (e delle ultime) interpretazioni di Flynn. (Il sole sorgerà ancora; 2003, p. 2186)
  • Simpatico thriller urbano, realizzato con solido professionismo in tempo quasi reale con ritmi intelligentemente spezzati tra violenta concitazione ed efficaci sospensioni. Il lieto fine è assicurato, ma arriva dopo molti colpi di scena e con quel tanto di ironia che smussa il buonismo del copione di Richard Wenk. (Solo due ore; 2010, p. 3141)
  • Nel romanzo Before the Fact di A.B. Cox, Lina si lasciava uccidere per amore, ma Hitchcock, in parte condizionato dalla produzione, ha scelto un'ambiguità ben più sottile, che lascia salva la sessuofobia di fondo (l'equazione tra matrimonio e pericolo, che fu di Rebecca e sarà di Marnie). (Il sospetto; 2003, p. 2199)
  • La bellezza come presa di coscienza della propria miseria sociale: un tema insolito, affrontato con piglio meno predicatorio del solito da Cayatte, autore della sceneggiatura con Gérard Oury. Si crede poco alla bruttezza della Morgan, ma in compenso la prova di Bourvil è davvero notevole, e la descrizione dell'ambiente piccolo-borghese in cui si muovo i personaggi non priva di notazioni felici. (Lo specchio a due facce; 2003, p. 2212)
  • Ritmo televisivo, dialoghi verbosi e parafilosofici: il film del vecchio Wise non ha mai affascinato chi non fosse già un fan dei personaggi. (Star Trek; 2003, p. 2237)
  • I fans insorsero per la morte di Spock e pretesero che risuscitasse nel capitolo successivo. (Star Trek II - L'ira di Khan; 2003, p. 2237)
  • Lloyd, nella parte del capo dei klingoniani, è deludente. L'ineffabile Nimoy esordisce alla regia, fedele al tono di telefilm di lusso della serie. (Star Trek III - Alla ricerca di Spock; 2003, p. 2237)
  • L'ammiraglio Kirk esordisce alla regia e fa le cose in grande, impantanandosi in improbabili disquisizioni filosofiche e religiose. (Star Trek V - L'ultima frontiera; 2003, p. 2237)
  • Quasi una metafora dei pasticci dell'Onu e un certo revisionismo anticolonialista nella sceneggiatura di Michael Piller: ma niente paura, la confezione è quella di un episodio televisivo gonfiato per il grande schermo, con pessimi effetti speciali e patetici tentativi di ironia. (Star Trek - L'insurrezione; 2003, p. 2237)
  • Scenografie ed effetti speciali quasi impresentabili, ritmo catatonico, cast pensionabile. Spettacolare solo il tonfo globale al botteghino. (Star Trek: La nemesi; 2003, p. 2238)
  • Forse il miglior film di Wise, e uno dei più amari ed emozionanti spaccati del mondo della boxe. Girato in tempo reale (il film comincia alle 21 e 05 e finisce alle 22 e 17) con grande senso della suspense e intelligenza drammaturgica. La sceneggiatura è di Art Cohn, la fotografia – da noir – di Milton Krasner. Ryan, nella parte di un perdente individualista, mette la stessa energia che nelle parti, per lui più abituali, di vilain. (Stasera ho vinto anch'io; 2003, p. 2239)
  • Mattòli prosegue nella politica (e nell'estetica) dei «film che parlano al vostro cuore», concludendo una tetralogia iniziata con Luce nelle tenebre e che aveva lanciato Alida Valli: la sceneggiatura [...] rispetta gli schemi del melodramma popolare, ma cerca anche di costruire dei personaggi a tutto tondo. (Stasera niente di nuovo; 2003, p. 2239)
  • Dopo l'insuccesso di Umberto D. De Sica accettò di dirigere due divi americani coi soldi di David Selznick [...] e tutti gridarono al tradimento del neorealismo. Variazione su Breve incontro di Lean, il film non è poi quel bidone che si disse, anche se le macchiette di contorno, che vorrebbero fare colore, sono importune, e la storia è assai convenzionale. (Stazione Termini; 2003, p. 2241)
  • Il libro di Kathryn Hulme, sceneggiato da Robert Anderson, è portato sullo schermo con la formula Zinnemann: grandi temi trattati senza manicheismi, attenta analisi psicologica, serietà assoluta e un professionismo che tende a farsi un po' incolore. La Hepburn in versione drammatica all'inizio sembra un po' spaesata, ma diventa man mano più convincente. (La storia di una monaca; 2003, p. 2250)
  • Influenzato dallo spirito del New Deal, fu la risposta di Samuel Goldwyn della United Artists ai film di gangster della Warner Bros. Esaltato per i suoi contenuti sociali, rivisto oggi si dimostra un bel noir melodrammatico ma non molto di più. (Strada sbarrata; 2003, p. 2257)
  • [...] Lang riprende il cast e il triangolo ambiguo di La donna del ritratto, raccontando senza battere ciglio una storia beffarda di colpa e degradazione. Nessun personaggio si salva, ma il tono non è quello enfatico del melodramma. Libero da condizionamenti produttivi, Lang girò una delle sue migliori opere del periodo americano. [...] Robinson grandeggia e non fa rimpiangere Michel Simon, interprete dell'originale di Renoir. (La strada scarlatta; 2003, p. 2258)
  • Un poliziesco teso e coinvolgente, dove la sceneggiatura di Harry Kleiner riesce a dare ai personaggi sfumature insolite (specie al gangster dalle velate tendenze omosessuali, ossessionato dai germi). Nolan aveva già interpretato l'ispettore Briggs in La casa della 92ª strada di Hathaway, di cui questo film riprende lo stile semidocumentaristico e gli intenti propagandistici pro-Fbi. Ottimamente fotografato da Joe McDonald. Più brillante, comunque, il remake di Samuel Fuller, La casa di bambù. (Strada senza nome; 2003, p. 2258)
  • Un noir angosciante e claustrofobico ma abbastanza convenzionale; molto ammirato dai fans del regista – che, per conto suo, anni dopo disse di non ricordarne nulla. (Sui marciapiedi; 2003, p. 2277)
  • Piccolo noir dai risvolti quasi parodici, che anticipa il tono del Tesoro dell'Africa. (Il suo tipo di donna; 2003, p. 2282)
  • Portato a termine dopo l'8 settembre, testimonia la fine di un'epoca per il cinema italiano (nel frattempo era uscito Ossessione) e fa rimpiangere che l'incontro Valli-Camerini – sicuramente destinato a interessanti sviluppi – sia avvenuto troppo tardi. (T'amerò sempre; 2003, p. 2295)
  • [...] un thriller della brughiera con poca suspense e molto melodramma d'atmosfera. È l'ultimo film britannico di Hitchcock (che non appare nel film), evidentemente a disagio nel trattare una storia piuttosto lontana dalle sue corde. Charles Laughton, la cui esuberanza sfugge al controllo del regista, è anche coproduttore. (La taverna della Giamaica; 2003, p. 2308)
  • Luc Besson sceneggia un clone del suo cinema in forma di commedia ironizzando sui fantasmi dell'automobilista. Comicità elementare, inseguimenti fracassoni, spirito tamarro: non male per una serata tra amici con birra e pizza. (Taxxi; 2003, p. 2310)
  • Garbata commedia sentimentale sceneggiata dal regista, a cui De Sica – prima con pizzetto alla Dino Grandi, poi glabro – offre la spigliatezza della sua interpretazione. (Tempo massimo; 2003, p. 2319)
  • Il rigore stilistico e la partecipe aderenza agli eventi sono alla base di un'intensa ed emozionante parabola sul rapporto fra gli uomini e la natura, sul valore di un mondo impermeabile ai sussulti della modernità. Attori non professionisti, presa diretta del suono, in perfetta ottemperanza ai precetti del neorealismo. (Il tempo si è fermato; 2003, p. 2320)
  • Generalmente sottovalutato, è un vero spasso per gli amanti del genere, che non si dimenticheranno facilmente di scene come quella della mano mozzata (eliminate, attenzione!, nella versione che circola in televisione, perché l'attrice è Veronica Lario, futura signora Berlusconi). (Tenebre; 2003, p. 2321)
  • Una trama assolutamente inconsistente per un film patinato come una rivista di moda, pieno di corpi nudi ripresi in pose di apollinea classicità, secondo lo stile di un regista che ha fatto fortuna come fotografo di adolescenti senza veli. (Tenere cugine; 2003, p. 2322)
 
Gianna Maria Canale in Teodora
  • Primo film a colori di Freda che costruisce una delle sue opere più classiche [...]. Con uno stile che non concede niente ai facili effetti, Freda gioca con i contrasti di luci e ombre [...] per esaltare la fusione tra la sensualità di Teodora e la tenerezza di Giustiniano, la fermezza patrizia dell'imperatore e il popolaresco liberalismo della ballerina. (Teodora; 2003, p. 2325)
  • [...] una commediola scontata nell'intreccio, ma sorprendentemente credibile nella scelta d'ambientazione e nella caratterizzazione dei personaggi. Ottimo il cast, intelligente la regia. (Teresa Venerdì; 2003, p. 2327)
  • Un bel poliziesco di serie B, con alcuni degli inseguimenti più belli nel suo genere. (Il tesoro di Vera Cruz; 2003, pp. 2340-2341)
  • Se la struttura è piuttosto convenzionale, non altrettanto si può dire della polemica antiborghese e anticittadina [...] e anche – prima dell'inevitabile ma un po' appiccicaticcio lieto fine – del tema della solidarietà femminile e classista come unica difesa dalle durezze della vita [...]. (Ti ho sempre amato!; 2003, pp. 2354-2355)
  • Nel Giappone contemporaneo il benessere ha cancellato la dignità: e per Ai (Nikaido), prostituta specializzata in prestazioni sado-maso, conservarla è molto difficile. Murakami, noto romanziere, illustra un campionario di perversioni e di umiliazioni in cui, alla fine, cliente e prostituta si salutano sempre educatamente. Molto duro e sul filo dell'hard-core, ma senza compiacimenti pruriginosi: lo sguardo del regista è a un tempo distaccato e partecipe al punto di vista di Ai. La versione italiana, già sforbiciata qua e là (ma quasi mai nelle scene di sesso) taglia quasi 20' dello straordinario finale antonioniano (eliminando per intero dei personaggi), in cui Ai vaga per una Tokyo deserta alla ricerca del suo primo amore. Il film perde così parte della sua originalità. (Tokyo Decadence; 2003, p. 2363)
  • Cruento e stralunato, il film vuole applicare la vena surreale e mistica di Jodorowsky al filone western, già filtrato attraverso gli eccessi del sottogenere «all'italiana», ma il delirio è troppo personale per coinvolgere lo spettatore. (El Topo; 2003, p. 2368)
  • [...] Freda costruisce un melodramma anticonformista diretto con mano sicura e con un bel gusto per le provocazioni [...]. (Il tradimento; 2003, p. 2384)
  • Uno dei vertici della carriera di Bette Davis, composta ma commovente interprete di un melodramma tratto dalla pièce di George Emerson Brewer e Bertram Bloch e sceneggiato da Casey Robinson, rara eccezione di film che affronta in maniera centrale il tema della morte. La scena finale, con la Davis che sente arrivare la morte e allontana l'amica Ann (Fitzgerald) per salire in camera e aspettare la fine, è indimenticabile, uno dei più perfetti esempi della forza espressiva del cinema hollywoodiano. (Tramonto; 2003, p. 2391)
  • La struttura è quella classica (e un po' scontata) dell'avventura spaziale, il messaggio quello della lotta dell'individuo contro il potere dispotico, ma la novità è che si tratta del primo film che sposta l'azione nel mondo virtuale dell'elettronica, con alcune sequenze rivoluzionarie realizzate completamente in computer graphic. (Tron; 2003, p. 2417)
  • Una commedia che combina satira di costume e humor («basso») con una leggerezza al vetriolo e una spudoratezza calcolata, ritrovando il ritmo delle commedie screwball (anche se la protagonista femminile, a differenza di quanto accadeva negli anni Quaranta, è oggetto passivo delle iniziative maschili, inconsapevole di ciò che scatena attorno a sé). Tra un ammiccamento all'anticonformismo dei fratelli Marx e un altro al «cattivo gusto» di John Waters, molte le gag diventate popolari: da quelle politically incorrect (i dispetti al fratello handicappato di Mary, il cagnolino fulminato e ricucito come Frankenstein) a quelle esplicitamente sessuali (il membro di Ted impigliato nella lampo dei pantaloni, la retata tra gli omosessuali, lo sperma che l'ignara Mary usa come gel per i capelli). (Tutti pazzi per Mary; 2010, p. 3494)
  • Il famoso uccello del titolo, l'Hornitus Novalis, è una bufala (in verità si tratta di una comune gru), ma poco importa. Ha imposto molte figure e maniere – killer con impermeabile nero, guanti e cappello, soggettive dell'assassino, rantoli e ansimare nella colonna sonora, telefonate del maniaco con voce distora o falsetto, coltelli e rasoi – poi riprese da tutto il thriller italiano del decennio, e non solo. (L'uccello dalle piume di cristallo; 2003, p. 2438)
  • [...] il film – perfettamente calibrato nelle sue componenti popolaresche e nel suo ritmo da commedia – rompe con la tradizione dei film girati in studio e anticipa (con le sue riprese in Santa Maria in Trastevere, la festa all'osteria interrotta per l'oscuramento) la voglia di realismo che contraddistinguerà il cinema del dopoguerra. (L'ultima carrozzella; 2003, p. 2442)
  • [...] realizzato in anni di incubo atomico, è un monito un po' pomposo ma sincero sui pericoli dell'armamento atomico, che affida la sua suggestione alla luminosa fotografia di Rotunno e all'inquietante spettralità di una San Francisco deserta. (L'ultima spiaggia; 2003, p. 2448)
  • Scorsese presenta un Cristo atipico che, lontano dall'agiografia come dalle facili letture rivoluzionarie, vive dei rovelli e della poetica del regista: il retaggio della religiosità italoamericana di Brooklyn, la cultura rock, l'amore per il cinema, la costante – in tutti i suoi precedenti personaggi – di un tormentato rapporto con il proprio destino. Tutto ciò nel contesto di un film visionario che non concede nulla all'allettamento estetico dello spettatore. Ottima la musica dalle sonorità africane di Peter Gabriel. (L'ultima tentazione di Cristo; 2003, p. 2449)
  • Melodramma eccessivamente verboso [...] nel quale i classici temi matarazziani (il sesso e il denaro come origine di tutti i problemi, lo scontro tra il perbenismo delle vecchie generazioni e l'insofferenza delle giovani) sembrano vivificarsi solo nel doppio personaggio della protagonista, figlia e insieme madre, divisa tra aggressività repressa e riservatezza protettrice. (L'ultima violenza; 2003, p. 2449)
  • Sulla scia dei successi di Matarazzo, Mattòli rifà [...] Stasera niente di nuovo: qui però l'atmosfera è più cupa e disillusa (si veda il medico interpretato da Besozzi), e alla coscienza protofemminista di Matarazzo si sostituisce una rassegnata accettazione del proprio destino di sconfitta [...]. (L'ultimo amante; 2003, p. 2453)
  • Ambizioni e durata sono da affresco epico, ma l'impostazione spettacolare – per quanto a tratti efficace – è risaputa. Tra echi di Balla coi lupi, coreografie guerresche stile Braveheart e più di un riferimento a Duello nel Pacifico, la sceneggiatura di John Logan e Marshall Herskovitz sembra abbracciare posizioni antiamericaniste e addirittura no global: ma poi affonda nella retorica più inerte (la guerra ha senso solo se a sostenerla ci sono gli ideali e il senso dell'onore; ogni uomo è padrone del suo destino). Cruise mostra i suoi limiti di attore drammatico, sempre oscurato dal carisma di Watanabe. Grande successo di pubblico, anche in Giappone. (L'ultimo samurai; 2016, p. 4632)
  • [...] un misconosciuto piccolo capolavoro del fantastico, molto in anticipo sui tempi. Impressionanti, in particolare, le coincidenze con La notte dei morti viventi e altri film di Romero (l'assedio degli zombi-vampiri, il tema della paura di essere contagiati, ma anche dettagli come le banconote ormai inutili che svolazzano per strada). Nessun cedimento di tensione, uno spirito amaro e pessimista e un grande Price. (L'ultimo uomo della Terra; 2003, p. 2463)
  • [...] il film rimane una testimonianza di un momento di cambiamento e ristrutturazione del capitalismo italiano, soprattutto per le scene alla Fiera campionaria dove Mariuccia lavora in uno stand e Bruno decanta, con un ridicolo megafono, le virtù di uno spruzzatore. Inconfondibile lo stile di Camerini [...]. (Gli uomini, che mascalzoni...; 2003, p. 2476)
  • Biografia con chiari intenti didattici, che mescola momenti didascalici (la perorazione antidivorzista fatta alla contessa interpretata da Isa Miranda) ad altri più informativi (la puntigliosa ricostruzione del conclave che portò all'elezione di Pio X, documentato in tutti i suoi più minuti momenti), con evidente scapito per l'equilibrio narrativo (e per il successo al botteghino [...]). (Gli uomini non guardano il cielo; 2003, p. 2479)
  • [...] una commedia «svitata» sul classico tema della bisbetica domata, interpretata da una Noris scatenata, sempre sull'orlo dell'isteria ma mai sopra le righe, a cui fa da contrappunto, con aria da gentleman consumato, un De Sica sornione ed elegantissimo. Erano i tempi d'oro della commedia italiana, cucinata in studios casalinghi ma con gli ingredienti giusti: le schermaglie tra i sessi ci sono tutte (compreso un rapporto edipico da antologia del comico), Mattòli dirige quasi come Hawks e la Noris si candidava a diventare la Katharine Hepburn italiana. (L'uomo che sorride; 2003, p. 2485)
  • La sceneggiatura [...] mescola momenti melodrammatici ed altri più leggeri [...] ma questo viaggio di formazione attraverso l'Italia riesce comunque ad aprire uno squarcio su un Paese dove l'armonia familiare sembra un'impossibile utopia [...]. (L'uomo dai calzoni corti; 2003, pp. 2488-2489)
  • Ultimo dei tre film diretti da Tourneur per il produttore Val Lewton (dopo Il bacio della pantera e Ho camminato con uno zombi), è quello dove la sua capacità di raccontare per ellissi raggiunge la perfezione. Il tema centrale del film è sempre quello della paura dell'uomo di fronte alla notte e con la conseguente impotenza davanti alle forze malefiche che il buio può scatenare [...]: la tensione non raggiunge il livello del Bacio della pantera, ma l'economia di mezzi è altrettanto encomiabile e alla fine sembra di aver assistito più a una riflessione metafisica sul male che non a un film horror. (L'uomo leopardo; 2003, p. 2499)
  • [...] è un kolossal di fanta-politica cui non basta un cast prestigioso per tener sveglia l'attenzione dello spettatore. (L'uomo venuto dal Kremlino; 2003, p. 2506)
  • [...] è il primo film da protagonista per James Dean, perfetto nella parte dell'adolescente tormentato e ipersensibile, al cui punto di vista aderisce il racconto. Kazan riesce a trovare un equilibrio tra Storia e drammi privati, ritmi solenni da saga e momenti concitati da psicodramma. (La valle dell'Eden; 2003, p. 2521)
  • Secondo episodio della fortunata serie iniziata con L'astronave atomica del dottor Quatermass, una delle più avvincenti del cinema di fantascienza europeo. Guest resta un regista mediocre, ma ebbe fiuto, e poté contare su ottimi soggetti di Nigel Kneale, scritti dapprima per la televisione. (I vampiri dello spazio; 2003, p. 2523)
  • Pasolini restituisce la violenza, lo scandalo e la bellezza della parola di Gesù senza gli orpelli dell'iconografia tradizionale. Sceglie volti di non professionisti, gira tra i Sassi di Matera e gli scabri paesaggi del Sud d'Italia, e riesce a catturare, da laico, il mistero del sacro. Lo stile alterna la macchina da presa a mano che insegue il volto dei personaggi a composizioni memori della pittura quattrocentesca, la brutalità realistica (gli indemoniati, il lebbroso, la crocifissione) all'elegia estatica (il battesimo, l'annuncio finale). Bello ed emozionante come nessun film che sia mai stato tratto dai Vangeli, al di là delle intenzioni d'autore e delle polemiche che l'accompagnarono. (Il Vangelo secondo Matteo; 2003, p. 2525)
  • Libera rilettura di un momento della diaspora ebraica, 150 anni prima di Cristo: i siriani sembrano nazisti (10 ebrei per ogni siriano ucciso, ordina Apollonio) e gli ebrei mettono in discussione le loro regole (anche di sabato si può combattere). Discreta ricchezza produttiva. (Il vecchio testamento; 2003, p. 2528)
  • Dal punto di vista formale regge più che bene all'usura del tempo, ed è superiore al precedente. (La vendetta di Frankenstein; 2003, p. 2534)
  • Sfidando il cinema americano sul suo terreno d'elezione, il regista tedesco – al suo primo film a colori – realizza il seguito di Jess il bandito di Henry King, libero però dalle convenzioni del genere. Frank, pur essendo un vendicatore implacabile, è un bandito gentiluomo preso in prestito dal popolo, premuroso nei confronti del ragazzino, disponibile all'innamoramento e alla «sistemazione» mentre la famosa scena in tribunale con il direttore del giornale (Hull) dimostra che la colpa di tutto è dell'azienda ferroviaria, cioè del capitale. La cura dei dettagli contribuisce in modo determinante alla credibilità del risultato, e un pizzico d'umorismo è la firma personale di Lang a un western autentico (sceneggiato da Sam Hellman), perfettamente in grado di reggere il confronto con i classici prodotti made in Usa. (Il vendicatore di Jess il bandito; 2003, p. 2536)
  • Questo film dimostra immediatamente la genialità del suo autore, capace di sfruttare (e inventare) tutte le possibilità tecniche della nascente cinematografia per mescolare precisione meccanica e affabulazione, destrezza tecnica e funambolismo. (Viaggio nella Luna; 2010, p. 3679)
  • «Ateo per grazia di Dio», Buñuel mette il sacro alla prova del suo spirito curioso e iconoclasta; il vero bersaglio, comunque, è più la follia dell'uomo che la religione in sé. Il racconto senza nessi logici ricorda quello dei suoi primi film surrealisti: disarticolato e inventivo, continuamente in viaggio tra passato e presente, spezzato da parentesi, digressioni e monologhi ora picareschi ora fantastici, riesce a conquistare l'attenzione dello spettatore su un argomento non certo dei più comuni e contemporaneamente dimostra l'assoluta libertà inventiva del sessantanovenne Buñuel [...]. (La via lattea; 2003, p. 2567)
  • [...] il film è un'innocua esaltazione della vitalità giovanile (con qualche conseguenza, però, visto che Oliva dovrà allevare un figlio senza padre) che cerca di adattare all'autarchia italiana le storie rese celebri da Deanna Durbin. (Violette nei capelli; 2003, p. 2580)
  • [...] accurato, ma di maniera e troppo lungo [...]. (Il violinista sul tetto; 2003, p. 2581)
  • Una commedia degli equivoci modellata sulla favola di Cenerentola ma ancora legata al cinema dei telefoni bianchi: ultima del genere per Mattòli, che tenta di far maturare la leziosa Lilia Silvi, allora considerata la Shirley Temple nostrana, circondandola di attori di prim'ordine (da notare Scotti, in uno dei suoi primi ruoli di rilievo). Complicato a bella posta nell'intreccio [...] ma sempre scanzonato nel tono e scorrevole nel ritmo [...]. (La vispa Teresa; 2003, p. 2584)
  • [...] è una svampita commedia degli equivoci, perfetta per distrarre una nazione in guerra: Rabagliati non perde occasione per sfoderare la sua ugola [...] e la Magnani e Campanini si scatenano in una serie di duetti comici (uno, irresistibile, su un'aria dell'Aida) da antologia. (La vita è bella; 2003, p. 2589)
  • Autentici deus ex machina dell'operazione (alla regia c'è l'esordiente che diresse la seconda unità dell'intera trilogia di Matrix), Andy e Larry Wachowsky producono e adattano liberamente per lo schermo l'omonima graphic novel di Alan Moore (testi) e David Lloyd (disegni), apparsa – incompiuta – sulla rivista «Warrior» nel 1981 e poi completata nel 1989 per la DC Comics: e fanno convivere l'estetica spettacolare e gli effetti digitali collaudati nei loro action movie con riferimenti letterali e cinefili (1984 di Orwell, La maschera di Zorro, Il fantasma dell'Opera, Batman, Il Conte di Montecristo), riflessioni note (i limiti della libertà individuale, i pericoli del totalitarismo), provocazioni meno ovvie (soprattutto dopo l'11/9: il terrorismo è giustificabile?) e uno struggente lato romantico. Notevole la performance di Weaving (doppiato da Gabriele Lavia), che la maschera fissa e priva di sguardi di Fawkes costringe a recitare solo con la voce e con il corpo. Moore ha inspiegabilmente disconosciuto il film, e il suo nome non compare nei titoli di testa. (V per Vendetta; 2010, p. 3744)

Bibliografia

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  • Paolo Mereghetti, Il Mereghetti: dizionario dei film 2004, Baldini Castoldi Dalai, Milano, 2003. ISBN 88-8490-419-6
  • Paolo Mereghetti, Il Mereghetti: dizionario dei film 2011, Baldini Castoldi Dalai, Milano, 2010. ISBN 978-88-6073-626-0
  • Paolo Mereghetti, Il Mereghetti: dizionario dei film 2017, Baldini Castoldi Dalai, Milano, 2016. ISBN 978-88-6852-947-5
  • Paolo Mereghetti, Il Mereghetti: dizionario dei film 2019, Baldini Castoldi Dalai, Milano, 2018. ISBN 978-88-9388-138-8

Voci correlate

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