Indro Montanelli

giornalista e scrittore italiano (1909-2001)

Indro Montanelli (1909 – 2001), giornalista, saggista e commediografo italiano.

Indro Montanelli alla sede del Corriere della Sera

Citazioni di Indro Montanelli

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Indro Montanelli, ufficiale del Regio Esercito, 1936
  • A suo tempo imprigionato dagl'israeliani per complicità col terrorismo palestinese, e liberato per l'intervento del Vaticano con l'impegno di astenersi dalla politica, l'Arcivescovo libanese di Gerusalemme Hilarion Capucci ha dichiarato in un'intervista all'Europeo che i rivoltosi di Gaza e della Cisgiordania non ricevono ordini da nessuno: «Li prendono solo da Dio, loro unico leader». Lo abbiamo sempre detto, noi: a grattare un arabo, anche se cristiano e Monsignore, viene fuori un Ayatollah. Ma forse non c'è neanche bisogno di grattare.[1]
  • Agnelli ha detto che non siamo nella repubblica delle banane, però qualche banana in Italia c'è, perché avvengono cose veramente singolari.[2]
  • Al conformismo l'ironia fa più paura d'ogni argomentato ragionamento.[3]
  • [Ferdinando I delle Due Sicilie] Aveva sulla coscienza la vita di migliaia d'infelici, morti sulla forca e nelle galere solo per aver voluto un po' di libertà. Era stato spergiuro. Non aveva conosciuto che disfatte e fughe ignominiose di fronte al nemico. Politicamente, era rimasto fermo alla concezione settecentesca del più retrivo assolutismo. Non aveva fatto che i propri interessi, e più ancora i propri comodi, della regalità prendendosi solo i piaceri. Non aveva saputo che incrementare l'ignoranza di cui egli stesso era campione. Eppure, il cordoglio popolare per la sua morte non ci stupisce, perché un dono lo aveva avuto: la genuinità. Questo Re fellone e fannullone non aveva mai cercato di apparire diverso da quel che era: uno scugnizzo dei «bassi», prepotente, ridanciano e sboccato, nato per caso con una corona in testa e che aveva sempre concepito la sua parte come quella di un buon capo-camorra. Non aveva interpretato che i caratteri deteriori del popolo napoletano, ma anche i più appariscenti e riconoscibili.[4]
  • Avevo capito fin dal primo incontro che l'aggressività di Anna [Magnani] era solo la maschera della sua insicurezza. Era una donna difficile e sempre agli estremi di tutto: della dolcezza come del furore, e non si capiva mai bene, forse non lo capiva nemmeno lei, quanto l'uno e l'altra fossero veri, o soltanto scena. Certo è che dall'uno all'altra passava con fulminea velocità e tenendo chiunque in stato di fibrillazione. [5]
  • [Walter Chiari] Avrebbe meritato 30 anni di prigione per lo spreco del suo talento.[6]
  • Berlusconi è una persona intelligente finché riesce a ragionare col suo cervello: il suo cervello è valido. Ma lui, oltre al cervello, ha le viscere, e molto spesso le viscere prendono la prevalenza sul cervello. E quando lui si abbandona alle viscere, secondo me, diventa uomo pericoloso. Questo lo dico a lei perché l'ho detto a lui, perché gliel'ho anche scritto.[7]
  • Berlusconi ha straordinarie qualità di imprenditore – coraggio, fantasia, forza di lavoro – che gli hanno valso il successo in tutti i campi in cui si è cimentato. Una sola cosa non gli riesce di fare, il presidente di una società di calcio.[8]
  • Berlusconi non ha idee: ha solo interessi.[9]
  • [Su Aldo Moro] Calvinista a rovescio, invece che nella predestinazione della grazia, credeva in quella della disgrazia.[10]
  • Certo, per un direttore di giornale, avere sottomano un Travaglio, che su qualsiasi protagonista, comprimario e figurante della vita politica italiana è pronto a fornirti su due piedi una istruttoria rifinita nel minimo dettaglio è un bel conforto. Ma anche una bella inquietudine. Il giorno in cui gli chiesi se in quel suo archivio, in cui non consente a nessuno di ficcare il naso, ci fosse anche un fascicolo intitolato al mio nome, Marco cambiò discorso.[11]
  • Chi di voi vorrà fare il giornalista, si ricordi di scegliere il proprio padrone: il lettore.[12]
  • Conosco molti furfanti che non fanno i moralisti, ma non conosco nessun moralista che non sia un furfante. Senza, per carità, allusione a Scalfari. Solo come promemoria.[13]
  • Cosa c'è meglio di Prodi? Governa fra compromessi e imbroglietti. I nostri soci sanno benissimo che siamo imbroglioni, che sui conti che portiamo all'Europa s'è un po' imbrogliato. Accettano lo stesso, purché non s'esageri. E Ciampi non esagera, è un economista serio e vero. [...] [Romano Prodi] Con la faccia da mortadella, l'ottimismo inossidabile e l'eterno sorriso, ci porterà in Europa: ringraziamo Dio, e anche D'Alema, che ci hanno dato Prodi.[14]
  • Dicono che De Mita sia un intellettuale della Magna Grecia. Io però non capisco cosa c'entri la Grecia...[15]
  • [Su Giulia Maria Crespi] Dispotica guatemalteca.[16]
  • [Su Gad Lerner, nel 2000] È bravissimo, son contento l'abbian messo al Tg1, è un buon conduttore, buonissimo giornalista. Ma sarà un bravo direttore?[17]
  • [Su Concetto Lo Bello] Entra in campo col passo del padrone che ispeziona il proprio podere.[18]
  • [Su Giulio Cesare] Grande soldato, grande statista, grande scrittore, grande avventuriero. E grande amatore. C'era di tutto. [...] In questa epoca di Mani Pulite Cesare sarebbe rimasto sicuramente "intangentato". Di tangenti lui ne prese parecchie. Ma a differenza dei mariuoli di oggi era anche un grande legislatore, un grande generale, un uomo di un'efficienza straordinaria. I nostri sono dei ladri. Ladri e basta.[19]
  • [Su Clare Boothe Luce] Ha la mentalità schematica di una maestra di scuola.[20]
  • [Su Lucio Battisti] Ho amato molto le sue canzoni e il suo desiderio di vivere appartato.[21]
  • I mariti italiani, per comprar la pelliccia alle mogli, spendono più di tutti i loro colleghi europei. Poveri, ma pelli.[22]
  • I nostri uomini politici non fanno che chiederci, a ogni scadenza di legislatura, «un atto di fiducia». Ma qui la fiducia non basta; ci vuole l'atto di fede.[22]
  • I ricordi vanno messi sotto teca, appesi a una parete e guardati. Senza tentare di rinnovarli. Mai.[23]
  • Il bello dei politologi è che, quando rispondono, uno non capisce più cosa gli aveva domandato.[22]
  • [Su Carlo Sforza] Il conte si piega sulle gambe come se volesse saltare in arcione. E io dico: è veramente un bell'uomo.[24]
  • Il fascismo privilegiava i somari in divisa. La democrazia privilegia quelli in tuta. In Italia, i regimi politici passano. I somari restano. Trionfanti.[22]
  • Il guaio di Scalfari non è che dice quel che pensa. Il guaio di Scalfari è che pensa quel che dice.[25]
  • In Italia a fare la dittatura non è tanto il dittatore quanto la paura degli italiani e una certa smania di avere, perché è più comodo, un padrone da servire. Lo diceva Mussolini: «Come si fa a non diventare padroni di un paese di servitori?».[26]
  • In Italia c'è una frangia d'imbecilli tali che credono si possa resuscitare il comunismo. Seppellire il cadavere del marxismo non è facile, anche perché per molti significa rinnegare l'intera esistenza. Ma certo Bertinotti non è di questi: lui non sa un corno di marxismo, non gl'importa niente, è un piccolo pagliaccio, un populista all'italiana che scalda in piazza maree di poveri diavoli e parla ancora delle masse operaie, che vede solo lui.[14]
  • In Italia non c'è una coscienza civile, non c'è un'identità nazionale che tenga insieme uno Stato federale e garantisca la civile convivenza delle sue parti. Invece io vedo solo nell'Italia Cisalpina qualche barlume di coscienza civile e una vocazione europea. Altrove, invece, è un disastro difficile, se non impossibile, da rimediare. Spero proprio di sbagliarmi.[27]
  • In Italia si può cambiare soltanto la Costituzione. Il resto rimane com'è.[28]
  • In Italia un colpo di piccone alle case chiuse fa crollare l'intero edificio, basato su tre fondamentali puntelli, la Fede cattolica, la Patria e la Famiglia. Perché era nei cosiddetti postriboli che queste tre istituzioni trovavano la più sicura garanzia.[29]
  • In nome di quale razza noi faremmo del razzismo? Se c'è un paese (adesso non voglio offendere, perché io sono italiano come tutti gli altri), ma se c'è un paese bastardo è l'Italia, cioè a dire una confluenza di razze diverse.[30]
  • Io non mi sono mai sognato di contestare alla Chiesa il suo diritto a restare fedele a se stessa, cioè ai comandamenti che le vengono dalla Dottrina... ma che essa pretenda d'imporre questi comandamenti anche a me che non ho la fortuna di essere un credente, cercando di travasarli nella legge civile in modo che diventi obbligatorio anche per noi non credenti, è giusto? A me sembra di no.[31]
  • Io il giornale urlato non è che non glielo voglio dare, non lo so fare! La clava non è nel mio armamentario! Non lo posso fare e non credo che sia un buon segno di civiltà politica l'uso della clava.[7]
  • Io non sono napoletano, ma di fronte a Peppino, non so come, mi capita sempre di diventarlo.[32]
  • Io non voglio soffrire, io non ho della sofferenza un'idea cristiana. Ci dicono che la sofferenza eleva lo spirito; no la sofferenza è una cosa che fa male e basta, non eleva niente. E quindi io ho paura della sofferenza. Perché nei confronti della morte, io, che in tutto il resto credo di essere un moderato, sono assolutamente radicale. Se noi abbiamo un diritto alla vita, abbiamo anche un diritto alla morte. Sta a noi, deve essere riconosciuto a noi il diritto di scegliere il quando e il come della nostra morte.[33]
  • Kipling diceva: "un italiano, un bel tipo; due italiani, una discussione; tre italiani, tre partiti politici". I suoi concittadini, invece, li definiva così: "un inglese, un cretino; due inglesi due cretini; tre inglesi, un popolo". Vorrei avere a che fare con dei cretini che, insieme, facessero un popolo.[34]
  • [Riguardo all'approvazione della legge elettorale nota come mattarellum] L'unico modello a cui possiamo rifarci è quello francese, non quello inglese. In un paese dove ci sono venti-venticinque partiti, come si fa l'uninominale a turno unico? Qui rischia di vincere un partito che ottiene il dieci percento, perché gli altri hanno ottenuto il sette, il sei. Ma le pare giusto questo? Io non so se è stata una follia o un atto criminale questa riforma elettorale. Io sono per la traduzione in processo dei legislatori, da Mattarella agli altri - non è stato il solo - i quali hanno fatto, come al solito, o creduto di fare gli interessi del proprio partito. Hanno fatto questa legge prima che venisse il diluvio universale di Tangentopoli, convinti che siccome loro erano il partito di maggioranza relativa spazzavano via l'Italia. Poi è venuta tangentopoli e ora piangono. Dovrebbero suicidarsi se avessero un minimo di dignità. Suicidarsi. Perché in nome degli interessi di partito hanno completamente rovinato l'Italia. [...] Questi legislatori che hanno truffato con questa legge - perché questa legge è una truffa - io vorrei sapere come mai non vengono processati. Dovrebbero essere processati per lesa patria.[35]
  • La cosa curiosa di Caponnetto è che si va a schierare con Orlando che è stato il peggior denigratore di Falcone. E poi dice che fa l'antimafia, io vorrei sapere i voti a Orlando chi glieli ha dati.[36]
  • La cultura, per un giornalista, è come una puttana: la puoi frequentare ma non devi ostentarla. La cultura si tiene nel cassetto. Il lettore non va trattato dall'alto in basso, ma preso per mano come un amico e portato dove vuoi.[37]
  • La cultura si è chiusa nella torre eburnea. Rimane lì, arroccata in sé stessa, perché ha orrore dei contatti col pubblico, si crede diminuita dai contatti col pubblico. Questa è la cultura italiana. È una cultura di cretini.[38]
  • La depressione è una malattia democratica: colpisce tutti.[39]
  • La devolution mi preoccupa molto, perché la decomposizione della Jugoslavia cominciò esattamente così: reclamata e imposta dai due grandi compari Tudjiman e Milosevic che distrussero l'unità del Paese per restare padroni in casa propria...[40]
  • La guerra contro il brigantaggio, insorto contro lo Stato unitario, costò piú morti di tutti quelli del Risorgimento. Abbiamo sempre vissuto dei falsi: il falso del Risorgimento che assomiglia ben poco a quello che ci fanno studiare a scuola.[41]
  • La lettura del Mein Kampf io la renderei, per legge, obbligatoria. Fuori dal contesto in cui fu concepito e scritto, quel libro è un caciucco di coglionerie.[42]
  • La nostra classe politica ha fatto del partito una specie di totem intoccabile e gli ha attribuito tutti i poteri, con in più un diritto: il diritto di abusarne.[43]
  • Le cose non sono importanti per quello che sono, ma per quello che uno ci mette.[44]
  • Le mie idee sono sempre al vaglio dell'esperienza e l'esperienza mi impone di rivederle continuamente.[45]
  • Leo Longanesi che amava Marcello Marchesi rabbiosamente per lo spreco che faceva del suo talento, quando lo incontrava, gli diceva: "Devo fare una telefonata, mi dai un gettone di intelligenza?". E un giorno mi ordinò un epitaffio per lui. Eccolo: "Qui giace un nessuno — che se avesse voluto — avrebbe potuto diventare — Marcello Marchesi —. Purtroppo o per fortuna — non lo seppe mai —. Come tutti i geni — era un cretino".[46]
  • Mi accusano molto spesso di avere inventato degli aneddoti. È verissimo. Io ogni tanto invento quando devo descrivere un personaggio, specialmente negli incontri, io invento qualche aneddoto. Però sono sempre aneddoti funzionali, che servono a dimostrare quel certo carattere che mi sembra vero e di dover dimostrare.[45]
  • Mi avvio verso il mio capolinea con l'angoscia di portare con me le cose che ho più amato: il mio paese e il mio mestiere, temo che non mi sopravviveranno.[47]
  • [Su Vittorio Mangili, in riferimento all'insurrezione antisovietica in Ungheria nel 1956] Ne ha combinate di tutti i colori. Ha fatto perfino il portaordini dei patrioti, a bordo di una delle loro automobili di collegamento.[48]
  • Nei grandi giornali di oggi, che non possono farne a meno, chi comanda non è più nemmeno il direttore: è l'ufficio marketing.[49]
  • [Rivolto a Berlusconi che voleva imporsi sulla linea editoriale de il Giornale] Nell'arte dell'imprenditoria, tu sei di certo un genio, ed io un coglione. Ma nell'arte della polemica il genio sono io, e tu il coglione.[50]
  • Nessuno di noi la strada della ribellione la batté sino in fondo, come voleva Ricci: per la semplice ragione che si trattava di una strada che fondi non ne aveva. Qualcuno poi scantonò in questo o in quello dei sette o otto partiti che aprirono le porte a questa generazione perduta. E forse si illuse di aver trovato un’altra bandiera. Io sono tra i rassegnati: so benissimo che di bandiere non posso averne altre e che l'unica che seguiterà a sventolare sulla mia vita è quella che disertai, prima che cadesse.[51]
  • No, Travaglio non uccide nessuno. Col coltello. Usa un'arma molto più raffinata e non perseguibile penalmente: l'archivio.[50]
  • Noi italiani non crediamo in nulla e tanto meno nelle virtù che qualcuno ci attribuisce. Ma tra di esse ce n'è una nella quale riponiamo una fede incorruttibile: quella della nostra capacità di corrompere tutto.[52]
  • Noi qui buttiamo tutte le colpe addosso agli altri. Ma bisogna fare i conti anche col popolo italiano. Siamo noi che li abbiamo eletti questi signori. Sono mica piovuti dalla luna. E allora non accaniamoci soltanto sulla classe politica. Noi siamo un elettorato disposto a ogni sorta di transazione, quando ci fa comodo.[35]
  • Non credo alle feste comandate. La memoria dovrebbe essere spontanea. L'unica cosa che si dovrebbe fare è raccontare veramente e in maniera spassionata ai giovani, che non lo sanno, cosa è stata la Shoah, senza fare mobilitazioni di folle.[53]
  • Non do più nessun significato a queste due parole [destra e sinistra], le ritengo un cascame, un residuato di situazioni oramai defunte. Destra e sinistra non hanno più nessun significato e credo che noi ci stiamo attardando su una terminologia arcaica, oramai da seppellire.[54]
  • Non mi si portino i soliti argomenti astratti, tipo la sacralità della vita: nessuno contesta il diritto di ognuno a disporre della sua vita, non vedo perché gli si debba contestare il diritto a scegliere la propria morte.[55]
  • [Il Polo delle Libertà] Non venga a farci credere che è costretto all'Aventino dal clima di violenza creato dall'Ulivo. Dove diavolo la vede questa violenza? Mi basta guardare la faccia di Prodi 1996 per metterla a confronto con quella di Mussolini 1924 per escludere che in Italia corriamo il pericolo di una dittatura. Per fare una dittatura ci vuole un dittatore.[56]
  • [su Gianni Agnelli] Parla con la propria bocca, pensa con il cervello di Valletta, col cuore di Giulio De Benedetti e con gli interessi polivalenti della Fiat.[57]
  • [su Mariano Rumor] Personaggio da commedia goldoniana più che da tragedia contemporanea.[58]
  • Posso solo dire che l'Italia del Cattaneo è quella che conserva qualche probabilità di salvarsi da questo degrado politico, culturale, morale, economico. E l'Italia del Cattaneo è quella Cisalpina. A nord del Po, e forse anche in Emilia, esistono tracce di coscienza civile e anche di classi dirigenti sane. Poi c'è un'Italia centrale, quella toscana e umbra e marchigiana, che conserva le sue peculiarità, i suoi caratteri spiccati che affondano le radici nell'Italia comunale e rinascimentale. Il resto è un disastro che non saprei come salvare. Del resto Cattaneo ci tentò, andò a Napoli e resistette qualche giorno. Poi si arrese e se ne tornò nella sua Lugano, nella sua Svizzera.[27]
  • Pur ricordandovi che la nostra regola è quella di non tener conto delle intemperanze altrui, specie dei politici, e di dire sempre la verità, tutta la verità, senza partito preso né animosità verso nessuno, vi autorizzo a comunicare al suddetto signore, se ve ne capita l'occasione, che l'unica «testa» in pericolo di cadere dopo il 5 aprile non è la vostra ma, casomai, la sua. E potete aggiungere, da parte mia, che non la considererei una gran perdita.[59]
  • Pertini ha interpretato al meglio il peggio degli italiani.[60]
  • Quando mi viene in mente un bell'aforisma, lo metto in conto a Montesquieu, od a La Rochefoucauld. Non si sono mai lamentati.[61]
  • Quello che ci ripugna è che, per mettere un controllo all'autorità politica, ci sia bisogno di ricorrere all'autorità giudiziaria. Cioè che, alla fine, noi avremo le riforme istituzionali non per via politica, ma per via giudiziaria e processuale. Questo ci allarma anche perché, come avrete ben capito, la mia opinione dei politici è molto bassa, ma quella dei giudici non è migliore. Perché anche i giudici sono stati corrotti dalla partitocrazia. Lo dimostra il semplice fatto che molti di loro ostentano la tessera di partito. Un giudice che ha venduto la propria imparzialità ai partiti è un giudice che, prima di processare gli altri, dovrebbe essere processato lui e cacciato in galera. Lo so che a dire queste cose si possono avere dei dispiaceri, ma io di dispiaceri in vita mia ne ho avuti tanti che, uno più o uno meno, non mi fa nessunissimo effetto.[43]
  • Se qualcuno mi chiedesse: "Cosa vorresti che, dopo di te, di te rimanesse?", risponderei senza esitare: "Questi colloqui".[62]
  • [Carmen Lasorella] Richiama tanta attenzione non solo per la sua bravura ma anche per quel che possiede dal cervello in giù.[63]
  • Sfido io che [il Giornale] non va bene come vendite. Non va bene come vendite perché noi siamo ancora alla macchina Olivetti. Qui non è stato fatto mai nessun investimento ed è stato detto chiaro che gli investimenti non sarebbero venuti finché io ne fossi il direttore. Questa è la situazione.[7]
  • Siamo un paese cattolico, che nella Provvidenza ci crede o almeno ne è affascinato. Il pericolo è questo: gli italiani sentendo aria di provvidenza sono sempre pronti a mettersi in fila speranzosi.[64]
  • Se avessi potuto immaginare come sarebbe stata distrutta la vecchia classe politica italiana - che meritava la distruzione, sia chiaro - se avessi potuto immaginare che la distruzione della vecchia classe politica italiana, in gran parte marcia, avrebbe dischiuso una situazione come quella attuale e che la vecchia legge proporzionale sarebbe stata sostituita dall'attuale legge maggioritaria così come è stata compilata, io avrei forse difeso la vecchia classe. Per lo meno non mi sarei battuto con tanta asprezza e con tanto vigore contro quella classe politica, che meritava di finire, ma a cui si stanno dando dei successori che, ricordatevelo bene, ci faranno rimpiangere quella vecchia. È il peggio che si può dire. Ma io lo dico. Perché non riesco proprio a vedere cosa sta venendo fuori da questo rimescolio di carte.[35]
  • [Alla domanda «Se dovesse fondare un giornale a novant'anni, che giornale farebbe?»] Se io dovessi oggi fare un giornale, farei un Foglio un po' più grande: invece che di 4 facciate di 10 o di 12. Non di più. Con una redazione ridottissima e facendo un preventivo che mi mettesse al riparo dalle delusioni. Mirerei ad avere non più di venti/trentamila lettori e non avere pubblicità. Su queste basi, forse, riuscirei a fare un giornale di alto prestigio, ma purtroppo destinato a una élite.[49]
  • Sta arrivando l'uomo della provvidenza. E io, in vita mia, di questi personaggi ne ho già conosciuto uno. Mi è bastato. Per sempre.[64]
  • Una cultura che perde i contatti col pubblico si sterilisce e muore. Questa è la verità. E la nostra cultura è assolutamente sterile. Noi culturalmente non contiamo più nulla nel mondo. Perché? Perché è chiusa in sé stessa, la cultura, ha perso i contatti col pubblico, con la vita. Non c'è più. Sono mummie. Non è più cultura: è mafia.[38]
  • [Su Aldo Moro] Un generale che, sfiduciato del proprio esercito, credeva che l'unico modo di combattere il nemico fosse quello di abbracciarlo.[65]
  • Un giorno fui convocato a Palazzo Venezia, era il 1932 e avevo 23 anni, perché il duce voleva vedermi. Ero emozionatissimo, entrai e mi misi sull'attenti, e il duce che faceva finta di scrivere mi lasciò lì per un quarto d'ora e alla fine mi disse: "Ho letto il vostro articolo sul razzismo (avevo scritto un articolo contro il razzismo). Bravo, vi elogio. Il razzismo è roba da biondi (non si era accorto che ero biondo), continuate così. Sei anni dopo fece le leggi razziali. Perché questo era Mussolini, diceva una cosa e ne faceva un'altra, secondo il vento del momento. Non creava il vento, vi si accodava da buon italiano.[66]
  • [Su Giorgio La Pira] Un pasticcione ben intenzionato che, nel nome del Signore, appoggia le peggiori cause appellandosi ai migliori sentimenti.[67]

Citazioni tratte da suoi libri

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  • [Sul funerale di Leo Longanesi] Al cimitero ci si ritrovò in una decina di persone, non di più. Non ci furono cerimonie né discorsi. Solo la piccola Virginia, che avrà avuto quattordici anni, mentre la bara di suo padre calava nella tomba, mormorò: «E dire che gli orfani mi sono sempre stati così antipatici...» Una frase che sarebbe piaciuta moltissimo a Leo.[68]
  • Carnevale ha dichiarato in un'intervista che la notte non ha bisogno di sonniferi per dormire perché, nei confronti della Legge, la sua coscienza è a posto. Ci crediamo senz'altro. Ma se si ponesse la stessa domanda nei confronti della Giustizia, mi domando se i suoi sogni sarebbero altrettanto tranquilli. E ci rendiamo tuttavia conto che questa domanda non se la porrà mai, e anzi gli sembrerà del tutto stravagante. Perché, per un magistrato italiano, la Legge con la Giustizia non ha nulla a che fare. (da Il testimone, p. 386)

Attribuite

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  • Berlusconi non delude mai: quando ti aspetti che dica una scempiaggine, la dice.[50]
In Io e il cavaliere qualche anno fa, Corriere della Sera, 25 marzo 2001, p. 1, Montanelli attribuisce la citazione a «un'alta personalità della Finanza, nota anche per il suo infallibile fiuto degli uomini». La frase esatta è: «Avrà anche i suoi difetti, ma un merito bisogna riconoscerglielo: quello di non deludere mai. Quando ti aspetti che dica una scempiaggine, la dice».

Interviste

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  Citazioni in ordine temporale.

  • [La guerra coloniale etiopica] Considerandola oggi, con la mia maturità d'oggi, [è] un'avventura di una stupidità senza fine. Ma immaginiamo un ragazzo di 24 anni messo al comando di una banda indigena, con 100 uomini neri – lui solo bianco – buttato all'avventura in quella guerra che di combattimenti ne ebbe molto pochi – non voglio passare per un gran guerriero, affatto – ma furono un anno e mezzo a cavallo, di cavalcate in questa natura selvaggia (ripeto, combattimenti ben pochi). [«Dicono anche che lei aveva una moglie, diciamo indigena, molto bella, che era la più bella di tutte quelle che avevano gli ufficiali d'allora»] Sì. [«Era molto invidiato per questo»] Pare che avessi scelto bene, era una bellissima ragazza bilena, di 12 anni – [sorridendo] scusatemi, ma in Africa è un'altra cosa – e così l'avevo sposata, nel senso che l'avevo regolarmente comprata dal padre che mi ha accompagnato insieme alle mogli dei miei ascari. Queste mogli degli ascari non è che seguissero la banda, ma ogni 15 giorni raggiungevano la banda: io non ho mai capito come facessero a trovarci in questo infinito dell'Abissinia. Quelle arrivavano e arrivava anche questa mia moglie con la cesta in testa, che mi portava la biancheria pulita. [...] [Domanda del pubblico: «Lei ha detto tranquillamente di avere avuto una sposa, diciamo, di 12 anni e a 25 anni lei non si è peritato affatto di violentare una ragazza di 12 anni, dicendo "Ma in Africa queste cose si fanno". Io vorrei chiedere a lui come intende normalmente i suoi rapporti con le donne date queste due affermazioni»] No signorina guardi, sulla violenza, nessuna violenza perché le ragazze in Abissinia si sposano a 12 anni. Non è questione, Quindi. [Domanda del pubblico: «Su un piano di consapevolezza dell'uomo, insomma, il rapporto con una bambina di 12 anni è il rapporto con una bambina di 12 anni. Se lo facesse in Europa rischierebbe di violentare una bambina, vero?»] Sì, in Europa sì, ma lì no. [«Ecco, appunto»] Lì no. [«Quale differenza crede che esista dal punto di vista biologico, o anche psicologico?»] No, guardi, [«Dal punto di vista del costume»] lì si sposano a 12 anni, non è questione. A 12 anni si sposano. [«Ma non è il matrimonio che lei intende, a 12 anni in Africa. Guardi, io ho vissuto in Africa»] Sì. [«Quindi il vostro era veramente il rapporto violento del colonialista che veniva lì e si impossessava della ragazza di 12 anni»] No... [«Ma glielo garantisco, senza assolutamente tener conto di questo tipo di rapporto sul piano umano. Eravate i vincitori, cioè i militari che hanno fatto le stesse cose ovunque sono stati i vincitori, ovunque gli uomini si sono presentati come dei militari. La Storia è piena di queste situazioni»] [sorridendo] Signorina, non so se lei vuole istruirmi un processo «a posteriori». [«No, no, affatto. Guardi, ho soltanto voluto chiederle, per inciso, come lei intende – dopo le due interpretazioni – i rapporti con le donne»] Dipende da cosa si mette dentro, dipende anche da cosa le donne mettono dentro di noi. È tutto un giuoco di specchi. [«Ma lei vede sempre la donna in questa veste passiva di adulatrice, oppure di compagna – che appare e scompare – dell'uomo, non l'ha mai vista in una funzione diretta, attiva e diversa. Questo è un po' il dramma degli uomini della sua generazione»] [sorridendo] Può darsi. Della mia generazione? Solo? [«Credo»] [sorridendo] Vabbè. Può darsi. (Da L'ora della verità, 22 ottobre 1969)
  • [Domanda del pubblico: «Io vorrei sapere perché lei, che si ritiene un osservatore, non ha mai affrontato il discorso sulla contestazione giovanile, tenendo anche presente il fatto che lei cerca il lettore. Lei ai giovani non dice assolutamente niente come giornalista»] Come? [«Se c'è un pubblico che lei sta perdendo, e forse non ha mai avuto, è proprio quello dei giovani. Vorrei sapere come mai lei non ha mai affrontato il discorso sulla contestazione, sulla realtà giovanile che è esplosa in questi ultimi anni»] Signorina, io avrei tanto volentieri affrontato il discorso sulla contestazione se fosse possibile agganciare il discorso coi contestatori. Ma coi contestatori io non faccio il Moravia. No. Non vado a farmi spernacchiare dai giovani, mi dispiace tanto. Né dai giovani, né da nessun altro. [«Lei ha paura, scusi, di affrontare un discorso»] No, io non ho paura, ma non ammetto di essere accolto a quel modo. È proprio un fatto, così, di dignità. [«E allora, scusi, lei a questo punto rinuncia a un pubblico come può essere quello dei giovani semplicemente, così, per non avere degli spernacchiamenti, per non compromettere – diciamo – questo suo successo a cui è arrivato»] Ma scusi, ma che dialogo sono le pernacchie? Me lo vuole spiegare? (ibidem)
  • Certamente Mussolini fu un grossissimo politico, un uomo politico di grandissimo fiuto, di tempismo formidabile: lo dimostrò la facilità con cui vinse. Forse dovuta per metà alle sue capacità, alla sua bravura – parlo sempre come politico – e per metà all'insipienza, alla nullaggine dei suoi avversari, perché è tempo oramai di dire anche questo. Non c'è dubbio che il potere assoluto guastò completamente Mussolini: il Mussolini del 1930 non era certamente quello del 1940, il Mussolini di dieci anni dopo l'avvento al potere era diventato una specie di marionetta, la caricatura di sé stesso. Aveva perso proprio il senso della realtà, che era stato invece il suo forte da principio, il contatto col pubblico lo aveva perso, il senso della misura, e lo aveva dimostrato poi con gli errori madornali che ha fatto. Nei primi dieci anni credo che alcune cose buone le abbia fatte. Non credo che abbia ucciso la democrazia, credo che l'abbia soltanto seppellita perché era già morta. Da quel poco che ricordo l'Italia era un grosso carnevale, e anche abbastanza drammatico, perché la situazione interna era addirittura sfasciata: correva sangue, ne correva molto, noi in Toscana ne sapevamo qualcosa [...]. E quindi non è vero che lui... le democrazie non vengono mai uccise, le democrazie muoiono. Dopodiché si dà la colpa a chi le seppellisce, ma la verità è che si suicidano, e credo che la democrazia italiana del '21-22 si sia suicidata. [...] Mussolini capì una cosa fondamentale: che per piacere agli italiani bisognava dare a ciascuno di essi una piccola fetta di potere col diritto di abusarne. Questo era il fascismo. Il fascismo aveva creato una gerarchia talmente articolata e complessa che ognuno aveva dei galloni: il capofabbricato, il caposettore... tutti avevano una piccola fetta di potere, di cui naturalmente ognuno abusava, come è nel carattere degli italiani. (da Questo secolo, 18 maggio 1982)
  • Ero all'estero, lavoravo nel giornalismo americano, alla United Press. Chiesi alla mia agenzia di mandarmi come corrispondente in Abissinia. Giustamente mi dissero: «No, perché lei è un italiano, quindi logicamente non fa delle corrispondenze obiettive». Dico: «Avete ragione. Allora io vi lascio e vado volontario». Feci la mia brava domanda (la feci anche raccomandare). La domanda fu accolta, io fui mandato in Abissinia e, cosa un po' strana [...], a questo ragazzo di 23 anni [...] venne affidata una banda. [...] In quei due anni io contribuii a fare una cosa sbagliata, un'autentica fregnaccia qual era costruire un impero nel '35, quando coloro che lo avevano lo stavano già liquidando perché erano cose antistoriche. Ma io a 23 anni, a 24 anni, non potevo capire questo. Ebbi due anni di vita all'aria aperta, bella, di avventura, in cui credetti di essere un personaggio di Kipling, di contribuire a fare qualcosa di importante. Poi mi accorsi che non era vero, ma le cose non sono importanti per quello che sono, ma per quello che uno ci mette. E io in quel momento ci mettevo un grande entusiasmo: ebbi due anni di vita bellissima, a cavallo, con le tende, i miei uomini, libero, solo (perché non rispondevo a nessuno). Eh beh, compiango i giovani che non hanno avuto una simile esperienza. [«E anche con una giovane moglie»] E anche con una giovane moglie, [indicando una fotografia] eccola lì. Regolarmente sposata in quanto regolarmente comprata dal padre. [«Quanti anni aveva?»] Aveva 12 anni, ma non mi prendere per un Girolimoni. [«Per un bruto»] A 12 anni quelle lì erano già donne. [«E tu dove l'avevi comperata?»] L'avevo comprata a Saganèiti, un paese dove avevo mandato il mio emissario [...]. Me la comprò insieme a un cavallo e a un fucile, in tutto 500 lire. [«E lei com'era?»] Un animalino. Docile. Io le misi su un tucul con dei polli e poi, ogni 15 giorni, mi raggiungeva dovunque fossi, insieme alle mogli degli altri ascari. (ibidem)
  • Io esclusi immediatamente la responsabilità degli anarchici [dalla strage di piazza Fontana] per varie ragioni: prima di tutto, forse, per una specie di istinto, di intuizione, ma poi perché conosco gli anarchici. Gli anarchici non è che sono alieni dalla violenza, ma la usano in un altro modo: non sparano mai nel mucchio, non sparano mai nascondendo la mano. L'anarchico spara al bersaglio, in genere al bersaglio simbolico del potere, e di fronte. Assume sempre la responsabilità del suo gesto. Quindi, quell'infame attentato, evidentemente, non era di marca anarchica o anche se era di marca anarchica veniva da qualcuno che usurpava la qualifica di anarchico, ma che non apparteneva certamente alla vera categoria, che io ho conosciuto ben diversa e che credo sia ancora ben diversa. (da La notte della Repubblica, 12 dicembre 1989)
  • La Lega è una cosa sgradevole. Però le Leghe sono un fenomeno di reazione a una provocazione. È la politica nazionale, che fa nascere le Leghe. Questo non vuol dire che io le approvi. La reazione è sbagliata, ma provocazione c'è, le degenerazioni della partitocrazia ci sono. Che il pubblico denaro sia male amministrato e che a farne le spese siano soprattutto i cittadini del Nord non è contestabile. (da La Stampa, 7 novembre 1990)
  • Ah, quel maledetto Toni Negri, quel maledetto aizzatore dei sentimenti dei giovani che è vigliaccamente scappato dall'Italia per non affrontare il carcere. Per un Paese non c'è nulla di peggio che i cattivi maestri. Come punirli? Bisognerebbe impiccarli. Ripeto, impiccarli. (da L'Italia settimanale, 1995)
  • Fu una pulizia etnica, bisognava far fuori gli italiani: allora si chiamarono fascisti e si ammazzarono, e si buttarono nelle foibe. Questo avvenne dopo la fine della guerra, sia chiaro. Perché gli orrori di guerra, non dico che siano giustificabili, ma sono comprensibili, la guerra è di per sé stessa un orrore. No, queste... le foibe furono un'infamia commessa dopo la Liberazione, dopo la fine della guerra, e purtroppo vi hanno collaborato parecchi comunisti italiani, alcuni dei quali non solo sono ancora a piede libero, pur essendo vivi, ma ricevono delle pensioni di Stato. Ricevono delle pensioni di Stato. Però io ti posso dire questo: che come testimone oculare io ho visto anche in Croazia delle cose, da parte degli italiani, su cui è meglio sorvolare. Perché anche noi le abbiamo commesse, perché la guerra le comporta, questo è fatale, ecco. Quindi non facciamo tanto i moralisti. [...] No, questo [tesi sloveno-croata sulla pulizia etnico-culturale da parte degli italiani durante il periodo di occupazione fascista] è assolutamente falso. Pulizie etniche noi non ne abbiamo mai fatte, in nessun Paese occupato. Quando sento dire che noi facemmo anche la pulizia etnica in Etiopia, beh vabbè, mi cascano le braccia. Mi cascano le braccia. Quelle son menzogne infami, di gente o che non sa nulla, o che mente sapendo di mentire. Non è vero. Furono episodi, ma non di pulizia etnica, di rappresaglie. (dall'intervista al TG2, Massacri delle foibe, 6 settembre 1996)
  • Tutto questo mi evoca dei ricordi poco simpatici. Era il fascismo che si conduceva così. Era il Fascismo che proibiva la satira, che in un paese civile e democratico dovrebbe essere assolutamente indenne da controlli politici; perché la satira non ha niente a che fare con la politica, anche se prende in giro la politica, ma si sa che è satira. Ed ogni regime serio e democratico accetta la satira, come si accettano le caricature. Era Mussolini che non le sopportava. E qui pensano: «Ripuliremo la stalla», «Faremo piazza pulita». Ma questo linguaggio, al signor Fini, chi glielo ispira? Ci ricorda delle cose che avremmo voluto dimenticare. Questa non è la destra, questo è il manganello. Gli italiani non sanno andare a destra senza finire nel manganello. [...] Alla Rai faranno piazza pulita, lo hanno già annunziato. Ma come si fa a definire democratico un partito che annunzia «Quando saremo al potere, noi faremo piazza pulita»? Ma questo è un linguaggio del peggiore squadrismo, che loro non sanno cosa fu, ma io me lo ricordo. Questo è il linguaggio con cui [i fascisti] andarono al potere. (da La settimana di Montanelli, 17 marzo 2001)
  • Io voglio ringraziare Travaglio, perché ha detto l'assoluta e pura verità. Assolutamente. La versione che ha dato degli avvenimenti è quella esatta. [...] Io ho conosciuto due Berlusconi: il Berlusconi imprenditore privato che comprò il Giornale – e noi fummo felici di venderglielo, perché non sapevamo come andare avanti – su questo patto: tu, Berlusconi, sei il proprietario de il Giornale, io, direttore, sono il padrone del Giornale, nel senso che la linea politica dipende solo da me. Questo fu il patto fra noi due. Quando Berlusconi mi annunziò che si buttava in politica, io capii subito quello che stava per succedere. Cercai di dissuaderlo [...] ma tutto fu inutile. Dal momento in cui lo decise mi disse: «Ora il Giornale deve fare la politica della mia politica». Ed io gli dissi: «Non ci pensare nemmeno». Allora lui riunì la redazione come ha raccontato Travaglio – e questo lo fece a mia totale insaputa – e disse: «D'ora in poi il Giornale farà la politica della mia politica». E a quel momento me ne andai, cos'altro potevo fare? [...] Nella mia vita ci sono stati due Berlusconi, completamente opposti [...] questo fa parte del ritratto di Berlusconi. [...] Come capo politico è quello che io ho conosciuto in quei brutti giorni in cui scorrettamente, nella maniera più scorretta e più volgare, saltandomi, radunò la redazione de il Giornale per dirgli «Qui si cambia tutto» all'insaputa del direttore. Se questo sembra a Feltri un modo di procedere democratico e civile, è affar suo. (risposta telefonica a Marco Travaglio e Vittorio Feltri durante la trasmissione Il Raggio Verde, 23 marzo 2001)
  • [Silvio Berlusconi] È il bugiardo più sincero che ci sia, è il primo a credere alle proprie menzogne. [...] È questo che lo rende così pericoloso. Non ha nessun pudore. (dall'intervista di Sophie Gherardi, L'Europa deve trattare il sig. Berlusconi con sdegno e disprezzo, non con ostilità, Le Monde, 8 maggio 2001[50])
  • Spero che l'Europa adotterà nei confronti di Berlusconi l'atteggiamento di indignazione e di disprezzo che merita. (dall'intervista di Sophie Gherardi, L'Europa deve trattare il sig. Berlusconi con sdegno e disprezzo, non con ostilità, Le Monde, 8 maggio 2001[50])

Match

a cura di Arnaldo Bagnasco, Alberto Arbasino e Maria Gefter Cervi, Rete 2, 18 gennaio 1978.

  • Io non stavo con Longanesi per ragioni ideologiche, anche perché io non ho mai capito quale ideologia avesse Longanesi. Longanesi non lo si poteva misurare sul piano ideologico, era sempre contro tutto e contro tutti. Era il frondista principe: lo è stato sotto il fascismo – e in fondo fece il più bel settimanale, forse, che abbia avuto l'Italia in questi ultimi decenni, credo: Omnibus, che fu chiuso dal regime – e si è trovato sempre male con tutti i regimi. Che cosa pensasse in realtà Longanesi io, dopo un'amicizia di trent'anni, non sono mai riuscito a capirlo. Quello che mi affascinava di Longanesi, e che continua ancora oggi ad affascinarmi, è lo straordinario talento, l'inventiva, l'intuito, l'eleganza di Longanesi. Per cui io non consideravo le posizioni ideologiche di Longanesi, questo non m'interessava affatto. Per me era un fatto di vecchia amicizia: io sono un po' cresciuto con Longanesi, l'avrei seguito anche all'inferno perché con Longanesi si poteva andare anche all'inferno, diventava l'eden.
  • [Sull'appello di votare DC nel 1976] Questa può sembrare una contraddizione, ma che cosa avrei dovuto dire ai miei lettori? Di votare per chi? Questo è il punto. Oggi [...] i partiti laici ai quali io ideologicamente farei capo – liberale, repubblicano, socialdemocratico – fanno i pifferi di accompagnamento a un patto a sei, e questo era già nell'aria, prima del 20 giugno. Che cosa dovevo dire io ai miei lettori, «Votate per i pifferi di accompagnamento»? Francamente non me la sentivo. [...] Nonostante la mia etichetta di destra, io per i partiti di destra non mi schiererò mai. Io vorrei un centro: non lo trovo, non c'è. Un centro di opposizione democratica al regime che è già in atto non c'è. E allora che debbo fare? È colpa mia se la politica italiana non mi offre un centro? Io continuo a battermi per la costituzione di questo centro.
  • [Domanda del pubblico: «Come mai in Italia non ci sono giornali indipendenti?»] Io, per esempio, ho la presunzione – sarà infondata – di dirigere un giornale indipendente, perché vorrei sapere da chi prendo gli ordini. Me lo dica lei, Padre. [«No, beh...»] E allora, se non potete indicare qualcuno che mi dà gli ordini, io sono indipendente. [«Rispondo anch'io da giornalista: è chiaro che un giornale non si sostiene con le idee sull'indipendenza, si sostiene con dei quattrini»] Certo. [«Allora io parlavo di un'indipendenza che, in quanto dipende da chi paga, è comunque una dipendenza ideologica. Questa era la domanda»] Sì, l'ha scritto molto bene Repubblica [...] credendo di offendermi. Ha detto: «Il Giornale nuovo vive di collette». È vero, noi viviamo di collette, e io ne sono fiero perché le collette mi lasciano libero.

Mixer

a cura di Giovanni Minoli, Rete 2, 6 aprile 1981.

  • [«Perché fu fascista fino al '37?»] Questa è la storia della mia generazione, tutta la mia generazione è stata fascista fino al '35, al '36 o al '43.
  • [«E perché smise di esserlo?»] Perché noi credevamo che il fascismo fosse una cosa, e poi ci accorgemmo che era un'altra.
  • [«Lei ha detto: "Buffoni, cafoni di natura, parvenus, tutta gente in malafede, il bassettume, il pirellume, il cedernismo". Si riferiva alla Milano radical chic, ma che cosa voleva dire, esattamente?»] Quello che ho detto. Veramente, io ne ho il più profondo disprezzo. Io accetto benissimo i comunisti: i comunisti sono gente seria, pericolosissimi, ma seri. I radical chic no.
  • [«È sempre convinto del suicidio dell'anarchico Pinelli?»] Assolutamente.
  • [«Lei a Catanzaro, al processo per la strage di piazza Fontana, ha dichiarato: "Secondo me, il commissario Calabresi fu vittima di una campagna di stampa". Cioè?»] No, non l'ho dichiarato a Catanzaro, lo dissi molto prima. Basta rileggere i giornali di quei tempi, e soprattutto i rotocalchi: veramente, Calabresi fu vittima di una campagna stampa infame e ingiusta, perché era uno dei funzionari più corretti che ci fossero.
  • [«Pietro Valpreda, qui a Mixer, ha definito Calabresi come "un tecnocrate del potere". Lei che cosa ne pensa?»] Ma che significa «un tecnocrate del potere»? Un commissario di polizia serve il potere, chi diavolo deve servire? Valpreda?

Faccia a Faccia: intervista a Indro Montanelli

Mixer, a cura di Giovanni Minoli, Rai 2, 5 maggio 1985.

  • Curcio non sparava alle spalle, sparava di fronte, andava di persona a sparare. Naturalmente siamo su delle barricate opposte, ma io stimo Curcio. Lo stimo. È un uomo che secondo me ha delle idee sbagliate ma le serve, le serve da soldato vero. Con un suo galateo. Col suo coraggio. Senza mai rinnegarsi. Non si è pentito!
  • Io sono convinto che la magistratura debba essere indipendente, però chiedo ed esigo che abbia un autogoverno di controllo, e che soprattutto risponda dei suoi gesti. Oggi noi abbiamo una magistratura che non risponde a nessuno dei suoi errori spesso catastrofici, perché hanno distrutto uomini, hanno distrutto aziende per delle cose che poi si son rilevate insussistenti. Mai un magistrato ha pagato per questo. Io voglio che i magistrati paghino. Non dico a dei poteri esterni, ma perlomeno al potere a cui viene affidata la disciplina nella categoria.
  • Tutta l'intellighenzia italiana ha una vecchia tradizione di servilità, com'è logico, perché si è sviluppata in un Paese analfabeta, per secoli e secoli analfabeta. Non avendo il lettore doveva per forza procurarsi il protettore. Scriveva per il protettore.
  • [«Il suo peggior difetto qual è, Montanelli?»] Quello di non riconoscermene nessuno.
  • Longanesi, parlando di lei, un giorno disse che lei capiva le cose con dieci mesi di anticipo rispetto a tutti gli altri. Ecco, tra dieci mesi cosa vede in Italia?»] Queste erano le cose di Longanesi, ma in realtà io non riesco a vedere tra dieci giorni.

la Repubblica, 16 novembre 1991, p. 33.

  • Lui fu l'emblema di tutto quanto accadde in quegli anni [Anni della contestazione]. A differenza della Francia, eravamo un paese da burletta, con una contestazione da burletta e rivoluzionari da burletta. E Feltrinelli ne fu l'esponente più qualificato.
  • Era il 1940 e a quel tempo Giangi aveva quattordici anni e seguiva i corsi scolastici con pessimo profitto. Giangiacomo era un ragazzetto che voleva a tutti i costi cavalcare qualcosa di rivoluzionario. Non importava il colore. Tanto è vero che il suo sogno fu prima il fascismo e poi Che Guevara.
  • [«L'importante è stare in prima linea il fascismo?»] Ma sì, negli anni Quaranta lui era fascista. Era talmente fascista che nel 1943, dopo l'8 settembre, voleva denunciare sia me che Barzini per alcune cose che avevamo detto contro i fascisti. Allora pensava di aderire a Salò. La sua dedizione a una causa quale che sia, purché rivoluzionaria, lo spingeva a questi atti pazzeschi.
  • Generoso? Lo chieda ai suoi collaboratori. Era una specie di padrone delle ferriere che spendeva generosamente solo per soddisfare il suo vizio principale: la rivoluzione. Con chi era in difficoltà non si dimostrò mai particolarmente generoso.
  • [«Perché allora lei è così implacabilmente critico nei suoi riguardi?»] Non ce l'ho neppure tanto con lui, quanto con tutti coloro che di Feltrinelli hanno fatto un mito. In realtà era un povero uomo. Un ingenuo divorato dall'esibizionismo.
  • [«Come può ridurre tutto alla convinzione che fosse solo un ingenuo e un esibizionista?»] Anche Starace segnò un decennio della nostra vita. Mica per questo era meno cretino. Se Feltrinelli sia stato qualcosa di più complesso, io non riesco a vederlo. Posso aggiungere questo: quella sua mania di ostentazione, quella voglia di primeggiare su tutte le cose lo ha condotto anche a degli atti di eroismo. Perché uno che sale su un traliccio, con la dinamite che non sa maneggiare e salta per aria, beh almeno il coraggio gli va riconosciuto. O forse chiamiamola incoscienza.

La Stampa, 14 marzo 1992, p. 14.

  • [Il regime corrotto] C'è ancora. Ma la rivolta non era tanto contro la corruzione e la partitocrazia, che erano senza dubbio un grosso male, ma che non erano il male più letale. In quel momento era proprio la società che si disfaceva, le condizioni della scuola, la predicazione del nulla, insomma la contestazione globale, l'ubriacatura degli Anni Settanta, che fu l'ubriacatura del terrorismo, e quella acquiescenza di una certa borghesia, salottiera, radical chic, che amoreggiava con queste cose, che aveva le smanie maotsetunghiste, che poi parlavano tutti di cose che non sapevano. La corruzione dei partiti invece è quasi immanente. La partitocrazia è destinata a durare almeno finché non si riforma la legge elettorale. Ma questa è la battaglia che noi cerchiamo di fare oggi.
  • [«Ma gli Anni Settanta non hanno anche prodotto qualcosa di positivo nella società italiana?»] No. Non vedo fatti positivi nel lascito degli anni di piombo. Vorrei sapere veramente quali. Quando dicono per esempio il divorzio. Ma il divorzio c'era già prima. Quelle sono conquiste sociali. C'era bisogno dei pistoleros per il divorzio? Ma andiamo!
  • [«Però lei difendeva Pannella»] Sì. A Pannella dobbiamo veramente due cose, malgrado le sue mattane. Effettivamente riuscì a impedire a una certa aliquota di giovani di finire in braccio al terrorismo, cioè gli dette un'altra bandiera. E alcune battaglie sue furono sacrosante, come quella del divorzio che appoggiammo. Poi verso Pannella io ho una certa simpatia, dovuta al mio vecchio fondo anarchico, libertario, che ritrovo in lui. È una simpatia genetica. Ritrovo in lui quello che io sono stato a vent'anni.
  • [«Ma che fine ha fatto quella borghesia, che fine hanno fatto quei salotti buoni? Le sue battaglie contro la Crespi o contro la Cederna sono cosa Passata? Sono cambiati loro, oppure è cambiato lei?»] Vabbè, con la Camilla poi siamo ridiventati amici. Con la Crespi no, mai. Ma non ho più rancori, non ho più animosità. Però è un mondo che disprezzo un po', perché è un mondo di pecore che seguono sempre il filo del vento, santoiddio, sono proprio personcine, personcine inconsistenti, pronte ad andare con chiunque. E poi sempre per salvare i propri interessi, non è che abbiano delle idealità, no? Oggi è cambiato il vento, quindi sono cambiati anche loro. Ma non è che sia cambiato il mio giudizio. Quel mondo lì io non lo amo.
  • La crisi rimane e si riflette nell'amministrazione cittadina. L'amministrazione era sempre stata un autentico specchio. Fino a Bucalossi il Comune di Milano era retto da specchiati galantuomini, che finivano tutti poveri, in miseria, finivano alla Baggina. Gente davvero di una correttezza esemplare. Poi sono venuti gli Aniasi e compagni e guardi qui dove siamo arrivati: siamo arrivati a Chiesa.

Corriere della Sera, 6 giugno 1993, p. 3.

  • Mi sono dannato l'anima perché il centro avesse un suo candidato. Avrei voluto Locatelli: era la persona giusta per portare la bandiera referendaria e raccogliere gli elettori moderati. Era quello il mio sogno.
  • Segni non ha capito nulla, è arrivato in ritardo, ha candidato una persona che nessuno conosce. Non abbiamo un rappresentante del centro, ma tre surrogati che si elimineranno a vicenda. E ci toccherà scegliere fra Dalla Chiesa e Formentini.
  • [«Di qui il suo suggerimento: turarsi il naso e votare Lega»] No, non dico "Votiamo Lega", dico "Votiamo Formentini". E nel suo caso non ci si deve neppure turare il naso: è modesto, anche mediocre se vogliamo, ma è onesto. Non credo sia marcio. Insomma: è il male minore.
  • [«E Dalla Chiesa?»] No, il mio voto non lo avrà. Perché io non voto per la sinistra e per un sinistro come quello lì.
  • [«Ma che cosa la preoccupa nella coalizione di Dalla Chiesa?»] Questi reperti di un mondo fallito vogliono ora governare l'Italia. E io con loro non ci sto. La storia gli ha dato torto, la realtà li svergogna e noi dovremmo fidarci? È stata l'apertura a sinistra a dare inizio alla putredine.

Eppur si muove

a cura di Indro Montanelli e Beniamino Placido, Rai 3, 1994.

  • Ogni italiano è insieme furbo e fesso. L'italiano è furbissimo nella gestione dei suoi affari privati, può ricorrere a tutte le astuzie, è attento, è accorto, ed è assolutamente fesso nel non rendersi conto che se i suoi affari privati rimangono immessi in una società che non funziona – cioè dove gli interessi generali vengono trascurati e negletti – i suoi interessi privati finiscono col soffrirne e col condurlo al fallimento. Questo, a noi italiani, non entra in testa. (6 febbraio 1994)
  • È probabile che molti stranieri mandino i loro figli, a Roma, a scuola. Ma quali scuole? Alle loro. Gli americani mandano i loro figli alla scuola americana, i tedeschi alla scuola tedesca, i francesi alla scuola francese. Non li mandano mica alla scuola italiana, se ne guardano bene e hanno ragione, visto il modo in cui si insegna in Italia. (ibidem)
  • Da noi prima uscivano dei ragazzi che sapevano abbastanza di greco, di latino, ma che il carattere non lo avevano formato a scuola: o se lo formavano da soli, oppure non se lo formavano mai. (ibidem)
  • Lo zingaro che fa tranquillamente la sua vita non dà noia a nessuno, è quando ruba che, naturalmente, suscita qualche perplessità (uso un eufemismo). Diciamo la verità, in Italia il razzismo non c'è. Per inventare una questione razziale ci volle una legge, e una legge fatta da un regime totalitario perché il Paese non la sentiva. Non poteva sentirla perché non è nella nostra tradizione. [...] L'Italiano non ha dei risentimenti razziali. [...] [Sugli episodi di intolleranza e di paura per il diverso] È un fatto di piccolissime minoranze, diciamo la verità. Non inventiamo adesso una questione [razziale]. Io ho vissuto nelle società veramente razziste, è tutta un'altra faccenda. (con Serena Dandini, 20 marzo 1994)
  • Io ebbi una moglie etiopica, nel senso che la comprai secondo l'uso locale. [«Come, scusi?»] Eh beh, ma gli usi locali erano questi. Tutti, anche gli etiopici, compravano la moglie. [«Quanto costava una moglie?»] Poco. Costava poco, mi pare che mi costò – allora, però (anno 1935) – 500 lire e un tucul [trattando] col suocero. Perché queste furono transazioni fatte dal mio emissario, che era il più anziano graduato della mia banda, col padre della ragazza. [...] Questo matrimonio durò finché noi stemmo di stanza a Saganèiti, cioè a dire prima che scoppiasse la guerra con l'Abissinia (che non fu precisamente una guerra, fu una specie di avventura). [...] Poi questa mia moglie, perché era considerata tale, quando io partii sposò un mio graduato e al primo figlio – è vivo tuttora, mi hanno detto – diede il mio nome, per cui alcuni credettero che fosse figlio mio. Non era figlio mio. Soltanto che per deferenza... [«Lei non pensò mai di portarla con se in Italia?»] Beh, no. No, anche perché era molto difficile strapparla ai suoi costumi. Lei stessa, in fondo, non voleva venire. Lei apparteneva alla sua terra, io le feci una piccola dote e quindi andò tutto regolarmente. Era molto bellina. (ibidem)
  • Gran parte delle forze leghiste, quelle che accennano a qualche razzismo nei confronti del meridionale, sono composte da meridionali che si sono milanesizzati e ci si trovano talmente bene a Milano che non vogliono che altri arrivino dal sud. (ibidem)
  • Per me la destra non è una ideologia: è un modello di comportamento. Si può essere di destra anche a sinistra. Questo comportamento è il criterio rigoroso del servizio della vita pubblica. (con Arnoldo Foà, 17 aprile 1994)
  • Nella storia della nazione italiana io vedo pochi uomini all'altezza della qualifica di una destra illuminata che non solo accetta ma vuole le riforme. Un uomo di destra certamente io non credo che fosse Cavour, del resto il suo connubio lo dimostra, la sua disinvoltura nelle alleanze politiche lo dimostra. Certamente di destra era Ricasoli. Certamente era Sella. Certamente era Giolitti: uomo che dette il suffragio universale, e che riconobbe il diritto di sciopero. Questo è un uomo di destra. Certamente un uomo di destra era De Gasperi, senza dubbio. E, adesso non vorrei scandalizzare la gente, ma direi che uomo di destra per il concetto che aveva dello Stato e del potere era anche Togliatti. E questo dimostra che si può essere uomini di destra anche a sinistra. La destra è una regola di comportamento, una regola morale di comportamento. (ibidem)

Corriere della Sera, 9 novembre 1997, p. 29.

  • Quella mattina [2 giugno 1977] sono in due nei giardini di piazza Cavour, a Milano. Uno mi spara alle gambe. L'altro mi tiene nel mirino della sua pistola. I primi due – tre proiettili entrano nelle mie lunghe zampe di pollo. Non devastano né ossa né arterie. Ma sarebbero sufficienti per far cadere a terra qualsiasi cristiano. In quegli attimi ricordo la promessa che avevo fatto a Mussolini, e a me stesso, quando, bambino, mi ritrovai intruppato nei balilla: "Se devi morire, muori in piedi!" Davanti a questi vigliacchi che non hanno il coraggio di affrontarmi in faccia, penso, non posso morire in ginocchio. E mi aggrappo alla cancellata dei giardini. Non sto in piedi sulle gambe, ma mi reggo dritto con la forza delle braccia. E quello continua a sparare e a centrare le mie zampe di pollo. Se mi fossi accasciato, se mi fossi inginocchiato davanti a lui, a quell'ora sarei morto.
  • Per lui ho sempre avuto rispetto. Penso che la sua autoemarginazione dalla società prima e l'emarginazione che la società gli ha imposto poi ci abbiano privato di un uomo di valore. Non lo conosco di persona, ma lo stimo, anche se poteva essere lui quello che ha mandato i due ragazzi a spararmi. Non ho rancore: quando la guerra è finita gli avversari si devono stringere la mano e devono brindare alla pace ritrovata.
  • Apprezzo il coraggio di chi non si pente per ricavarne un utile, di chi non denuncia il compagno di errori ma riconosce i propri torti. Almeno i brigatisti lottavano per ideali diversi da quelli dello stalinismo e del comunismo sovietico. I terroristi neri, invece, volevano soltanto restaurare un regime sepolto dalla storia. I rossi non sapevano bene cosa ma avevano in mente qualcosa di nuovo.
  • [«E se avessero vinto loro?»] Impossibile. L'esistenza del terrorismo ha soltanto ribadito le manchevolezze del nostro Paese: uno Stato inefficiente e un popolo codardo e conformista.
  • [Sui burattinai, i Grandi Vecchi, la Cia, i Servizi segreti] Fregnacce: che gliene poteva importare alla Cia di fucilare gente come il buon Casalegno o quel galantuomo di Emilio Rossi, vent'anni fa direttore del Tg Uno, o quel bischero di Montanelli? La dietrologia era una divagazione di intellettuali perditempo. Il vero problema era ed è un altro: finché non ci decideremo a riconoscere la mancanza negli italiani di una coscienza nazionale e civile questo pericolo del terrorismo lo correremo sempre. E questa fabbrica di una coscienza nazionale e civile io non la vedo nascere.
  • [Sul dolore che il tempo non ha cancellato nei parenti delle vittime] Anche noi italiani dobbiamo imparare a pagare gli inevitabili tributi dovuti alla Storia come hanno saputo fare tutti i Paesi occidentali. Il dolore resta, ma la piaga va ricucita. Una volta per tutte.

la Repubblica, 25 luglio 1998, p. 8.

  • È la solita bruciante delusione, questa nostra borghesia. Non cambia mai, è sempre la stessa: la più vile di tutto l'Occidente. Gente portata a correr dietro a chi alza la voce, a chi minaccia, al primo manganello che passa per la strada. Questo sono i nostri borghesi: tutti fascisti sotto il fascismo, poi tutti antifascisti fin dall'indomani. Quando il comunismo era forte e faceva paura, e io fondai il Giornale, mi lasciarono solo e senza un soldo. Ai tempi del terrorismo, amoreggiavano con gli estremisti nella speranza che quelli – andati al potere – gli risparmiassero la villa e il portafoglio. E ora che il comunismo non c'è più, si scoprono tutti anticomunisti, questi sedicenti liberaloni.
  • Il loro eroe è sempre chi brandisce il manganello. Ieri, il manganello vero. Oggi, quello catodico delle televisioni. Il liberalismo vero l'hanno sempre tradito, anzi non hanno mai saputo che cosa sia. Non vogliono le regole, detestano le leggi, vogliono avere le mani libere per fare quello che gli pare, in nome della loro cosiddetta «efficienza». Quando abbiamo fondato la Voce l'abbiamo toccato con mano: parlare di regole e di legalità a questa gente è peggio di un insulto, una bestemmia in chiesa.
  • L'ho sempre detto che fu un errore, quattro anni fa, defenestrarlo. Bisognava lasciarlo lì ancora un bel po', così tutti avrebbero capito quanto vale, che razza di statista è... Magari adesso non saremmo in Europa, ma non avremmo così tante gente che si lascia ubriacare dalla sua propaganda, che prova nostalgia per lui.
  • [«E se un giorno si andasse a votare per il suo referendum, quello per abolire i reati del Cavaliere?»] In quella forma, mi pare difficile che si arrivi, anche se in Italia non si sa mai. Comunque, se si votasse, credo che anche lì vincerebbe lui. Perché è quello che vuole questa nostra borghesia. Ormai è ufficiale: Berlusconi ce lo meritiamo.

la Repubblica, 26 marzo 2001.

  • Io voglio che vinca, faccio voti e faccio fioretti alla Madonna perché lui vinca, in modo che gli italiani vedano chi è questo signore. Berlusconi è una malattia che si cura soltanto con il vaccino, con una bella iniezione di Berlusconi a Palazzo Chigi, Berlusconi anche al Quirinale, Berlusconi dove vuole, Berlusconi al Vaticano. Soltanto dopo saremo immuni. L'immunità che si ottiene col vaccino.
  • È strano: io non avevo mai preso parte alla campagna di demonizzazione: tutt'al più lo avevo definito un pagliaccio, un burattino. Però tutte queste storie su Berlusconi uomo della mafia mi lasciavano molto incerto. Adesso invece qualsiasi cosa è possibile: non per quello che succede a me, a me non succede nulla, non è che io rischi qualcosa, è chiaro. Quello che fa male è vedere questo berlusconismo in cui purtroppo è coinvolta l'Italia e anche tante persone perbene.
  • La scoperta che c'è un'Italia berlusconiana mi colpisce molto: è la peggiore delle Italie che io ho mai visto, e dire che di Italie brutte nella mia lunga vita ne ho viste moltissime. L'Italia della marcia su Roma, becera e violenta, animata però forse anche da belle speranze. L'Italia del 25 luglio, l'Italia dell'8 settembre, e anche l'Italia di piazzale Loreto, animata dalla voglia di vendetta. Però la volgarità, la bassezza di questa Italia qui non l'avevo vista né sentita mai. Il berlusconismo è veramente la feccia che risale il pozzo.

La Storia d'Italia di Indro Montanelli

a cura di Mario Cervi, interviste di Alain Elkann, Cecchi Gori Editoria Elettronica Home Video, 1999.

  • Il silenzio mantenuto finora [sui massacri delle foibe], o quasi silenzio, si spiega facilissimamente: tutta la storiografia italiana del dopoguerra era di sinistra, apparteneva all'intellighenzia di sinistra, la quale era completamente succuba del Partito Comunista. Quindi non si poteva parlare delle foibe, che non appartenevano al comunismo italiano, ma appartenevano certamente al comunismo slavo, di cui però il comunismo italiano era alleato e faceva gli interessi. Quindi di questo non si poteva parlare, e non si poteva parlare delle stragi del triangolo della morte, perché anche queste ricadevano sulla coscienza – ammesso che ce ne sia una – del Partito Comunista, il che sta a dimostrare quello che dicevo prima, cioè che la Resistenza non fu una resistenza, fu una guerra civile tra italiani che continuò anche dopo il 25 aprile. [...] [Sull'eccidio dei conti Manzoni] Andai come giornalista [...] per appurare com'era andata la strage dei conti Manzoni, dopo la fine della guerra. [...] Una famiglia di persone che col fascismo non aveva niente a che fare, ci aveva convissuto come tutti gli italiani. Bene, nessuno mi voleva parlare di questa faccenda. [...] Nessuno ne aveva parlato, né dei Carabinieri né della Polizia e tantomeno della magistratura, eppure lo sapevano. [...] C'era una complicità assoluta, una complicità dannata. [...] Se ne parla ora perché il Muro di Berlino è crollato, ma si ricordi che trent'anni fa, quando De Felice annunziò di mettere allo studio il ventennio fascista per sapere com'era andata, fu proposta la sua estromissione dalla cattedra universitaria, solo perché metteva allo studio un ventennio di storia italiana che, bella o brutta, c'era stata. [...] Non era possibile inquadrare storicamente il fascismo: chi lo faceva, cercando di spiegare i perché della sua durata, ed anche i perché della sua catastrofe, veniva accusato di fascismo. (da Dalla Monarchia alla Repubblica)
  • È difficile sapere che cosa fu Togliatti, perché Togliatti non ha lasciato memoriali, non ha lasciato diario, che cosa pensasse Togliatti non lo sapeva nessuno, credo nemmeno la sua compagna Nilde Iotti. Si può dire che è stato un esecutore fedele degli ordini di Stalin. Lo è stato sempre, e per questo godeva la fiducia di Stalin. [...] Era un diplomatico per sé, soprattutto, perché é un uomo sopravvissuto a venticinque o trent'anni anni di Mosca, senza finire in galera, processato o contro il muro. Beh, questo è uno dei grandi personaggi. Sono pochi. [«Non era uno statista, per esempio?»] Non poteva essere uno statista perché i comunisti non hanno lo Stato nel sangue, i comunisti hanno il partito. Stalin non è mai stato Capo dello Stato, e nemmeno Capo del Governo, era capo del partito. Il potere nei regimi comunisti non sta né nello Stato né nel governo, sta nel partito. (da Dalla proclamazione della Repubblica al Trattato di pace)
  • Questa Costituzione porta male gli anni da quando aveva un giorno, perché fu subito chiaro quali erano i suoi difetti. Del resto furono anche denunciati da uomini come, per esempio, Calamandrei, come Mario Paggi. (da Dall'assemblea costituente alla vigilia delle elezioni del 1948)
  • I difetti furono soprattutto due. Il primo difetto fu di ripartizione dei lavori. La Costituente era formata da 600 membri eletti di passaggio. Voglio [far] notare che quella fu la prima elezione che si tenne in Italia – per la Costituente, non per il Parlamento – ma dove ci fu lo spiegamento dei partiti. Ogni partito portò i suoi candidati, cioè dei giuristi che facevano capo alla propria ideologia. Bene, in quella prima elezione il 35% dei voti andò ai democristiani, il 21% andò ai socialisti di Nenni, il 19% ai comunisti. Quindi in quel momento... non c'era ancora il Fronte ma in quel momento i socialisti facevano premio sui comunisti. Erano di poco, ma un po' più forti dei comunisti. [...] Questi 600 costituenti non potevano lavorare tutti insieme, era impossibile mandare avanti 600 persone a dibattere all'infinto le stesse cose, e allora i lavori furono devoluti a una commissione che si chiamò la Commissione dei Settantacinque, perché erano 75 membri della Costituente che venivano incaricati per le loro competenze specifiche di redigere il testo. Ma anche 75 erano troppi, e allora anche i 75 si frazionarono in sotto-commissioni, ognuna delle quali lavorò per conto suo. Non ci fu un piano di insieme. [«Quindi non fu un vero lavoro collettivo»] Non fu un vero lavoro collettivo. Calamandrei lo disse subito: «Noi stiamo montando una macchina, che magari pezzo per pezzo sarà anche ben fatta, ma le cui giunture non coincidono con le giunture di altri pezzi». [...] Fu lasciata così perché nessuno volle rinunziare al proprio elaborato, e questo è tipico degli italiani. (da Dall'assemblea costituente alla vigilia delle elezioni del 1948)
  • Il secondo motivo che rese questa Costituzione veramente impalatabile e nociva per il regime che ne doveva nascere, fu che i nostri costituenti partirono dal punto di vista opposto a quello da cui sarebbero partiti i costituenti tedeschi quando la Germania fu libera di elaborare una sua Costituzione. Da che cosa partirono i costituenti tedeschi? Da questo ragionamento: il nazismo fu il frutto della Repubblica di Weimar. Cos'era la Repubblica di Weimar? Era l'impotenza del potere esecutivo, cioè del Governo. [...] La Germania rimase nel disordine, nel caos, nella Babele dei partiti che non riuscivano a trovare mai delle maggioranze stabili, quindi dei governi efficaci. Ecco perché Hitler vinse, perché il nazismo vinse. I costituenti nostri partirono dal presupposto contrario, cioè dissero: «Cos'era il fascismo? Il fascismo era il premio dato a un potere esecutivo che governava senza i partiti, senza controlli eccetera. Quindi noi dobbiamo esautorare completamente il potere esecutivo, [negando] la possibilità di dare ai governi una stabilità, eccetera». Per rifare che cosa? Weimar. Cioè, mentre i tedeschi partivano dalla negazione di Weimar, noi arrivavamo [a Weimar] senza dirlo. Nessuno lo disse, ma questo fu il risultato. [...] Non fu possibile nemmeno introdurre quella solita linea di sbarramento che invece fu introdotta in Germania, per cui i partiti che non raggiungevano non ricordo se il 5 o il 3%, non avevano diritto a una rappresentanza. No, tutti i partiti dovevano esserci e tutti avevano un potere di ricatto sulle maggioranze, che erano per forza di cose di coalizioni. (da Dall'assemblea costituente alla vigilia delle elezioni del 1948)
  • Gli italiani non imparano niente dalla Storia, anche perché non la sanno. [«Forse non amano la Storia»] Non la amano, non la leggono, non se ne interessano, ma questo anche le classi dirigenti: sono uguali, intendiamoci. [«Lei auspica che venga rifatta questa Costituzione»] Sì, ma che venga rifatta secondo criteri logici, non [secondo] criteri illogici. Tutte le volte che si diceva «Ma qui bisogna restituire un po' di autorità al potere esecutivo, bisogna mettere i governi in condizione di governare» si diceva: «Fascista! Fascista!». Con questo ricatto qui abbiamo fatto le più grosse scempiaggini che si potesse immaginare. (da Dall'assemblea costituente alla vigilia delle elezioni del 1948)
  • La fine di De Gasperi è la fine di un'epoca: con lui finisce un'epoca e ne comincia un'altra non certamente migliore. [...] C'è una bella pagina della figlia di De Gasperi, Maria Romana, che ha scritto un bel libro sul padre. Un libro tutto vero in cui racconta anche i funerali su in Val Sugana: c'era naturalmente tutta la nomenclatura democristiana che accompagnava la bara. Oramai De Gasperi era morto, si poteva anche fingere il compianto, e a un certo momento un passante che era lì – uno che guardava, che non aveva niente a che fare con la politica, con la Democrazia Cristiana eccetera eccetera – si avvicinò al feretro e scansando questi turiferari della DC disse: «No, non è vostro! De Gasperi è nostro! Era un italiano!». E aveva ragione. De Gasperi era nostro, non un democristiano. (da Gli anni di Alcide De Gasperi)
  • [Giovanni Gronchi] Era un uomo molto abile, brillante parlatore, molto abile anche negli affari. Era molto più libertino di Sforza, quindi la Democrazia Cristiana [...] era cambiata, evidentemente, e Gronchi fu eletto per una faida interna della Democrazia Cristiana, perché Fanfani voleva Merzagora. Allora per fare dispetto a Fanfani, invece gli buttarono fra i piedi Gronchi, il quale seppe benissimo tessere la sua trama fra Sinistra, Destra eccetera e far diventare gronchiani anche quelli degli altri partiti. Dicendosi agli uni uomo di Destra e agli altri uomo di Sinistra, facendo insomma il giuoco personale di Gronchi, con cui entrò in Quirinale il vero grande corruttore della vita politica italiana. [...] Dopo l'onestissimo Einaudi viene Gronchi, che è l'indulgenza plenaria verso tutte le deviazioni e i deviazionisti d'Italia. (da La rivolta in Ungheria e l'elezione di Giovannni XXIII)
  • Questa storia dell'MSI è una delle grandi truffe della Prima Repubblica: nella Costituzione c'è un articolo che proibisce la rinascita di un partito fascista. Ecco. Ora, l'MSI era chiaramente un partito fascista. Non lo negava, anzi si faceva gloria del fatto di essere l'erede eccetera. Perché lo avevano messo, allora? Lo avevano messo perché questo partito fascista, che avrebbe dovuto essere escluso dalla vita politica, serviva a captare un certo numero di voti che, senza questo partito, sarebbero andati a dei partiti moderati di Centro e soprattutto, forse, alla Democrazia Cristiana. Quindi quale fu il gioco delle Sinistre, a cui la Democrazia Cristiana però si piegò e si rassegnò: è consentito di esistere all'MSI, però l'MSI quando è in Parlamento è escluso dal gioco parlamentare. Così si mettevano i voti dell'MSI in frigidaire, e così non andavano alla Democrazia Cristiana e ai partiti [di Centro]. È una delle peggiori truffe che è stata inventata dalla classe politica che ci ha governato per cinquant'anni. (da I successori di De Gasperi e la politica italiana fino alla morte di Togliatti)
  • Io vorrei sapere quali furono le crescite... di civiltà che il Sessantotto pretende di averci lasciato. Io vedo tutt'altra cosa: io vidi nascere, dal Sessantotto, una bella torma di analfabeti che poi invasero la vita pubblica italiana, e anche quella privata, portando dovunque i segni della propria ignoranza. Io ho visto questo. Può darsi che sia affetto da sordità o da cecità ma io non ho visto altro, come frutti del Sessantotto. (da Il Sessantotto e la politica di Berlinguer)
  • [La differenza tra il Sessantotto francese e quello italiano è] La differenza che passa fra l'originale e il fac simile perché il Sessantotto nacque in Francia e in Italia fu un fatto di riporto, di imitazione. [«Che vi fu in tutto il mondo, però, questo»] Un po' in tutto il mondo ma particolarmente in Italia dove non nasce mai niente, è sempre qualcosa di imitato dagli altri. Bene o male, insomma, i francesi ebbero... anche una certa cultura del Sessantotto, ebbero Sartre. Oddio, Sartre rivisto con gli occhi di oggi naturalmente scende molto dal suo mitico piedestallo. [...] In Italia non ci fu neanche un Sartre. (da Il Sessantotto e la politica di Berlinguer)
  • Credo che su Pasolini si sia preso un grosso abbaglio: Pasolini è passato per uno scrittore di sinistra perché aveva preso come sfondo dei suoi racconti – bellissimi del resto – il sottoproletariato delle borgate romane, i ragazzi di vita, insomma, la schiuma della società. Ma lo aveva fatto per dei gusti e dei motivi del tutto personali sui quali è inutile tornare a far commenti. Questo lo aveva fatto considerare come uno scrittore, un difensore del proletariato, ma non era una scelta politica quella che aveva fatto Pasolini. Non c'entrava niente, assolutamente nulla. Quindi quello che lui disse era assolutamente vero, cioè dire che nei tafferugli, dove spesso ci scappava il morto, tra quei dilettanti delle barricate che erano [dei borghesi], i veri proletari erano i poliziotti, tutti figli di famiglie povere, eccetera eccetera. I dilettanti delle barricate erano tutti o quasi tutti figli di papà: aveva ragione Pasolini! Ma come no! E questo fu considerato un tradimento all'ideologia di sinistra. (da Il Sessantotto e la politica di Berlinguer)
  • Il primo fenomeno fu il Sessantotto, e il Sessantotto partorì poi il terrorismo, il brigatismo rosso eccetera eccetera. Su questo non ci son dubbi, insomma. Dirò di più: i più seri, e forse gli unici seri, furono quelli che poi diventarono dei terroristi e che quindi rischiarono la loro vita, almeno. Gli altri erano quello che diceva Pasolini, dei figli di papà. (da Il Sessantotto e la politica di Berlinguer)
  • [La figura del Grande Vecchio] È una di quelle fandonie, di quelle stupidaggini che piacciono tanto a noi italiani: l'idea di un Grande Vecchio che organizzasse tutte queste stragi, attentati eccetera eccetera. È un affare da Simenon di borgata insomma – no? Piaceva l'idea che ci fosse dietro tutta una strategia. Sennonché poi non si sapeva chi fosse il Grande Vecchio. [«Aveva un volto questo grande vecchio?»] Ne ha avuti molti: naturalmente Andreotti – quello non manca mai, quando si cerca un deus ex macchina di tutto ciò che di più criminale è avvenuto in questo Paese [c'è] Andreotti. [«Però in quel momento non era tanto vecchio»] In quel momento non era tanto vecchio, ma il Grande Vecchio non ha nulla di anagrafico, è il Grande Vecchio così – poi Gelli, poi Sindona. Ha avuto varie raffigurazioni che sono tutte di fantasia. (da Piazza Fontana e dintorni)
  • Se c'era un funzionario corretto, che veniva portato come esempio da tutti i suoi colleghi, era Calabresi. Per quale motivo si scatenò questa campagna contro di lui non lo so. È vero che aveva interrogato Pinelli, ma gli interrogatori di Calabresi facevano testo per la loro correttezza. Sempre. [...] Non so per quale motivo, a un certo momento, la stampa s'incendiò e cominciò ad additare Calabresi come «il bruto», come «lo scherano del potere sopraffattore e assassino». Questo si lesse in vari giornali. Ora, il potere sopraffattore assassino in quel momento era rappresentato da Rumor e da Colombo: mi dica lei se hanno il viso dei sopraffattori assassini. Magari lo fossero stati un po', ma immaginiamoci. E questa campagna fu implacabile, assolutamente implacabile. (da Piazza Fontana e dintorni)
  • Come in tutti i processi italiani anche questi, che poi volevano arrivare all'identificazione dei responsabili e non ci arrivarono quasi mai, erano dominati dal cosiddetto «teorema»: si partiva dal presupposto... a un certo momento si mise di parlare degli anarchici – si smise quasi subito di parlare [degli anarchici] – e tutte le lampadine furono rivolte ai partiti e alle forze di Destra. Erano quelle le forze stragiste. [...] I nostri bravi giudici, salvo alcuni, partivano dal presupposto che [i colpevoli] certamente venivano di lì, venivano dalle Destre, dalle Destre più violente. Alle quali si attribuiva, sempre per «teorema», questa idea: creare una tensione nel Paese in modo da impaurire gli italiani e metterli alla scelta «o la libertà o l'ordine», perché insieme non potevano andare. Nella libertà era chiaro che non si poteva mantenere l'ordine, e loro dicevano: «Qualunque popolo messo a questa scelta sceglie l'ordine». Ecco. È un teorema. È un teorema che ha sempre cercato dimostrazione e non l'ha trovata mai. (da Piazza Fontana e dintorni)
  • Craxi era un uomo di partito certamente molto accorto, era un uomo valido di governo perché sapeva decidere. Che cosa fosse lo Stato, da buon socialista, non lo sapeva. (da Il terrorismo fino al sequestro e all'uccisione di Aldo Moro)
  • Quelle lettere erano tutte farina del sacco di Moro, e questa farina non è molto encomiabile perché, vede, tutti gli uomini hanno diritto ad avere paura. Tutti. Però quando un uomo sceglie la politica, e nella politica emerge a uomo di Stato – a uomo rappresentativo dello Stato – non perde il diritto a avere paura, ma perde il diritto a mostrarla. Questo sì. Questo è uno dei principi che dovrebbe essere affermato. L'incidente, tipo quello di Moro, fa parte del mestiere. Chi affronta quel mestiere deve sapere che può incorrere in quell'incidente e deve avere i nervi, e diciamo gli altri attributi, per resistere. Moro era lo Stato. Lo Stato si raccomandava, implorava, minacciava la classe politica che facesse di tutto, anche che si prostituisse, per salvargli la vita: eh, no. No. Moro era certamente un politico a modo suo, estremamente abile – era anche un galantuomo, credo – ma uomo di Stato non era nemmeno lui. [...] Anch'io mi sono posto questa domanda molto spesso: «Ma se Moro fosse tornato in politica dopo aver costretto lo Stato a prostituirsi, a inginocchiarsi di fronte ai terroristi, avrebbe potuto restarci?». Avrebbe potuto restare? Con che faccia? Vabbè che siamo in Italia. [«Forse lo Stato sarebbe stato un altro perché i terroristi avrebbero vinto»] Appunto. I terroristi avrebbero vinto. Quindi lui che cosa diventava, il braccio politico del terrorismo? Che cosa diventava? Come poteva ripresentarsi? Va bene, gli italiani hanno lo stomaco forte, inghiottono tutto – noi italiani abbiamo lo stomaco forte e inghiottiamo tutto – ma, insomma, di fronte a un uomo la cui vita, la cui sopravvivenza, aveva avuto quel prezzo per noi non credo che avrebbe potuto ripresentarsi all'opinione pubblica italiana. (da Il terrorismo fino al sequestro e all'uccisione di Aldo Moro)
  • Noi naturalmente abbiamo il dovere di ringraziare Gorbačëv per quello che ha fatto, però se lei mi chiede se lo ha fatto bene o lo ha fatto male io debbo rispondere che lo ha fatto malissimo. Io non so se lui... che lui volesse salvare la Patria sovietica questo non lo metto in dubbio. Che lui volesse salvare il comunismo... io debbo risponderle di no, perché quello che lui ha fatto per affossare il comunismo lo ha fatto. (da Giovanni Paolo II e la fine dell'URSS)
  • Anche i cinesi si erano accorti che il sistema comunista era arrivato al capolinea, era fallito. Fallito perché non regge, assolutamente non regge. [Il sistema comunista] Aveva portato il Paese, e i Paesi che lo avevano adottato, al fallimento. Anche i cinesi si erano accorti di questo, però avevano capito che per trasformare un sistema oramai ancestralmente totalitario, statalizzato, che aveva tolto ogni libertà a tutti, che aveva disabituato tutti da ogni spirito di iniziativa e di impresa... per trasformare un'economia basata su questi principi fallimentari in un'economia capitalista basata sul libero mercato, sulla libera concorrenza eccetera, bisognava tenere in mano il potere politico per controllare questo passaggio. I cinesi lo fecero. Quando gli studenti di Pechino credettero di potergli [al governo cinese] prendere la mano scendendo in piazza Tienanmen i cinesi non esitarono a mitragliarli e, per quanto un massacro non possa che essere esecrato, io dico questo: i cinesi erano obbligati a farlo. Se non lo facevano la Cina si dissolveva, ritornava quella di Chiang Kai-shek: ritornava quella dei signori della guerra, cioè il Paese si disfaceva. Il Paese che bene o male Mao Tse-tung aveva unificato e a cui aveva dato un'anima di Nazione si sarebbe disfatto. (da Giovanni Paolo II e la fine dell'URSS)
  • [Su Licio Gelli] L'avevo visto una volta e questo [...] rendeva ancora più grande la mia sorpresa. Io avevo un giornale, il Giornale, che non aveva patroni, non aveva pubblicità, che quindi aveva delle grosse difficoltà di tirare avanti. La proprietà era divisa fra me e una trentina di altri redattori, e non avevamo niente in mano. Io non trovavo una banca che mi facesse un fido, non trovavo una società pubblicitaria che mi garantisse un minimo decente delle cose [...]. A un certo momento il capo del nostro ufficio romano, Trionfera – che era massone, ma non P2 – mi disse «Senti, vieni a Roma perché so che c'è un signore che sta diventando il padrone della stampa italiana». Dico «Come? Il padrone della stampa italiana?» «Sì, c'è un signore che, a quanto pare, ha assunto un potere straordinario nel mondo dell’editoria e forse lui può anche aiutarci». [...] Andai a Roma e allora [Renzo Trionfera] mi disse che lui aveva appuntamento con questo signor Gelli, di cui io sentivo il nome per la prima volta [...], però dovevamo andarci quasi di nascosto. [...] Andammo [...] e così vidi Gelli per la prima e unica volta. Gli esposi la situazione e lui mi disse: «Ma questi sono dettagli, queste sono piccolezze, non sono problemi gravi perché qui, oramai, bisogna procedere a ben altro. Bisogna chiamare a raccolta tutta questa stampa italiana che è litigiosa, che è settaria. Bisogna darle un indirizzo unico». Allora io lì lo fermai. Dissi: «Come fa a darle un indirizzo unico? La stampa segue criteri diversi, i giornalisti...». «Macché giornalisti – disse lui – qui ci vuole un padrone della stampa!». Dico «Ma non esiste un padrone della stampa, a meno che non rifacciamo il Minculpop fascista, allora c'era un padrone perché c'era un regime che faceva il padrone». [Licio Gelli] Dice «Basta comprare la proprietà dei giornali». Dissi «Ma scusi, ci sono degli editori che non vendono» [...] «Questione di prezzo». Il discorso andò avanti su questi binari, quando uscimmo io dissi a Trionfera: «Senti, ma questo qui è il più grosso farabolano con cui abbiamo avuto a che fare, uno che si immagina di comprare tutta la stampa e di ridurla ai suoi ordini, va be', o è un matto, o è un matto, oppure è proprio un piazzista, un fregnacciaro qualsiasi insomma». Questo fu l'unico incontro. [...] Uno che faceva questi discorsi naturalmente mi sembrava inutile continuare a frequentarlo. Di lì a poco venne fuori la lista degli iscritti alla P2 e venne fuori l'identificazione di Gelli col Grande Vecchio, col famoso Grande Vecchio. [«Finalmente si era trovato»] Finalmente si era trovato il Grande Vecchio autore di tutte le stragi, le cose..., [«Il vero Grande Vecchio»] il bieco Grande Vecchio. Naturalmente non credetti nemmeno a questo. (da Il caso Sindona e la P2)
  • Per istinto, e per come avevo visto e conosciuto Gelli, io sono convinto che [la Loggia P2] era una cricca di affaristi e basta. Era una cricca di affaristi condotta da un uomo che, evidentemente, come intrallazzatore doveva essere geniale. Era un pataccaro, indiscutibilmente era un pataccaro, ma che a tutto pensava fuorché a un golpe. Non ci pensava nemmeno. Lui procurava affari e soprattutto fomentava carriere. Lui aveva capito qual è la struttura del potere in Italia, sempre, non soltanto allora, sempre: è una struttura mafiosa. Bisogna far parte di una cricca, di una conventicola in cui ognuno aiuta l'altro, e questo era la P2. [...] Ma che interesse poteva avere Gelli a rovesciare un sistema che gli consentiva di influire sino a quel punto? Quale interesse poteva avere? E poi, Gelli era un farabolano ma non doveva essere del tutto sprovveduto, doveva sapere che l'Italia non è terra da golpe. Ma chi lo fa il golpe? E anche se qualcuno lo fa, come fa a resistere? Che cos'ha dalla sua per fare il golpe? Non ho mai creduto al golpismo di Gelli. (da Il caso Sindona e la P2)
  • Il caso Chiesa era un caso modestissimo. Fece da detonatore perché il momento era maturo per arrivare a Tangentopoli, che era dovuto a una cosa molto più complessa che era questa: che ci fosse la corruzione in Italia si è sempre saputo, la classe dominante promanava questo puzzo di fogna che tutti sentivano, il famoso «turarsi il naso». Soltanto che fin quando l'alternativa di questa classe politica allora al potere era un Partito comunista, che era un fac-simile di quello sovietico, basato sui carri armati, sulla polizia segreta, sulle delazioni, sui processi, [...] finché c'era questo spettro noi non potevamo prenderci il lusso di mettere sotto processo e mandare in galera la classe politica dirigente allora. Fu quando, col Muro di Berlino, crollò questo incubo che i tempi furono maturi perché questo avvenisse. (da Tangentopoli)
  • Che [la corruzione] sia inestirpabile, di questo sono sicuro perché dura da 2000 anni. La corruzione non è soltanto nella politica: è nella società italiana! Noi italiani abbiamo sempre corrotto tutti! Tutti coloro che sono venuti in Italia a fare i padroni li abbiamo corrotti. [...] Noi dobbiamo metterci in testa che la lotta alla corruzione la si fa in un modo solo: cambiando gli italiani, non cambiando le classi politiche. Le classi politiche, anche quelle nuove, si corrompono. È inevitabile. (da Tangentopoli)
  • Berlusconi ha un sacco di qualità. C'è da dire, ha una grande immaginazione, una grande fantasia; ha un coraggio leonino nel buttarsi nelle imprese; sa trascinare molto bene; è un comunicatore eccezionale, sa accendere i suoi seguaci di entusiasmi eccetera eccetera, mi ricordo che una volta gli dissi: «Io sono sicuro che se tu ti mettessi a fabbricare dei vasi da notte, faresti venire la voglia di fare pipì a tutta l'Italia». (da Verso il bipolarismo)
  • Lui è un uomo d'attacco: se avesse fatto la carriera militare lui non sarebbe diventato né un Rundstedt né un Manstein, che furono i grandi strateghi tedeschi dell'ultima guerra. [...] Lui sarebbe diventato un Rommel o un Patton. Cioè dire: è un generale di straccio e di rottura che, appunto, sullo slancio può compiere qualsiasi cosa. Se lo metti poi a difendere le posizioni conquistate con lo slancio, eh no, lì non ci sta. Come Rommel: Rommel finché poté attaccare in Libia e in Egitto attaccò. Quando dovette mettersi sulla difensiva chiese il rimpatrio. [...] Non sarebbe uomo di Curia e non è un uomo di pazienza, non è un uomo da guerra di posizione e di logoramento. (da Verso il bipolarismo)
  • Lui Arrivò a Palazzo Chigi credendo, e facendo credere, che uno Stato si poteva condurre con gli stessi criteri di un'azienda privata. Io su questo avevo avuto serie discussioni con lui – non litigi, non ho mai litigato con Berlusconi – gli avevo detto: «Guarda che lo Stato non è un'azienda privata». [...] Lui credeva di potersi comportare a Palazzo Chigi, e con la macchina dello Stato, come si comportava con la sua organizzazione, dove la gente frullava e, se non frullava, lui la cacciava via, com'è giusto che faccia un imprenditore. Ma lui non poteva applicare questi metodi e sistemi allo Stato. Quando si trovò di fronte alla muraglia grigia, sorda e ottusa della burocrazia italiana, che è la peggiore, ma anche la più resistente del mondo, lui rimase senz'armi: non poteva licenziare neanche un usciere. Nel gioco parlamentare lui naufraga perché non è abituato a queste cose. La politica – non dico che sia solo un mestiere – ma è anche un mestiere. Questo mestiere lui non lo aveva. (da Verso il bipolarismo)
  • Che gli italiani siano capaci di emanare leggi di riforma, ci credo senz'altro. L'Italia è la più grande produttrice di regole, ognuna delle quali è una riforma, è la riforma di un'altra regola. Gli stessi esperti pare che abbiano perso il conteggio delle leggi, dei regolamenti che vigono in Italia: c'è qualcuno che parla di 200.000, altri di 250.000. Ora, quando si pensa che la Germania ha in tutto 5.000 leggi, la Francia pare 7.000, l'Inghilterra nessuna, quasi nessuna – ha dei principi, così stabiliti. A cosa ha portato tutta questa proliferazione? A riempire gli scantinati dei nostri pubblici uffici, dove ci sono questi mucchi di legge che nessuno va nemmeno a consultare perché ognuna di queste leggi poi offre il modo di evaderle. Questa è la grande abilità dei legislatori italiani. I legislatori italiani sono quasi tutti degli avvocati. E gli avvocati a che cosa pensano? A ingarbugliare le leggi in modo da restarne loro i supremi e unici depositari. [...] Riforme: hai voglia se ne faremo, continuiamo a farne, è la nostra vocazione, questa. Quanto poi all'attuazione, allora è un altro discorso: le leggi in Italia non vengono osservate, anche perché sono formulate in modo che si possano non osservare. Ed è questo che spiega l'abbondanza, la prodigalità delle nostre classi politiche, delle nostre classi dirigenti, nello sfornarne di continuo. (da Dal Governo Dini all'Ulivo)
  • Un Paese che ignora il proprio Ieri, di cui non sa assolutamente nulla e non si cura di sapere nulla, non può avere un Domani. Io mi ricordo una definizione dell'Italia che mi dette in tempi lontanissimi un mio maestro e anche benefattore, che fu un grande giornalista, Ugo Ojetti, il quale mi disse: «Ma tu non hai ancora capito che l'Italia è un Paese di contemporanei, senza antenati né posteri perché senza memoria». Io avevo 25-26 anni e la presi per una boutade, per una battuta, un paradosso. Mi sono accorto che aveva assolutamente ragione. Questo è un Paese che [«È un Paese che non ama la Storia»] ha una storia straordinaria, [«Ma non la ama»] ma non la studia, non la sa. È un Paese assolutamente ignaro di se stesso. Se tu mi dici cosa sarà un domani per gli italiani, forse sarà un domani brillantissimo. Per gli italiani, non per l'Italia. Perché gli italiani sono i meglio qualificati a entrare in un calderone multinazionale perché non hanno resistenze nazionali. Intanto hanno dei mestieri in cui sono insuperabili. [...] Voglio dirlo senza intonazioni spregiative, nei mestieri servili noi siamo imbattibili, assolutamente imbattibili. Ma non lo siamo soltanto in quelli. L'individualità italiana si può benissimo affermare in tutti i campi, anche scientifici. Io sono sicuro che gli scienziati italiani, i medici italiani, gli specialisti italiani, i chimici, i fisici italiani quando avranno a disposizione dei gabinetti europei veramente attrezzati brilleranno. Gli italiani, l'Italia no. L'Italia non ci sarà, non c'è. Perché gli italiani che vanno in Germania diventeranno tedeschi. [...] Alla seconda generazione sono assimilati. Dovunque vadano, sono assimilati. [«Ma questo è un difetto?»] No... è un difetto... è un difetto ed è anche una virtù. È una qualità. Voglio dire: per l'Italia non vedo un futuro, per gli italiani ne vedo uno brillante. (da Dal Governo Dini all'Ulivo)

Citazioni tratte dai giornali

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Corriere della Sera

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  • Gli eroi sono sempre immortali, agli occhi di chi in essi crede. E così crederanno, i ragazzi, che il «Torino» non è morto: è soltanto «in trasferta». (7 maggio 1949)
  • [A proposito di Maratea] Forse in Italia non c'è paesaggio e panorama più superbi. Immaginate decine e decine di chilometri di scogliera frastagliata di grotte, faraglioni, strapiombi e morbide spiagge davanti al più spettacoloso dei mari, ora spalancato e aperto, ora chiuso in rade piccole come darsene. (4 ottobre 1957)
  • [Su La dolce vita] Ma non c'è dubbio che qui ci si trova di fronte a qualcosa di eccezione (sic!) non perché rappresenti un meglio o un di più di ciò che finora si è fatto sullo schermo, ma perché ne va nettamente al di là, violando tutte le regole e convenzioni, a cominciare da quelle della durata, che supera le tre ore di spettacolo, per finire a quelle della trama, o meglio della non trama, perché non c'è. (Montanelli vede La Dolce Vita, 22 gennaio 1960)
  • [Su La dolce vita] Non siamo più nel cinematografo, qui. Siamo nel grande affresco. Fellini secondo me non vi tocca vette meno alte di quelle che Goya toccò in pittura, come potenza di requisitoria contro la sua e la nostra società. (ibidem)
  • Il suo reportage non è una "patacca". Il poco – oh, molto poco! – che vi luce è proprio oro. E il molto che vi puzza è proprio fogna. Del resto, se così non fosse, il film sarebbe fallito come falliscono i reportages quando eludono la verità o non riescono a centrarla. Quindi, amici, vi prevengo se domani La dolce vita vi farà inorridire, non confutàtela dicendo: "Non è vero". Perché per esser vero, tutto ciò che qui è raccontato, lo è. D'altronde Fellini è ricorso al mezzo più spicciativo (e più diabolico) per dimostrarlo. (ibidem)
  • Ma mi affretto subito ad aggiungere che La dolce vita non è una polemica a sfondo giustizialista, che appunta i suoi strali sulle cosiddette classi alte. Non convincerebbe, in questo caso, o convincerebbe meno. Gli altri ambienti, che si srotolano giù giù negli appunti di questo reporter d'eccezione, sono descritti con la identica spietatezza, convalidata dalla stessa tecnica di rappresentare ciascuno nei propri panni. Lasciatemi testimoniare in tutta onestà che raramente ho visto qualcosa di più vero di quel salotto intellettuale. Esso ha dato perfino a me, che non ne frequento nessuno, un senso profondo di mortificazione, un vago anelito a cambiar mestiere e a iscrivermi, fo' per dire, ai coltivatori diretti. (ibidem)
  • Non è necessario essere socialisti per amare e stimare Pertini. Qualunque cosa egli dica o faccia, odora di pulizia, di lealtà e di sincerità. (27 ottobre 1963)
  • Che i profughi palestinesi siano delle povere vittime, non c'è dubbio. Ma lo sono degli Stati arabi, non d'Israele. Quanto ai loro diritti sulla casa dei padri, non ne hanno nessuno perché i loro padri erano dei senzatetto. Il tetto apparteneva solo a una piccola categoria di sceicchi, che se lo vendettero allegramente e di loro propria scelta. Oggi, ubriacato da una propaganda di stampo razzista e nazionalsocialista, lo sciagurato fedain scarica su Israele l'odio che dovrebbe rivolgere contro coloro che lo mandarono allo sbaraglio. E il suo pietoso caso, in un modo o nell'altro, bisognerà pure risolverlo. Ma non ci si venga a dire che i responsabili di questa sua miseranda condizione sono gli «usurpatori» ebrei. Questo è storicamente, politicamente e giuridicamente falso. (16 settembre 1972)
  • Se si mettono a raffronto i due rivali come faccia, come presenza, come eloquio, come cordialità, insomma come simpatia umana, non c'è dubbio che Albertini ne ispira molto meno di Fumagalli, anzi diciamo la verità tutta intera: non ne ispira punta. Ed io, cittadino ed elettore milanese, proprio di questo sentivo il bisogno: di un sindaco antipatico, di faccia arcigna e poco invogliante alla pacca sulla spalla, al confidenziale «tu» e al pappecciccia coi sottoposti, e poco, anzi punto disponibile a quelle benevolenze, condiscendenze e indulgenze che rappresentano le supposte di glicerina di tutte le corruzioni. [...] Con Albertini ho parlato una sola volta. Ma mi è bastata per capire che, per rendersi antipatico, non ha bisogno di fare sforzi. Basta che si mostri com'è e come spero che rimanga: una specie di Molotov di Palazzo Marino, chiuso nei suoi caparbi niet, diffidente, scostante e culdipietra. Che abbia una compagna fermamente decisa a non partecipare alla vita pubblica del compagno, anche questo ci va bene. [...] Si ricordi, signor Sindaco, che noi abbiamo votato per lei, non per questi papponi. (da Sì, ho tradito l'Ulivo, 13 maggio 1997, p. 1)
  • Non vorremmo, dopo averne deplorato il brutto vezzo, contribuire alle polemiche nel momento in cui bisogna invece accantonarle per fare compatto fronte per il salvataggio del salvabile. Ma basta con le «regole» che servono soltanto a rendere impenetrabili le responsabilità dei disastri quando i disastri si possono ricondurre a delle responsabilità umane (come non accade, per esempio, nei terremoti). Ma quando verrà l'ora della ricostruzione, ricordiamoci che l'urbanistica e il paesaggio italiani hanno bisogno non di altre, ma di meno «regole». E, più che di cemento, di dinamite. (da Le licenze facili e le leggi oscure, 9 maggio 1998, p. 1)
  • Qualche dichiarazione meno infuocata contro la Giustizia di regime, come il Cavaliere si ostina a definirla, avrebbe meglio aiutato la politica italiana a rimuovere il macigno che la paralizza, e che è lui, Berlusconi. (da E il resto sia silenzio, 14 luglio 1998, p. 1)
  • L'Italia sarà anche, come dicono i nostri tromboni universitari, «la culla del diritto». Ma è anche il sepolcro di una giustizia che, per decidere se un imputato è innocente o colpevole, aspetta il suo certificato di morte che la esenta dal dirlo. Il secondo problema è il reclutamento e la selezione del personale. Come in tutte le altre pubbliche attività, anche nella giustizia c'è un dieci per cento di autentici eroi pronti a sacrificarle carriera e vita, ma senza voce in un coro di «gaglioffi» che c'è da ringraziare Dio quando sono mossi soltanto da smania di protagonismo. (da Il Cardinale e il Magistrato, 24 agosto 1998, p. 1)
  • Tutto si è risolto in un colpo solo, non si sa con precisione quando e come combinato, che ha tagliato la strada alla bagarre prima che cominciasse. E che, per quanto mi riguarda, mi ha liberato dall'incubo che turbava i miei inquieti sonni, e in cui mi vedevo in fuga da un mostro senza volto, ma che m'incalzava con la logorrea del presidente uscente, aggravata dall'accento irpino di Mancino e dalle corde vocali della signora Jervolino. [...] Siamo sicuri che il popolo, chiamato a pronunciarsi fra un Ciampi e – faccio per dire – un Di Pietro, si sarebbe pronunciato per Ciampi? È una domanda che non aspetta risposta, ma che mi permetto di proporre ai lettori. Gran bella parola «il Popolo». E riconosciamogli pure l'attributo, che gli spetta, di «Sovrano». Ma insomma, meditate gente, meditate. (da Quasi non ci credo, 14 maggio 1999, p. 1)
  • Tutti coloro che hanno svolto pubbliche funzioni in Sicilia sono rimasti e sono tuttora in qualche modo «collusi» con la mafia. Lo furono quotidianamente, e per secoli, il governo e la polizia borbonica. Lo fu Garibaldi che in essa trovò, dopo lo sbarco, la sua prima alleata. Lo furono i governi nazionali sia di destra che di sinistra. Lo fu Giolitti che pure non scese mai, a ch'io sappia, a sud di Napoli. Lo fu il presidente della vittoria, Orlando, che quando tornava a Palermo, la prima visita che rendeva non era al prefetto né all'arcivescovo, ma al capomafia. Tentò di non esserlo Mori che aveva licenza di uccidere garantita da un regime totalitario, e ci rimise il posto. Lo sono stati tutti i politiconi e politicastri della Prima Repubblica. Anche il cautissimo Andreotti? Può darsi, attraverso i suoi proconsoli in loco. Ma il Tribunale deve aver capito che l'imputato non era lui. Era il costume morale e politico della nostra vita pubblica, sul quale un Tribunale non ha, né può né deve avere competenza. [...] E il problema, secondo me, è questo: che fin quando noi italiani crederemo di salvarci dalla peste mandando sul rogo una strega o un untore, dalla peste non ci libereremo mai. (da Il tribunale della storia, 24 ottobre 1999, p. 1)
  • Ci dicano chiaro e tondo perché hanno smembrato il Ros, e hanno ridimensionato l'attività di Sco e Gico. Non ci raccontino che hanno voluto mettere al riparo il capitano Ultimo e i suoi uomini dalle possibili vendette della malavita. E soprattutto non vengano a ripeterci che il modus operandi dei servizi segreti, per impedirne le «deviazioni», dev'essere «trasparente». Questa, che un segreto possa essere trasparente, è un'idea da primato della cretineria. E, se non della cretineria, lo è della retorica virtuista o della menzogna truffaldina. (da Procuratore batta il pugno, 2 novembre 1999, p. 1)
  • Era la prima volta che il partito socialista italiano aveva trovato un uomo [Bettino Craxi], se non di Stato, almeno di governo, che lo aveva liberato dalla subalternanza al Pci, e condotto su posizioni democratiche, europeistiche e atlantiche. Lo avrà anche fatto con metodi alquanto spicciativi e disinvolti, più da padrino che da leader. Ma mi chiedo se avrebbe potuto usarne di diversi per avere ragione dei vecchi tromboni del massimalismo populista e piazzaiolo con le loro clientele incrostate da decenni. E mi chiedo anche quanto contribuirono alla sua crocefissione i rancori e le acredini che si era lasciato dietro. Ma nella difesa si perse, e non per mancanza, ma forse per eccesso di coraggio. (da Lo statista latitante, 20 gennaio 2000, p. 1)
  • Anche noi siamo convinti che il Paese ha il diritto di conoscere la verità (che non riguarda soltanto quella di Piazza Fontana). Ma non ci riusciamo. Anche perché se la pista rimane, come sembra accertato, quella del terrorismo nero, non sappiamo quali nomi l'accusa potrà tirar fuori dal suo cappello. I tre maggiori indiziati sono già stati assolti con sentenza passata in giudicato che non consente di richiamarli sul banco degli imputati. Gli altri di cui si fa il nome non sarebbero che comparse, la più importante delle quali, Delfo Zorzi, risiede a Tokio con passaporto giapponese che lo mette al riparo da ogni pericolo di estradizione. Vale la pena ricominciare? L'ouverture dei dibattimenti non è stata incoraggiante. Il proscenio era occupato da Capanna, Valpreda, Dario Fo e altri reduci sessantottini, cui si era aggiunto anche Sergio Cusani, l'intangentato convertitosi (lo diciamo senza nessuna ironia) al missionarismo. [...] Invano i portaparola della parte lesa, cioè dei familiari delle vittime, si sono dichiarati estranei e contrari a ogni tentativo di politicizzare il processo. Una parola. Non ci riescono nemmeno Jovanotti e Teocoli con le loro filastrocche dal palcoscenico di Sanremo. Figuriamoci se potranno riuscirci i registi di questo processo rouge et noir, se mai ve ne furono. [...] Ecco a cosa servono i processi come questo: non a cercare la verità, ma a fornire argomenti al rouge o al noir. (da Quella verità che cerchiamo, 26 febbraio 2000, p. 1)
  • Cosa c'entri la giustizia italiana in fatti e misfatti capitati trent'anni fa in un Paese [l'Argentina] di cui la metà della popolazione è di origine italiana, non riusciamo a capire. Ma ci pareva impossibile che l'iniziativa del giudice spagnolo Garzon per trascinare l'ex dittatore cileno Pinochet sul banco degli accusati di un tribunale madrileno non trovasse imitatori in un Paese di scimmie come il nostro. Grazie ad essa, il nome e il volto di Garzon sono noti in tutto il mondo. Ed è probabile che tra poco lo siano anche quelli del pubblico ministero Caporale. Vi pare poco in un'era dell'effimero come quella in cui stiamo vivendo, e che vede l'infittirsi di processi ai defunti, su cui le nuove leve della storiografia vorrebbero riscrivere il passato? (da Quei processi al caro estinto, 3 aprile 2000, p. 1)
  • Dobbiamo avere la modestia di riconoscere che noi, come venditori, non leghiamo nemmeno le scarpe a un piazzista che se un giorno si mettesse a produrre vasi da notte, farebbe scappare la voglia di urinare a tutta l'Italia. (da I predicatori e le comparse, 15 febbraio 2001, p. 1)
  • Non sono mai venuto meno all'impegno, preso non con il Cavaliere, ma con me stesso, di non associarmi mai alla sua demonizzazione. Ma non posso sottacere ai lettori i pericoli che si nascondono sotto questa sua allergia alla verità, questa sua voluttuaria e voluttuosa propensione alle menzogne, la naturalezza con cui riesce a pronunziarle. (da Io e il cavaliere qualche anno fa, 25 marzo 2001, p. 1)
  • Berlusconi, cui nulla riesce tanto bene quanto la parte di vittima e perseguitato. «Chiagne e fotte» dicono a Napoli dei tipi come lui. E si prepara a farlo per cinque anni di seguito. (da Io e il cavaliere qualche anno fa, 25 marzo 2001, p. 1)

La stanza di Montanelli – rubrica

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  Citazioni in ordine temporale.

  • [Vittorio Sgarbi] È un volgare calunniatore, che non disonora se stesso, ma anche il suo committente e padrone (tutti sappiamo chi è) che si serve di un simile scherano. (8 novembre 1995)
  • I riformatori italiani, quando si tratta di riformare ciò che non ha bisogno di essere riformato, sono instancabili. L'attività dell'Ucas, Ufficio complicazioni affari semplici, come ricordava un altro lettore esasperato, è frenetica. (13 dicembre 1995)
  • Io credo che il miglior omaggio che si può rendere a Moro sia quello di archiviare l'episodio che ne segnò la fine e dal quale, diciamo la verità, la sua immagine esce tutt'altro che bene. Quando sento dire che, oltre a quelle conosciute, ci sono anche altre lettere di Moro, prego Iddio che non vengano trovate. So già cosa contengono, e preferisco non leggerlo. (21 dicembre 1995)
  • È assolutamente impossibile istillare negli zingari il concetto di proprietà e quindi educarli al lavoro come mezzo per conquistarsela. Ma temo che sia altrettanto impossibile far capire tutto questo ai nostri pietisti, religiosi e laici, che farneticano di «integrarli». (30 dicembre 1995)
  • A me, invece, Grillo piace. Lo considero il più efficace comico in circolazione. Anzi: «comico» non è la parola giusta. Grillo non è un comico, non è un moralista, non è un predicatore: è tutte queste cose insieme. Nel panorama dello spettacolo italiano, dove abbonda il bollito misto, è un'eccezione ambulante (e urlante). Lei ha ragione quando dice che Grillo esagera. Non soltanto esagera; provoca anche, e insulta, e offende. Ma tutte le categorie di giudizio, con un tipo così, risultano inadeguate. Grillo appartiene ad una specie animale particolare, formata da un solo esemplare: lui. O lo strozziamo o lo applaudiamo. Io, appena posso, lo applaudo. Perché i suoi eccessi, a differenza di quelli di Sgarbi, odorano di bucato. (11 gennaio 1996)
  • Una delle eterne regole italiane: nel settore pubblico, tutto è difficile; la buona volontà è sgradita; la correttezza, sospetta. Per questo, le persone capaci continueranno a tenersi a distanza di sicurezza dalla «cosa pubblica», lasciando il posto ai furbastri (magari bravi) e alle mezze cartucce (magari oneste). Così, purtroppo, vanno le cose in questo bizzarro paese. (26 gennaio 1996)
  • In una società libera il compito dei media non è «edificare la morale»; è informare, denunciare, stimolare, far riflettere, occasionalmente divertire. (28 gennaio 1996)
  • L'unico incoraggiamento che posso dare ai giovani, e che regolarmente gli do, è questo: «Battetevi sempre per le cose in cui credete. Perderete, come le ho perse io, tutte le battaglie. Una sola potete vincerne: quella che s'ingaggia ogni mattina, quando ci si fa la barba, davanti allo specchio. Se vi ci potete guardare senza arrossire, contentatevi». (20 febbraio 1996)
  • Non so se il Pci sia sotterraneamente sceso a trattative con le Br per convincerle a secondare questo piano. So soltanto che le Br, le quali invece la rivoluzione la volevano sul serio, lo rifiutarono, e fu proprio per farlo naufragare che rapirono e poi uccisero colui che doveva esserne lo strumento. [...] Fu il risoluto e quasi furibondo (oltre che sacrosanto) no dei comunisti che fece naufragare il tentativo [Trattativa Stato-BR durante il sequestro Moro], che invece in seno alla Dc aveva parecchi sostenitori, anche se non osavano dirlo apertamente. Di qui le accuse e le insinuazioni contro i suoi compagni di partito, lanciate da Moro in quelle famose lettere, che avrebbe fatto meglio a non scrivere perché indegne di un vero uomo di Stato, anzi di un uomo tout court, e che ancor oggi forniscono materia al sospetto di una congiura fra democristiani – con l'aiuto dei soliti servizi segreti «deviati» – per sbarazzarsi di lui. Vero nulla. Forse nella Dc le forze «trattativiste», praticamente disposte alla resa alle Br, avrebbero vinto, se non ne fossero state impedite dalla risolutezza del Pci, che di un brigatismo assurto ad interlocutore dello Stato non voleva sentir parlare e di un Moro salvato al prezzo di una simile capitolazione non avrebbe più saputo che farsi. (26 marzo 1996)
  • No, è stata la persecuzione che ha costretto gli ebrei, per resisterle, a tendere ed affinare tutte le loro risorse intellettuali. Ecco il segreto dei loro primati. In tutto. E talvolta anche nella cretineria. (3 aprile 1996)
  • Io non mi considero affatto ateo e non capisco come si possa esserlo. (23 maggio 1996)
  • [Riferito alla crisi di Sigonella] Ho sempre considerato il rilascio di Abu Abbas un gesto semplicemente criminale o almeno di complicità col crimine. (7 luglio 1996)
  • Quanto scrivi [riferito a una lettrice] sull'insegnamento della Storia nelle nostre scuole è sacrosantamente vero. I testi su cui ve la fanno studiare sono o reticenti o faziosi, ma più spesso l'una cosa e l'altra, e soprattutto scritti coi piedi. (4 settembre 1996)
  • No, caro N***, non mi basta che il Pool abbia perseguito e persegua una buona Causa. Doveva farlo anche con buoni mezzi e criteri. E il caso Di Pietro basta a dimostrare che questo non è sempre avvenuto. (24 ottobre 1996)
  • È dalla piazza e dai cosiddetti «bagni di folla» che nascono i dittatori e vengono consacrati i fanatismi più orrendi, fra cui il più orrendo di tutti: il razzismo. (24 novembre 1996)
  • Io non ho titoli culturali che mi qualifichino a lezioni su una tematica come quella del calvinismo. Ma credo di averne afferrato l'essenziale: la concezione della Ricchezza come segno della Grazia, di cui quindi non si è proprietari, ma amministratori per conto del Signore col compito di moltiplicarla per il bene di tutti. (21 dicembre 1996)
  • Vimercati è un leghista antemarcia. Lo era anche quando lavorava con me al Giornale. Ma è soprattutto un signor giornalista, che conosce perfettamente la linea di demarcazione fra l'opinione personale e il dovere professionale, e non c'è interesse né calcolo di opportunità che possa indurlo a varcarla. Per questo godeva di tutta la mia fiducia, né mai ho avuto occasione di pentirmi di avergliela concessa. (1996).[69]
  • Di commissioni d'inchiesta il nostro parlamento ne ha partorite a dozzine. Me ne citi una sola che abbia raggiunto dei risultati, anche semplicemente conoscitivi. Per un Parlamento come il nostro (e mi trattengo a fatica dal qualificarlo) anche la ricerca della verità è materia di lottizzazione. (23 dicembre 1996)
  • Quando ebbi, fra i tanti, un processo non con un magistrato, ma con un politico del rango di De Mita che avevo coinvolto nella mala amministrazione dei fondi stanziati per l'Irpinia dopo il terremoto, non trovai, in tutta quella vasta regione, una toga che venisse a testimoniare in mio favore. L'unico che mi difese fu colui che avrebbe dovuto accusarmi: il pubblico ministero del tribunale di Monza, Mariconda: non sul merito delle mie accuse, ch'egli non aveva elementi per valutare, ma sul diritto che mi riconosceva di lanciarle. Anche l'uso dei cinquanta–sessantamila miliardi stanziati per l'Irpinia rimase un porto delle nebbie. (12 gennaio 1997)
  • La sola parola «ingegneria genetica» mi mette i brividi. (14 marzo 1997)
  • Io non mi sono mai impiccato. Ma a Norimberga assistetti a diciassette impiccagioni, compresa quella di un cadavere, il cadavere di Göring che si era suicidato il giorno prima. Be', mi resi conto [...] che ficcare la testa nel nodo scorsoio di una corda non è un esercizio da mezzetacche o quacquaracquà. (15 maggio 1997)
  • [Gladio] Era stato istituito in quasi tutti i Paesi che facevano parte della Nato, e per volontà della Nato, consapevole che i suoi soci europei non avrebbero potuto resistere all'attacco di una Potenza superarmata qual era l'Unione Sovietica: avrebbero dovuto aspettare, per la riscossa, l'intervento dell'America. Lo dimostra il fatto che quando questo piano fu rivelato, nessun altro Paese trovò nulla da ridirne. Solo noi italiani – i soliti romanzieri imbecilli e peggio che imbecilli – ne facemmo materia di scandalo e pretesto di «gialli» che tuttora trovano credito, come la sua lettera dimostra. Anch'io mi sento scandalizzato, e un poco offeso. Ma solo dal fatto che nessuno mi abbia sollecitato l'adesione al Gladio: l'avrei data con entusiasmo. (7 giugno 1997)
  • A fare l'Italia alcuni pochi italiani ci sono, senza e contro i più, riusciti. A fare gl'italiani, l'Italia, in centocinquant'anni, non c'è riuscita; anzi non ci s'è nemmeno provata. (19 giugno 1997).
  • Il vero cacciatore ama gli animali a cui dà la caccia, forse anche perché li considera complici di questo gioco in cui ritrova la sua origine esistenziale. Non spara, per esempio, sul bersaglio fermo: lo considera sleale. (9 luglio 1997)
  • Al matrimonio misto, che dell'integrazione razziale è la condizione genetica, sono i neri, molto più dei bianchi, che si rifiutano. Non è quindi colpa degl'italiani, o almeno non tutta questa colpa è degl'italiani, se anche da noi l'integrazione con gl'immigrati africani incontra degli ostacoli. Quella con gli oriundi dei Paesi europei non ne incontra nessuno, salvo quelli che frappone la burocrazia, la quale ne pone tanti anche a noi, e anzi campa solo di questo. Non ho mai sentito un francese, o un inglese, o un tedesco, o un bulgaro o un ukraino lamentarsi di una apartheid italiana. Ci sono anche da noi, purtroppo, delle manifestazioni di razzismo. Ma queste sono dovunque, e in Italia meno violente che altrove. L'Italia è un Paese che va a catafascio. Ma non buttiamogli addosso anche delle croci che non merita. Quelle che merita bastano, e ne avanza. (24 agosto 1997)
  • Io sono un italiano, fra i pochi rimasti che nei confronti dell'Italia s'ispirano all'adagio inglese: «Che abbia ragione o torto, sto col mio Paese». Anch'io sto col mio paese quando ha torto, ma senza pretendere che il suo torto sia considerato ragione. (23 settembre 1997)
  • Sono e rimango convinto che fin quando noi italiani ci affideremo soltanto alla Legge – o, come ora usa chiamarla, alle «regole» –, rimarremo quello che siamo, coi vizi che abbiamo, fra cui quello di accatastare regole su regole al solo scopo di metterle in contraddizione l'una con l'altra per poterle meglio evadere. (16 ottobre 1997)
  • Forse farebbe meglio ad astenersi a dare lezioni di liberalismo a me che sono stato, in tutto il giornalismo italiano, l'unico a difenderlo negli anni Settanta e Ottanta, quando difenderlo era difficile e poteva anche costar caro. Non me ne faccio un vanto perché, quando alla fine ha vinto, ho visto di che liberalismo si trattava, ed è per questo che ho votato Ulivo. (23 ottobre 1997)
  • Le confesso che il suo piglio perentorio e inquisitorio mi disturba alquanto, anche perché mi lascia capire che lei parte da convinzioni così granitiche da rendere vano ogni tentativo d'insinuarvi almeno un dubbio. (23 ottobre 1997)
  • È importante tutto questo? No. Non lo è per me né per lei, che sappiamo cosa è accaduto. E non lo è per i leghisti doc, secondo cui qualunque cosa propone il capo è Vangelo. Se Bossi decide di andare in Bicamerale, applaudono. Se decide di abbandonare la Bicamerale, esultano. Se va con Berlusconi, assentono. Se lascia Berlusconi, approvano. E se un giorno si sveglia e cambia i confini della Padania, accettano i nuovi confini. Tempo fa, rispondendo a un lettore, scrissi che «i leghisti sono pronti a inneggiare anche all'annessione della Yakuzia, e non solo perché non sanno dove sta». Arrivarono molte lettere indispettite. Ma nessuna contro l'annessione della Yakuzia. (29 ottobre 1997)
  • Se sono – come sono – uno di quegli uomini di Destra che ultimamente hanno votato, sia pure controvoglia, per la Sinistra (annacquata) dell'Ulivo, è perché da questa, che non è mai stata la mia bandiera, non mi sento tradito. Essa sta facendo ciò che prometteva di fare, ma lo fa con molta moderazione, e con una squadra di uomini che magari non saranno (meno qualcuno, come per esempio Ciampi) di serie A, ma da cui non temo, e credo che nessuna persona ragionevole possa temere, l'instaurazione di un regime. (10 dicembre 1997)
  • E lo specchio non vi giudica dai successi che avrete ottenuto nella corsa al denaro, al potere, agli onori; ma soltanto dalla Causa che avrete servito. Tenendo bene a mente il motto degli hidalgos spagnoli: «La sconfitta è il blasone delle anime nobili». (31 dicembre 1997)
  • Che cosa io pensi dell'onorevole Previti mi pare di averlo detto in termini talmente espliciti da apparire – a più d'uno – brutali: un personaggio che solo a guardarlo in faccia verrebbe voglia di applicargli le manette ai polsi prima ancora di sapere chi è e cosa ha fatto. (31 gennaio 1998)
  • Infine, c'è quello che io considero il vero, grande vantaggio dell'euro: una volta dentro, non potremo tornare all'allegra finanza pubblica d'un tempo. (20 febbraio 1998)
  • Tutti hanno diritto di credere nel miracolo, quando non c'è altro a cui aggrapparsi. La scienza no: se lo ricordi anche il Papa. (23 febbraio 1998)
  • I conti col passato, si capisce, bisogna farli. Ma a un certo punto bisogna chiuderli. Perché nella Storia non ce n'è mai stato uno che, protratto all'infinito, non ne abbia innescato un altro. (10 marzo 1998)
  • Perché, caro B***? Perché la vocazione a dividerci sempre e su tutto per il nostro «particulare», come lo chiamava Guicciardini, noi italiani ce la portiamo nel sangue, e non c'è legge che possa estirparla. (18 aprile 1998)
  • Vero che nei ricordi sui quali vengo sollecitato, il nome di Tomaselli ricorre meno frequentemente di quelli di Longanesi, di Buzzati, di Piovene, di Barzini ecc. Ma ciò dipende solo dal fatto che costoro appartenevano alla mia leva, e in comune con loro avevo avuto tante esperienze, perfino la stanza di lavoro. Tomaselli, quando io entrai al Corriere, apparteneva già alla sua vecchia guardia, e come notorietà ne aveva raggiunto il tetto proprio grazie alle sue corrispondenze sull'impresa del dirigibile «Italia» di Umberto Nobile, di cui fu dal principio alla fine lo scrupoloso cronista. A salvargli la vita dalla catastrofe fu soltanto la sorte, contro cui egli imprecò considerandola avversa. Per l'ultima tappa, quella che avrebbe dovuto sorvolare il Polo, dei due giornalisti aggregati a quella spedizione — Tomaselli per il Corriere, e Ugo Lago per il Popolo d'Italia di Mussolini —, c'era posto, sulla navicella, per uno solo. Lago e Tomaselli se lo giocarono a testa o croce. Con gran dispetto di Tomaselli, che non smise mai di considerarsene tradito, vinse e partì Lago, che non tornò più: quando l'aeromobile precipitò sul pack, lui rimase aggrappato insieme ad altri compagni al cordame dell'involucro col quale scomparve nel deserto bianco. Ma tutte le volte che se ne parlava, Tomaselli seguitava ad inveire contro la scalogna che lo aveva escluso da quel drammatico finale, come se gli avesse tolto la fortuna di descriverlo. Questo era Tomaselli, l'inviato speciale che nel suo mestiere di giornalista portava lo stesso spirito che aveva fatto di lui, nella Prima Guerra Mondiale, un superdecorato ufficiale di artiglieria alpina e gli ispirava una concezione quasi religiosa del «servizio». Non era un «brillante» né come scrittore né come parlatore. Ma di tutto quello che diceva, sia con la bocca che con la penna, si poteva stare sicuri che di inesatto o di inventato non c'era nemmeno una virgola. [...] Se raramente mi capita di parlare di lui, è perché l'ho conosciuto e frequentato sul declino della sua intemerata e ineccepibile carriera di testimone, e perché lui, nel raccontarla, non l'animava mai di aneddoti o di battute come, per esempio, il suo coetaneo Monelli. Ma se ai giovani che si avviano (poveretti!) a questo mestiere dovessi indicare un modello di dignità, serietà, dedizione e correttezza professionale non avrei dubbi sulla scelta: Cesco Tomaselli. (7 maggio 1998)
  • Che un giudice spagnolo in vena di protagonismo abbia chiesto all'Inghilterra la consegna di un ospite straniero andato a Londra in forma privatissima per ragioni di salute, non mi stupisce: un Di Pietro può nascere dovunque. Ma che l'Inghilterra si proponga di consentire, non mi stupisce. Mi sbalordisce, come ha sbalordito e indignato la signora Thatcher che aveva ospitato in casa il Generale. Ma ancora di più mi sbalordirebbe che la Giustizia spagnola, cioè di un Paese che non solo ha accettato per quarant'anni il potere di un Generale, ma gli ha consentito (per sua fortuna) di disporne anche dopo morto, portasse davanti a una Corte di Giustizia quello cileno. Per non parlare delle conseguenze che tutto questo potrebbe provocare in Cile dove, nel caso che il governo Frei si mostrasse esitante e accomodante, le Forze Armate potrebbero riprendere il potere per rompere i rapporti diplomatici con Spagna e Inghilterra e dimostrare al mondo che i processi alla Norimberga hanno fatto il loro tempo. Se a qualcuno il Generale cileno Pinochet deve rendere conto del suo operato, è soltanto al Cile e ai suoi tribunali. E se io fossi un cileno che ha votato Frei (come certamente avrei fatto se fossi stato un cileno), in questa occasione mi schiererei con le Forze Armate. Con tanti saluti a tutto il sinistrume italiano passato, presente e futuro. (24 ottobre 1998)
  • Che gli Usa siano in tutto il mondo odiati dagli uomini come lei [riferito a un lettore], è verosimile, e quindi più che credibile. Un po' meno credibile è che gli uomini di tutto il mondo siano e la pensino come lei. Comunque, il giorno in cui quel Paese venisse chiamato (ma da chi?) sul banco degl'imputati come il nemico dell'umanità, io chiederò di essere ascoltato come testimone. Per dire alla Corte dei Vecchio di turno che io, uomo qualunque, mi considero graziato tre volte da questo grande nemico dell'umanità. La prima fu quando mi strappò al pericolo di diventare – per bene che mi fosse andata – l'attendente di un colonnello tedesco. La seconda fu quando mi sottrasse a quello di finire i miei giorni in un kolkos siberiano. La terza fu quando, invece di rimettermi la parcella di questi favori, mi aiutò a rifarmi la casa senza contestarmi il diritto di invitarvi anche coloro che pensano (si fa per dire) e parlano (o meglio sbraitano) come lei. (10 aprile 1999)
  • Tradotto in politica, non c'è nulla di più intollerante e fazioso, e quindi di meno pacifico, del pacifismo in generale, e di quello italiano in particolare. È un pacifismo a fasi alterne, e che si sveglia soprattutto, anzi quasi esclusivamente, quando a fare la guerra sono gli americani. Furioso e devastatore imperversò, non soltanto in Europa, ma nella stessa America, al tempo del Vietnam: al punto che quando Nixon venne in visita in Italia (quell'Italia che poteva fare ciò che voleva grazie agli americani) dovettero mandarlo a prendere a Fiumicino con un elicottero e trasportarlo via aria in Quirinale perché via terra avrebbe rischiato la pelle. Ma questo stesso pacifismo rimase impassibile quando i carri armati sovietici schiacciarono l'Ungheria (e a Montecitorio risuonò il grido: «Viva l'Armata Rossa!»), e poco dopo la Cecoslovacchia e da ultimo l'Afghanistan. Sono sempre gli stessi, i pacifisti italiani. Con una bandiera in mano come quella della pace (chi può infatti invocare la guerra?), si sentono invulnerabili. Ma la sventolano solo per il povero Milosevic; il genocidio del Kosovo li lascia del tutto indifferenti. (5 maggio 1999)
  • Non sempre condivido le opinioni di Sartori. Qualche volta, anzi spesso, abbiamo litigato, anche perché a lui litigare piace moltissimo: da buon toscano, è nella polemica che lui, e forse anch'io, diamo il meglio di noi. E anche sull'articolo del 25 maggio non siamo in tutto e per tutto d'accordo. Lo siamo nel respingere la qualifica di «pacifista», che entrambi lasciamo in esclusiva alle «anime belle» che, sventolando la bandiera della pace, sperano di raccogliere intorno a essa tutti gl'ipocriti e gl'imbecilli che, sommati insieme, costituiscono certamente la stragrande maggioranza degl'italiani. (29 maggio 1999)
  • Lo Stato di Platone, quello che lui chiamava la polis, e che poi era Atene, aveva, al tempo di Platone, cioè nel momento del suo massimo splendore, ventimila abitanti, di cui solo cinquemila avevano diritto al voto. E veda un po' come quei civilissimi cittadini lo usarono nelle assemblee dell'Acropoli: mettendo sotto processo Pericle e Aspasia, condannando a morte Socrate e provocando la guerra del Peloponneso, che fu la rovina non solo di Atene, ma di tutta la Grecia e della sua civiltà. Ora se il sistema della «democrazia diretta» o, come lei la chiama, «partecipatoria», non funzionò nemmeno in una polis di ventimila abitanti, s'immagini un po' cosa diventerebbe nei formicai umani cui si sono ridotte le polis attuali, e non soltanto quelle italiane. [...] Lei ha tutte le ragioni del mondo a dire che l'attuale sistema di democrazia «rappresentativa» o «delegata» ha dei vizi gravissimi e spesso provoca disastri, compresa quella americana, che pure è una di quelle che meglio funzionano. Ma, mi creda, quella «diretta» o «di piazza» è ancora molto più pericolosa perché continuamente a rischio di cadere in balia di qualche ciarlatano che sappia soltanto vendere bene la sua merce. Certo, quella indiretta esige, da parte del cittadino, una partecipazione che in Italia manca. Ma non è certo coi referendum che si può sostituirla. Almeno questo mi ha insegnato l'esperienza. (22 agosto 1999)
  • Quello di Franco, se proprio vogliamo chiamarlo regime, fu un regime di polizia, di una polizia molto più dura di quella fascista, ma un totalitarismo no. Ecco perché, quando sentì avvicinarsi il momento della fine, Franco poté liquidare il franchismo con relativa facilità: perché di totalitario non aveva altro che le galere. Però bisogna anche riconoscere che questo soldataccio squallido e ottuso (sul piano umano era repellente), il ritorno al regime democratico seppe compierlo da maestro, facendosi consegnare dal pretendente al trono, Don Juan, ch'egli considerava (non a torto) poco affidabile, il figlio Juan Carlos per prepararlo – operazione riuscitissima – ai suoi compiti di Re, e mettendogli accanto un uomo di primissimo ordine come Suarez. (24 ottobre 1999)
  • La servitù, in molti casi, non è una violenza dei padroni, ma una tentazione dei servi. (2 gennaio 2000)
  • Non conosco Haider, e quindi nemmeno i fondamenti della sua ideologia, ammesso che ne abbia una. A occhio e croce, più che un nazista, mi sembra un qualunquista che interpreta, o cerca d'interpretare i sentimenti e i risentimenti di una pubblica opinione di livello bossiano, scontenta di tante cose, e a cui l'Austria attuale va stretta. [...] Non so se anche Haider – ripeto: non lo conosco – sia un omuncolo. Ma penso che l'Europa, ponendo il veto a un suo eventuale governo, costringerà gli austriaci ad affidargliene l'incarico, come avvenne per Waldheim. Io al pericolo di un rigurgito nazista non ci credo. Come ho letto in un articolo (mi pare di Enzo Bettiza, ma potrei sbagliarmi) penso che Jorg Haider somigli più a un Poujade che a un Le Pen, cioè più a una miscela di Bossi e di Giannini che a un Pino Rauti. Ciò che mi allarma è l'incapacità dell'Europa a riflettere sulle sue proprie esperienze a trarne qualche insegnamento. Questo, sì, mi fa paura. (3 febbraio 2000)
  • Li conosco e riconosco, quei regimi [di dittatura e di censura]. Ne avverto il passo anche di lontano, e convengo che in Italia il pericolo di vederne arrivare qualcuno c'è. Ma sa quando si realizzerà? L'anno venturo, dopo la vittoria – che io do per certa – del Polo alle Politiche. Vedrà. La prima cosa che farà Berlusconi, come la fece nel '94, sarà di spazzare via l'attuale dirigenza Rai per omologarne le tre Reti a quelle sue. (26 febbraio 2000)
  • Quando s'accendono i roghi, mettiti dalla parte della strega, anche a costo di bruciare con lei. (31 Maggio 2000)
  • Una Giustizia che per istruire un processo impiega sei o sette anni e poi non riesce a chiuderlo con una sentenza che non si presti a rimetterlo, con qualche marchingegno, in gioco, è un meccanismo di cui bisogna assolutamente rivedere e rifare gl'ingranaggi: «Giustizia ritardata – dice Montesquieu – è Giustizia negata». (7 giugno 2000)
  • Il mio giudizio su Garzón resta quello di prima, solo un po' rinforzato: un garzoncello smanioso soltanto di leggere il proprio nome sulle prime pagine di tutti i giornali e di vedere la propria effigie sugli schermi televisivi di tutto il mondo: il che rafforza la mia ipotesi che si tratti di un italiano nato per sbaglio in Spagna. (30 giugno 2000)
  • La pena di morte americana esiste e resiste in America perché fu un elemento base e costitutivo della sua nascita e sviluppo. Dei famosi 102 «Padri Pellegrini» che per primi sbarcarono dal «Mayflower» in quel Continente non per saccheggiare le ricchezze come facevano spagnoli e portoghesi in Messico e nell'America del Sud, ma per costruirvi una società nuova e libera, circa i due terzi erano avanzi di galera che fuggivano la Giustizia e le prigioni dell'Europa, e un terzo erano uomini che cercavano la libertà, e soprattutto quella religiosa. I primi avevano in tasca la pistola, i secondi la Bibbia, ma nella sua versione calvinista quella del taglione, basata sulla concezione di un Dio giustiziere che esige la morte di chi senza giusto motivo la dà. (9 luglio 2000)
  • A Rimini, cioè in casa propria (ma anche nostra, almeno per il momento), questi signorini [di Comunione e Liberazione] non hanno fatto altro che fischiare tutto ciò che è italiano, acclamare al nuovo beato Pio IX, il Papa-Re che pretendeva di impedire il processo di unificazione nazionale, ed esaltare come i veri eroi del risorgimento i Borboni e i briganti del Cardinale Ruffo. A lei, tutto questo va bene? A me, dà il vomito. (13 settembre 2000).
  • Il mio parere è rimasto quello che espressi sul mio Giornale l'indomani del fattaccio [l'agguato di via Fani]. «Se lo Stato, piegandosi al ricatto, tratta con la violenza che ha già lasciato sul selciato i cinque cadaveri della scorta, in tal modo riconoscendo il crimine come suo legittimo interlocutore, non ha più ragione, come Stato, di esistere». Questa fu la posizione che prendemmo sin dal primo giorno e che per fortuna trovò in Parlamento due patroni risoluti (il Pci di Berlinguer e il Pri di La Malfa) e uno riluttante fra lacrime e singhiozzi (la Dc del moroteo Zaccagnini). Fu questa la «trama» che condusse al tentennante «no» dello Stato, alla conseguente morte di Moro, ma poco dopo anche alla resa delle Brigate rosse. Delle chiacchiere e sospetti che vi sono stati ricamati intorno, e che ogni tanto tuttora affiorano, non è stato mai portato uno straccio di prova, e sono soltanto il frutto del mammismo piagnone di questo popolo imbelle, incapace perfino di concepire che uno Stato possa reagire, a chi ne offende la legge, da Stato. (22 settembre 2000)
  • La Serbia ha perduto la guerra e ha vinto la pace: ora deve voltar pagina. Sarà la storia – un giudice non imparziale, ma efficace – a decidere cos'è stato giusto e cos'è stato sbagliato. Tuttavia, una ritorsione serba verso l'Occidente avverrà. E ci troverà disarmati. Sa di cosa parlo? Delle rivendicazioni sul Kosovo, che è amministrato dalla Nazioni Unite ma è ancora Jugoslavia (lo dice la risoluzione dell'Onu). I serbi chiederanno di tornare a controllarne le frontiere, per esempio. E dire no a un Kostunica buono è più difficile che dire sì a un Milosevic cattivo. Gli albanesi del Kosovo, sono certo, lo hanno già capito. (8 ottobre 2000)
  • È un dimenticato, Ojetti, come in questo Paese lo sono quasi tutti coloro che valgono. Se io dirigessi una scuola di giornalismo, renderei obbligatori per i miei allievi i testi di tre Maestri: Barzini, per il grande reportage; Mussolini (non trasalire!), quello dell'Avanti! e del primo Popolo d'Italia, per l'editoriale politico; e Ojetti, per il ritratto e l'articolo di arte e di cultura. (13 novembre 2000)
  • In Italia fu il potere temporale a soffocare negl'italiani la voce della coscienza e a spegnere in loro ogni senso di responsabilità. Ma fu la Controriforma a fornire al prete le armi per accaparrarsi l'una e l'altra: il Sant'Uffizio, le scomuniche e, nei casi estremi, il patibolo. Con questo risultato: l'aborto del «cittadino» e la trasformazione di quello che avrebbe dovuto e potuto diventare un «popolo» in un gregge (come con inconsapevole spudoratezza i preti lo chiamano), e in un gregge di pecore indisciplinate che credono di affermare il loro ribelle individualismo non rispettando il semaforo rosso. (20 novembre 2000)
  • [Su Slobodan Milošević] Oltre che un despota, lo ritengo anche un satrapo della razza dei Ceausescu, avido non solo di potere, ma anche di denaro, e credo che la sorte che si merita sia un bel plotone di esecuzione. Purché composto da serbi, al comando di un serbo, e in esecuzione di una sentenza emessa da un tribunale serbo e motivata non tanto da generici crimini contro l'umanità, che sono sempre – salvo casi di monumenti all'orrore come l'Olocausto – oggetto di discussione e dissensi; ma dal più grande e imperdonabile delitto di cui Milosevic si è macchiato nei confronti non soltanto dei serbi: la distruzione della Nazione Jugoslava, che la Monarchia serba aveva fondato dopo la prima guerra mondiale; che il croato Tito aveva difeso coi denti e restaurato dopo la seconda, dando alla Balcania un esempio e un puntello di stabilità; e che Milosevic e il suo compare croato Tudjman distrussero per poter restare ciascuno padrone in casa sua; e sulle cui macerie si scatenarono tutte le violenze (Bosnia, Kosovo) che hanno insanguinato e continuano a insanguinare quel povero Paese. (29 aprile 2001)
  • Questo mondo materialista, edonista ed esibizionista non entusiasma neanche me; e, visto che mi legge, dovrebbe saperlo. Ma vorrei conoscere il sistema che voi avete in mente, e non avete il coraggio, o la capacità, di proporre. Un mondo francescano? Bello: ma guardatevi intorno, e ditemi se vedete un saio. Un comunismo riveduto e corretto? Farebbe la fine dell'altro, anche se non riuscirà a ripeterne i disastri. Mi creda, G.: l'unico sistema sociale ed economico oggi accettabile, in Occidente, è quello basato sul mercato: un capitalismo controllato e temperato, per intenderci. È auspicabile che sia anche corretto: e questo non sempre accade, è vero. Il guaio è che il capitalismo è fatto dai capitalisti – e quelli, devo ammettere, sono spesso difficili da digerire. Non cerchi di confondermi le idee, quindi. Non ci riuscirà. Probabilmente ho tre volte i suoi anni, e ho visto dove conducono queste generiche tirate contro «le multinazionali»: prima o poi, qualcuno deporrà la spranga e prenderà la pistola. Dimenticavo: io firmo le mie opinioni, lei tira il sasso e nasconde la mano. Tutti coraggiosi così, voi ragazzi di Seattle? (9 giugno 2001)
  • Non erano, le mie, parole di circostanza. Erano – e rimangono – quelle di un conservatore abbastanza spassionato e nutrito di Storia da capire che non c'è, per la conservazione di ciò che va conservato, nemico più mortale dei conservatori che vogliono conservare tutto; e che un sistema capitalistico senza un correttivo socialista diventa una jungla che conduce pari pari a Carlo Marx. Di qui il mio amore per uno dei personaggi meno amabili, sul piano umano, della nostra Storia, Giolitti, che sempre cercò l'accordo con Turati, a cui il cretinume massimalista – che nel vostro partito ha sempre dominato – lo impedì. Il vedervi – sbriciolati in gruppi, gruppetti e gruppuscoli – annaspare nell'attuale centro-sinistra in cui nessuno riesce a recitare la parte di se stesso, fa male al cuore di un vecchio autentico liberal-conservatore come me. Cosa aspettate, caro Tamburrano, a ridarci il socialismo, ma che sia quello e quello solo: il socialismo di Turati e di Massarenti? [...] Credo che come forza politica siate abbastanza mal messi. Ma in compenso avete in mano una grande bandiera che prima o poi un esercito la ritroverà. Arrivederci, al primo settembre, cari lettori. (4 luglio 2001)

il Giornale

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  • Chi sarà il nostro lettore noi non lo sappiamo perché non siamo un giornale di parte, e tanto meno di partito, e nemmeno di classi o di ceti. In compenso, sappiamo benissimo chi non lo sarà. Non lo sarà chi dal giornale vuole soltanto la «sensazione» [...] Non lo sarà chi crede che un gol di Riva sia più importante di una crisi di governo. E infine non lo sarà chi concepisce il giornale come una fonte inesauribile di scandali fine a se stessi. Di scandali purtroppo la vita del nostro Paese è gremita, e noi non mancheremo di denunciarli con quella franchezza di cui crediamo che i nostri nomi bastino a fornire garanzia. Ma non lo faremo per metterci al rimorchio di quella insensata e cupa frenesia di dissoluzione in cui si sfoga un certo qualunquismo, non importa se di destra o di sinistra. [...] Vogliamo creare, o ricreare un certo costume giornalistico di serietà e di rigore. E soprattutto aspiriamo al grande onore di venire riconosciuti come il volto e la voce di quell'Italia laboriosa e produttiva che non è soltanto Milano e la Lombardia, ma che in Milano e nella Lombardia ha la sua roccaforte e la sua guida. [...] A questo lettore non abbiamo «messaggi» da lanciare. Una cosa sola vogliamo dirgli: questo giornale non ha padroni perché nemmeno noi lo siamo. Tu solo, lettore, puoi esserlo, se lo vuoi. Noi te l'offriamo. (25 giugno 1974)
  • Checché ne dicano gli agiografi della Resistenza, la guerra l'abbiamo persa, e c'è un conto da pagare. Che l'Italia lo saldi a spese dei suoi figli minori – i Dalmati e gli Istriani – è un ghigno del destino. Ma in compenso può considerarsi miracolata. Quando si pensa a cosa ha pagato la sua sconfitta la Germania, amputata d'intere province e dimezzata in due nazioni diverse e ostili, e quando si pensa a cosa ha pagato l'Inghilterra, precipitata dalla condizione di massimo impero mondiale a quella di piccola isola alla periferia d'Europa; non possiamo lamentarci del trattamento che gli alleati ci fecero. (30 settembre 1975)
  • Siamo stati accusati di aver fatto, nei confronti dei comunisti, il processo alle intenzioni. Non vediamo su cos'altro avremmo dovuto giudicarli, visto che sono sempre rimasti all'opposizione, ed è di lì che ancora si affannano a dire che cosa si propongono di fare se andassero al potere, anzi quando andranno al potere (perché ormai lo danno per scontato). E cosa sono, queste, se non intenzioni? (19 giugno 1976)
  • Che cerchino di eliminarmi perché sono un avversario, questo lo posso anche capire; ma perché – a quanto mi riferiscono – hanno detto che io sono un servo delle multinazionali, allora questo sta a dimostrare la confusione di idee di questi poveretti che, evidentemente, non sanno cosa sono le multinazionali. (3 giugno 1977)
  • I giuochi sono fatti. E sono fatti non soltanto per Moro, cui va tutta la nostra più fraterna e rispettiva pietà. Sono fatti anche per una politica da belle époque, che la distruzione – fisica o morale – di Moro chiude e conclude. La Storia sta riprendendo i suoi connotati di tragedia, e costringe coloro che la fanno, o ambiscono o s'illudono di farla, ad adeguarsi al repertorio. Stiamo entrando in una di quelle «età di ferro» in cui il potere si paga, o si può pagarlo col ferro. Nessuno è obbligato a sfidare questo rischio. Chi lo fa, sappia che oggi è toccato a Moro, domani può toccare a lui. Solo se si rende conto di questo e lo accetta, la classe politica troverà la forza di archiviare il caso Moro. Ed è tempo che lo faccia. (7 maggio 1978)
  • Quattr'anni e mezzo orsono, quando questo giornale nacque, un «ragazzo del '68» (con tante scuse a quelli veri, del '99), Mario Capanna, oggi gerarchetto regionale (che belle carriere, questi rivoluzionari!), dichiarò che, come nemici del «pubblico» e del «sociale» e come assertori del «privato», e quindi della reazione, noi saremmo diventati il più bel museo della città, dove babbi e mamme avrebbero potuto condurre in gita ricreativa i loro figlioletti per mostrargli, dal vivo, com'erano buffi i loro nonni e bisnonni: noi. Bene. Se il vento seguita a soffiare come soffia, saremo noi che di qui a un po' condurremo i nostri figlioletti dal signor Capanna per mostrargli com'erano buffi i loro nonni e bisnonni di dieci anni fa. Ma non lo faremo. Lo spettacolo di questi ragazzi-prodigio abortiti, di questi barricadieri con pancia e cellulite che credevano di camminare con la Storia, e invece camminavano solo con la moda, non ha nulla di edificante. (16 gennaio 1979)
  • In una sua memorabile inchiesta un giornalista d'incrollabile fede sinistrorsa, ma di esemplare onestà, Giampaolo Pansa, mise benissimo in luce questo contrasto fra i due atteggiamenti e mentalità, che ieri ha trovato una eloquente conferma nella manifestazione di Torino. Niente chiasso, niente sceneggiate, niente slogans, niente insomma che appartenga al repertorio del buffonismo nazionale. Nessuno ha rotto le righe per andare a rovesciare auto o a fracassar vetrine. Questa, sì, era Danzica, sia pure senza Madonne; non i picchettaggi e i pestaggi di Mirafiori, sia pure con le Madonne. Ora sappiamo già cosa diranno gli altri, oggi e domani. Diranno che gli operai non c'erano. Infatti. Doveva trattarsi di quarantamila presidenti, consiglieri delegati, ingegneri: insomma, la solita «maggioranza silenziosa»: termine che soltanto nella lingua italiana ha significato spregiativo. La maggioranza silenziosa esiste in tutti i Paesi del mondo, dove nessuno si vergogna di appartenervi perché è essa, in definitiva, che ristabilisce gli equilibri. Fu la maggioranza silenziosa – autoqualificatasi come tale – di seicentomila parigini che dodici anni fa pose fine al carnevale sessantottesco, riportò De Gaulle all'Eliseo e restituì alla Francia la stabilità di cui tuttora essa gode. [...] Il motivo vero che farà i dimostranti bersaglio delle peggiori critiche e accuse è ch'essi rappresentano la rivolta delle persone serie contro gli arruffoni della «conflittualità permanente», dei «modelli di sviluppo» e via baggianando. E in questo Paese nulla fa più paura, perché nulla è più rivoluzionario, della serietà. (15 ottobre 1980)
  • Sadat non era popolare. Gli mancava quel tocco di magia, o di cialtronismo, che consentiva a Nasser di bandire guerre come crociate e di annunciare disfatte come trionfi. [...] Sadat amava il popolo, il popolo contadino del profondo Sud nubiano, di cui era egli stesso originario. Ma non amava le masse, e le masse lo sentivano. [...] Sapeva, quando andò a Gerusalemme, di lanciare a quelle arabe una sfida più pericolosa di quella che lanciava a Begin. [...] Ma all'impopolarità di Sadat contribuiva anche un altro elemento: il fatto di essere un vero riformatore. [...] Rehza Pahlevi volle applicare gli stessi metodi di Atatürk senz'averne l'autorità e il prestigio, e per questo lo cacciarono. Ma dopo due anni di Khomeini, anche i più ciechi e idioti fra i progressisti occidentali, che ne avevano salutato l'avvento come quello del Redentore, si saranno accorti che il progresso, sia pure a forza di polizia segreta e di plotoni di esecuzione, era lo Scià. L'ayatollah è il medioevo. Sadat non seguì i metodi satrapeschi del suo amico Pahlevi, ma ne condivise i fini. [...] Il Rais che ha restituito all'Egitto l'integrità territoriale, l'indipendenza politica, il prestigio militare e il rilancio della sua più proficua industria, il canale di Suez, è giusto che susciti meno rimpianto di chi tutto questo all'Egitto fece perdere. Nasser era un «personaggio», Sadat una «personalità». Il personaggio fa colore e diverte, la personalità incute rispetto e disturba. (9 ottobre 1981)
  • Nessuna parentela, né vicina né lontana, con l'altro grande d'Israele, Ben Gurion, il Fondatore. [...] [David Ben Gurion] Faceva tutto a caldo, anche la guerra. Begin fa tutto a freddo: anche l'amore, credo, ammesso che lo faccia. Non riuscì a commuoverlo nemmeno Sadat, quando gli piombò, da nemico tuttora belligerante, a Gerusalemme, per chiedergli la pace. Il mondo, che vide in televisione la scena, quel giorno fu tutto per l'egiziano che, per la pace, firmava la propria condanna a morte, contro l'israeliano che lo accoglieva senza un sorriso e con visibile fastidio. [...] È l'uomo che non ha esitato un istante [...] a distruggere in pochi minuti tutto l'armamento corazzato, aereo e missilistico siriano sotto l'occhio stupefatto degli osservatori e «consiglieri» russi che lo avevano fornito. È l'uomo che ha messo alla porta l'ambasciatore di Mosca respingendone la nota di protesta addirittura con disprezzo, come se fosse stato lui la Grande Potenza che parlava a un subalterno. È l'uomo che ha picchiato i pugni sul tavolo di Reagan, e a un certo punto aveva rotto anche con lui. Se avesse perso, sarebbe finito al muro e passato ai posteri come il distruttore d'Israele. Ma ha vinto. E la Storia, iscrivendolo nei suoi registri come «Il Salvatore», dirà che solo un uomo come lui, «antipatico» come lui, e come lui disposto anche a scatenare un'altra ondata di antisemitismo, poteva vincere. E avrà ragione di dirlo. Perché è così. Alla fine lo diranno, vedrete, anche gli antisemiti. E forse perfino i semiti. (27 agosto 1982)
  • L'idea che domani potremmo incontrare per strada, a piede libero e magari oggetti di compassione, gli assassini di Walter Tobagi, ci riempie, più che di furore, di orrore. [...] Avevano scelto lui non per la sua tessera socialista, ma perché era una di quelle prede più facili: indifeso e abitudinario, e quindi bersaglio di facilissima mira, quasi da fermo. Tutto qui il movente del delitto: tutto nella fregola di protagonismo di due coccolatissimi giovanotti della Milano bene che giuocavano a fare i terroristi. [...] Che ora dobbiamo prendere per vero il loro pentimento e assolverli, ci rivolta lo stomaco. Ma è la legge: iniqua, infame, infamante. Ma è la legge. Noi stessi l'abbiamo auspicata e voluta. Il magistrato deve applicarla. E noi [...] accettarla. Ma una cosa reclamiamo, e ci spetta: di essere liberati dall'incubo d'incontrare questi figuri per strada per non veder riflessa nei loro occhi la nostra vergogna di aver avuto bisogno di loro e di aver risposto al loro falso rimorso con un perdono altrettanto falso. Un Curcio, se tornasse in circolazione, ci farebbe forse più paura, ma meno, anzi punto disgusto. [...] Ma i Barbone e i Morandini non li vogliamo tra i piedi. Se ne vadano. E soprattutto ci risparmino memoriali. La speranza di farci dimenticare i loro delitti, gliela passiamo. La pretesa di camparci sopra, no. (29 novembre 1983)
  • Per i falchi del Pci, Berlinguer era ormai un personaggio scomodo e pericoloso, specie da quando aveva cominciato ad allentare gli ormeggi che lo legavano a Mosca. Gli era perfino scappato di dire (a Pansa) che voleva per l'Italia un regime comunista, ma sotto l'ombrello della Nato che la tenesse al riparo dalle soperchierie del padrone sovietico: la più grave e blasfema di tutte le eresie in cui un capo comunista possa incorrere. (12 giugno 1984)
  • Se fino a che punto i piduisti – a parte il manipolatore Gelli, e forse qualche altro – fossero un branco di delinquenti golpisti, non siamo riusciti a capirlo. Abbiamo capito soltanto che gran parte di essi occupavano, forse grazie alla P2, posizioni di rilievo, e quindi parecchio ambite, ma ambite anche da molte persone che, per il fatto di non appartenere alla P2, avevano ora, grazie anch'esse alla P2, la possibilità di occuparle. Di fatti accertati e meno ancora di crimini provati, siamo andati invano alla ricerca delle 34.847 pagine della commissione. Vi abbiamo trovato soltanto ipotesi, illazioni, accostamenti di nomi e di episodi. Tutta roba che in mano a Le Carré poteva fruttare chissà quali affascinanti trame. In mano alla signorina Anselmi, resta cicaleccio di portineria. Ma questa è un'altra storia. (19 marzo 1985)
  • Quanto al moribondo Sindona [...] se fossi stato uno dei giudici popolari che l'altro giorno gli comminarono l'ergastolo, anche io avrei votato come loro pur sapendo che la mia endemica insonnia non ne avrebbe avuto giovamento. Comunque mi sembra che con questa fine, preceduta da quasi un decennio di rovine, umiliazioni, fughe e galere, egli abbia abbondantemente scontato, quali che siano, i suoi delitti. Che ora lo lascino riposare in pace e che pace sia all'anima sua. (22 marzo 1986)
  • Tutto pensavo che potesse capitarmi, fuorché di essere un giorno tentato di spendere qualche parola, per poco che valga, in difesa di Togliatti. [...] Un processo a Togliatti per stalinismo, se glielo intentano i socialisti, che nell'era dello Stalinismo gli fecero da mosca cocchiera, è una burletta. Se lo intentano i comunisti – come sembra che qualcuno di loro voglia fare –, oltre che oltraggio al pudore, diventa quiescenza alla voce del nuovo padrone, cioè stalinismo della più brutt'acqua, anzi una parodia dello Stalinismo. Per la caccia alle streghe, anche dello Stalinismo, ci vogliono degli stalinisti doc, qual era Togliatti. Non è roba da dilettanti, quali sono i suoi pallidi epigoni. (3 marzo 1988)
  • La fine del Muro è una cosa buona, la fine di una vergogna: non possiamo che salutarla con soddisfazione. Ma guardiamoci dal prendere abbaglio sui suoi moventi. Ulbricht concepì e Honecker realizzò il muro per impedire che i tedeschi dell'Est fuggissero in massa nella Germania dell'Ovest: già 9 (diconsi nove) milioni lo avevano fatto fin allora. E il rimedio fu, come tutti quelli che escogitano nei regimi totalitari, drastico e semplicistico: murare viva la gente dietro una colata di cemento, senza pertugi. [...] Abbiamo in uggia le astrazioni. Ma ciò che distingueva le due Germanie è l'idea morale e giuridica dell'uomo: che a Ovest è padrone di se stesso, e quindi può andarsene dove vuole: ad Est è proprietà dello Stato che ne regola i movimenti. Per chi non ricorda questo, il Muro di Berlino era, oltre che barbaro, incomprensibile e irrazionale: mentre invece ha obbedito a una sua logica. Nel momento in cui il bunker si affloscia e sopravvive come mero ammasso di cemento ricordandoci un altro bunker, quello che fece da fossa di Hitler (anche questo pare impossibile: ma i regimi in Germania muoiono nei bunker), il Muro va ricordato per ciò che è stato: non un'aberrazione del comunismo, ma una sua conseguente applicazione. E se crolla così, nel silenzio assordante di un giornale-radio, è perché è crollata, prima, l'ideologia che lo aveva eretto. (11 novembre 1989)
  • Negli anni Trenta, per le strade di Berlino, risuonava il grido: ein Volk, ein Reich, ein Führer: un popolo, uno Stato, un capo. Stavolta si sono contentati di scandire ein Volk, ein Reich. Non potevano aggiungere, checché ne dica il sig. Ridley, ein Kohl, che fra l'altro significa «cavolo». Ma [ai tedeschi] per diventare i padroni dell'Europa anche un cavolo gli basta. (3 ottobre 1990)
  • Abbiamo fatto poco: il poco che il Paese dei Formigoni, dei Cristofori, degli Sbardella, dei Balducci, dei vescovi di Molfetta poteva fare. Non lamentiamoci se il posto che ci verrà assegnato nel ristabilimento dell'ordine internazionale sarà nell'anticamera, non nella camera dei bottoni. Però sia chiara una cosa: che a gridare «Viva la pace!» siamo qualificati oggi soltanto noi che abbiamo auspicato la guerra contro chi la pace l'aveva turbata e, se lo si lasciava fare (non è un ipotesi, è una constatazione), avrebbe continuato a turbarla in un crescendo di colpi e di aggressioni. (1º marzo 1991)
  • I voti dei democristiani novaresi non sono andati al partito; sono andati a Scalfaro, democristiano talmente anomalo, che si permette persino di credere in Dio. [...] Il vecchio magistrato conosce il suo mestiere, e sa benissimo di operare in un Paese in cui la mamma dei Casson è sempre incinta. In nome della Legge, le leggi le farà funzionare. Insomma siamo sicuri che starà in Quirinale come un italiano deve starci: da straniero. Unico pericolo: le prediche. Anche Einaudi le faceva. Ma le chiamava «inutili». (26 maggio 1992)
  • Da dove siano venuti tutti i «no» non lo sapremo mai con precisione, ma una cosa è certa. Questo è il colpo di grazia al sistema dei partiti e della classe politica che lo rappresenta, e un colpo durissimo all'immagine del Paese pronto a fare pulizia che l'Italia si stava faticosamente costruendo all'estero. Senza giovare nemmeno a Craxi, che non potrà certo ricostruire la sua carriera sulla votazione di ieri, anzi. Se c'è ancora qualcuno che dubita sulla necessità di un pubblico processo, non solo a lui, ma a tutta la corte di faccendieri che lo circondava, alzi la mano, o meglio nasconda la faccia. (30 aprile 1993)
  • Questo è l'ultimo articolo che compare a mia firma sul giornale da me fondato e diretto per vent'anni. Per vent'anni esso è stato – i miei compagni di lavoro possono testimoniarlo – la mia passione, il mio orgoglio, il mio tormento, la mia vita. Ma ciò che provo a lasciarlo riguarda solo me: i toni patetici non sono nelle mie corde e nulla mi riesce più insopportabile del piagnisteo. [...] A presto dunque, cari lettori. Anche a costo di ridurlo, per i primi numeri, a poche pagine, riavrete il nostro e vostro giornale. Si chiamerà La Voce. In ricordo non di quella di Sinatra. Ma di quella del mio vecchio maestro – maestro soprattutto di libertà e indipendenza – Prezzolini. (12 gennaio 1994)

Rituale barbarico

Articolo su il Giornale nuovo, 10 maggio 1978.

  • La fine di Aldo Moro ci rende sgomenti, il fanatismo di chi lo ha ucciso lentamente, togliendogli la speranza prima di toglierli la vita, ci riempie di orrore. Speriamo ancora che la tracotanza dei criminali sia un giorno punita. L'importante, adesso, è che il Paese, proprio per rendere omaggio a Moro, e proprio in memoria di lui, sappia trarre da questa tragedia l'amara lezione che essa comporta. La democrazia non deve, anzi non può essere debole. La libertà, che la rende superiore a qualsiasi altro regime, ma anche più vulnerabile, non va conclusa con la indulgenza verso i nemici, la imprevidenza, la leggerezza.
  • Lo Stato italiano ha superato con onore questa prova difficile, ma la magistratura e gli organi di polizia hanno denunciato, nella loro azione, una desolante inefficienza, che ha permesso alle brigate rosse di operare con irridente spavalderia. Ne va data colpa non tanto alle forze dell'ordine quanto a chi ha voluto, per demagogia, per compiacere le sinistre, per acquistare facile popolarità, smobilitare i servizi segreti, rimuovere i funzionari più ligi al dovere, trasformare le carceri in alloggi con libera uscita quotidiana. Gli eversori della democrazia, i contestatori della legalità hanno potuto predicare e demolire senza ostacoli. Ci auguriamo di non vederli ora associati ipocritamente al compianto per un delitto del quale sono, ideologicamente se non materialmente, corresponsabili. Le loro non erano soltanto parole. Un giovane sfracellato da un ordigno sulla ferrovia Trapani-Palermo – l'episodio è di ieri – apparteneva a Democrazia proletaria. I banditi che hanno assalito a Bologna un grande magazzino venivano dal Movimento studentesco. È inutile che questi gruppi ostentino adesso costernazione e stupore per le belluine imprese delle brigate rosse. Il terrorismo è figlio loro.
  • All'annuncio della fine di Aldo Moro i sindacati si sono mossi, hanno indetto manifestazioni e proclamato uno sciopero generale. Siamo certi della loro profonda esecrazione, e della loro sincera partecipazione al cordoglio nazionale. Pensiamo tuttavia che i lavoratori e i loro rappresentanti darebbero un apporto più costruttivo alla lotta contro i terroristi tenendo d'occhio gli estremisti delle fabbriche, troppe volte protetti e difesi. Così pure gli studenti «impegnati», se proprio vogliono dissociarsi dalle brigate rosse, devono estromettere dalle loro file gli agitatori deliranti, e dinamitardi che nascondono bottiglie molotov e armi negli scantinati delle facoltà. Chi ha chiuso gli occhi di fronte alla escalation di violenza degli anni scorsi, li chiuda oggi per non lasciar scorrere lagrime di coccodrillo.

Poveri morti poveri vivi

Articolo su il Giornale, 31 maggio 1985.

  • L'Inghilterra non sono i forsennati che abbiamo visto all'opera nello stadio di Bruxelles. L'Inghilterra sono la Thatcher, i politici, i commentatori di stampa, radio e televisione, la gente intervistata per strada, che hanno confessato la loro vergogna a una voce, con una sola stecca: quella del ministro dello Sport che con le sue dichiarazioni si è messo sullo stesso piano degl'imbestialiti. Comunque, Dio ci guardi ora dai soliti sproloqui e dibattiti dei sociologi sui motivi di «tifo» e sui mezzi d'impedirne gli eccessi. Non ce ne sono, se non nel controllo che ognuno può e deve esercitare su di sé.
  • La strega non è il «tifo» che dallo sport è inseparabile. E non siamo nemmeno noi, come vogliono i cantautori del «siamo tutti colpevoli» che ieri giornali e radio hanno intitolato. Perché, se di qualcosa siamo colpevoli, è di aver sempre secondato la corruttrice e demagogica tendenza a scaricare l'individuo di ogni responsabilità, rigettandola regolarmente e interamente sulla società. È la società che ci obbliga a rubare, è la società che ci obbliga ad uccidere. E si capisce che quando si offrono alla gente di questi alibi, c'è sempre qualcuno che ne approfitta. Stamane leggevo su un giornale francese un dotto articolo in cui si spiegava che la furia dei tifosi del Liverpool era dovuta al fatto che, essendo quasi tutti minatori, per un anno erano rimasti senza lavoro a causa dello sciopero: il che gli aveva fatto accumulare la rabbia che poi era scoppiata a Bruxelles. Insomma, senza dirlo, l'articolo induceva alla conclusione che il vero responsabile del massacro era la signora Thatcher. Ecco in che senso siamo tutti colpevoli. Siamo colpevoli di assolvere tutti come vittime innocenti di una società iniqua che, a furia di essere tutti noi, non è nessuno. È un giuoco a cui non ci stiamo. I responsabili di Bruxelles sappiamo chi sono: sono i delinquenti che abbiamo visto avventarsi, prima che la partita cominciasse, e quindi senza alcuna provocazione, contro i tifosi italiani con sbarre e coltelli di cui erano accorsi armati, con l'evidente intenzione di farne l'uso che ne hanno fatto. Delinquenti, non vittime. La società non c'entra, non c'entrano le miniere. Casomai l'alcol. Ma ne avevano ingerito per delinquere meglio. Speriamo che la polizia li identifichi e li consegni a quella inglese. Della quale possiamo fidarci.

I rieccoli

Articolo su il Giornale, 20 gennaio 1990.

  • Scorrendo le cronache delle agitazioni studentesche di questi giorni avevo avuto per un momento l'impressione, o l'illusione, che esse si fondassero sui problemi concreti dell'università, e che fossero qualcosa di diverso, e di migliore della grottesca ubriacatura sessantottina. Ma quando giovedì sera, nella trasmissione televisiva Samarcanda, è stato lanciato contro Mario Cervi il rituale e vile epiteto «fascista!» (e questo solo perché aveva mosso obiezioni agli sproloqui assembleari di Roma e di Palermo), ho capito che vent'anni dopo è come vent'anni prima. La protesta è un pretesto, il legittimo scontento diventa arma politica, gli appelli al dialogo si risolvono in volontà di sopraffazione, di discussione su ciò che nell'università deve essere cambiato sfocia in un attacco globale al governo, alla società, al sistema. L'unica connotazione sessantottina che ancora manca è la violenza fisica. Ma temo che non tarderà ad arrivare se chi dissente è bollato come fascista e chi governa (è capitato ad Andreotti, a Palermo) come mafioso.
  • Quanto alla legge Ruberti, Cervi ha osservato che viene presa di mira perché consentirebbe un limitato ingresso dei privati nella gestione delle università: e al solo sentir parlare di «privato» – che le folle e i giovani dell'Est chiedono con slancio entusiastico – gli epigoni nostrani del marxismo-leninismo sono presi da convulsioni. [...] La legge Ruberti è passata in sott'ordine, il punto centrale del dibattito – o piuttosto della successione di sproloqui, intimazioni e insulti – è diventato il degrado di questa povera Italia privatizzata, che invece conoscerebbe fulgidi destini se fosse tutta pubblica e stabilizzata. Gli slogans, le utopie, le bugie e le dissennatezze sessantottine o settantasettine riemergevano dalle pagine dei libri e dalla polvere degli archivi, per imitazione o per transfert generazionale.
  • Tirava aria romena o cecoslovacca in quelle assemblee: ma della Romania e della Cecoslovacchia di Ceausescu e di Husak, con l'idolatria dello Stato, con gli applausi unanimi, con la riduzione al silenzio degli oppositori. S'è sentito, a proposito sempre di Cervi, il sinistro termine «provocazione» con cui tutti gli oppressori legittimano i loro soprusi. Qualcuno di quei ragazzi pretende che esistano parentele tra questo movimento e quelli dell'Est, dimenticando che là ci si batte, a rischio della pelle, per instaurare non il regime dello statalismo, ma al contrario per abbatterlo e introdurre o reintrodurre quello di iniziativa privata in tutti i campi, compreso quello della cultura e della scuola. Che siano diventati, gli studenti di Berlino, di Praga, di Bucarest, fascisti anche loro?

Controcorrente – rubrica

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  Citazioni in ordine temporale.

  • La cosa che più ci turba, delle nostre sconfitte sportive, è il grande, alluvionale bisticcio che si scatena fra i «tecnici» per giustificarle. Per quella di Stoccarda, che ci ha eliminato dal campionato del mondo, ne avremo – temiamo – per tutta l'estate: se ne parlerà più che di Caporetto. Noi tecnici non siamo, ma abbiamo la nostra idea. È questa: che non si possono mandare dei polli di batteria a competere con quelli ruspanti. Resta da capire perché noialtri non sappiamo allevare che polli di batteria. Ma ci sembra che questo sia sufficientemente spiegato da un piccolo episodio occorso a Roma, dove un gruppo di tifosi ha creduto di «vendicare» i suoi campioni (si fa per dire) assalendo con pomodori e uova l'ambasciata di Polonia. Ecco. Per un paese in cui la «sana passione sportiva» si effonde in simili manifestazioni, quegli undici mammozzi dalle gambe molli sono fin troppo, e fin troppo misericordiose le disfatte che subiscono. (25 giugno 1974)
  • Noi, di fascismi ne conosciamo e ne esacriamo uno solo: quello di chi appiccica questa etichetta a qualunque idea o opinione che non corrisponde alle sue. Di questo giuoco, la nostra sinistra è spesso maestra. Non per nulla lo stesso Mussolini veniva dai suoi ranghi. (10 luglio 1974)
  • In una conferenza stampa a Nuova Delhi, Henry Kissinger ha dichiarato che verrà a Roma e andrà a pranzo dal presidente Leone, ma non parlerà di politica perché quella italiana è, per lui, troppo difficile da capire. È la prima volta che Kissinger riconosce i limiti della propria intelligenza. Ma vogliamo rassicurarlo. A non capire la politica italiana ci sono anche cinquantacinque milioni di italiani, compresi coloro che la fanno. (31 ottobre 1974)
  • Dario Fo, poeta di corte dell'ultrasinistra, flagella nella sua ultima fatica teatrale il senatore Amintore Fanfani, responsabile di ogni nequizia passata, presente e futura. I sarcasmi più grevi hanno però come bersaglio il metraggio del notabile democristiano che, come tutti sanno, non è quello di un granatiere. Toulouse-Lautrec, che per gli stessi motivi dovette per tutta la vita subire analoghe canzonature, disse una volta, giocando sulla lunghezza del suo doppio casato: «Ho la statura del mio nome». Non sappiamo se questo discorso si possa applicare a Fanfani. Certo, si applica a Fo. (11 giugno 1975)
  • Churchill diceva che «i panni dei servizi segreti si possono, anzi si devono lavare più spesso degli altri; ma, a differenza degli altri, non si possono mettere ad asciugare alla finestra». Dello stesso parere era Stalin che regolarmente, ogni tre o quattro anni, il lavaggio lo praticava facendo accoppare al buio i capi della sua polizia, nel presupposto – probabilmente fondato – che a far quel mestiere non potevano essere che arnesi da forca, e quindi era giusto che ci finissero. Gli americani seguono tutt'altro criterio. Essi hanno trascinato la Cia in televisione denunciandone coram populo fatti e misfatti. I suoi capi ne hanno commessi, dicono, di grossi. Ma il più grosso è forse quello di non aver capito che l'America non li paga per svolgere servizi segreti, ma per offrire agli americani il pretesto per vergognarsene. È l'unico popolo che goda più nel pentimento che nel peccato. (28 novembre 1975)
  • Non sempre, per redigere questa piccola rubrica, occorre forzare la fantasia. Qualche volta basta lasciare la parola alle agenzie di stampa ufficiali. Eccone un caso. L'agenzia Adn Kronos comunica: «Due giorni di sciopero sono stati dichiarati dai sindacati postelegrafonici milanesi per il 28 gennaio e per il 6 febbraio per protesta contro gli scioperi e i disservizi». (25 gennaio 1976)
  • L'Unità ci rimprovera di aver pubblicato il manifesto degl'intellettuali in favore della libertà. E ha ragione. Si tratta infatti di una illecita concorrenza perché finora i manifesti, gli appelli, le «veglie» e tutto il resto sono stati monopolio del Pci, unico partito capace di far cantare la gente in coro. Ma appunto per questo non vediamo di che si preoccupi. Gl'intellettuali italiani che preferiscono aver ragione da soli piuttosto che torto con gli altri, sono pochi. I più seguono la massima di Toulet: «Quando i lupi urlano, urla con loro». (1º giugno 1976)
  • Ieri Fortebraccio, dalle colonne dell'«Unità», ha invocato per noi, previa qualche iniezione, il ricovero immediato, e a titolo definitivo, in manicomio. La cosa non ci stupisce: sappiamo benissimo che di manicomi e di iniezioni nessuno s'intende più dei comunisti: chi c'è passato giura che ci hanno fatto una mano da maestri. Ci stupisce però che Fortebraccio lo abbia implicitamente – e un po' anzitempo – riconosciuto. Forse gli è scappata. Alla sua età, succede. (10 dicembre 1976)
  • Cadendo oggi il trigesimo della scomparsa di Pietro Valdoni, vogliamo rievocare un episodio del grande chirurgo. Come tutti ricorderanno, fu lui ad operare, salvandogli la vita, Palmiro Togliatti, ferito alla testa dalla rivoltella di Pallante. Quando ricevette la parcella, Togliatti la trovò salata, e accompagnò il pagamento con queste parole: «Eccole il saldo, ma è denaro rubato». Valdoni rispose: «Grazie per l'assegno. La provenienza non mi interessa» (23 dicembre 1976)
  • «Dio non è un maschio» assicura alle femministe Civiltà Cattolica, l'autorevole rivista dei gesuiti, scusandosi «delle tracce di antifemminismo che ancora sono nella Chiesa». Brutto segno quando i teologi si mettono a discutere di sesso. Fu mentre i bizantini si accapigliavano su quello degli angeli che arrivarono i turchi. (21 giugno 1977)
  • Riferiscono le cronache che l'America è in subbuglio per la morte di Elvis Presley. Oltre centomila persone si sono riversate a Memphis, sua ultima dimora, due donne sono rimaste uccise nella calca che si stringeva intorno alle spoglie del cantante. Il sindaco ha fatto abbrunare le bandiere in tutta la città, il presidente Carter è stato flagellato di proteste perché non aveva proclamato il lutto nazionale e uno gli ha gridato al microfono: «Noi americani dobbiamo più a Presley che a Washington e a Lincoln sommati insieme». Anche noi italiani dobbiamo qualcosa a Presley: una delle rare occasioni in cui preferiamo essere italiani piuttosto che americani. (20 agosto 1977)
  • È in corso una iniziativa per l'abolizione, nelle aule scolastiche, della pedana su cui si eleva la cattedra. Il perché lo avrete già capito: l'insegnante deve mettersi, anche materialmente, a livello degli alunni per non lederne la dignità e dimostrare con l'esempio che siamo tutti uguali. Giusto. «La via dell'uguaglianza – dice Rivarol – si percorre solo in discesa: all'altezza dei somari è facilissimo instaurarla». (29 ottobre 1977)
  • Fra gli annunci economici di Lotta Continua, ne è comparso uno che dice: «Compero a L. 100.000 una tesi di laurea, anche già presentata, purché tratti un argomento attinente all'Inghilterra, o alla lingua, storia, letteratura inglese. Meglio se con una impostazione femminista». Curioso. Questi grandi rivoluzionari, che dicono di battersi per costruire una società nuova di zecca, quando si tratta di lauree, si contentano anche di quelle usate e di seconda mano. (3 marzo 1978)
  • Credevamo che l'assassinio di Aldo Moro, così come è stato eseguito, fosse il colmo dell'infamia. Abbiamo dovuto ricrederci. Al comizio di protesta svoltosi in piazza Duomo a Milano subito dopo la macabra scoperta in via Caetani a Roma, un gruppo di ultrà ha gridato: «Moro fascista!». Preferiamo le zanne delle belve alla bava degli sciacalli. (10 maggio 1978)
  • Ecco il nostro telegramma di congratulazioni e auguri a Pertini: «Che Dio le conceda il coraggio, Presidente, di fare le cose che si possono e che si debbono fare; l'umiltà di rinunziare a quelle che si possono ma non si debbono, e a quelle che si debbono ma non si possono fare; e la saggezza di distinguere sempre le une dalle altre». (9 luglio 1978)
  • Dall'indagine svolta da uno dei più seri istituti di ricerche demografiche, lo svizzero Scope, risulta che la professione più ammirata e rispettata, nel mondo, è quella dei medici. I giornalisti sono al penultimo posto. Ce ne sentiremmo profondamente avviliti se all'ultimo non vedessimo catalogati gli editori. (29 novembre 1978)
  • In un convegno su «Terrorismo e informazione», a Roma, è stato unanimemente riconosciuto che il segreto istruttorio in Italia non esiste. Lo trasgrediscono tutti. Non solo giornalisti e avvocati – e ancora passi – ma perfino magistrati che anticipano e propalano, il più delle volte per farne strumento politico, notizie riservate. «È il segreto di Pulcinella» si è lamentato il procuratore capo della Capitale, De Matteo. È vero. Ma Pulcinella non era giudice. E i giudici non dovrebbero essere Pulcinella. (25 aprile 1979[70])
  • Solo il tempo non perde tempo, diceva Renard. E così, a furia di annunciarne i cambiamenti, il tempo è passato anche per il colonnello Bernacca, che ora deve rassegnarsi alla pensione. Peccato. Gli dobbiamo parecchi raffreddori e reumatismi. Ma nessuno riuscirà meglio e con più grazia di lui a farci capire ed accettare l'inutilità della meteorologia. (10 luglio 1979[71])
  • Prima di partire per Vienna, il presidente [degli Stati Uniti] Carter ha fatto due dichiarazioni. La prima: «Ci auguriamo che il signor Breznev [allora presidente dell'Unione Sovietica e Primo Segretario del PCUS] abbia per le nostre ragioni la stessa comprensione che noi abbiamo per le sue». La seconda: «Se Ted Kennedy si presenta contro di me alle elezioni presidenziali, gli faccio un c.o così» Il triviale Nixon avrebbe potuto dire le stesse cose, ma certamente ne avrebbe invertito l'ordine di priorità riservando la comprensione a Kennedy ed il c.o a Breznev. La differenza fra i due è tutta qui. (16 giugno 1979)
  • Avvicinandosi il 25 dicembre, decine di migliaia di teneri abeti vengono strappati dai boschi della Penisola per allestire il tradizionale albero di Natale. Ogni anno lo scempio si ripete, tra la generale indifferenza. Soppresso l'Ente protezione animali, figuriamoci se qualcuno ha voglia di proteggere gli alberi. Diciamo la verità: la sola pianta che interessi all'italiano medio è la pianta stabile. (19 dicembre 1979)
  • Nel Manifesto di domenica scorsa tale K.S. Karol faceva considerazioni amare sulla rivoluzione cubana e sui suoi fallimenti: «Fidél – ha ricordato il commentatore, uno dei tanti orfani delle illusioni di sinistra – prometteva ai cubani per il 1965 un tenore di vita pari a quello svedese». Certo Fidél si è sbagliato di grosso; non per cattiva volontà, ma per mancanza di uomini, anzi di un uomo. Sarebbe bastato che anche la Svezia avesse uno suo Castro al potere per ritrovarsi in pochissimi anni con un tenore di vita pari a quello cubano. (15 aprile 1980)
  • Riferiscono le cronache che quando è giunta in tribunale la notizia dell'assassinio di Walter Tobagi, il brigatista Corrado Alunni l'ha accolta con una sghignazzata di tripudio. Abbiamo sempre combattuto la pena di morte sul presupposto che l'uomo non ha il diritto di uccidere l'uomo. Il presupposto lo confermiamo. Ciò di cui cominciamo a dubitare è che gli Alunni e quelli come lui siano uomini. Sui cadaveri sghignazzano le jene. (30 maggio 1980)
  • A Mirafiori, parlando agli operai della Fiat in sciopero, il sindaco di Torino, Novelli, se l'è presa coi giornalisti e li ha additati all'uditorio come falsari che ricalcano i loro resoconti non sui fatti, ma sulle «veline» distribuite loro dai «padroni». Anche Novelli ha fatto il giornalista in un foglio comunista, e quindi di veline e di padroni è certamente un intenditore. Ma se dopo questa denuncia ci scappa un altro Casalegno, sarà molto gradita la sua assenza ai funerali. (8 ottobre 1980)
  • Grandi elogi – dopo il successo del blitz di Trani – alle «teste di cuoio» italiane. La loro azione ha dimostrato quanto poco valesse la strategia della flessione propugnata di alcuni personaggi. Teste anche loro: ma di che? (31 dicembre 1980)
  • Fra i tanti slogans che il partito socialista francese ha lanciato in occasione delle elezioni presidenziali per rassicurare i bravi borghesi sottolineando il proprio carattere moderato e riformista, abbiamo letto anche questo: «Il socialismo può fare di chiunque un milionario». Ci crediamo senz'altro. A patto che quel chiunque fosse prima un miliardario. (8 maggio 1981)
  • Per gl'italiani, finora, il nome di Gelli era quello dell'autore del più famoso e autorevole codice cavalleresco. Anche oggi rimane legato a un codice. Quello penale. (9 maggio 1981)
  • L'elenco degli affiliati alla P2 comprende, dicono, 953 nomi, cui corrispondono i più alti gradi della politica, della magistratura, delle forze armate, della burocrazia, dell'industria, della finanza. Tutti «fratelli». È la riprova che, in questo Paese, guai ai figli unici. (11 maggio 1981)
  • Macché pazzo! L'attentatore del Papa deve essere un furbo matricolato. Dichiarandosi seguace di George Habbas e della causa palestinese, ha cercato di procurarsi la solidarietà dei molti, dei moltissimi, che non battono ciglio quando un terrorista cerca di spedire qualcuno all'altro mondo. Purché il terrorista appartenga al terzo. (16 maggio 1981)
  • Studiosi cinesi, mettendo a confronto reperti di ominidi dissimili tra loro tanto da far pensare che l'uomo discenda anche da animali diversi dalla scimmia, sono arrivati alla conclusione che i nostri progenitori erano comunque scimmie, ancorché di specie differenti. Ci pare logico. Quale altro animale avrebbe potuto imitare la scimmia che ha dato l'avvio alla razza umana se non un'altra scimmia priva di senso critico? (19 maggio 1981)
  • Una nostra redattrice andata per una sua cronaca sul femminismo alla «libreria delle donne» in via Dogana a Milano, è stata accolta da una di loro con queste parole: «Con te non parlo perché sei di un giornale fascista, e anche tu hai la faccia da fascista». La nostra redattrice, che ha ventun anni, probabilmente non sapeva bene cosa fosse il fascismo. Ora lo sa: lo ha imparato in quella libreria. (4 novembre 1981)
  • Come previsto, la Juventus ha conquistato il ventesimo scudetto battendo il Catanzaro. Una vittoria di rigore. (17 maggio 1982)
  • Socialisti e comunisti si sono opposti alle sanzioni economiche contro l'Argentina perché, hanno detto, una buona metà degli argentini sono di origine italiana, e molti di loro conservano tutt'ora la nostra nazionalità. Vero. Ma non ci eravamo accorti che queste sinistre spasimassero tanto d'amore per i nostri connazionali di laggiù quando si trattava di riconoscergli il diritto di voto. (22 maggio 1982)
  • Se si va avanti di questo passo, la guerra delle Falkland (o Malvine) finirà quando l'ultimo aereo argentino sarà abbattuto col suo carico di bombe sull'ultima nave inglese. E dire che questa lotta di leoni si svolge per un'isola di Pecore. (27 maggio 1982)
  • Tutti abbiamo trepidato ieri, davanti al televisore, per le sorti della squadra azzurra, tutti ci siamo entusiasmati alle sue gesta, tutti abbiamo salutato con orgoglio la sua vittoria. Ma il tipo di patriottismo che questa ha suscitato nelle strade delle nostre città, messe a soqquadro dai tifosi scalmanati che usavano il tricolore a copertura del peggior teppismo, ci ha fatto rimpiangere di non essere nati brasiliani. (6 luglio 1982)
  • Mai visto così tanto entusiasmo patriottico, tanti tricolori per le strade come per la finale degli azzurri al Mundial. Nella tomba di Caprera, le ossa di Garibaldi fremono di invidia. Per unificare l'Italia «in un solo grido, in una sola passione» gli erano accorsi mille uomini. A Bearzot ne sono bastati undici. (12 luglio 1982)
  • Gli scrittori Mario Soldati (Psi) e Gianni Brera (Psi) sono stati trombati [non sono stati eletti]. Peccato. Il Parlamento era l'unico posto in cui, dovendo parlare per gli altri, forse avrebbero finalmente taciuto. (1º luglio 1983)
  • Che Craxi sia uomo di grandi capacità e ambizioni, lo si sapeva. Che sia anche uomo di grande coraggio, lo si è visto ieri, quando pronunciava alla Camera il suo discorso di replica. Per due volte si è interrotto alla ricerca di un bicchier d'acqua. Per due volte Andreotti glielo ha riempito o porto. E per due volte lui lo ha bevuto. (13 agosto 1983)
  • Condannato dal tribunale di Reggio Emilia per bestemmie e turpiloquio contro la Chiesa, Roberto Benigni avrebbe qualche ragione di considerarsi vittima di un'ingiustizia. Proprio il giorno prima la Chiesa riabilitava Martin Lutero, scomunicato ai suoi tempi pressappoco per gli stessi motivi. Come cambia, coi tempi, la sorte degli uomini! È inquietante pensare che Benigni, se fosse vissuto cinquecent'anni fa, sarebbe forse diventato Lutero. Ma addirittura sconvolgente è che Lutero, se fosse nato cinquecent'anni dopo, sarebbe forse diventato Benigni! (8 novembre 1983)
  • Il più autorevole giornale americano di economia e finanza, il Wall Street Journal di martedì 10 gennaio, è incorso in un curioso lapsus. Parlando del concordato fra lo Stato italiano e la Santa Sede, scrive che esso «venne firmato nel 1929 da Bettino Mussolini». Chissà, se lo legge, come si arrabbia Benito Craxi. (12 gennaio 1984)
  • È comparsa sui giornali la pubblicità di una nuova opera di Fanfani, intitolata «La Dc e la svolta degli anni 80». L'editore avverte che si tratta di un libro formato «tascabile». Dato l'autore, poteva andare diversamente? (16 gennaio 1984)
  • È vero: la Juventus, a Basilea, non ha fatto una gran figura. Giocando con più cervello, poteva vincere comodamente 4-0. Ma attenti a non giudicare troppo severamente il Porto. Quello di Genova va molto peggio. (18 maggio 1984)
  • Il trentanovenne James Nelson, condannato da un tribunale di Londra a quindici anni per avere ucciso la madre a colpi di mattone, ha sentito, chiuso in cella, la vocazione sacerdotale: si è messo a studiare teologia, e ora sta per diventare prete nella chiesa scozzese. «È mia intenzione – ha dichiarato – contribuire alla edificazione di una nuova società». Si può credergli: i mattoni ha dimostrato di saperli usare. (25 maggio 1984)
  • L'agenzia Agi informa, con un drammatico flash, che il ministro Andreotti, «impegnato in una riunione superistretta con gli altri 15 ministri degli esteri della Nato, perderà la partita Roma-Liverpool». È giusto il fatto che faccia notizia: è la prima volta che Andreotti perde qualcosa. (31 maggio 1984)
  • Presso la Presidenza del Consiglio, a palazzo Chigi, è stata istituita una commissione di giuristi per la completa parificazione dei diritti fra i due sessi. Finalmente! Era ora che ce la riconoscessero, a noi uomini. (16 ottobre 1984)
  • La riforma dei programmi della scuola elementare, cui sta lavorando il Ministro Falcucci, introdurrà nella terza, quarta e quinta classe l'insegnamento di una lingua straniera. Non è specificato quale. Speriamo che si tratti dell'italiano. (21 gennaio 1985)
  • Un certo Nichi Vendola, dirigente della Federazione giovanile comunista, ha lanciato l'idea di riconoscere formalmente un «diritto dei bambini ad avere rapporti sessuali tra loro o con gli adulti». Vendola ha detto di aver attinto questa idea all'esperienza di molti padri. A conferma di quanto scrive Courteline nella sua «Filosofia»: «Uno dei più chiari effetti della presenza di un bambino in una casa è di rendere completamente idioti dei genitori che forse, senza di lui, sarebbero stati degl'imbecilli comuni». (26 marzo 1985)
  • I tecnici di calcio sono rimasti stupiti dalla prova del Real Madrid che nella semifinale della coppa Uefa ha letteralmente travolto i modesti giocatori dell'Inter. I madrileni hanno proprio vinto a biglia sciolta. (26 aprile 1985)
  • Quando Sandro Pertini è apparso sul video di Raiuno che trasmetteva la premiazione del concorso ippico di Roma, il cronista ha commentato: «Anche i cavalli, come vedete, sono gentili col Presidente». Era vero. Forse meritano di essere fatti cavalieri. (5 maggio 1985)
  • I tifosi rossoneri sono in festa per la notizia che Berlusconi sta per acquistare il loro Milan. Sono convinti che in un battibaleno ne farà una squadra da scudetto, da coppa delle coppe, da tutto, e forse hanno ragione. C'è un solo pericolo: che il neo-presidente voglia fare anche il direttore tecnico, l'allenatore, il massaggiatore, il capitano e il centrattacco. Il che potrebbe andar anche bene. Ma ad una condizione: che possa fare anche l'arbitro. (27 dicembre 1985)
  • Rete Quattro e Italia 1 sono state multate per violazione del decreto che proibisce la propaganda al consumo del tabacco. Lo spot incriminato è quello che, parlando del «Camel Trophy», ostentava un pacchetto di sigarette della ditta sponsorizzatrice. Strano Paese, il nostro. Colpisce i venditori di sigarette, ma premia i venditori di fumo. (13 marzo 1986)
  • Molti lettori ci chiedono quale missione sta svolgendo l'on. Capanna a Tripoli, quali motivi l'hanno spinto da Gheddafi. Non ne sappiamo granché: non siamo abituati a ficcare il naso nelle altrui questioni di famiglia. (1º giugno 1986)
  • Oggi Paolo Pillitteri sarà designato alla successione di Tognoli come sindaco di Milano. Lo dipingono come uomo intelligente, efficace, insomma pieno di qualità. Purtroppo, gli manca quella fondamentale: il celibato. (5 dicembre 1986)
  • Finalmente, dopo sette anni di esilio a Gorky, l'impavido Andrei Sacharov è tornato a Mosca. Speriamo che Gorbaciov ci resti. (24 dicembre 1986)
  • L'agenzia Ansa riferisce che da un sondaggio operato in Francia su un pubblico internazionale, risulterebbe che il maschio italiano detiene ancora il primato mondiale della seduzione. Speriamo che i giornali non riportino la notizia: gl'italiani sarebbero capaci di crederci. (15 marzo 1987)
  • Per la prima volta nella storia della Corte Costituzionale, il nuovo presidente, Francesco Saja, è stato eletto al primo scrutinio. Ma il rivale sconfitto, Ferrari, ha sollevato eccezione accusando il vincitore di averlo battuto grazie a un «compromesso storico» fra elettori democristiani e comunisti, aggravato da un intrallazzo fra siciliani. Vero o falso, dalla Corte al cortile. (5 giugno 1987)
  • Ieri tutti i telegiornali ci hanno martellato negli occhi le immagini dei capibastone – Craxi, De Mita, Spadolini, Altissimo ecc. – che infilavano la scheda nell'urna. I loro volti raggiavano di soddisfazione. Erano gli unici elettori matematicamente sicuri di aver dato il voto al candidato ideale. (15 giugno 1987)
  • In una scuola di Chattanooga, nel Tennesse (Usa), due sedicenni, approfittando dell'assenza dell'insegnante, si sono baciati e hanno fatto l'amore davanti a una decina di compagni, niente affatto scandalizzati. Dato il lassismo di certe scuole americane, gli esami in cui gli studenti riescono meglio sono proprio queste prove orali. (4 giugno 1988)
  • Diciannove persone hanno dichiarato d'aver visto aggirarsi, tra le quinte della Scala, il fantasma di Maria Callas. Non ci meravigliamo, anche perché migliaia di altri frequentatori del massimo teatro lirico italiano sostengono da tempo di vedere, alla Scala, il fantasma della Scala. (28 giugno 1988)
  • Scoprendo le istituzioni britanniche con un secolo e mezzo di ritardo, i comunisti sembrano fermamente intenzionati a formare il loro «shadow Cabinet». Ma onestamente non ne afferriamo la ragione. Non c'è nessun bisogno di un governo ombra per contrastare quest'ombra di governo. (5 maggio 1989)
  • Da un sondaggio condotto tra i francesi risulta che il personaggio più noto d'Oltralpe è Marcello Mastroianni, conosciuto dall'83 per cento degli intervistati. Il 97 per cento dei francesi invece confessa di non sapere chi sia Ciriaco De Mita. Quando si dice un Paese fortunato... (20 maggio 1989)
  • Gerardo Iglesias, che fu segretario generale del partito comunista spagnolo dall'82 all'88, ha lasciato l'attività politica per riprendere il suo lavoro di minatore di carbone, «l'unico modo in cui posso guadagnarmi degnamente la vita». Alcuni dirigenti del Pci, a quanto risulta, vorrebbero imitarne l'esempio, tornando al vecchio lavoro. Il difficile è trovare chi ne aveva uno. (1º giugno 1990)
  • Durante la festosa «notte del mondiale», la polizia romana ha arrestato, nelle vicinanze dello stadio olimpico, 29 borsaioli e scippatori. Il signor Codesal Mendez, arbitro della partita Germania-Argentina, non figura nell'elenco. (10 luglio 1990)
  • Il giudice veneziano Casson ha convocato, per la storia del Gladio, il presidente Cossiga, e l'Italia leguleia è in subbuglio: la Costituzione, pure, si è dimenticata di precisare se il Capo di Stato può essere chiamato a rispondere, sia pure da testimone, a un qualunque magistrato. Il quale però ha ora la fotografia su tutti i giornali. E tutti possono ammirarla chiedendosi che cosa passa in quella testa, la testa di Casson. (10 novembre 1990)
  • Gli studenti italiani manifestano rumorosamente per la pace e contro la guerra. La guerra, diceva Clemenceau, è una cosa troppo seria per lasciarla fare ai militari. Ma anche la pace è una cosa troppo seria per lasciarla fare ai pacifisti. (20 gennaio 1991)
  • Occupandosi – tra tanto Golfo – del Festival di Sanremo il Tg3 ci ha dato, finalmente, ieri sera, una notizia credibile: il livello delle canzoni, ha detto, è destinato a salire. Infatti: sentite le prime è impossibile che scenda. (1º marzo 1991)
  • Da un'indagine risulta che il 41,9% degli italiani non considera illecito l'assenteismo dal lavoro e che il 41,3% non considera peccato le infedeltà coniugali. La coincidenza delle due cifre spiega in che modo gli statali impiegano il tempo che dovrebbero dedicare all'ufficio. (3 ottobre 1991)
  • A quest'ora Padre Balducci è di fronte al Supremo Giudice, nel quale affermava di credere. Almeno a Lui dovrà spiegare non ciò che diceva contro la Chiesa, ma perché lo diceva travestito da frate. (26 aprile 1992)
  • Nell'ultima tornata presidenziale è emerso, con un bel pacchetto di 20 voti, Aldo Aniasi. Finalmente. In questo imperversare di tangenti e bustarelle, era ora che qualcuno si ricordasse di lui. (24 maggio 1992)
  • Per sfatare le malevole dicerie su certe bestie, il presidente degli «animalisti» italiani ha offerto un premio di 200 milioni a chi potrà dimostrare che i corvi scrivono lettere anonime e che le talpe fanno le spie. È vero: di simili casi non ne conosciamo. Ma di somari che fanno i presidenti, ne conosciamo parecchi. (5 luglio 1992)
  • Dopo le invettive e i clamori da cui il presidente del consiglio Amato è stato accolto in Senato per la sua insensibilità alla crisi morale che investe il Paese, il dibattito sulla medesima si è svolto, a Montecitorio, in un'aula deserta. Sì, una crisi morale, per la nostra classe politica esiste: lo dimostra il vuoto in cui l'ha lasciata cadere. (14 marzo 1993)
  • «I socialisti – ha detto l'ex ministro della Difesa Salvo Andò – devono andare tutti nudi verso la meta di un nuovo sistema politico». Come faranno senza le tasche? (24 maggio 1993)
  • Il candidato del Psi per le elezioni a sindaco di Roma sarà Niccolò Amato. Assennata scelta. Ex direttore delle carceri, Amato è certamente il più qualificato a rappresentare quel partito. (23 settembre 1993)
  • Giovedì sera annuncio a sorpresa di Emilio Fede nel suo Tg4: «Adesso – ha detto – voglio parlarvi di informazione». C'è sempre una prima volta. (8 gennaio 1994)
  • Secondo un sondaggio della Diacron (gruppo Fininvest), l'82 per cento dei lettori del «Giornale» sarebbe schierato con Berlusconi. Vero. Almeno com'è vero che Berlusconi diventerà presidente del Consiglio. (12 gennaio 1994)

La parola ai lettori – rubrica

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  • I tennisti italiani hanno disputato la finalissima di Coppa Davis a Praga, e nessuno ha battuto ciglio. Le squadre di calcio italiane frequentano gli stadi dell'Est, a cominciare da quelli russi, e i puristi della democrazia non ci trovano nulla a ridire. Ma per l'Uruguay – che con i suoi tre milioni di abitanti e la sua posizione geografica non mi pare possa essere considerato una minaccia troppo grave alla libertà dei Paesi democratici – c'è puntuale la protesta. Come se l'Uruguay potesse invadere, espandersi, insidiare, inviare – direttamente o indirettamente – eserciti di mercenari in mezzo mondo, e l'Unione Sovietica no. Possiamo capire gli intransigenti della democrazia: ma possiamo soltanto disprezzare i farisei che hanno l'indignazione dimezzata. Si calmino Bruno Conti e Pruzzo. Né l'Uruguay, né il suo regime, meritano tante ansie e tanta ostilità. Mosca è più vicina – lo sanno bene i polacchi – e Kabul anche. (31 dicembre 1980)
  • Non abbiamo mai «coperto», come si usa dire, questo nostro socio (che ha il 37, non il 36% del Giornale), anche perché non vediamo da cosa dovremmo coprirlo. Berlusconi non è né un politico né un gerarca civile o militare, e non svolge nessuna pubblica funzione incompatibile con l'appartenenza alla massoneria. È un privato imprenditore e cittadino che quando fa una balordaggine (e l'iscrizione alla P2 lo è) la fa a proprio rischio e pericolo. Come lei avrà visto, il suo coinvolgimento nella P2 non ci ha impedito di dire, di Gelli e della sua banda, tutto il male che ne pensiamo. (31 maggio 1981)
  • In tutti questi anni che è stato con noi, [Silvio Berlusconi] si è sempre comportato nella maniera più signorile, ed anche in questa circostanza ci ha dato le più ampie garanzie. (14 aprile 1987)
  • Nel panorama sudamericano il Cile è oggi uno di quei paesi economicamente più solidi e con maggior progresso, tanto da meritare gli elogi del Fondo monetario internazionale. Ma la postilla impone a sua volta una precisazione. È più facile fare il risanamento economico monetario in Cile, dove i sindacati sono inesistenti o impotenti, che non in Argentina, dove il sindacato incalza il governo e pretende aumenti salariali il cui ritmo sia adeguato al ritmo dell'inflazione. [...] Pinochet è quello che è. Il suo plebiscito per la Costituzione del 1980 fu indetto in circostanze che gli tolgono ogni valore. E gli inizi del regime militare furono sanguinari. Però il Cile di oggi ha un livello di libertà e di dialettica politica – nonostante Pinochet – che tanti paesi del Terzo mondo vezzeggiati dai nostri democratici dovrebbero invidiargli. Come ha osservato un lettore, né l'Etiopia né lo Zaire né la Siria, né il Nicaragua avrebbero tollerato corrispondenze come quelle che gli inviati della Rai diffondono, in diretta dal Cile. (16 aprile 1987)
  • Mai le nostre prese di posizione su problemi e personaggi sono state non dico condizionate, ma influenzate dalle personali amicizie o preferenze di Berlusconi. Per la verità, l'editore chiese una volta a titolo di favore, un «occhio di riguardo» per la sua creatura prediletta. Non la televisione, come i lettori saranno stati forse indotti a pensare, ma il Milan. Sottoposi questa sommessa istanza alla redazione sportiva. La risposta fu una lettera collettiva di dimissioni. Caso chiuso. Da allora rinuncio a leggere le cronache delle partite del Milan, per non dovermi dispiacere del dispiacere che ne prova probabilmente Berlusconi. (17 aprile 1988)
  • Come già ho scritto, e qui mi piace ripetere, la designazione di Cossiga al Quirinale fu la scelta dell'uomo giusto al posto sbagliato. Sappiamo benissimo chi la volle. Ma sappiamo altrettanto bene che fu avallata anche da quegli uomini e partiti che ora si scagliano contro di lui e lo accusano, apertamente o copertamente, di fellonia. La classe politica, nella quale egli ha militato da sempre e che quindi da sempre lo conosceva, doveva sapere che l'onesto (perché tale è) Cossiga non era uomo da Quirinale. Eppure, per i suoi sporchi giochi di potere, ce lo mandò. Ora dovrebbe sentire il dovere di difenderlo dagli sciacalli che lo attaccano da tutte le parti. (22 dicembre 1990)

la Voce

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  • Uscendo dal Giornale, io feci a me stesso, ma pubblicamente, un giuramento: «Mai più un padrone». Qui padroni non ce ne sono. La proprietà è ripartita fra alcune centinaia di azionisti, di cui nessuno può, per statuto detenere più del 4 per cento. Fra di essi, e per primi, ci siamo stati tutti noi: redattori, impiegati, fattorini, autisti. [...] Per questa sua pulviscolarità, il nostro azionariato è stato definito, nei quartieri alti della Finanza, «straccione». La qualifica non ci dispiace: coi tempi che corrono, meglio stare tra gli stracci che tra le tangenti. (22 marzo 1994)
  • Di insurrezione generale non c'era bisogno, il 25 aprile, perché il Terzo Reich non esisteva più. Se l'insurrezione generale fosse avvenuta avrebbe dovuto avere come primo obiettivo, a Milano, il quartier generale delle SS all'Hotel Regina. Le SS furono invece lasciate del tutto tranquille, mentre si provvedeva a trascinare in piazzale Loreto, per la fucilazione Achille Starace [...]. Non sono contro la Resistenza, anzi: sono contro la retorica, inguaribile vizio italiano. Proprio questa retorica ha fatto sì che un sindaco democristiano di Roma, in un manifesto dedicato anni or sono alla liberazione della città non accennasse nemmeno con una parola agli Alleati. Ed ha fatto sì che in quest'ultimo 25 aprile si sia parlato ai giovani che affollavano piazza del Duomo a Milano o che stavano davanti ai televisori, ingannandoli – ossia raccontando loro che i tedeschi erano stati sconfitti dai partigiani, e che da questi l'Italia era stata liberata. Se questa è la «memoria storica» evocata da tanti commentatori, stiamo freschi. (28 aprile 1994)
  • Intorno a Berlusconi vedo agitarsi una falange di Starace, convinti non meno di Achille che il padrone (e con lui, si capisce, la carriera) si serve sbattendo i talloni e gridando: «Forza, Italia!». Di tutto questo, intendiamoci, Berlusconi non può essere tenuto responsabile. Gli Starace – a differenza di Mussolini che si scelse il suo vedendolo com'era – gli sono germinati e gli pullulano intorno d'irresistibile forza propria cercando di sopraffarsi in una gara di servilismo, che trova soprattutto nel video la propria arena. E per ora la gente pensa: «Povero Cavaliere, da chi è circondato». Ma prima o poi – forse più prima che poi – comincerà a dire anche di lui: «Vedi un po' di chi si circonda». (18 giugno 1994)
  • Dobbiamo prepararci a presentare le nostre scuse a Emilio Fede. L'abbiamo sempre dipinto come un leccapiedi, anzi come l'archetipo di questa giullaresca fauna, con l'aggravante del gaudio. Spesso i leccapiedi, dopo aver leccato, e quando il padrone non li vede, fanno la faccia schifata e diventano malmostosi. Fede no. Assolta la bisogna, ne sorride e se ne estasia, da oco giulivo. Ma temo che di qui a un po' dovremo ricrederci sul suo conto, rimpiangere i suoi interventi e additarli a modello di obiettività. (26 novembre 1994)
  • Il presidente della Repubblica non può contrattare. Ma deve trovare qualcuno che abbia l'autorità morale di farlo. Un kamikaze. E di kamikaze ne vediamo uno solo che, non avendo veste politica, né alcuna ambizione di indossarla, può anche affrontare una simile responsabilità: Di Pietro. Ma temiamo che l'idea sia soltanto nostra. [...] Una delle pochissime cose che nella presente situazione ci confortano è di vedere in Quirinale un difensore delle Regole come lui. Vorremmo solo sommessamente avvertirlo che l'Italia che noi conosciamo somiglia poco all'immagine angelica ch'egli ce ne ha fornito la sera di Capodanno, e che anche quando vi avremo messo a posto tutte le Regole, ne mancherà sempre una: quella che dall'interno della sua coscienza fa obbligo ad ogni cittadino di regolarsi secondo le regole. (3 gennaio 1995)
  • Noi volevamo fare, da uomini di Destra, il quotidiano di una Destra veramente liberale, ancorata ai suoi storici valori: lo spirito di servizio (quello vero, taciuto e praticato), il senso dello Stato, il rigoroso codice di comportamento che furono appannaggio dei suoi rari campioni da Giolitti a Einaudi a De Gasperi. Insomma, l'organo di una Destra che oggi si sente oltraggiata dall'abuso che ne fanno gli attuali contraffattori. Questa Destra fedele a se stessa in Italia c'è. Ma è un'élite troppo esigua per nutrire un quotidiano. (12 aprile 1995)

Il realista inviso agli snob

Articolo su la Voce, 24 aprile 1994.

  • Fino ad una decina di anni orsono, la maggioranza degli americani erano convinti che, se Nixon fosse rimasto nella Storia del loro Paese – cosa che al loro orecchio suonava come un obbrobrio – vi sarebbe rimasto solo per il Watergate, cioè appunto per l'obbrobrio. Negli ultimi tempi tutto si è rovesciato: l'obbrobrio non è stato più il Watergate, ma la campagna scandalistica che lo aveva provocato. Gli stessi protagonisti che l'avevano montata – Bob Woodward e Carl Bernstein del Washington Post – ne riconobbero le forzature e fecero atto di contrizione. Non avevano inventato nulla, ma avevano deformato tutto. [...] La sorte è stata, tutto sommato, clemente con Nixon dandogli il tempo di vedere questo capovolgimento.
  • Ultimamente era ricevuto, ed anzi continuamente sollecitato alla Casa Bianca, dove lo si accoglieva come lo Elder Statesman, lo statista anziano da consultare come un vecchio saggio sui problemi difficili. Fu a lui che Bush si rivolse per riallacciare un dialogo con Pechino dopo la rottura seguita al fattaccio di Tienanmen. E lui a Pechino lo riallacciò: i cinesi non avevano dimenticato che quel dialogo erano stati Nixon e Kissinger ad aprirlo, quando l'America aveva deciso di chiudere l'avventura del Vietnam in cui Kennedy e Johnson l'avevano malaccortamente cacciata. Ma anche Clinton è ricorso alla sua esperienza per capire cosa succedeva in Russia e trarne qualche insegnamento. Nixon andò a Mosca, e ne tornò con cattivi presagi sulla sorte di Eltsin che i successivi avvenimenti hanno confermato.
  • Non era un uomo «simpatico», e soprattutto non aveva nulla che potesse sedurre l'America dei salotti e della intellighenzia, che gli uomini politici li misurano a modo loro, mai quello giusto. Scambiarono per un grande intellettuale Kennedy, che in vita sua aveva visto migliaia di film, ma mai letto un libro. E prendevano Nixon, che di libri ne ha letti ed ha continuato a leggerne (ed a scriverne, niente male), fino all'ultimo giorno per una specie di Bossi californiano, rozzo e triviale. [...] Ma forse quello che più infastidiva gli americani era la renitenza di Nixon ad appelli e richiami tanto più sonori quanto più vacui, come «la nuova frontiera» e simili. Nixon era un professionista della politica, uno dei pochissimi che l'America abbia mandato alla Casa Bianca. Non andava per sogni e per versetti del Vangelo. Conosceva il suo Bismarck, il suo Disraeli, e credo anche il suo Machiavelli che in America basta nominarli per finire scomunicati. Per questo lo consideravano un mestierante, e per questo si era scelto come consigliere un altro mestierante, l'ebreo tedesco Kissinger. Furono questi due uomini che ridiedero all'America la leadership nella politica estera coinvolgendo nel gioco la Cina e scavandone il solco da Mosca. I successori di Nixon, e specialmente Reagan, vissero in gran parte di questa eredità.
  • Mi confermo in due mie vecchie opinioni. Il guaio del socialismo è il socialismo, cioè sta proprio nel suo sistema statalistico. Il guaio del capitalismo sono i capitalisti che, quasi sempre bravissimi all'interno della loro azienda, fuori di lì sono spesso degli ottusi e noiosi imbecilli, e talvolta anche peggio.[72] (n. 22, 1983)
  • [Sull'offerta di Massimo D'Alema a concedere, come «atto dovuto», i funerali di Stato a Bettino Craxi] "Atto dovuto"? Ma dovuto a chi? Anche a un latitante: quale, dal punto di vista legale, era Craxi? Concedere i funerali di Stato a un latitante significa sconfessare la Giustizia che lo ha condannato. [...] Ma può lo Stato sconfessare la propria Giustizia senza sconfessare se stesso? Mi sembra di vivere in un Paese che di senso dello Stato ne ha meno di una tribù del Ghana.[73] (2 febbraio 2000)
  • La democrazia è sempre, per sua natura e costituzione, il trionfo della mediocrità. (11 ottobre 2000)

Dante e il suo secolo

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Uno dei tanti meriti che si suole attribuire a Dante è quello di essere stato il primo italiano ad avere una «coscienza nazionale». Noi non vorremmo cominciare questo libro con una detrazione, ma non ci sembra che a dimostrare questa coscienza basti l'allusione che Dante fa a una entità geografica italiana, di cui egli fissava i punti terminali al Brennero e al Carnaro. E non vediamo del resto cosa aggiunga alla sua grandezza questa specie d'irredentismo avanti lettera. Se per qualcuno Dante spasimò fu, caso mai, per un Imperatore tedesco.

Citazioni

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  • Roma era stata la capitale di un impero cosmopolita, non di una Nazione. (Parte prima. Capitolo primo, p. 12)
  • Non è necessario essere degli adepti del "materialismo storico" per attribuire il risveglio delle inquietudini intellettuali, fra il Millecento e il Milleduecento, al progresso economico e al generale miglioramento delle condizioni i di vita. È a stomaco pieno che si comincia a pensare a qualcosa che non sia soltanto lo stomaco. (Parte prima. Capitolo terzo, p. 131)
  • Il pudore femminile non è mai stato altro che un incentivo alla civetteria. (Parte seconda, Capitolo quarto, p. 174)
  • Da consumato giurista qual era, [papa Bonifacio VIII] prese a rimaneggiare tutti i precedenti storici, su cui poteva basare le sue pretese di dominio universale. E trovò un valido aiuto nel canonista Egidio Colonna il quale scrisse un trattato, De ecclesiastica potestate, per avvalorare queste tesi. Egli sostenne che la Chiesa era padrona e proprietaria non soltanto delle anime, ma di tutto. Era solo per bontà e condiscendenza che metteva le cose a disposizione dei fedeli, ma conservando il diritto di ritorgliele quando voleva. Quindi anche i troni appartenevano ad essa, che li lasciava ai Re solo in momentaneo appalto. Questa teoria tanto piacque a Bonifacio, che ne ricompensò l'autore con la nomina ad arcivescovo di Bourges. (Parte seconda, Capitolo nono, p. 312)
  • Peccato che un simile uomo [papa Bonifacio VIII] avesse così clamorosamente sbagliato generazione e carriera. Fosse nato cinquant'anni dopo sarebbe stato un magnifico Principe del Rinascimento: avido, crudele e gagliardo. (Parte seconda, Capitolo undicesimo, p. 372)
  • Dante qui [nel De vulgari eloquentia] ha visto ciò che molti filòlogi ancora oggi non vedono. Egli difende il "volgare", cioè la lingua viva, quella parlata dal popolo, fatalmente destinata a soppiantare il latino. Ma ne vorrebbe una illustre e aulica, al di sopra di quelle "municipali", cioè dei dialetti, contro i quali si scaglia con furore. In Italia ne classifica quattordici e li detesta tutti, compreso il toscano che chiama "turpiloquio". Ma il più orrendo gli sembra il romano, "e non deve fare meraviglia dacché i romani, anche per deformità di costumi e abiti, appaiono i più fetidi di tutti". Chissà cosa direbbe, povero Dante, se tornasse fra noi e andasse al cinematografo. (Parte seconda, Capitolo quindicesimo, p. 483)

Gli incontri

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  • Porzio non è alto di statura, ma diritto come un fuso nonostante i settantaquattro anni suonati e porta, sui pantaloni a righe stretti e lunghi come quelli degli antichi ufficiali in grande uniforme, una giacca nera che l'alta bottonatura fa simile a una redingote. Il volto è bello, di colore olivastro, e aristocratico nella modellatura del naso e nel taglio breve dei baffi e della barbetta ancora pepe e sale. (Porzio, p. 91)
  • Non avevo mai visto da vicino Cécile Sorel, quando essa mi apparve, per la prima volta, di lontano, sul palcoscenico allestito nella corte d'onore degli Invalides per le feste celebrative del bimillenario di Parigi. [...] Drappeggiata in una sontuosa cappa di Schiaparelli a strascico di lamé d'argento e porpora, dritta su un podio sotto la statua di Bonaparte, accolse a braccia spalancate lo scrosciante omaggio, sincopato dalle salve di artiglieria, dei cinquemila spettatori ammassati nell'immenso cortile. Sorrise. Sfiorò con uno sguardo altero le teste della folla, lo alzò verso l'imperatore, ma senza implorazione né umiltà, da pari a pari. Poi, in un silenzio di tomba, prese a modulare l'ode di Bruyez: "Vous qui êtes morts pieusement pour la patrie...". Ed era una voce incredibilmente limpida e squillante, senza traccia di ruggine. (Cècile, pp. 226-227)
  • Steinberg ha la faccia dei suoi pupazzi: una faccia malinconica, lunga e triangolare, di cavallo tirato su a paglia soltanto, senza biada, e condannato a trascinare un carretto su per un'erta interminabile, in cima alla quale non si sa cosa ci aspetta, ma certo un'altra condanna, forse più pesante del carretto. Anche i baffi ha, come i suoi pupazzi: a doppia virgola orizzontale, sebbene meno lunghi e senza le intenzioni esibizionistiche di quelli di Dalì; e anche le lenti a stanghetta traverso cui ti fissano intensamente, di sotto in su, due occhi azzurri e mortificati, di uomo che non si è reso conto di essere Saul Steinberg; o essendosene reso conto, non ci prova alcun piacere. (Steinberg, p. 289)
  • Harukichi Shimoi è uno di quei giapponesi che gli altri giapponesi considerano di statura piccola. Tanto piccola che D'Annunzio, per abbracciarlo, dovette curvarsi (lui!) e, dopo essergli andato incontro gridando, con le braccia alzate: "Fratello!... Fratello mio!..." lo guardò, ci ripensò e aggiunse: "Sebbene non di sangue...". (Shimoi, p. 389)
  • Quanti anni avrà, ora, Harukichi Shimoi? Forse cinquanta, forse centocinquanta. Come per Guelfo Civinini, suo amico, anche per lui il problema dell'età non si pone. Quale che essa sia, egli la porta esattamente come deve averla portata mezzo secolo fa. Il suo corpo è stortignaccolo, ma diritto, e i suoi capelli son nerissimi. Ma il tratto che più lo caratterizza sono le sopracciglia, che madre natura gli ha piantato a mezza strada, come due ciuffi di foltissimo bosco, tra gli occhi e la chioma, in modo che, per quanto vasti i suoi occhiali, esse li sormontano e risucchiano come se fossero due monocoli. (Shimoi, pp. 389-390)
  • Il più favoloso e colorito personaggio del Brasile è Assis Chateaubriand, proprietario di ventun giornali, diciotto stazioni radiotrasmittenti, di una flotta aerea, di alcune fazendas vaste come l'intera Sicilia, di un museo che vale venti milioni di dollari, di una Compagnia nazionale per la puericoltura, e di un'ambizione pari soltanto al suo coraggio, alla sua insolenza e alla sua spavalderia. (Chateaubriand, p. 495)
  • Assis [Chateaubriand] ha un debole per i tedeschi e per gli italiani. Come faccia a conciliare questi due amori, non si sa; ma le sue pene, durante la guerra, furono grandi, anche se irreprensibile fu la sua condotta[74]. Quando però il governo comminò l'arresto a chiunque parlasse italiano, scese in lotta con i suoi giornali contro l'assurda disposizione. Scrisse che quello non era patriottismo, ma un nazionalismo di bassa lega, degno soltanto di una colonia, e che lui si vergognava d'esser brasiliano. Fece un tale baccano, che alla fine dovettero revocare il provvedimento e quello del sequestro dei beni dei nostri compatrioti. (Chateaubriand, p. 502)
  • Quando nacque sessantadue anni orsono, ne aveva già a dir poco settecento. Perché Rosai veniva dritto dritto dal Medioevo, dopo aver saltato a piè pari Rinascimento ed età moderna, e nei momenti di sincerità confessava che Giotto gli pareva un "deviazionista" rispetto a Cimabue, il quale gli andava molto più a sangue. (Rosai, p. 544)
  • Dopo essere stato fascista della prima ora, nella seconda col fascismo [Ottone Rosai] s'era trovato male, e si capiva benissimo che era sempre per via delle mani. Tornato dalla guerra, lo squadrismo gli aveva consentito di menarle, come a lui piaceva, e ci aveva dato dentro senza risparmio. Forse l'unico momento felice della vita di Rosai fu quello: quando a gambe larghe di traverso alla strada aspettava, col giornale aperto davanti agli occhi in un gesto di sfida ribalda, il corteo rosso in arrivo da San Frediano, che alla vista di quelle manacce aggrappate ai bordi del foglio e pesanti come macigni, esitava. (Rosai, p. 547)
  • Monelli, se seguisse le proprie inclinazioni, andrebbe a letto coi polli. Ma cosa direbbe la gente, se non lo vedesse più vagabondare nei vari ritrovi frequentati dai nottambuli della città? Direbbe senza dubbio: "Comincia a invecchiare". E a questa idea Monelli balza dalla sua poltrona e si attacca al telefono per mobilitare qualche amica che lo accompagni nei suoi vagabondaggi. Giovani colleghe come Livia Serini, attrici giovanissime come Lea Massari sono state ridotte sull'orlo dell'esaurimento nervoso da queste prolungate ronde notturne senz'altro costrutto che quello di ribadire agli occhi di tutti l'intramontabilità di Monelli. Egli non le porta a spasso. Le porta all'occhiello, come gardenie. (Monelli al girarrosto, p. 592)
  • [Paolo Monelli] Fuma la pipa come Churchill il sigaro, cioè soltanto quando lo guardano. (Monelli al girarrosto, p. 593)

I conti con me stesso

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Una telefonata da Milano m'informa che Longanesi è morto. È stato colpito dall'infarto davanti al suo tavolo di lavoro, su cui era spiegata una mia lettera di dieci giorni fa, che cominciava così: «Caro Leo, stanotte ho sognato ch'eri morto...». (27 settembre 1957)

Citazioni

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  • Tutta la mia vita è stata contesa fra la noia di vivere insieme e la paura di vivere solo. (4 ottobre 1957)
  • Di nuovo il Polesine. Pare impossibile: durante le inondazioni, la prima cosa che viene a mancare è l'acqua. (dicembre 1957)
  • Colette. Invecchia gentilmente, senza catastrofi. Ha su tutte le altre donne un vantaggio incolmabile: quello di essere stata il mio ultimo e più grande amore. Così grande che possiamo camparci di rendita, comodamente, tutti e due per il resto dei nostri giorni. (gennaio 1958)
  • Il destino di Bacchelli sarà l'opposto di quello del maiale: di lui, dopo morto, ci sarà da buttar via tutto. (gennaio 1958)
  • Olga Villi. Non è punto grata alla sua bellezza che le ha consentito di diventare principessa di Trabia. Punta solo sul talento che non ha. Ma è talmente priva di sense of humour che forse diventerà una buona attrice. (gennaio 1958)
  • Palewski. L'ambasciata a Roma è per lui soltanto uno dei più importanti capitoli del libro di memorie che scriverà. (gennaio 1958)
  • Non è che Barzini abbia un'altissima opinione di sé. Ne ha una bassissima degli altri. (gennaio 1958)
  • Piccolo incidente d'auto. La nostra, per evitare un ciclista, picchia contro un muro e resta piuttosto acciaccata. Colette, che la guida, dice: «Meglio così. Dovevo farla revisionare, e non mi decidevo mai...». (gennaio 1958)
  • Razzismo: pensarci sempre, parlarne mai. Risorgimento: parlarne sempre, pensarci mai. (gennaio 1958)
  • Fascismo. Il più comico tentativo per instaurare la serietà. (gennaio 1958)
  • Il guaio più grosso della Repubblica è che, mentre il Re poteva essere di sangue straniero e di solito lo era, il presidente bisogna sceglierlo fra gl'italiani. (gennaio 1958)
  • Bacchelli lavora infaticabilmente, da sessant'anni, alla costruzione di un piedestallo su cui, alla sua morte, non sapremo cosa posare. (gennaio 1958)
  • A pranzo da Vittorio Cini con una ventina di altri invitati. A colazione ne aveva avuti altrettanti. E così ieri. E così avantieri. E così sempre. A ottantadue anni suonati, è fresco, roseo, insaziabilmente voglioso di intrattenere e di essere intrattenuto. A conclusione della serata, mi sfida a una gara di canto. Scegliamo come banco di prova Vecchia zimarra, e stoniamo maledettamente entrambi, ma io meno di lui. I presenti mi assegnano la vittoria. Di colpo, Vittorio perde il suo buon umore. È talmente abituato a vincere, che non accetta di perdere nemmeno nel canto. (7 settembre 1966)
  • [Su Nicola Bombacci] Io l'ho conosciuto soltanto cadavere, quando penzolava accanto a quello di Mussolini, in piazza Loreto, e una folla messicana lo bersagliava bestialmente di sputi. Anni dopo, volli tentarne la riabilitazione ritracciandone la patetica vicenda, ma non riuscii a trovarne gli elementi biografici. Compaesano e compagno di scuola di Mussolini, maestro elementare e autodidatta come lui, ne era stato il grande amico quando entrambi militavano nel socialismo. Eppoi il suo nemico giurato, la bestia nera degli squadristi. Esule con la famiglia prima in Francia, poi (credo) in Russia, rimpatria col permesso del Duce, si affida alla sua generosità, per ricambiarla gli resta al fianco anche a Salò, e lo accompagna fin nell'ultimo viaggio verso la morte. (23 ottobre 1966)
  • Colloquio segreto con l'ex comunista Seniga per una storia del Pci che devo scrivere con Gervaso per la «Domenica». Ė un uomo piuttosto affascinante, dallo sguardo chiaro, freddo e innocente: lo sguardo del fanatico. Mi ha detto che sua moglie, cresciuta in Russia dove suo padre era fuoruscito, e autrice di un interessante libro – I figli del partito –, nel partito è rimasta, non ha trovato il coraggio di uscirne, sebbene approvi e condivida la secessione del marito, con cui è sentimentalmente unitissima. Non riesco a capire questa gente. Cioè capisco soltanto che è diversa da noi non sul piano ideologico, ma su quello umano. (25 novembre 1966)
  • È morto Uguccione Ranieri di Sorbello. Era venuto a Roma da sua suocera. Stava benissimo. Era anzi particolarmente sereno e contento perché aveva finito un suo lavoro di ricerca storica cui attendeva da anni. A fine pranzo ha detto: «Non mi sento bene». Si è alzato, ed è crollato a terra. Stecchito. (29 maggio 1969)
  • [Su Uguccione Ranieri di Sorbello] Era un gran signore e un gran galantuomo che ha trascorso la sua vita in crociate nelle quali non aveva nulla da guadagnare. L'ultima è stata la campagna propagandista negli Usa per convincere gli americani a dare il nome Da Verrazzano al grande ponte sull'Hudson. Nel suo perfetto inglese (lo scriveva meglio dell'italiano) inondò l'America di articoli e conferenze (parlava benissimo, con molto humor e senza enfasi oratorie) cercando i familiarizzare gli ascoltatori col nome Da Verrazzano, la cui pronuncia rappresentava per essi la difficoltà più grossa all'adozione di quel nome. Questa smania missionaria credo che l'avesse ereditata da sua madre americana. E per seguirla aveva trascurato le sue proprietà terriere. Le sue campagne erano in uno stato pietoso, la sua bella villa sul Trasimeno mezza disunta. (29 maggio 1969)
  • [Su Uguccione Ranieri di Sorbello] Era un buon scrittore, un infaticabile sommozzatore di articoli, un ricercatore attento e scrupoloso di curiosità storiche, un umanista moderno che aveva allargato i suoi orizzonti a tutta la cultura contemporanea, specie anglo-sassone: un uomo insomma che ha realizzato un centesimo di quello che poteva per via di quel suo dispersivo correre dietro a un'infinità di altri interessi. Era stato anche un autentico combattente della Resistenza: per ben sedici volte si era fatto paracadutare dagli Alleati dietro le linee tedesche: impresa che chiunque altro si sarebbe fatto ripagare con altrettante medaglie. Lui non aveva ricevuto nemmeno una citazione, e di questi episodi non ha mai parlato. (29 maggio 1969)
  • Anche Irene Brin se n'è andata. Mi avevano detto che era malata di un cancro; ma era una notizia vaga e incerta, ch'essa aveva fatto di tutto per smentire. Fino in fondo ha lavorato e ha partecipato ai riti della mondanità: sfilate di moda, ricevimenti, eccetera. (1 giugno 1969)
  • [Su Irene Brin] Quando Ansaldo la scovò e cominciò a farla scrivere sul «Lavoro» di Genova, sua città natale, era soltanto Mariù Rossi: una ragazza timida e incerta, molto provinciale, figlia di un Generale e di un'ebrea austriaca. L'unica fama di cui godeva era quella, equivoca e velata sotto un nome d'accatto, che le aveva procurato Vittorini prendendola a protagonista, con sua sorella, di un racconto: Le figlie del Generale in cui entrambe erano presentate come lesbiche. Se lo fossero veramente, non so. Il sesso è uno dei tanti capitoli misteriosi di questa donna. (1 giugno 1969)
  • In mano a Longanesi, che le aveva regalato anche lo pseudonimo d'Irene Brin, aveva rivelato autentiche qualità di scrittrice. I profili che pubblicò su «Omnibus» erano deliziosi. Fosse rimasta fra biografia e memorialismo, poteva diventare qualcosa di mezzo fra Saint-Simon e Strachey con un tocco alla Sévigné. Altro che la Bellonci! Era un'osservatrice attenta (sebbene non ci vedesse da qui a lì) e penetrante, nutrita di vastissime letture: la sua prosa aveva ritmo, calore, l'aggettivazione precisa, l'ironia tagliente. Ma era un cavallo che aveva bisogno del fantino. Chiuso «Omnibus» e cessata la regia di Longanesi, Irene infilò la pista sbagliata – quella della cronista mondana –, e non è più uscita. (1 giugno 1969)
  • Finito di scrivere il capitolo sull'Alberoni per L'Italia del Settecento. Ho riprodotto la pagina di Saint-Simon, che lo descrive mentre assiste impavido alle evacuazioni corporali di Vendôme per guadagnarsene i favori, eppoi inginocchiandosi davanti a lui gli grida estasiato: «Oh, culo d'angelo!», e glielo bacia. Come inizio di "carriera" italiana, mi sembra esemplare. Poi mi torna a mente un'osservazione di Renard: «Se in un periodo c'è la parola culo, il lettore non si ricorderà che di quella dimenticando tutto il resto, anche se è sublime». Renard ha ragione. Ma io, a un culo autenticato da Saint-Simon, non rinuncio. (3 luglio 1969)
  • Le Soroptimists hanno dato un pranzo a Colette, in qualità di "Donna Letizia". Colette ha accettato dopo molti rifiuti. Il suo fastidio per queste cose di donne, lo so, è sincero. Ma, una volta preso l'impegno, ha trascorso la giornata a preparare il suo discorsino col puntiglio che la distingue. Non è per nulla ambiziosa, non tiene affatto a reclamizzare il proprio talento, sottovaluta quello che mette nella sua rubrica di «Grazia» (ma se lo fa pagare profumatamente), rifiuta di fare una mostra dei suoi deliziosi quadri. Ma il suo suscettibilissimo amor proprio non le consente di rischiare una brutta figura nemmeno nelle cose che disprezza. Infatti anche stasera ne ha fatta una eccellente, leggendo con molto garbo le due paginette che aveva preparato con un sapiente dosaggio di humour autentico, e di pathos e di umiltà fasulli. Ha avuto gran successo. Per la prima volta mi son visto guardato come un personaggio-satellite, una specie di principe consorte. Cosa che a me non dispiace affatto, ma a lei moltissimo. In questo, è proprio femmina. (13 agosto 1969)
  • Mi riferiscono, di Bocca, questo giudizio su di me: «Sempre il più bravo di tutti. Bravissimo. Troppo bravo. Ma mettendo lo stesso impegno a scrivere gli articoli su Venezia e quello sull'arbitro Lo Bello, dimostra che in realtà non è impegnato in nulla». È vero. Non sono impegnato in nulla. In nulla, meno che nel mio mestiere. Fiorentina-Bari 3-0. E Chiarugi capo-cannoniere! (16 novembre 1969)
  • Sciopero generale per il caro-case. Un pretesto da nulla. Ma è bastato per immergere Milano in un'atmosfera da 8 settembre. Strade vuote. Saracinesche abbassate. Enorme spiegamento di polizia. Mentre pranzo con Spadolini, Cervi e Zappulli, giunge notizia che in un tafferuglio al Lirico un agente è stato ucciso dai "cinesi". «Meno male che è toccata a un agente» diciamo in coro, eppoi non osiamo guardarci negli occhi. Anche noi apparteniamo a questa borghesia codarda che pretende appaltare alle forze dell'ordine il compito di farsi sputacchiare, pestare e ammazzare per tenerne al riparo se stessa. E non vuole nemmeno pagargli uno stipendio decente. (19 novembre 1969)
  • Moravia ha fondato, insieme a Pasolini e a Dacia Maraini, un "comitato contro la repressione". È la riprova che la repressione non c'è. Se ci fosse, Moravia sarebbe coi repressori, come ha dimostrato avallando col suo silenzio la persecuzione di Solženicyn in Russia. (28 dicembre 1969)
  • Moravia si è ritirato dal comitato che lui stesso aveva fondato. Ma non per i silenzi di Spadolini. Si è ritirato perché «l'Unità» ha disapprovato. Gl'italiani sono sempre pronti a fare la rivoluzione, purché i carabinieri siano d'accordo. E Moravia è sempre pronto a battersi per la libertà, purché sia d'accordo il piccì. (2 gennaio 1970)
  • Arrivati i rendiconti dei miei diritti d'autore: 28 milioni nell'ultimo semestre. Supero dunque i 50 milioni annui. Anche ammettendo che l'editore non ci faccia sopra punta cresta (il che mi sembra, a dir poco, improbabile), non c'è male. Credo di essere l'autore italiano che più guadagna, anche perché sono l'unico che questa cifra la guadagna ogni anno, e senz'aiuto di premi letterari. Non ne sono contento per il denaro, di cui non so che farmi e che serve solo a pagare i capricci di Colette (ne ha tanti!). Ne sono contento, anzi felice, per il mio status da autore stipendiato unicamente dal pubblico. C'è chi vive di partito. C'è chi vive di Eni. C'è chi vive di Agnelli, o di Perrone, o di Crespi. Io vivo di lettori. I lettori non m'impongono altra servitù che la sincerità: l'unica che non pesi. (3 marzo 1970)
  • Più che comunanza di vedute, fra Mack Smith e me c'è comunanza di nemici: quegl'insopportabili pedanti accademici che a Palermo lo hanno violentemente attaccato qualificandolo «il Montanelli di Oxford». Implicitamente egli accetta di far fronte con me contro di loro. Credo che facciamo entrambi un buon affare, e anche un affare buono: se riusciamo a squalificare agli occhi del pubblico la storiografia accademica (e coi nostri libri ci stiamo riuscendo), avremo reso un grosso servigio alla cultura italiana. (2 maggio 1970)
  • Sosta a Venezia, dopo il voto a Cortina. Visita d'obbligo a Vittorio Cini, e passeggiata con lui sulle Zattere. Vedendolo, un vecchietto sdrucito, ma dignitoso, si leva il cappello e gli tende la mano, evidentemente per mendicare. Vittorio gliel'afferra e gliela stringe con effusione dicendogli: «Caro!... Caro!... Caro!...Coma la va?» È in perfetta buona fede: la buona fede di un doge lontanissimo dalle afflizioni della miseria e perfino incapace di immaginare che ce ne siano. (8 giugno 1970)
  • Leggo in Candeloro: «... Nel processo generale di sviluppo della Storia, il carattere dei personaggi, anche dei più grandi, ha un peso limitato...». Ah, sì? E cosa dunque se non il carattere di Alessandro, cioè la sua follia, può spiegare la conquista macedone fino all'India e la diaspora dell'ellenismo che ne deriva? L'Islam è concepibile senza il "carattere" di Maometto? E cosa divise la Riforma se non i diversi "caratteri" di Lutero e di Calvino? I nostri storici odiano i caratteri e i personaggi, perché questi richiedono immaginazione e intuito, cioè doti di scrittore, di cui essi sono disperatamente vedovi. Non sono storici. Sono soltanto degli archivisti, e molto spesso disonesti. (10 novembre 1970)
  • Milano è in fiamme per l'affare Feltrinelli, e Ottone mi chiede un articolo contro la Cederna, firmatario di un manifesto in cui, a due ore di distanza dal rinvenimento del cadavere e prima ancora che esso sia ufficialmente riconosciuto, proclama che Feltrinelli è rimasto vittima della «reazione internazionale». Se la Cederna avesse una testa, direi che l'ha persa. Ma perché Ottone vuole un articolo contro di lei, intima amica e direttrice di coscienza di Giulia Maria, nonché regina del suo sinistrorso salotto? Comunque, a mettere una zeppa fra direttore e proprietaria, è doveroso collaborare. E faccio l'articolo in forma di "lettera a Camilla". (25 marzo 1972)
  • Pare che l'articolo abbia rimesso fuoco a Milano, creandovi una irreparabile frattura fra montanellisti e cedernisti. I primi sono più numerosi, ma i secondi più rumorosi. Ricevo pacchi di telegrammi di plauso e altrettanti d'insulti. Il giornale è sommerso di lettere, e io prego Ottone di pubblicare anche quelle di protesta. Ha scritto anche la Cederna annunziando una replica sull'«Espresso» (Ottone ha cancellato il titolo del settimanale, commettendo una meschineria). Quanto a Giulia Maria, mi dicono che schiuma di rabbia. Se è vero, devo riconoscere che il giornalismo qualche soddisfazione la dà. Umberto Eco mi attacca sul «manifesto» riproducendo una mia frase di ammirazione per Mussolini scritta quando avevo ventidue anni (in dieci anni di giornalismo sotto il defunto regime, non sono mai riusciti a trovare, di mio, altre prove di zelo fascista) e accusandomi di mancanza di cavalleria verso una donna. O bella! Come se una donna, quando si mette a far politica – e che politica! – come un uomo, potesse ancora accampare l'impunità! Anche la Callas è una donna. Eppure, quando stona, la si fischia. (27 marzo 1972)
  • Ho scritto un fondo in difesa della Cederna, incriminata dal magistrato per aver diffuso notizie false e tendenziose. Che abbia commesso questo peccato, ho detto, è vero. Ma si tratta di peccato, non di reato. E a giudicarne dev'essere il lettore, non il tribunale. Verità lapalissiane. Dice che è sempre stata molto più impegnata e coraggiosa di me perché con le sue campagne in favore di Valpreda e di Pinelli, tiene fronte alla polizia. Potrei incenerirla chiedendole dov'era e cosa faceva quando io ero in galera per aver tenuto fronte non alla polizia d'oggi, ma a quella fascista e nazista. Ma non ne vale la pena. (28 marzo 1972)
  • Più approfondisco questo tema delle regioni (sono a Milano per questo), e più mi sgomenta il doverne scrivere. Ci vuol poco a capire che questi regionalisti lombardi perseguono, consapevolmente o inconsapevolmente, un piano secessionista cisalpino. E, una volta che ne abbiano lo strumento, riusciranno a realizzarlo. Non per nulla Bassetti parla già non più di «regione lombarda», ma di «regione padana», di cui il resto d'Italia non sarebbe che un'appendice. Se ce la fanno (e ce la faranno), addio Risorgimento! Non era che una finzione, d'accordo, e in pratica ha fallito. Ma con che lo sostituiremo? (26 settembre 1972)
  • Volo a Lussemburgo sul solito bireattore di Berlusconi, che ci accompagna, felice di esibirsi e di esibire il suo status in una cerimonia internazionale. La medaglia d'oro (ma è proprio d'oro?) me la consegna Gaston Thorn, capo del governo lussemburghese. Berlusconi riempie il suo taccuino di indirizzi: quelli di tutte le personalità che ha incontrato. È il vero climber che approfitta di tutto e non butta via nulla. (23 maggio 1977)
  • Kappler è fuggito. Ha fatto bene. Ma ora chi ci salverà dai conculcati "valori della Resistenza"? (15 agosto 1977)
  • A colazione da Cini. Ha avuto un brutto crollo, ma ha ancora risorse. Le tira fuori quando è in compagnia. Ma quando è solo, mi dice sua moglie, sprofonda in quei tetri silenzi che sono i colloqui di un uomo con la morte. (19 agosto 1977)
  • De Carolis m'informa che il vero autore della operazione «Corriere» è un certo Gelli, misterioso personaggio massonico, di Arezzo (Fanfani), che vuole incontrarmi per un accordo fra i due giornali. (24 settembre 1977)
  • Secondo quanto mi era stato raccomandato, dovevo salire direttamente alla camera 219 dell'Excelsior. Ma alla camera 219 non c'era nessuno, e così dovetti chiedere al portiere del signor Gelli. Poi Gelli arrivò, mi condusse furtivamente nel suo appartamento e mi fece un lungo discorso pieno di allusioni, dal quale dovevo comprendere che lui è un pezzo grosso – forse il più grosso – della massoneria (Palazzo Giustiniani), che come tale era stato il vero padrino della operazione Rizzoli, e che in questa operazione potevamo rientrare anche noi. Mi ha detto che quattro ministri dell'attuale governo, otto sottosegretari e centoquaranta parlamentari dipendono da lui. Questi massoni sono tutti uguali: credono che la loro potenza sia direttamente proporzionale al mistero di cui si circondano e prendono per cose fatte quelle per le quali complottano. (4 ottobre 1977)
  • Da Fanfani, al Senato. È talmente infuriato che diventa perfino sincero. «Dica al suo amico che è un traditore!» «Perché non glielo dice lei?» Mi spiega che Forlani non mira alla segreteria del partito, come io credevo, ma alla presidenza del Consiglio, quando Andreotti sarà consumato. Mi dice anche che condivide l'idea di Donat-Cattin di lasciare il Quirinale a un laico. «Altrimenti fra noi democristiani ci sbraniamo e ci sbrachiamo nella corsa a chi concede di più ai comunisti.» È sincero anche stavolta, o lo dice perché, avendo perso ogni speranza per sé, vuole prepararsi un buon argomento per Maria Pia («Stavolta toccava ai laici»)? (29 ottobre 1977)
  • A cena da Gervaso con Cossiga. Non si lamenta dei nostri attacchi, ma sono io a dirgli: «Noi esprimiamo lo scontento, e talvolta la rabbia, della pubblica opinione. La gente vuole un ministro degl'Interni che agisca e che faccia agire la polizia». «Ma lei sa com'è ridotta la polizia?» «In qualunque modo sia ridotta, siete voi che l'avete ridotta così. E quindi sta a voi rimediare.» Mi dice che non c'è da farsi illusioni: la situazione si aggraverà. Il terrorismo è finanziato coi sequestri, ha solidi agganci internazionali, e segue una tattica ben studiata. «L'attentato a lei fu un errore. Se a essere colpite fossero le personalità di rilievo, la gente media, cioè la grande massa della popolazione, sarebbe tranquilla. Invece hanno deciso di colpire i gradi subalterni – consiglieri comunali della Dc, capireparto della Fiat eccetera – per togliere il sonno a tutti.» Forse è vero. (29 ottobre 1977)
  • Quattro revolverate in faccia a Casalegno, che ora è grave. Alzano la mira. (16 novembre 1977)
  • «La Stampa» riporta tutti gli articoli di solidarietà per Casalegno apparsi sugli altri giornali. Ma omette il mio, ch'era forse il più caldo: la solidarietà nostra la imbarazza. (18 novembre 1977)
  • Casalegno è morto. Ho telegrafato alla vedova, ma non al figlio – iscritto a Lotta continua –, né a Levi e ai colleghi della «Stampa». Purtroppo, la loro faziosità condiziona la nostra solidarietà. Al funerale andrà Biazzi. (29 novembre 1977)
  • Incontro risolutivo a Roma tra Ferrauto e quelli della Sipra. Affare fatto e a condizioni molto più favorevoli di quelle sperate. Sei miliardi e settecento milioni come minimo annuo garantito, per cinque anni. Firmeremo il compromesso martedì 16. (10 maggio 1978)
  • Vista in tv la cerimonia funebre per Moro in San Giovanni Laterano. Dentro la basilica, tutti i dignitari Dc e quelli Pci inginocchiati sotto la mano benedicente del papa. E, fuori, la piazza sventolante di bandiere bianche e rosse. Non ho potuto fare a meno di rilevarlo in un "Controcorrente". (13 maggio 1978)
  • Batosta comunista alle amministrative parziali di ieri (4.000.000 di elettori). La Dc sale dal 38 al 42 per cento, il Pci scende dal 35 al 26. Successo dei socialisti che guadagnano il 4 per cento. Un risultato sconvolgente (in positivo). Uniche delusioni: il guadagno – sia pur minimo – del Pri, e la mancata rianimazione del Pli. (15 maggio 1978)
  • Firmato oggi l'accordo con la Sipra. Minimo garantito: 6.800.000.000 all'anno per cinque anni. Il presidente, D'Amico, è un ex operaio della Fiat, ora deputato comunista: un uomo concreto, franco, di poche parole. Era più soddisfatto lui dell'accordo con noi, che il direttore generale, il democristiano Pasquarelli. Io ho fatto la mia parte, da buon attore. Arrivato all'ultimo momento, ho detto: «Per impedire ripensamenti ed equivoci, trasformiamo il compromesso in vero e proprio contratto, e firmiamo subito». Lo champagne era già pronto. (16 maggio 1978)

I protagonisti

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  • Nel settembre di quell'anno [1956] il partito lo spedì [Gian Carlo Pajetta] a Mosca insieme a Pellegrini e a Negarville per sentire direttamente da Kruscev come ci si doveva comportare nella crisi, ormai aperta, dell'antistalinismo. Kruscev li accolse affabilmente, li invitò a cena. E qui, trascinato da bocconi e libagioni ad una espansiva euforia come spesso gli capita, a un certo punto disse: «Beh, ora vi voglio raccontare come strangolammo Beria». E descrisse l'agguato che gli avevano teso al Cremlino, come gli erano saltati addosso e come gli avevano serrato la gola con le mani fino alla soffocazione. Lo descrisse ridendo allegramente, forse senz'accorgersi del pallore che soffondeva il volto dei suoi ospiti, o per lo meno quelli di Pajetta e di Negarville.
    L'indomani li convocò nuovamente e, come non ricordando affatto ciò che gli aveva raccontato la sera prima, disse loro in tono solenne: «Beh, ora vi farò sentire il processo di Beria registrato sul nastro». E glielo fece sentire davvero come lo avevano inventato post mortem, con la voce del defunto falsificata.
    Quando si ritrovarono fra loro, Negarville e Pajetta si guardarono con gli occhi pieni di lacrime. «Ma allora – dissero –. Ma allora...». E non aggiunsero altro. (pp. 66-67)
  • [Su Anna Magnani] Ci sarebbe da scrivere un trattato sul modo di usare Anna. La prima precauzione da prendere è quella di non farla ritrovare in mezzo a estranei. Timida com'è, pur dopo un'esistenza trascorsa sotto i flashes, la gente la raggela e la chiude in un mutismo ostile o l'aizza ad atteggiamenti protervi. Delle poche persone che le ho presentato, l'unica che la sedusse immediatamente fu il mio collega Augusto Guerriero, perché il discorso cadde sui cani e sui gatti: e questo è un argomento su cui il cuore di Anna si scioglie e la mente le si ottenebra. Si mise in testa che noi due, con un articolo, potevamo far riformare la legge sulla protezione degli animali. E invano cercammo di dimostrarle che il problema non era di leggi, ma di costume. Non sentì ragioni. Dovemmo prometterle l'articolo (che poi infatti scrivemmo). (pp. 177-178)
  • [Su Ignazio Silone] Leggendo i suoi primi romanzi, Fontamara, Pane e vino, Il seme sotto la neve, e pur ammirandoli, ero caduto in abbaglio sull'autore. Lo avevo preso per uno di quegl'industriali dell'antifascismo che, riparati all'estero, avevano trovato nella universale avversione alla dittatura una comoda scorciatoia al successo dei libri di denunzia. Lo consideravo insomma un profittatore del regime a rovescio (come del resto ce ne sono stati). E una conferma mi era parso di vederla nel fatto che finito, col fascismo, l'antifascismo, parve finito anche il narratore Silone.
    Poi vennero Una manciata di more, Il segreto di Luca, La volpe e le camelie. Ma vennero soprattutto alcuni saggi politici che mi costrinsero a ricredermi. Ed era proprio questo che non riuscivo a perdonargli. Mi era antipatico non per i suoi, ma per i miei errori. Più lo conoscevo attraverso i suoi scritti, e più dovevo constatare che non solo egli non somiglia affatto al personaggio che m'ero immaginato, ma che anzi ne rappresenta la flagrante contraddizione. (pp. 180-181)
  • [Su Uscita di sicurezza] Come documento umano, non ne conosco di più alti, nobili e appassionati. Fenomeno unico, o quasi unico, fra gli sconsacrati del comunismo che di solito non superano mai più il trauma e trascorrono il resto della loro vita a ritorcere l'anatema, Silone non recrimina. Egli rifiuta i grintosi e uggiosi atteggiamenti del moralista, o meglio ne è incapace. Domenicano con se stesso, è francescano con gli altri, e quindi restio a coinvolgerli nella propria autocritica. Cerca di metterne al riparo persino Togliatti; e se non ci riesce che in parte, non è certo colpa sua. Qui non c'è che un accusato: Silone. E non c'è che un giudice: la sua coscienza. (pp. 186-187)
  • Noi crediamo di scoprire dei modelli. In realtà non scopriamo che degli antenati. Cassola s'illude di aver imparato da Joyce quello che già sapeva. Joyce gli avrà fornito, al massimo, qualche mezzo tecnico per esprimerlo. Uno scrittore vero (e Cassola lo è) non cerca in un altro scrittore che se stesso. (p. 207)
  • [Su Enrico Mattei] Egli amava solo il potere, e l'amore del potere esclude tutti gli altri. (p. 265)
  • [Su Giulio Andreotti] Andava anche, mi dicono, a messa insieme a lui [De Gasperi], e tutti credevano che facessero la stessa cosa. Ma non era così. In chiesa, De Gasperi parlava con Dio; Andreotti col prete. Era una divisione di compiti perfetta. (pp. 271-272)

Indro al Giro

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Il destino è stampato sulla carta d'identità e scritto nelle stelle. Indro Montanelli nasce il 22 aprile 1909, il primo Giro d'Italia prende il via il 13 maggio 1909. Stesso anno, stesso segno zodiacale: Toro. Potevano, queste due creature quasi gemelle, non percorrere un tratto di strada insieme? Potevano ignorarsi?

Citazioni

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  • Come i bersaglieri quando smettono di correre, così i ciclisti, quando cessano di pedalare ingrassano.
  • Il Giro d'Italia parla milanese, anche se poi, a vincerlo, è qualche toscano o qualche romagnolo.
  • I corridori sono come Anteo: il contatto con la loro terra gli dà forza.
  • Ma sapete voi con precisione che cosa sia una fuga, lo sapete? Non lo sapevo nemmeno io prima di vederla. Credevo che fosse l'uomo che, a un certo punto, si mette a pedalare più forte degli altri e li semina per via. Errattissima nozione. La fuga è invece un grande urlo e un gesto disperato che mettono d'improvviso in confusione tutta la carovana del Giro.
  • Quello della bicicletta è un mondo buono: e credo sinceramente che venga da questa bontà il fascino ch'esso esercita sulle folle.
  • Lasciatelo com'è questo Giro provinciale e festoso: lo sport di un popolo che, nella corsa verso il progresso meccanico, è rimasto alla bicicletta, tappa intermedia fra il cavallo e l'automobile, ritrovato artigiano e arnese di famiglia.
  • Se Parigi avesse il mare sarebbe una piccola Bari, ma non saprebbe accogliere i forestieri con tanto calore e sportiva cordialità.
  • Leoni, che oltre a tutto è un bellissimo ragazzo, ha una fidanzata la quale gli scrive raccomandandogli di non vincere, altrimenti troppe ragazze lo abbracciano porgendogli i fiori. Leoni è innamoratissimo della sua fidanzata ma non è certo per obbedire a lei che non vince. È solo per obbedire a Coppi e restargli a fianco.
  • Gli assi possono permettersi di arrivare ultimi. E lo fanno senza risparmio. Possono permettersi di disprezzare i loro adoratori e lo fanno senza ritegno. L'adorazione rimane.
  • I corridori di bicicletta sono gente semplice, che non è mai stata in collegio. [...] Nessuno ha insegnato loro i dettami dello stile e della cavalleria. Li posseggono per natura. Difficilmente essi cercano di sminuire la vittoria dell'avversario e non gliene serbano rancore. Sono capaci di delicatezze che non credo esistano negli altri sport.
  • I corridori non si dovrebbero sposare; e, quando lo fanno, dovrebbero scegliere delle done brutte.
  • È la specialità dei padri quella di sognare per i figli i trofei che loro non convengono, ed è la specialità dei figli quella di procurarsi trofei che ai loro padri non piacciono.

Pantheon minore

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Einaudi
Avendo saputo che sollecitavo l'onore e il piacere di incontrarlo, il Presidente, che non mi aveva mai visto, trovò del tutto naturale invitarmi a colazione. «Quando vuol venire?» mi fece chiedere, «giovedì mattina, per esempio?» Giovedì voglio stappare una nuova bottiglia del mio 'barolo' e ci sarà anche la signorina Barbara Ward dell'Economist. Vino piemontese, giornalismo ed economia politica, pensa: sarebbe difficile sorprendere Einaudi in una cornice più einaudiana di questa.

Citazioni

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  • [Luigi Einaudi] E in quei pochi minuti aveva ancora tante cose da dire a due giornalisti per ricordare loro, manzonianamente, che l'uomo è «buono», come dice Rousseau, ma tale può diventare solo in grazia delle buone istituzioni (in ciò consiste la sua posizione conservatrice e cattolicamente pessimistica).
  • Ingrid Bergman è forse la sola persona al mondo che non consideri Ingrid Bergman un'attrice completamente riuscita e definitivamente arrivata. (p. 195)
  • Non ho mai visto in vita mia, nemmeno nei film di cui la Bergman è protagonista, una donna così trasparentemente pulita. (p. 195)
  • Ogni buon padre di famiglia deve, al principio della giornata, sapere quanto la famiglia ha in cassa e quanto può spendere.
    Einaudi conosce a memoria le cifre dell'economia italiana, come i re che lo precedettero conoscevano a memoria i nomi e i motti dei reggimenti.
  • «Venez, mademoiselle, venez», disse Anatole France a Emma Gramatica che, poco più che ventenne, si trovò un giorno a viaggiare con lui in automobile a Palermo, e aveva paura di essere troppo ingombrante sul sedile. «Vous êtes comme les anges, qui n'ont pas de derrière!»
    Qualcosa come mezzo secolo dev'esser trascorso da allora, ed Emma somiglia un po' meno a un angelo, ma grassa non la si può dire nemmeno adesso. La vita che mena, d'altronde, non lo consentirebbe di diventarlo. Alla sua età, ha girato per tre anni consecutivi, tutti i teatri dell'America del Sud, volando da Buenos Aires a Santiago, da Santiago a Lima, da Lima a Caracas, e recitando una sera in italiano e la sera dopo in spagnolo, lingua che, sino al momento di partire, ignorava totalmente. Ora è tornata per girare un film con De Sica, e sono fatiche a cui molti giovani non resistono.
  • Il fascismo trovò, tra i suoi oppositori più accaniti, Mario Missiroli, che si batté a duello con Mussolini. Egli non credette alla forza e al successo delle «camicie nere» fino al giorno in cui, mentre cercava faticosamente di salire sul tram, uno squadrista che lo incalzava, dopo avergli inflitto una serie di spintoni, non gli ebbe affibbiato, in risposta alle sue proteste, due sonori schiaffi che gli fecero volar via gli occhiali cerchiati d'oro. Mario li raccolse con dignità, vi fiatò sopra, li ripulì col fazzoletto e concluse in tono ammirativo: «Però!... Picchiano bene, veh!...»

Qui non riposano

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  • [Sulla guerra d'Etiopia] Quella fu una guerra ideale, la guerra-tipo della borghesia italiana: con pochi morti e molte medaglie. Io presi a capirne la miseria solo all'ultimo capitolo: quando, per la marcia su Addis Abeba, cominciarono a piovere dall'Italia e da Asmara gerarchi e aspiranti gerarchi, smaniosi di gloria a buon mercato: e Badoglio dovette emanare un ordine per cui solo chi presentava "un biglietto di autorizzazione" poteva marciare sulla capitale nemica. Solo in tempo fascista si poteva escogitare un finale di guerra con un biglietto per la capitale nemica. (pp. 107-108)
  • Io non volevo far politica. Ha il diritto un uomo della strada di non far politica? Ha il diritto un uomo della strada a dire che il governo ha fatto bene a far questo e male a far quest'altro? Ha diritto un giornalista, che è un uomo della strada, il quale va a vedere e riferire le cose per conto degli altri uomini della strada, ha il diritto di riferire che i fatti si svolsero così e così, e che in essi c'era tanto il bello e tanto il brutto, tanto di giusto e tanto d'ingiusto? No, il fascismo disse che un uomo della strada non ha tutti questi diritti. Ecco perché diventai antifascista. Non perché al posto di Mussolini ci volevo un altro, ma perché non ci volevo nessuno. Io volevo stare alla finestra, come stanno i giornalisti, mestiere di spettatore e non di attore.[75] (p. 189)
  • [...] volevo avere il diritto di non pensare alla politica, di disinteressarmi della politica, perché la politica la gente dabbene non la fa. La gente dabbene lavora in ufficio, viaggia, commercia, produce, ama una donna che può anche essere sua moglie (come è il mio caso), ama i suoi figli, ama la sua casa, paga le tasse, e di politica ne parla un quarto d'ora al giorno. (p. 190)

Ricordi sott'odio

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  • Non piangete | per | Cesare Zavattini | ha già pianto | lui per tutti noi.[76] (p. IV dell'Introduzione di Marcello Staglieno)
  • Qui | per la prima volta | Alida Valli | giace | sola.[76] (p. 11)
  • Qui | riposa | Amintore Fanfani | amico | dei nemici | nemico | degli amici | figlio | di De Gasperi | padre | di nessuno.[76] (p. 31)
  • Qui | riposa | Mario Melloni | inquieto | transfugo | di sé stesso | momentaneamente | scomparso | a sinistra | in cerca | di una croce | su cui | inchiodarsi.[76] (p. 65)
  • Qui giace | Alba [Alba de Céspedes] | scrittrice scialba. | Divorò uomini e gloria | La Boria | la divorò.[76] (p. 95)
  • Qui | riposa | Mario Soldati | padre | figlio | autore | regista | interprete | di | Mario Soldati.[76] (p. 123)
  • Qui giace | Davide Lajolo | Segretario federale | Legionario di Spagna | Repubblichino di Salò | chiese | di passare all'anilina | la sua camicia nera. | E com'era | Rimase.[76] (p. 179)
  • In pace | qui giace | orbato | d'orbace | Achille Starace.[76] (p. 181)

Soltanto un giornalista

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  • Da quando ho cominciato a pensare, ho pensato che sarei stato un giornalista. Non è stata una scelta. Non ho deciso nulla. Il giornalismo ha deciso per me. E questa è stata una delle mie tante fortune, posto che tutto quel che ho fatto lo debbo soprattutto a un alleato ch'è sempre rimasto al mio fianco: il caso. (p. 5)
  • Per sua disgrazia, Bontempelli fu nominato accademico d'Italia da un fascismo che puzzava già di morto. Eletto senatore nelle liste del Fronte popolare dopo la guerra, non esitò a pronunziare giudizi brucianti su chi aveva collaborato col regime. Quel voltafaccia gli costò caro, perché a un certo punto saltarono fuori le lettere che aveva scritto a Mussolini per impetrare la sua nomina: i comunisti lo scaricarono e lui cadde in un tale stato di prostrazione da morirne. (p. 26)
  • A Salò ci fu di tutto. Ci furono le squadracce assetate di vendetta e di saccheggio che provocarono il disgusto agli stessi tedeschi. Ma anche uomini per i quali quello fu il banco di prova d'una coerenza e d'una lealtà che non possono non incuter rispetto. E l'unica ragione per la quale benedico le mie cosiddette benemerenze antifasciste è che mi han dato il diritto di difenderle. (p. 119)
  • Il 2 giugno del '46, giorno del referendum istituzionale, votai per la monarchia. Lo feci perché ritenevo fosse pericoloso recidere il tenue filo che legava l'Italia all'unica sua tradizione nazionale: quella monarchica, appunto. L'Italia non s'era "fatta da sé", come pretendeva la nostra storiografia ufficiale. Era stata fatta dalla monarchia sabauda guidata dal genio diplomatico d'un suo diplomatico, Cavour, che voleva estendere il Regno di Sardegna al Lombardo-Veneto. Se poi ci scappò fuori l'Italia, non fu grazie al contributo degl'italiani, che non ne diedero punto. Fu perché la storia dell'Europa andava verso la costituzione degli Stati nazionali, e condannava a morte quelli plurinazionali come l'Impero austriaco. [...] Al posto di quel patrimonio, sia pure modesto, cosa prometteva la Repubblica? Si presentava come depositaria dei valori della Resistenza, un mito ancora più falso di quello del Risorgimento. Che non era stata affatto, come pretendeva d'essere, la lotta d'un popolo in armi contro l'invasore, bensì una lotta fratricida tra i residuati fascisti della Repubblica di Salò e le forze partigiane, di cui l'80 per cento si batteva (quasi mai contro i tedeschi) sotto le bandiere d'un partito a sua volta al servizio d'una potenza straniera. (pp. 125-126)
  • Un'altra scelta s'era imposta, quella delle elezioni del '48. Per l'Italia era una scelta vitale: o con l'Est o con l'Ovest, ossia con i totalitarismi rossi oppure con le democrazie occidentali. Ergo, o con il Fronte popolare oppure con la Dc. E lì ebbe inizio il mio dramma, ch'è poi quello eterno del laico italiano: il quale, messo davanti al boia, vede comparire al suo fianco il prete che solo può salvarlo. (pp. 135-136)
  • Mi proposi due obiettivi, entrambi falliti: il primo era farmi intentare un processo dagli amministratori della città che attirasse l'attenzione sui pericoli che Venezia stava correndo. Il secondo era rendere pubblica la convinzione che m'ero formato: che per salvare Venezia la prima cosa da fare era sottrarla allo Stato italiano e affidarlo a un organismo internazionale come l'Onu, con le sue cospicue possibilità finanziarie e i suoi agguerriti uffici tecnici. [...] Il Comune di Venezia non aveva più nulla di veneziano, salvo la sede. A dominarlo erano gli elettori di Mestre e Marghera, che con quelli di Venezia si trovavano nella proporzione di tre a uno, e dalla loro avevano tutto: i soldi delle industrie, i sindacati e quindi anche i partiti. Decidendo di restare amministrativamente unita, Venezia ha preferito mettersi al rimorchio delle ciminiere e petroliere di Marghera, alle quali ha sacrificato il suo delicatissimo sistema idraulico. Fu allora che, con grande amarezza, feci atto di rinunzia a Venezia, convinto come ero, e come son rimasto, che una città si può salvare solo se sono i suoi abitanti a volerlo. (pp. 216-217)
  • Una sera, uscendo solo soletto dal «Giornale», mi trovai davanti il solito muro di folla tumultuante con le bandiere rosse spiegate. Dalla piazza si levò un urlo: «Tel chi el Muntanel!». In un attimo cinquanta scalmanati mi s'avventarono contro. Temendo il linciaggio, arretrai fino a trovarmi con le spalle al muro. Ma non feci in tempo a dire be' che mi ritrovai issato in spalla a una mezza dozzina d'energumeni, fra salve d'evviva. Erano i tifosi del Torino che quel giorno [16 maggio 1976] aveva vinto lo scudetto, e le bandiere non eran rosse, ma granata. E siccome i cronisti sportivi del «Giornale» erano sempre stati favorevoli al Torino, m'acclamavano come un loro idolo. (p. 241)
  • La Dc era il partito dei maneggi e dell'inefficienze. Ma se avesse perso il 4 o il 5 per cento dei suoi voti, il partito di maggioranza relativa destinato a formare il nuovo governo sarebbe diventato quello comunista. Ch'era ancora molto pericoloso. Perché è vero che in Italia c'era Berlinguer, ma io sapevo bene che col comunismo d'allora poteva ancora succedere di tutto: bastava un cambiamento al vertice e un Berlinguer poteva diventare un Dubček come un Ulbricht. Il «Giornale» era certamente laico, ma prima di essere laico era italiano, e cercava d'operare con qualche senso di responsabilità. E negli anni Settanta solo gl'irresponsabili potevano augurarsi il crollo della Dc, cui eravamo condannati anche perché la cosiddetta Alleanza laica, l'accordo fra Pli, Pri e Psdi, non sortì mai i numeri per sostituirvisi. (pp. 243-244)
  • Ci fu un'unica battaglia sulla quale il «Giornale» si trovò allineato con Craxi e il nostro editore: quello per la libertà d'antenna. Battaglia sacrosanta. Berlusconi è tutt'altro che un idealista disinteressato e nessuno sa agire come lui aggirando, quando non calpestando, le regole. Ma i panni nobili coi quali i difensori della Rai rivestivano la loro offensiva politico-giudiziaria erano grotteschi. Se il peccato di Berlusconi stava nell'essere troppo amico del Psi, quello della Rai era d'essere troppo amica di tutti i partiti. A fornirci il destro furono poi i pretori coi loro interventi oscurantisti, peraltro prontamente sventati dai decreti di Craxi. E quindi la crociata dell'etere libero, che rientrava fra l'altro nella nostra tradizione antistatalista, divenne una campagna contro il "pretore selvaggio", che con i suoi abusi toglieva ogni certezza del diritto al cittadino. (pp. 275-276)
  • Le vere novità erano nate fuori dal Palazzo: come la Lega di Umberto Bossi. Che all'inizio anche il «Giornale», come molti altri, sottovalutò. Come si faceva a prender sul serio un invasato che nutriva le sue invettive di sfondoni storici e grammaticali da far accapponare la pelle? [...] Che Roma fosse ladrona, era indubitabile. E l'avversione per la burocrazia parassitaria e per il meridionalismo piagnone e sprecone andava a nozze con le tradizioni del «Giornale». Bossi quindi incarnava un sentimento molto diffuso anche fra i nostri lettori, una protesta genuinamente qualunquista che, per certi versi, all'inizio anche noi appoggiammo. Ma dovemmo prenderne le distanze quando Bossi cominciò a condire le sue contumelie contro il Palazzo con propositi secessionisti. (pp. 279-280)
  • Con Berlusconi, tuttavia, poi feci pace. Fu lui a telefonarmi: forse, aveva captato in qualche mio articolo un'ombra di rimpianto per il vecchio amico. Era il '96 e dopo il ribaltone le cose per lui si mettevano di male in peggio. [...] Così, una sera mi ritrovai di nuovo seduto alla sua mensa ad Arcore. [...] Riparlammo senza rancore dei nostri trascorsi. Gli domandai quale garanzia avesse ricevuto da D'Alema sulle sue aziende in cambio dell'opposizione inesistente che gli assicurava. Rise. «Ma perché, ora che hai sistemato i tuoi affari, non ti chiami fuori dalla politica?» gli chiesi. «È una parola» mi rispose rabbuiandosi. «I giudici non obbediscono neppure a D'Alema». E lì capii quale era, ormai, la vera sostanza del suo dramma. (p. 312)
  • Se anch'io sono diventato europeista, è per disperazione: l'Europa è forse l'unica possibilità di sopravvivere per noi italiani, che come italiani non siamo riusciti a vivere. Questo è sempre stato l'europeismo degl'italiani di più alta coscienza, a partire da De Gasperi, che fu il primo a capire i rischi d'un Italia lasciata in balìa degl'italiani. (p. 315)
  • Pur fra tante fortune, purtroppo a me la sorte ha riservato di portarmi nella tomba le due cose che ho più amato: il mio mestiere e il mio Paese. Che cosa sia diventato il primo, annientato da computer e televisione, è sotto gli occhi di tutti. Quanto al secondo, la cancrena è ormai inarrestabile e la decomposizione sta avvenendo per dissoluzione di quel poco che resta dello Stato. E dico decomposizione, non secessione. La secessione si fa anche con la violenza, e dove lo troviamo oggi un solo plotone di soldati disposto a imbracciare le armi pro o contro l'Unità dello Stato? Che, se resta ancora in piedi, è solo perché non ha neppure la forza di cadere. Quello di rinunziare alla nazione poi, è un sacrificio che non saprei compiere, anche se razionalmente mi rendessi conto ch'è necessario, oppure inevitabile. E ringrazio l'anagrafe che mi esclude dal problema. (p. 316)

Storia d'Italia

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  Per approfondire, vedi: Indro Montanelli e Roberto Gervaso e Indro Montanelli e Mario Cervi.

L'Italia giacobina e carbonara

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  • I cinici sono tutti moralisti, e spietati per giunta. (cap. 10, p. 144)
  • Melzi apparteneva a una delle più grandi famiglie dell'aristocrazia lombarda, e ne portava nel sangue le doti migliori: la rettitudine, la cultura, la cortesia, ma anche una certa alterigia, che probabilmente gli veniva dalla madre spagnola. (cap. 11, p. 152)
  • [Francesco Melzi d'Eril] Aveva fatto parte dei circoli illuministici dei Serbelloni, dei Beccaria e di Pietro Verri, di cui era anche cognato. Napoleone lo aveva conosciuto al tempo della sua prima campagna d'Italia, dopo la battaglia di Lodi lo aveva invitato a Mombello, e ne aveva fatto il proprio consigliere. Quel signore che portava ancora il costume settecentesco, le calze bianche e la parrucca incipriata, gli piaceva. Gli piaceva perché non era servile, perché non era venale, perché non era nemmeno ambizioso. Una leggera sordità e una salute piuttosto precaria, insidiata da un forte artritismo, l'obbligavano a riguardi incompatibili con l'esercizio del potere. Più che il protagonista, preferiva fare il suggeritore. (cap. 11, p. 152)
  • L'unico che avesse qualità di uomo di Stato era il ministro delle finanze, Prina, anche perché era piemontese, cioè veniva da un paese che uno Stato lo era da secoli. Ex procuratore generale della Corte dei Conti di Torino e membro del governo provvisorio del '99[77], si era poi trasferito nella Cisalpina e ne aveva preso la cittadinanza. Non aveva un carattere che attirasse simpatie. Anzi, chiuso e freddo com'era, le respingeva. Ma era un lavoratore instancabile e scrupoloso, dotato di un acuto senso politico e – diceva Stendhal – "ha del grande in testa". (cap. 12, p. 164)
  • Perché non andassero perse neanche le briciole [delle entrate della Repubblica Cisalpina], Prina riformò tutto il sistema fiscale riducendone il personale e facendone una macchina di straordinaria efficienza. Fu lui a inventare la "tassa di famiglia", o meglio a ripristinarla, perché la sua vera iniziatrice era stata Maria Teresa. Ma la maggior pressione la esercitò nel campo delle imposte indirette che colpivano tutti i consumi senza distinguere fra quelli di lusso e quelli di prima necessità. Naturalmente a farne le spese furono soprattutto le classi popolari, che di lì a pochi anni gliel'avrebbero fatta pagare[78]. Ma con questi sistemi riuscì a portare le entrate da settanta a oltre cento milioni e a pareggiare il bilancio. (cap. 12, p. 165)
  • Carlo Ludovico era stato talmente oppresso dalla madre[79] che sognava di disfare tutto ciò ch'essa aveva fatto, compreso il proprio matrimonio; e quando le successe nel '24[80], introdusse anche per buona fortuna dei lucchesi, metodi di governo diametralmente opposti a quelli di lei. Ridusse l'appannaggio che Maria Luisa esigeva per alimentare i suoi fasti spagnoli, liberalizzò i commerci, e alla fine si convertì addirittura al luteranesimo, mentre sua moglie diventava Terziaria domenicana. Fu un cattivo marito, ma non un cattivo sovrano. E Lucca, sotto di lui, respirò. (cap. 25, p. 375)
  • [...], [la Carboneria] non fu certo una scuola di educazione politica, e probabilmente è anche al suo esempio e modello che sono dovute le malformazioni della nostra democrazia e la sua intrinseca debolezza. Figli e nipoti dei Carbonari furono quei "notabili" che governarono l'Italia fino alla prima guerra mondiale e che, insieme a innegabili virtù, ebbero anche il vizio di considerare il Paese una "clientela" di Apprendisti esclusi dai "sacri travagli". (cap. 26, p. 395)
  • Fu qui [al Teatro alla Scala] che [Ugo Foscolo] vide Antonietta Fagnani Arese, già famosa a ventitré anni non soltanto per la sua bellezza, ma anche per lo sfruttamento intensivo che ne aveva fatto. Probabilmente era una frigida, ma che sapeva recitare la sua parte: tutti i giovani più in vista di Milano cadevano nelle reti di questa Circe, e forse fu anche questo a stimolarlo. (cap. 35, p. 510)
  • Misto di genio e di ciarlatano, Barbaja aveva debuttato come sguattero, aveva fatti primi soldi inventando un dolce di panna e cioccolato, la "barbajada", li aveva moltiplicati con la gestione del Ridotto da giuoco della Scala, e ormai tanti ne aveva che quando il San Carlo andò distrutto da un incendio, lo ricostruì a proprie spese. (cap. 39, pp. 608-609)
  • [Domenico Barbaja] Era semianalfabeta, e di musica non conosceva una nota, ma conosceva il pubblico, era un infallibile scopritore di talenti, e nel 1815 si assicurò quello di un compositore ventitreenne, in cui già aveva identificato la figura più rappresentativa della lirica contemporanea: Gioacchino Rossini. (cap. 39, p. 609)
  • [Ciro Menotti] Uomo onesto, ma di un candore che sconfinava nella sprovvedutezza, [...]. (cap. 40, p. 635)

L'Italia del Risorgimento

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  • [Giuseppe Mazzini] Due mesi d'intenso lavoro gli bastarono a maturare il piano. Più che una setta, la sua organizzazione sarebbe stata un vero e proprio partito, anche se clandestino, senza l'oscura simbologia e i complicati rituali carbonari. Si sarebbe chiamata Giovine Italia e lo sarebbe stata anche di fatto perché, salvo casi eccezionali, era preclusa a chi avesse superato i quarant'anni di età. (cap. 4, pp. 54-55)
  • D'irresolutezza, Carlo Alberto aveva dato prova anche prima di salire sul trono, e lo aveva dimostrato anche il suo contraddittorio atteggiamento nel '21[81]. Il coraggio e la volontà non gli mancavano; ma gli mancava il carattere. Nella guerra di Spagna era stato un valoroso combattente[82], e la disciplina a cui si sottoponeva era spartana. Ma le responsabilità morali lo sgomentavano. (cap. 9, pp. 135-136)
  • [Carlo Alberto] Non era né intelligente né colto. Ma certi movimenti di opinione pubblica e orientamenti di pensiero li coglieva e ne restava influenzato. Nel '38 aveva mandato in galera e poi in esilio Gioberti, ma nel '43 ne leggeva con interesse il Primato. Se D'Azeglio avesse scritto il suo libro[83] due anni prima, avrebbe mandato in esilio anche lui. Ora in pratica ne aveva fatto una specie di agente segreto. I tempi insomma li sentiva e con essi andava. (cap. 9, p. 136)
  • Questo grande soldato [Josef Radetzky] non aveva mai conosciuto sconfitte, e a ottant'anni suonati conservava intatte prestanza fisica ed energia morale. Come tutti i militari, credeva soltanto nella spada e nella disciplina. Ma non somigliava affatto all'immagine che di lui ci ha tramandato la storiografia risorgimentale: quella del crudele "impiccatore", del caporalaccio ottuso, grossolano e brutale. Era al contrario un grande signore, di tratto ruvido ma generoso, perpetuamente alle prese con problemi di bilancio perché aveva le mani bucate. (cap. 13, p. 194)
  • [Radetzky] Aveva sposato una Contessa austriaca che viveva a Vienna e gli aveva dato otto figli da cui non gli venivano che dispiaceri. Uno militava ai suoi ordini lì a Milano, ma era un così cattivo arnese che un prete un giorno lo schiaffeggio per strada. Radetzky mandò a chiamare il prete, gli strinse la mano e gli disse: "Crazzie". Per amante si era presa una brava stiratrice lombarda che sapeva cucinare bene gli gnocchi, di cui era ghiottissimo, e dalla quale ebbe altri quattro figli. Non era affatto un odiatore degl'italiani: tant'è vero che, quando andò in pensione, rimase a Milano, e lì morì nel '58. Era soltanto un fedele servitore del suo Paese, di cui non discuteva la causa. E soprattutto era un vecchio lupo di guerra coraggioso, astuto e risoluto. (cap. 13, p. 195)
  • La notizia si diffuse prima ancora che lo Statuto fosse firmato, e in un battibaleno le piazze di Torino, eppoi di tutto il Piemonte, eppoi di tutto il Reame, si riempirono di folla esultante. Essa non conosceva il contenuto del documento che introduceva, sì, un regime rappresentativo, ma circondandolo delle maggiori cautele [...]. Più che del suo contenuto, la pubblica opinione era innamorata della parola Costituzione, che aveva finito, per assumere ai suoi occhi magici significati, e la salutava con luminarie, canti e bandiere. (cap. 14, p. 218)
  • [...] Anzani, il più serio e autorevole degli esuli italiani, che aveva combattuto per la libertà in Grecia e in Spagna. Le sue parole avevano gran peso anche perché fra tutti quei chiacchieroni, ne pronunziava poche. (cap. 18, p. 281)
  • [...] Montanelli era così infatuato [del progetto di Costituente italiana] e tanto ne parlava nei suoi discorsi che il popolino – dicono – finì per credere che la Costituente fosse il nome di sua moglie. (cap. 19, p. 298)
  • Rossi era un toscano della Lunigiana, ma solo all'anagrafe. Come formazione e mentalità, apparteneva ancora a quel tipo di apòlidi che l'Italia del Settecento sfornava doviziosamente e che, non trovando in patria un terreno per i loro talenti, andavano da mercenari a investirli all'estero. Professore d'Università a poco più di vent'anni, poi commissario di Murat al tempo del suo infelice tentativo di unificare l'Italia sotto il suo scettro, era l'unico cattolico cui l'Accademia calvinista di Ginevra avesse mai affidato una cattedra. (cap. 19, p. 301)
  • [Pellegrino Rossi] Fu sin dal principio un fautore di Pio IX fino a partecipare di persona alle manifestazioni popolari in suo favore, ma vide subito la pochezza e ambiguità dell'uomo e ne denunziò i pericoli. (cap. 19, pp. 302-303)
  • Sebbene gli avessero affidato pieni poteri, Manin era un uomo discusso. Molti lo consideravano un malaccorto maneggione, un improvvisatore digiuno di problemi economici e militari, bravo soltanto ad attribuirsi i meriti degli altri. Secondo Tommaseo, ch'era fra i suoi più insidiosi diffamatori, il potere gli aveva dato "una scossa da intorbidargli la mente e far più grave e manifesta la sua inesperienza". (cap. 23, p. 354)
  • [Daniele Manin] Intellettualmente, non era al livello di un Mazzini o di un Cattaneo. Ma era, come loro, inattaccabile sul piano morale. E, in mancanza di un vero e proprio potere carismatico, esercitava sulle folle un notevole fascino per la sua gioviale e arguta "venezianità". Parlava sempre in dialetto con battute raccattate sulla bocca dei gondolieri, e anche nel dramma portava un pizzico di Goldoni. I suoi limiti li conosceva, e non è vero che l'autorità gli avesse dato alla testa, come diceva Tommaseo che diceva male di tutti. Anzi la esercitava bonariamente e cercava di circondarsi di uomini validi che sopperissero alla sua incompetenza. (cap. 23, pp. 354-355)
  • Eran trascorsi pochi mesi [dal suo matrimonio con Vittorio Emanuele], che Maria Adelaide lo sorprendeva nel giardino di Moncalieri con una diva del teatro, Laura Bon, ma si guardò dal farne un dramma. Perfettamente educata al mestiere di Regina, essa sapeva che la rassegnazione alle infedeltà ne è parte imprescindibile, e le sopportò sempre con garbo e dignità. (cap. 25, p. 390)
  • Sfruttando la devozione di Carlo Alberto, Solaro della Margarita aveva regolato i rapporti con la Chiesa in modo tale da fare del clero piemontese il più potente d'Italia dopo quello dello Stato pontificio. Esso aveva ancora i suoi tribunali in concorrenza con quelli dello Stato e poteva concedere il diritto d'asilo ai delinquenti. (cap. 26, p. 410)
  • [...] [Giuseppe] Montanelli, gran galantuomo e ricco d'ingegno, non lo era altrettanto di carattere. Idee ne aveva, anzi ne aveva troppe; ma, facilmente suggestionabile, finiva sempre per adottare quelle dell'ambiente in cui viveva. (cap. 29, pp. 464-465)
  • Il primo a trarne le conclusioni [dalle tesi favorevoli alla monarchia piemontese esposte nel libro di Gioberti Del rinnovamento civile d'Italia] fu Pallavicino, l'ex prigioniero dello Spielberg, da un pezzo rifugiato a Torino. Di scarso cervello politico, impetuoso fino alla leggerezza, teatrale e un po' troppo portato a ostentare i suoi titoli di "martire", aveva fino allora militato sotto bandiera rivoluzionaria. (cap. 32, p. 514)
  • [Tra i Mille di Garibaldi] C'era il malinconico ex prete Sirtori, che della guerra aveva fatto una mistica e sul campo sembrava che officiasse. (cap. 40, p. 635)

L'Italia dei notabili

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  • La Convenzione, che fu detta "di Settembre" dal mese in cui venne concordata, si componeva di cinque articoli e stabiliva: che l'Italia rinunziava ad ogni atto di ostilità contro il territorio pontificio; che la Francia ne avrebbe ritirato le sue truppe via via che il governo del Papa le avesse rimpiazzate con volontari indigeni e stranieri, e comunque entro due anni; e che questo doppio impegno sarebbe entrato in vigore dal momento in cui il governo italiano avesse decretato il trasferimento della capitale da operarsi nello spazio di sei mesi. (Capitolo quinto, Firenze capitale, p. 76)
  • Gli sventramenti che furono operati [a Firenze, nuova capitale del Regno d'Italia] per alloggiare i Ministeri e i nuovi quartieri che sorsero alla periferia per ospitare i venticinque o trentamila impiegati che calarono da Torino, lasciarono la città orrendamente sfregiata e carica di debiti. (Capitolo quinto, Firenze capitale, p. 78)
  • [Carmine Crocco] [...] condannato per diserzione a vent'anni di carcere, ne era evaso, si era dato alla macchia, e in poco tempo era diventato il più temuto e rispettato capobanda della Lucania non soltanto per il suo coraggio, ma anche per la sua intelligenza di guerrigliero.
    [...] Crocco venne riconosciuto Generalissimo non solo per l'autorità che gli conferivano le sue gesta, ma anche, perché, sebbene mezzo analfabeta, possedeva un'oratoria immaginosa e apocalittica. (Capitolo sesto, I briganti, pp. 85-89)
  • [Giustino Fortunato] [...] il più grande e illuminato studioso del Meridione. (Capitolo sesto, I briganti, p. 86)
  • Figlio di un fabbro e medico di professione, Lanza incarnava, nella Destra piemontese tradizionalmente formata da nobili, militari e grandi borghesi, un tipo umano del tutto insolito: il nuovo piccolo ceto medio, spartano e puritano, formatosi nelle scuole serali e nell'Università popolare. (Capitolo nono, Gli anni della lesina, p. 133)
  • L'esercito papalino era un'accozzaglia di mercenari delle più svariate nazionalità (c'erano perfino dei turchi). [...] circa 15.000 uomini, al comando del generale Kanzler. Compito gentiluomo, ligio al Regolamento come lo era al Catechismo, questi aveva tuttavia un concetto tedesco dell'onore militare e avrebbe preferito una sconfitta a una resa. Ma [Il segretario di Stato] Antonelli non era di questa opinione. Gli ordinò di ritirare le truppe [pontificie] dentro le mura e di limitarsi a un simulacro di resistenza. (Capitolo decimo, Porta Pia, pp. 141-142)
  • [La duchessa Eugenia Litta] Durante la campagna del '59[84] era stata il riposo del guerriero più famoso e importante: Napoleone III. E secondo le malelingue era passata subito dopo in eredità a Vittorio Emanuele, che però era il meno adatto ad apprezzare la sua vita di vespa, le sue carni pallide e i suoi raffinatissimi gusti. Balzac le aveva reso omaggio. Boito seguitava a rendergliene. D'Annunzio dirà ch'essa "aveva rubato il segreto a Ninon de Lenclos[85]". Insomma come iniziatrice all'amore, il giovane principe [il futuro Umberto I] non poteva desiderarne una più fascinosa ed esperta. Lo fu al punto che, nonostante la differenza d'età, egli le rimase devoto – anche se non fedele – fino alla fine dei suoi giorni. (Capitolo quattordicesimo, Il marito di Margherita, p. 196)
  • [Margherita di Savoia] [...] era una vera e seria professionista del trono, e gl'italiani lo sentirono. Essi compresero che, anche se non avessero avuto un gran Re, avrebbero avuto una grande Regina. (Capitolo quattordicesimo, Il marito di Margherita, p. 197)
  • Il trattato [della Triplice alleanza] fu firmato a Vienna nel maggio dell'82[86]. Esso impegnava le tre Potenze al reciproco aiuto nel caso in cui una fosse aggredita e alla benevola neutralità nel caso che aggredisse. Inoltre Austria e Germania dichiaravano di disinteressarsi del problema del Papa, considerandolo un affare interno italiano.
    Quest'ultima clausola fu, insieme alla fine dell'isolamento, il grande vantaggio che l'Italia trasse dal patto, ma nient'altro. Essa non vi era entrata su un piede di parità con le consocie. Aveva semplicemente acceduto all'alleanza che già legava le altre due, le quali restavano per così dire le padrone di casa, e Bismarck non perse occasione di farcelo sentire. (Capitolo diciannovesimo, La Triplice, pp. 276-277)
  • L'unico Stato che ruppe le relazioni con quello italiano in seguito a Porta Pia fu l'Ecuador. Mai la Chiesa si era trovata in condizioni di più completo isolamento. (Capitolo ventitreesimo, I cattolici, p. 334)
  • Sindaco di Palermo a ventisette anni, [il marchese di Rudinì] aveva affrontato con molto coraggio la rivolta che vi era scoppiata nel '66, e questo lo aveva accreditato come il fanciullo-prodigio del moderatismo, destinato a gloriose imprese. Ma, diceva De Sanctis, col passare del tempo, il prodigio dileguò e rimase solo il fanciullo. Ministro degl'Interni a trent'anni in uno dei governi Menabrea, la sua carriera si era fermata lì. Pure, la fama di "uomo forte" gli era rimasta addosso, suffragata anche dalla sua alta statura, dai lampeggiamenti del monocolo, dalla fluente barba, dalla nobilesca alterigia. Idee, non ne aveva. Ma aveva delle impennate che facevano credere alla sua risolutezza. E questo, in una Destra impoverita di personalità di rilevo, gli era bastato per guadagnarsi i galloni di capo. (Capitolo ventiquattresimo, Giolitti, pp. 348-349)
  • In realtà, del soldato, Baratieri non aveva neanche il fisico. Grasso e sgraziato, con gli occhiali a pince-nez, sembrava molto più vecchio dei suoi cinquant'anni e costruito più per la cattedra che per l'elmo. (Capitolo ventisettesimo, Adua, p. 391)
  • [Dopo le dimissioni del generale Pelloux] A succedergli il Re chiamò il Presidente del Senato Saracco, un galantuomo ch'era riuscito a conservare intatta la sua reputazione di democratico pur essendo stato due volte Ministro nei governi di Crispi. Aveva quasi ottant'anni, ma conservava una notevole lucidità di cervello, e ne dette prova formando un governo di coalizione che includeva un po' tutte le forze, meno l'Estrema cui diede tuttavia soddisfazione chiamando parecchi suoi uomini nella commissione incaricata di studiare un nuovo regolamento parlamentare che, senza intaccare la libertà di discussione, impedisse l'ostruzionismo, o per meglio dire lo regolasse. (Capitolo ventottesimo, I cannoni di Bava Beccaris, p. 417)

L'Italia di Giolitti

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  • Si è detto che [Egidio Osio] plagiò il suo pupillo [il principe ereditario, futuro re Vittorio Emanuele III] e ne lesionò definitivamente il carattere terrorizzandolo e mortificandone gli slanci. Si è detto che anche sul suo fisico ebbe pessima influenza costringendolo a penosi e logoranti sforzi. Si è detto che furono i suoi metodi repressivi a creare nel Principe quei complessi d'inferiorità da cui fu sempre afflitto, a traumatizzarlo, a inaridirlo, a riempirne l'animo di sordi rancori.
    Ma se non proprio di falsità, si tratta di verità contraffatte. (cap. I, Il nuovo Re, p. 15)
  • Militare dalla testa ai piedi, Osio era un uomo duro, imperioso, abituato al comando. [...] Ma era anche un gran signore, perfetto uomo di mondo, e nutrito di buone letture. Sebbene la sua carriera potesse esserne notevolmente avvantaggiata, esitò molto ad accettare l'incarico [di tutore del principe ereditario], vi si risolse solo dietro garanzia che nemmeno i genitori avrebbero più interferito nell'educazione del ragazzo, di cui egli diventava unico e assoluto responsabile, e al termine della sua missione non beneficiò di nessuno "scatto di grado". (cap. I, Il nuovo Re, pp. 15-16)
  • Elena, che da ragazza dipingeva, suonava il violino, componeva poesie come suo padre[87], e amava il tennis e la danza, rinunziò a questi passatempi appena vide che lui [il futuro Vittorio Emanuele III] li detestava, anzi adottò come hobbies quelli di lui: la numismatica e l'archeologia. Per il resto fu soltanto una donna di casa, come lo era stata a Cettigne[88]. Sapendolo insofferente dei camerieri, era lei che lo serviva a tavola, e per farsi i vestiti si prese in casa una sartina. (cap. I, Il nuovo Re, p. 27)
  • Meda era un avvocato milanese di spirito pratico, che considerava l'astensione dal voto [dei cattolici] un dovere da osservare finché il Papa lo imponeva, ma un grosso errore strategico di cui occorreva sollecitare la revoca. Lo Stato liberale, diceva, c'è e va accettato. Va soltanto salvato dalle sue tentazioni autoritarie e giacobine. E questo i cattolici possono farlo soltanto inserendocisi e riformandolo in modo da tenerlo al riparo dai pericoli d'involuzione. Lo Stato cioè per lui era un "peccatore da salvare". (cap. IV, Cattolici e socialisti, p. 72)
  • [...] Murri era un giovane sacerdote marchigiano, che aveva conosciuto la povertà e nel Vangelo vedeva soprattutto un messaggio giustizialista. Introverso e malinconico come tutti i fanatici, egli si considerava molto più "avanzato" di Meda per il carattere rivoluzionario che intendeva imprimere al movimento [cattolico]. In realtà era un uomo del Sillabo che, pur partendo anche lui dall'accettazione dello Stato unitario, intendeva tramutarlo in una teocrazia egalitaria e totalitaria, sul tipo di quella che i Gesuiti avevano fondato un paio di secoli prima nel Paraguay. Se a ispirarlo fosse più l'amore del povero o l'odio del ricco, non sappiamo. (cap. IV, Cattolici e socialisti, pp. 72-73)
  • Meda e Murri furono dapprincipio alleati. Entrambi volevano un grande partito, popolare indipendente dalla Chiesa. Ma Meda lo concepiva come lo sviluppo della organizzazione tradizionale, cioè dell'Opera[89], una volta strappatala alla vecchia guardia, mentre Murri lo vedeva come un organismo nuovo, un "Fascio", come quelli che pochi anni prima avevano messo a soqquadro e insanguinato la Sicilia. (cap. IV, Cattolici e socialisti, p. 73)
  • Lo sciopero [generale del 1904] [...] non fu un fallimento, ma non fu nemmeno un successo perché si esaurì spontaneamente, e il suo più consistente risultato fu la spaccatura delle forze operaie. Lo si vide pochi mesi dopo, quando i sindacalisti bandirono un altro sciopero, quello delle ferrovie, da cui i sindacalisti uscirono demoralizzati e con la truppa dimezzata. (cap. IV, Cattolici e socialisti, p. 85)
  • Fortis era un tipico notabile romagnolo di lungo e contradditorio corso ideologico. Aveva debuttato come repubblicano intransigente, era andato in galera per complotto rivoluzionario con gli anarchici, poi era stato conquistato da Crispi, era finito Ministro di Pelloux, e ora militava sotto la bandiera di Giolitti. Come "trasformista", era tra i più qualificati. Ma questa pecca era abbondantemente compensata dai suoi doni di simpatia umana e da una grande esperienza parlamentare. (cap. VI, Il suffragio universale, p. 107)
  • Quando Corradini applicò il vocabolario socialista alla Nazione parlando di una "Italia proletaria" in lotta contro le plutocrazie occidentali, e lanciò l'idea di un "imperialismo operaio" da contrapporre a quello capitalistico, riscosse in campo sindacalista vasti consensi e pose le premesse di un pasticcio ideologico in cui Mussolini avrebbe di lì a poco guazzato. (cap. VII, "Tripoli bel suol d'amore", p. 137)
  • [Giolitti] Più che la Libia, voleva la guerra, o meglio qualcosa che desse finalmente agl'italiani l'impressione di farne una e di vincerla. (cap. VII, "Tripoli bel suol d'amore", p. 145)
  • [...] a Vienna l'imperatore Francesco Giuseppe aveva dovuto intervenire di persona per fermare la mano al Capo di Stato Maggiore Conrad che voleva una spedizione punitiva contro l'Italia, ora ch'era impegnata in Africa [nella guerra di Libia], per metterla in ginocchio "prima che avesse il tempo di perpetrare altri tradimenti". (cap. VII, "Tripoli bel suol d'amore", pp. 149-150)
  • Non si è mai saputo con certezza come si svolse l'operazione [del patto Gentiloni] che, ben s'intende, doveva restare segretissima. Giolitti negò sempre di avervi partecipato, e infatti d'impronte digitali non ve ne lasciò. Fu probabilmente senza le sue credenziali, ma certamente non senza il suo beneplacito che qualche esponente liberale prese contatto coi cattolici. Questi avevano una "unione elettorale" di cui era Presidente un Conte marchigiano, Gentiloni, politico abile, ma vanesio e chiacchierone. Egli s'impegnò a mobilitare il voto cattolico in favore dei candidati liberali dovunque questi fossero minacciati dalla Estrema Sinistra; e i liberali s'impegnarono a difendere la parificazione delle scuole confessionali a quelle dello Stato, a ripristinare in queste ultime l'istruzione religiosa, a respingere l'introduzione del divorzio, e – pare – a combattere la Massoneria. (cap. VIII, Il crepuscolo degli dei, p. 163)
  • Se Salvemini incarnava lo spirito protestatario e la sete giustizialista delle plebi meridionali, Salandra incarnava lo spirito autoritario e conservatore della borghesia terriera. Proveniva da una famiglia di notabili pugliesi con parecchia roba al sole, e alla politica era approdato dalla cattedra universitaria, di cui conservava molti caratteri: una notevole cultura e finezza intellettuale, ma anche un compassato distacco che rasentava la freddezza. Prima di affrontare un problema lo studiava minuziosamente, e nessuno sapeva prospettarlo con più chiarezza di lui. (cap. IX, Sarajevo, p. 168)
  • Paolo Boselli [incaricato nel 1916 di formare il nuovo governo dopo le dimissioni di Antonio Salandra], che fu chiamato a presiederlo, possedeva tutti i requisiti, meno quelli che occorrono per guidare un Paese in guerra. Deputato ligure da parecchie legislature, era stato varie volte Ministro con Crispi, Pelloux e Sonnino, ma nessuno se n'era accorto. [...]. Passava per un esperto di questioni economiche, e moralmente era un personaggio di tutto rispetto. Ma politicamente era scolorito, e per di più aveva quasi ottant'anni. (cap. XVI, La caduta di Salandra, pp. 293-294)
  • Quanto Cadorna era solitario, monacale ruvido e chiuso in un giro di valori e d'idee tradizionali, tanto Capello era brillante, estroverso, moderno, ricco d'immaginazione e maestro di "pubbliche relazioni". (cap. XVI, La caduta di Salandra, pp. 298-299)
  • Lucano di Melfi, Francesco Saverio Nitti incarnava anche nel fisico tozzo e grassottello il tipo del notabile meridionale, colto, brillante, scettico e alquanto egocentrico. [...] la sua specialità era il problema del Mezzogiorno, di cui fu tra i primi seri studiosi e che gli fornì anche la base elettorale. [...]. Sul livello medio della classe politica di allora, egli faceva spicco per preparazione, equilibrio e lucidità, ma anche per una certa propensione ad attribuirsi il monopolio di queste virtù. (cap. XXIII, Versaglia, pp. 420-421)

L'Italia in camicia nera

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  • Un altro utile incontro fu per Mussolini quello con Angelica Balabanoff, personaggio già di notevole rilevo nel socialismo internazionale. Era una russa di buona famiglia borghese, che fin da giovanissima si era imbrancata con quella intellighenzia rivoluzionaria da cui venivano anche i Lenin, i Trotzky, e gli altri futuri grandi del bolscevismo. A spingerla era stata la ribellione contro la meschinità, lo snobismo provinciale, il sussiego di casta, i tabù del suo ceto. (cap. 1, p. 23)
  • Angelica [Balabanoff] non era bella, non aveva la grazia eterea ed esangue di Anna [Kuliscioff]. Ma non era nemmeno sgradevole, nonostante i fianchi massicci e gli zigomi pronunciati, eppoi era una russa, cosa che faceva un grande effetto al piccolo provinciale di Predappio[90]. Anche se fra loro non divampò la passione che aveva legato Anna ad Andrea Costa, qualcosa ci fu, ed ebbe la sua importanza. Angelica cercò d'incivilire quel selvaggio trasandato che passava da ostinati mutismi a interminabili sproloqui conditi di orrende bestemmie. Lo sfamava, gli lavava la biancheria, lo iniziava, sia pure con poco successo, al marxismo [...]. (cap. 1, p. 25)
  • Uno dei tre protagonisti del giuoco [Gabriele D'Annunzio] era eliminato. La partita ora si riduceva agli altri due: Giolitti e Mussolini. (cap. 1, p. 101)
  • Mussolini aveva vinto, e la sua vittoria significava che il fascismo, abbandonata la pretesa di presentarsi come un movimento rivoluzionario di sinistra, quale lo avrebbero voluto Grandi, Farinacci e Marsich, presentava la sua candidatura a forza egemonica della destra e infilava la «via parlamentare» al potere.
    C'era un pericolo, e Mussolini lo capì subito: che questa svolta a destra mettesse il partito alla mercé della sua ala reazionaria incarnata soprattutto dal ras piemontese De Vecchi, uomo di poco cervello, ma tutto Trono e Altare, e che quindi poteva anche tornar comodo per il futuro. (cap. 2, p. 127)
  • [...], i giolittiani riuscirono a portare al governo uno dei suoi [di Giolitti] «ascari» più fedeli, ma anche dei più sbiaditi: Luigi Facta.
    Facta era un bravo avvocato di provincia piemontese con tutte le virtù, ma anche con tutti i limiti del suo ambiente: un uomo probo e integro, che dopo trent'anni di vita parlamentare ne aveva ormai una certa esperienza, aveva ricoperto con onore alcune cariche ministeriali, non aveva alcuna ambizione che quella di servire fedelmente il suo capo, né altre idee che quelle di lui. Tutto gli si poteva chiedere fuorché risolutezza ed immaginazione, cioè proprio le qualità che più urgevano. (cap. 2, pp. 143-144)
  • [...] le sue intenzioni [Mussolini] non le confidava nemmeno al segretario del partito, Bianchi, di cui apprezzava la fedeltà e l'impegno, ma non l'intelligenza: lo considerava angoloso, settario, puntiglioso vendicativo e privo d'intuito politico. L'unico con cui si apriva seguitava ad essere Cesare Rossi, l'uomo che gli era stato accanto dal primo momento, lo aveva seguito in tutte le sue palinodie e gli dava sempre dei consigli che corrispondevano ai suoi desideri. (cap. 4, p. 166)
  • [Vittorio Emanuele III] non si fidava completamente di Mussolini, ma si fidava ancora meno dei suoi avversari ed era convinto che costoro, se avessero preso il mestolo in mano, avrebbero ricreato il caos del dopoguerra. Comunque, a una cosa era assolutamente deciso: a non farsi coinvolgere nella lotta politica, come del resto gli dettava la Costituzione di cui, quando gli faceva comodo, sapeva ricordarsi.
  • Resterebbe solo da sapere con che animo Mussolini s'investì, il 3 gennaio, nella parte di dittatore. Se, come molti sostengono, gli sforzi che fino a quel momento aveva fatto per evitarla erano stati solo un giuoco per dimostrare che non era lui a volerla, ma gli eventi ad imporgliela, bisogna riconoscere che come giuocatore sapeva il fatto suo.

Storia dei Greci

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Citazioni

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  • Il modo migliore per ripagare il nostro contemporaneo Enrico Schliemann degli enormi servigi che ci ha reso nella ricostruzione della civiltà classica, mi pare sia quello di assumerlo fra i suoi protagonisti, com'egli stesso mostrò di desiderare ardentemente, scegliendosi, in pieno secolo decimonono, Zeus come dio e a lui indirizzando le sue preghiere, battezzando Agamennone suo figlio, Andromaca sua figlia, Pélope e Telamone i suoi servitori, e dedicando a Omero tutta la sua vita e i quattrini. (cap. 2, p. 17, 2004)
  • [Su Schliemann] Era un matto, ma tedesco, cioè organizzatissimo nella sua follia, che la buona sorte volle ricompensare. La prima storia che gli raccontò suo padre, quando aveva cinque o sei anni, non fu quella di Cappuccetto Rosso, ma quella di Ulisse, di Achille e di Menelao. Ne aveva otto, quando annunziò solennemente in famiglia che intendeva riscoprire Troia e dimostrare, ai professori di storia che lo negavano, ch'essa era realmente esistita. Ne aveva dieci, quando compose in latino un saggio su questo argomento. E ne aveva sedici, quando sembrò che questa infatuazione gli fosse del tutto passata. Infatti s'era impiegato come garzone di una drogheria, dove scoperte archeologiche non c'era da farne di certo, e di lì a poco s'imbarcò non per l'Ellade, ma per l'America, in cerca di fortuna. (cap. 2, p. 17, 2004)
  • Di nuovo il buon Dio, che per i matti ha un debole, lo compensò di tanta fede, guidando il suo piccone sugli scantinati del palazzo dei discendenti di re Atreo, nei cui sarcofaghi furono ritrovati gli scheletri, le maschere d'oro, i gioielli e il vasellame che si ritenevano esistiti solo nella fantasia di Omero. E Schliemann telegrafò al re di Grecia: Maestà, ho ritrovato i vostri antenati. Poi, ormai sicuro del fatto suo, volle dare il colpo di grazia agli scettici del mondo intero e, sulle indicazioni di Pausania, andò a Tirinto e vi disseppellì le ciclopiche mura del palazzo di Proteo, di Perseo e di Andròmeda. (cap. 2, pp. 19-20, 2004)
  • Schliemann morì quasi settantenne nel 1890, dopo aver sconvolto tutte le tesi e le ipotesi su cui si era basata sino ad allora la ricostruzione della preistoria greca, tesa ad esiliare Omero e Pausania nei cieli della pura fantasia. (cap. 2, p. 20, 2004)
  • Ma ora, dopo le scoperte del tedesco matto, non abbiamo più il diritto di mettere in dubbio la realtà storica di Agamennone, di Menelao, di Elena, di Clitennestra, di Achille e di Patroclo, di Ettore e di Ulisse, anche se le loro avventure non sono state esattamente quelle che Omero ha descritto, facendoci sopra la cresta. Schliemann ha arricchito la storia e impoverito la leggenda, di alcune decine di personaggi di primissimo piano. Grazie a lui alcuni secoli, che prima erano nel buio, sono entrati nella luce, anche se è quella incerta della primissima alba. Ed è solo per mano a lui che possiamo esplorarla. (cap. 2, p. 21, 2004)
  • Senza dubbio gli achei, a differenza dei pelasgi, furono terrieri, tant'è vero che fino alla guerra di Troia imprese per mare non ne azzardarono, e ogni volta che lo trovavano si fermavano. Essi non tentarono di mettere il piede nemmeno nelle isole più vicine al continente, e tutte le loro capitali e cittadelle erano nell'interno. La Grecia, sotto di loro, si limitava al Peloponneso, all'Attica e alla Beozia; mentre per le popolazioni pelasgiche della civiltà micenea, ch'erano marinare, essa inglobava anche tutti gli arcipelaghi dell'Egeo. (cap. 3, Gli Achei, p. 25, 2004)
  • Diogene, che aveva la lingua lunga, disse che la religione greca era quella cosa per cui un ladro che sapeva bene l'Avemaria e il Paternoster era sicuro di potersela cavar meglio, nell'al di là di un galantuomo che li aveva dimenticati. Non aveva torto. La religione, in Grecia, era soltanto un fatto di procedura, senza contenuto morale. Ai fedeli non si chiedeva la fede né si proponeva il bene. S'imponeva solo il compimento di certe pratiche burocratiche. E non poteva essere diversamente, visto che di contenuto morale gli stessi dèi ne avevano ben poco e non si poteva certo dire che fornissero un esempio di virtù. (cap. 7, Zeus e famiglia, p. 54, 1992)
  • Anche Pisistrato era aristocratico e di famiglia ricca. Ma aveva capito che la democrazia, una volta instaurata, è irreversibile e va sempre a sinistra. (cap. 15, Pisistrato, p. 98)
  • Pisistrato, invece di cinquanta uomini, ne arruolò e armò quattrocento, s'impadronì dell'Acròpoli, e proclamò la dittatura. In nome e per il bene del popolo, si capisce, come tutte le dittature. (cap. 15, p. 91, 2004)
  • La stragrande maggioranza degli ateniesi, dopo averlo a lungo osteggiato e tenuto in gran sospetto, si erano sinceramente affezionati a Pisistrato che aveva dalla sua un'arma formidabile: la simpatia. (cap. 15, pp. 92-93, 2004)
  • Il tiranno Pisistrato seppe sfuggire a tutte le tentazioni del potere assoluto, meno una: quella di lasciare il «posto» in eredità ai figli, Ippia e Ipparco. L'amor paterno gl'impedì di vedere con la consueta chiarezza che i totalitarismi non hanno eredi e che quello suo si giustificava soltanto come una eccezione alla democrazia per assicurarle ordine e stabilità. Peccato. (cap. 15, p. 95, 2004)
  • Pisistrato era morto nel 527 avanti Cristo. Ventun anni dopo, cioè nel 506, troviamo uno dei suoi due figli, da lui designati a succedergli, Ippia, alla corte del re di Persia, Dario, per suggerirgli l'idea di muover guerra contro Atene e la Grecia tutta. I grandi uomini non dovrebbero mai lasciare né vedove né eredi. Sono pericolosissimi. (cap. 16, I persiani alle viste, p. 103)
  • Questo Ippia non aveva debuttato male, dopo che suo padre fu calato nella fossa. Era un giovanotto sveglio che, a furia di stare accanto al babbo, ne aveva imparato molte malizie, e alla politica aveva passione, a differenza di suo fratello Ipparco che invece s'interessava soltanto di poesia e di amore, in modo che fra i due non c'erano nemmeno pericolose rivalità. Eppure, a procurare i guai che condussero alla caduta della dinastia, fu proprio Ipparco. (cap. 16, p. 96, 2004)
  • Ipparco ebbe la disgrazia d'inciampare in un bellissimo guaglione di nome Armodio, che un certo Aristogitone – aristocratico quarantenne, prepotente e geloso – considerava sua proprietà. Costui concepì l'idea di sbarazzarsi del rivale col pugnale e, per dare all'assassinio un'etichetta più pulita che lo rendesse popolare, pensò di estenderlo anche al fratello Ippia facendolo passare per «delitto politico» in nome della libertà e contro la tirannia. Organizzò in questo senso una congiura con altri nobili latifondisti e, in occasione di una festa, tentò il colpo, che andò bene solo a mezzo: Ipparco ci rimise la pelle, ma Ippia scampò. E da quel momento, un po' per rancore, un po' per paura di altri complotti, il figlio e l'allievo di Pisistrato, dittatore liberale indulgente e illuminato, diventò un tiranno autentico. (cap. 16, pp. 96-97, 2004)
  • Lo scontento del popolo inferocì Ippia, che a sua volta inferocì il popolo. E quando il divorzio fra i due fu totale, i fuoriusciti, che frattanto si erano concentrati a Delfi, chiamarono in aiuto gli spartani, e insieme marciarono contro Atene. (cap. 16, p. 97, 2004)
  • Ippia si rifugiò sull'Acròpoli coi suoi sostenitori. Ma, per mettere in salvo i suoi figlioletti, cercò di farli segretamente espatriare. Gli assedianti li catturarono e l'infelice padre, per salvar la vita a loro e a se stesso, capitolò e si avviò in volontario esilio. Non bisogna dimenticare che nelle sue vene scorreva tuttavia il sangue di Pisistrato, cioè di un uomo sempre pronto a sacrificare la posizione alla famiglia, ma mai disposto a rassegnarsi alla sconfitta. (cap. 16, p. 97, 2004)
  • Milziade aveva capito qual era il debole dei persiani: essi erano bravi soldati individualmente, ma non avevano nessuna idea della manovra collettiva. E su questa puntò. A dar retta agli storici del tempo — che purtroppo erano tutti greci, — Dario perse settemila uomini, Milziade neanche duecento. (cap. 17, Milziade e Aristide, p. 112)
  • [A Milziade] sopravvisse Aristide, le cui vicende purtroppo ci dimostrano che l'onestà in politica non trova sempre i suoi compensi e che la storia, come le donne, ha un debole per i birbaccioni. (cap. 17, Milziade e Aristide, p. 112)
  • Nike, diventata ragazza, porta il peplo di lana, bianca o colorata, ma questa è l'unica scelta che le si lascia. Siccome è confinata in casa, non può nemmeno far quella di un ragazzo che le piace, e deve aspettare che il padre si metta d'accordo con un altro padre per combinare il matrimonio. (cap. 23, Una Nike qualsiasi, p. 143, 2004)
  • Quando il grande Mirone, rincorbellito dalla vecchiaia, si vide arrivare in studio come modella Laìde[91], perse la testa e le offrì tutto ciò che possedeva purché restasse la notte. E siccome essa rifiutò, l'indomani il poveruomo si tagliò la barba, si tinse i capelli, indossò un giovanile chitone color porpora e si passò una mano di carminio sul viso. «Amico mio», gli disse Laìde, «non sperare di ottenere oggi ciò che ieri rifiutai a tuo padre». (cap. 23, Una Nike qualsiasi, p. 150)
  • [Fidia] Qualcosa, nel suo carattere, doveva farne un nemico degli uomini, visto che nessuno lo amava. Eppure egli non fu soltanto un grande scultore, ma anche un grandissimo maestro, che, oltre ad aver creato uno stile, ne fece anche una scuola, trasmettendone le regole ad allievi come Agoracrito e Alcamene, continuatori del «classico». (cap. 25, Fidia sul Partenone, p. 165)
  • Gli uomini non sanno apprezzare e misurare che la fortuna degli altri. La propria, mai. (cap. 25, Fidia sul Partenone, p. 166)

Storia di Roma

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Non sappiamo con precisione quando a Roma furono istituite le prime scuole regolari, cioè «statali». Plutarco dice che nacquero verso il 250 avanti Cristo, cioè circa cinquecent'anni dopo la fondazione della città. Fino a quel momento i ragazzi romani erano stati educati in casa, i più poveri dai genitori, i più ricchi dai magistri, cioè da maestri, o istruttori, scelti di solito nella categoria dei liberti, gli schiavi liberati, che a loro volta erano scelti fra i prigionieri di guerra, e preferibilmente fra quelli di origine greca, che erano i più colti.

Citazioni

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  • Non ho scoperto nulla, con questo libro. Esso non pretende di portare "rivelazioni", nemmeno di dare una interpretazione originale della storia dell'Urbe. Tutto ciò che qui racconto è già stato raccontato. Io spero solo di averlo fatto in maniera più semplice e cordiale, attraverso una serie di ritratti che illuminano i protagonisti in una luce più vera, spogliandoli dei paramenti che fin qui ce li nascondevano. (introduzione)
  • Lucio Tarquinio e i suoi amici etruschi dovettero veder subito che profitto si poteva trarre da questa massa di gente, per la maggior parte esclusa dai comizi curiati, se si fosse potuta convincerla che solo un re forestiero come lui avrebbe potuto farne valere i diritti. E per questo l'arringò, promettendole chissà cosa, magari ciò che poi fece davvero. [...] Certamente ci riuscirono perché Lucio Tarquinio fu eletto col nome di Tarquinio Prisco, rimase sul trono trentotto anni, e per liberarsi di lui i patrizi, cioè i «terrieri», dovettero farlo assassinare. Ma inutilmente. Prima di tutto perché la corona, dopo di lui, passò al figlio, eppoi a suo nipote. In secondo luogo perché, più che la causa, l'avvento della dinastia dei Tarquini fu l'effetto di una certa svolta che la storia di Roma aveva subìto e che non le consentiva più di tornare al suo primitivo e arcaico ordinamento sociale e alla politica che ne derivava. (RCS 2004, cap. 4, I re mercanti, pp. 38-39)
  • Questo secondo Tarquinio, prima di rischiare il colpo, tentò di far deporre lo zio per abuso di potere. Servio si presentò alle centurie che lo riconfermarono re con plebiscitaria acclamazione (lo racconta Tito Livio, gran repubblicano, dunque dev'esser vero). Non restava quindi che il pugnale, e Tarquinio lo usò senza troppi scrupoli. Ma il respiro di sollievo che trassero i senatori, coi quali si era alleato, rimase loro in gola, quando videro l'uccisore sedersi a sua volta sul trono d'avorio senza chieder loro permesso, come avveniva a quei buoni vecchi tempi ch'essi speravano di restaurare. Il nuovo sovrano si mostrò subito più tirannico di quello che aveva spedito all'altro mondo. E infatti lo ribattezzarono «il Superbo» per distinguerlo dal fondatore della dinastia. (RCS 2004, cap. 4, I re mercanti, pp. 42-43)
  • Non sappiamo quasi nulla di Porsenna. Ma dal modo come si condusse, dobbiamo dedurre che alle doti del bravo generale doveva accoppiare quelle del sagace uomo politico. Egli si rese conto che negli argomenti di Tarquinio c'era del vero. Ma prima d'impegnarsi, volle essere sicuro di due cose: che il Lazio e la Sabina erno davvero pronti a schierarsi dalla sua parte, e che nella stessa Roma c'era una «quinta colonna» monarchica pronta a facilitargli il compito con un'insurrezione. (RCS 2004, cap. 5, Porsenna, p. 49)
  • Da quell'anno 508 in cui fu fondata la repubblica, tutti i monumenti che i romani innalzarono un po' dappertutto portarono sempre la sigla SPQR che vuol dire: Senatus PopuluSque Romanus, cioè «il Senato e il popolo romano». Cosa fosse il Senato, già lo abbiamo detto. Viceversa non abbiamo ancora detto cos'era il popolo, che non corrispondeva affatto a ciò che noi intendiamo con questa parola. In quei lontani giorni di Roma esso non comprendeva «tutta» la cittadinanza, come avviene oggi, ma soltanto due «ordini», cioè due classi: quella dei «patrizi» e quella degli equites o «cavalieri». (RCS 2004, cap. 6, SPQR, p. 54)
  • Tutti i dittatori della Roma repubblicana, meno uno, furono patrizi. Tutti, meno due, rispettarono i limiti di tempo che furono loro imposti. Uno di essi, Cincinnato, che, dopo soli sedici giorni di esercizio della suprema carica, tornò spontaneamente ad arare il campo coi buoi, è passato alla storia coi colori della leggenda. (RCS 2004, cap. 9, La carriera, p. 85)
  • Negli ultimi tempi [Cesare] si era spinto anche più in là: aveva imposto che tutte le discussioni che si svolgevano in quel solenne e aristocratico consesso venissero registrate e pubblicate giorno per giorno. Così nacque il primo giornale. Si chiamò Acta diurna, e fu gratuito, perché, invece di venderlo, lo affiggevano ai muri in modo che tutti i cittadini potessero leggerlo e controllare ciò che facevano e dicevano i loro governanti. L'invenzione fu d'immensa portata perché sancì il più democratico di tutti i diritti. Il Senato, che traeva prestigio anche dalla sua segretezza, fu così sottoposto alla pubblica opinione, e non si riebbe mai più da questo colpo. (RCS 2004, cap. 24, Cesare, p. 214)
  • Se riuscirò ad affezionare alla storia di Roma qualche migliaio di italiani, sin qui respinti dalla sussiegosità di chi gliel'ha raccontata prima di me, mi riterrò un autore utile, fortunato e pienamente riuscito. (introduzione)
  • Sull'esattezza di quel che Livio riferisce facciamo le nostre riserve, specie là dov'egli mette in bocca ai suoi personaggi interi discorsi che somigliano più a Livio che a loro. La sua è una storia di eroi, un immenso affresco a episodi, e serve più a esaltare il lettore che a informarlo. Roma, a dargli retta, sarebbe stata popolata soltanto, come l'Italia di Mussolini, da guerrieri e navigatori assolutamente disinteressati, che conquistarono il mondo per migliorarlo e moralizzarlo. Gli uomini, secondo lui, sono divisi in buoni e cattivi. A Roma c'erano solamente i buoni, e fuori di Roma solamente i cattivi. Anche un grande generale come Annibale diventa, sotto la sua penna, un comune mariuolo. Ciò non toglie che la storia di Livio, costata cinquant'anni di fatiche a un autore che si dedicò soltanto ad essa, resti un gran monumento letterario. Forse il più grande fra quelli, piuttosto mediocri, eretti sotto il segno di Augusto. (cap. 30, Orazio e Livio)
  • Può darsi che Dione Cassio e Svetonio, nel loro odio per la monarchia, abbiano un po' calcato la mano. Ma matto, Caligola doveva esserlo davvero. (cap. 31, Tiberio e Caligola)
  • Vitellio, quando fu catturato nel suo nascondiglio, dove, tanto per cambiare, banchettava, fu trascinato nudo per la città con un laccio al collo, bersagliato di escrementi, torturato con ponderata lentezza, e alla fine gettato nel Tevere.
    Questa città che si divertiva al fratricidio, questi eserciti che si ribellavano, questi imperatori che venivano subissati di sterco pochi giorni dopo essere stati coperti di osanna: ecco cos'era diventata la capitale dell'Impero. (Rizzoli 1959, cap. 37, I Flavi, pp. 415-416)
  • Purtroppo la pace, per ottenerla, bisogna essere in due a volerla. (cap. 37, I Flavi)
  • Era la prima volta, nella storia di Roma, che una guerra si combatteva in nome della religione. Ma fu la Croce che vinse. E il Tevere, trascinando verso la foce i cadaveri di Massenzio e dei suoi soldati che lo ingombravano, sembrò che spazzasse via i residui del mondo antico. (cap. 46, Costantino)
  • Il papa che più contribuì a rassodare l'organizzazione in questi primi difficili anni fu Callisto, che molti consideravano un avventuriero. Dicevano che, prima di convertirsi, aveva fatto i quattrini con sistemi piuttosto equivoci, era diventato banchiere, aveva derubato i suoi clienti, era stato condannato ai lavori forzati ed era fuggito con un inganno. Il fatto che, appena diventato papa, proclamasse valido il pentimento per cancellare qualunque peccato, anche mortale, ci fa sospettare che in queste voci un po' di verità c'è. Comunque, fu un gran papa, che stroncò il pericoloso scisma d'Ippolito e affermò definitivamente l'autorità del potere centrale. (RCS 2004, cap. 46, Costantino, p. 367)
  • Le rivoluzioni vincono non in forza delle loro idee, ma quando riescono a confezionare una classe dirigente migliore di quella precedente. E il Cristianesimo era riuscito proprio in questa impresa. (cap. 47, Il trionfo dei cristiani)
  • Costantino fu uno strano e complesso personaggio. Faceva gran scialo di fervore cristiano, ma nei suoi rapporti di famiglia non si mostrò molto ossequente ai precetti di Gesù. Mandò sua madre Elena a Gerusalemme per distruggere il tempio di Afrodite che gli empi governatori romani avevano elevato sulla tomba del Redentore, dove, secondo Eusebio, fu ritrovata la croce su cui era stato suppliziato. Ma subito dopo mise a morte sua moglie, suo figlio e suo nipote. (cap. 47, Il trionfo dei cristiani)
  • Come tutti i grandi Imperi, quello romano non fu abbattuto dal nemico esterno, ma roso dai suoi mali interni. (cap. 51, Conclusione)
  • Una religione conta non in quanto costruisce dei templi e svolge certi riti; ma in quanto fornisce una regola morale di condotta. Il paganesimo questa regola l'aveva fornita. Ma quando Cristo nacque, essa era già in disuso, e gli uomini, consciamente o inconsciamente, ne aspettavano un'altra. Non fu il sorgere della nuova fede a provocare il declino di quella vecchia; anzi, il contrario. (cap. 51, Conclusione)
  • Il dispotismo è sempre un malanno. Ma ci sono delle situazioni che lo rendono necessario. (cap. 51, Conclusione)

Mai città al mondo ebbe più meravigliosa avventura. La sua storia è talmente grande da far sembrare piccolissimi anche i giganteschi delitti di cui è disseminata. Forse uno dei guai dell'Italia è proprio questo: di avere per capitale una città sproporzionata, come nome e passato, alla modestia di un popolo che, quando grida «Forza Roma!», allude soltanto a una squadra di calcio.

XX Battaglione eritreo

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Sono letterato. E, a parte il brutto e il meschino di quella parola, il mio mestiere m'innamora. Mi sono sforzato tanti anni, per compiacere a qualcuno o a qualcosa, di tradire questo mio istinto. Ma non ce l'ho fatta. E non ce la fo nemmeno ora, soldato in Africa, in piena guerra. Ma non lo dico per presentare il conto. E a chi, poi? Lo dico per un fenomeno di narcisismo: perché mi garba contemplarmi in questo gesto di fedeltà al mestiere, che poi vuol dire fedeltà a me stesso.

Citazioni

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  • Essere ascaro vuol dire, press'a poco, avere un blasone; vuol dire avere tre lire al giorno, più un'indennità vestiario, più un'indennità farina, più un'indennità carne; vuol dire avere un tarbush e una fascia coi colori del battaglione; vuol dire soprattutto avere un fucile. La gente di questo Paese segue una logica sistematica semplice e dritta: l'umanità si divide in due categorie: gli armati che sono i forti, i disarmati che sono i deboli. Al culmine della gerarchia sociale sta il possessore di fucile, il guerriero: che è tanto più importante quanto più elevato è il suo grado e quanto è maggiore la sua anzianità. (p. 25)
  • Toselli. Questo nome non ha in Italia la risonanza che ha qui. Toselli non è un uomo, è una leggenda: non solo alla cronaca, ma sfugge anche alla storia. È rimasto nei canti di questa gente, nelle sue memorie e anche nelle sue speranze. Pur ieri mi diceva il vecchio Sciumbasci, reduce di Adua e ora capopaese di Digsa, che «le cose che si sanno sono molto meno di quelle che non si sanno» e che «il fatto è questo: che il corpo del maggiore Toselli non era più sul campo dopo la battaglia». Su quello che ne sia avvenuto le opinioni sono discordi, ma nessuno crede che il maggiore sia morto. (pp. 35-36)
  • Appollaiato ai suoi piedi, nascosto fra il verde tenero degli eucalipti, stava Pirzio Biroli. Il suo nome era mormorato con circospezione dagli ascari disseminati fra le rocce di Mai Egadà a Saganeiti, da Agordar ad Assab, a Cheren, ad Adi Ugri, ad Adi Caieh. Raramente lo si vedeva e sempre a cavallo. Accanto a lui cavalcava Chiarini, la piccola ombra fedele, il fantasma sorto una notte da un roveto della conca di Adua. Chiarini, settantenne, pallido, non scompariva nell'alone magico che Pirzio, il buon gigante, suscitava intorno. (pp. 87-88)
  • Poi arrivava anche lui, Pirzio il leone, altissimo, quadrato, col profilo calmo incorniciato dalla folta criniera. Il cavallo, domo dai suoi ginocchi di ferro, caracollava senza un tentativo di ribellione. Dalla sella pendevano, di qua e di là, due aquile colossali, abbattute in volo dal moschetto infallibile di Pirzio. Nessuna tromba sonava l'attenti al suo ingresso. Non ce n'era bisogno. Tutti, nel quartiere, sentivano come per miracolo la sua presenza e restavano ischeletriti. Pirzio non se n'accorgeva: era uno di quegli uomini pei quali gli uomini sentono rispetto per istinto e che passano attraverso la vita come attraverso un'eterna parata, fra due file di bipedi schiaffati meccanicamente sull'attenti. Gli ascari ebbero ragione quando lo battezzarono «il Leone»: non aveva bisogno di ruggire perché il largo gli si facesse automaticamente intorno. (pp. 88-89)

Vorremmo ristare dopo la guerra? Il mondo è così visto che nessun limite precisa al desiderio. Italiani, continuate ad aver fame anche dopo aver mangiato. Questa guerra è per noi come una bella lunga vacanza dataci dal Gran Babbo in premio di tredici anni di banco di scuola. E, detto fra noi, era ora.

Citazioni su Indro Montanelli

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  • A leggerlo sembrerebbe un disordinatore di professione: sempre pronto a mugugnare, sempre a prendersela con qualcuno. Poi però, quando si tratta di scendere sul pratico, ci consiglia di turarci il naso e di andare a votare per l'Ordine. vallo a capire. (Luciano De Crescenzo)
  • Amo Indro Montanelli, ma non i suoi emuli. I polemisti per posa non mi piacciono, non li ritengo utili. Ma lui non era un polemista fine a se stesso, come tanti dei suoi presunti eredi. Era piuttosto, come da titolo di una sua fortunata rubrica, controcorrente. Non si curava delle convenienze, dei vantaggi che gli sarebbero derivati nel seguire l'onda di pensiero prevalente. Aveva la sua visione delle cose, sempre originale e spesso esatta. Io credo che dire quel che si pensa premi sempre. Montanelli lo faceva, e andava a letto tranquillo. (Fabio Genovesi)
  • C'è davvero qualcosa di singolare nel modo in cui è venuta formandosi la memoria della Repubblica, nel modo in cui tale memoria è stata ed è elaborata dalla cultura ufficiale del Paese. Per molti decenni, ad esempio, a quanto accaduto dal 1943 al '45 fu vietato dare il nome che gli spettava, il nome cioè di guerra civile. Parlare di guerra civile era giudicato fattualmente falso, e ancor di più ideologicamente sospetto. Bisognava dire che quella che c'era stata era la resistenza, non la guerra civile; di guerra civile parlavano e scrivevano, allora, solo i reduci di Salò, i nostalgici del regime e qualche coraggioso giornalista o pubblicista di rango come Indro Montanelli, che mostravano così da che parte ancora stavano. Le cose andarono in questo modo a lungo. Finché, all'inizio degli anni Novanta, come si sa, uno storico di sinistra, Claudio Pavone, scrisse un libro sul periodo 1943-'45 che si intitolava precisamente Una guerra civile: solamente da allora tutti abbiamo potuto usare senza problemi questa espressione, ben inteso non cancellando certo la parola resistenza. (Ernesto Galli della Loggia)
  • È uno che riesce a spiegare agli altri quello che non capisce nemmeno lui. (Mario Missiroli)
  • È vero che ha cambiato parere politico più volte, ma sempre perché profondamente preoccupato per le sorti del paese. Ma Indro ha cambiato parere sempre meno di quei giornalisti che da Lotta Continua sono passati a Comunione e Liberazione per approdare infine a dirigere quotidiani di Stato. Senza contare tutti coloro che da stalinisti o maoisti sono diventati prima antimarxisti e ora clintoniani: Montanelli ragiona, loro vogliono avere sempre ragione. (Fausto Gianfranceschi)
  • Indro è naturalmente inclinato, direi quasi condannato a vedere più i tics degli uomini che le loro qualità e nessuno come lui fa più uso, nei suoi ritratti, dell'acido prussico. (Eugenio Montale)
  • Indro Montanelli. L'Italia dei Luoghi Comuni. (Marcello Marchesi)
  • Io mi sono limitato ad adottare la sua formula giornali­stica. Ma l'ho realizzata meglio perché mi sono sempre esposto, ci ho messo la faccia. Lui invece era come Veltroni: "Sì, ma an­che". Non si schierava nettamente, il suo editoriale era così in chiaroscuro che alla fine non capivi mai se fosse chiaro o scuro. Il che non significa che non resti il migliore di tutti noi. Ho venduto più di lui solo perché a me la gente non fa schifo. (Vittorio Feltri)
  • Mi sono sentito in imbarazzo per lui, e il mio primo pensiero è stato il rifiuto – «no, povero Montanelli» – quando all'ingresso dei giardini di via Palestro mi sono trovato davanti alla sua statua, al punto che ho pensato che ci sono vandali che distruggono e vandali che costruiscono, e che anzi, per certi aspetti, il vandalismo che crea è ben peggiore, perché tenta di disarmarti con le sue buone intenzioni. Dunque era di mattina, molto presto, e i giardini erano vuoti, al sole. Ebbene in questo vuoto, la statua mi è apparsa all'improvviso: una figurina in gabbia che non ha niente a che fare con Montanelli, se non perché lo offende anche fisicamente, lui che era così "verticale", e che ci invitava a buttare via «il grasso» e la retorica monumentale. Il giornalista che ogni volta si ri-definiva in una frase, in un concetto, in un aforisma, in una citazione, è stato per sempre imprigionato in una scatola di sardine. Perciò ho provato il disagio che sempre suscita il falso, la patacca, la similpelle che non è pelle, perché non solo questo non è Montanelli, come ci ha insegnato Magritte che dipinse una pipa e ci scrisse sotto "questa non è una pipa". Il punto è che questa non è neppure una statuta di Montanelli, ma di un montanelloide in bronzo color oro, che ha la presunzione ingenua e goffa di imprigionare il Montanelli entelechiale, il Montanelli che era invece l'asciuttezza, era il corpo più "instatuabile" del mondo, troppo alto, troppo energico, troppo nervoso, incontenibile nello spazio e nel tempo com'è l'uomo moderno, che è nomade e ha un'identità al futuro. Era il più grande nemico delle statue il Montanelli che sempre ci sorprendeva, fascista ma con la fronda, conservatore ma anarchico, con la sinistra ma di destra, un uomo di forte fascino maschile che tuttavia non amava raccogliere i trofei del fascino maschile, ingombrante ma discreto, il solo che nella storia d' Italia abbia rifiutato la nomina a senatore a vita perché, diceva, «i monumenti sono fatti per essere abbattuti», come quello di Saddam, o di Stalin o di Mussolini. Come si può fare una statua ingombrante e discreta? Come si può fare un monumento all'antimonumento? (Francesco Merlo)
  • Montanelli disprezzava la borghesia che difendeva, e ammirava i comunisti che attaccava. Era convinto che la rivolta di Budapest si dovesse a operai che volevano il vero socialismo; mentre fu una rivolta nazionalista e antisovietica. (Enzo Bettiza)
  • Montanelli è il campione di indipendenza dalla politica, anche se sono arrabbiato con lui perché mi ha insegnato regole di comportamento anacronistiche, che nel giornalismo odierno non valgono più. (Daniele Vimercati)
  • Montanelli ha sempre avuto una componente di destra. È stato un uomo di destra come fascista, uomo di destra come sostenitore dei governi dc sia pure turandosi il naso. [...] Adesso è un uomo di destra qualunquista, ma sempre di destra. (Ugo Intini)
  • Montanelli, un misantropo che cerca compagnia per sentirsi più solo. (Leo Longanesi)
  • Recentemente sono stato insignito del Premio Montanelli alla carriera che dovrebbe essermi consegnato a ottobre a Fucecchio, a meno che nel frattempo non mi sia revocato per indegnità, sempre in nome della libertà di informazione. Sono certo che il vecchio Indro non avrebbe condiviso nemmeno un fonema del mio necrologio sul Mullah [Omar], ma sono altrettanto certo che non si sarebbe mai sognato di bloccarlo. Caso mai ci avrebbe riso su, considerandolo una provocazione, anche se provocazione non era. Perché Montanelli era un vero liberale. Quando i liberali esistevano ancora. (Massimo Fini)
  • Sa spalmare una così giusta misura di miele sull'orlo del nappo avvelenato che prepara per questo o per quello, che spesso la vittima muore senza accorgersene, ingannata dai soavi licori. (Paolo Monelli)
  • Scalfari e Montanelli direttori all'antica, padroni, mattatori che ricordano gli Scarfoglio, i vecchi direttori dell'ottocento che non solo incrociavano la penna ma anche la spada in una rissa continua con tutt (Ugo Intini)
  • Si può raccontare la storia in forma lieve, senza essere troppo ponderosi, rispettando tuttavia le fonti e la verità storica. Montanelli era molto bravo a scrivere, ma in fondo ne sapeva poco, gli piaceva gigioneggiare, sprofondava nell'anacronismo. Oggi ci si è accorti che, nel raccontare la storia, essere rigorosi ed essere divertenti non è conflittuale. (Alessandro Barbero)
  • So solo che Montanelli è fatto così: un maestro di giornalismo che ogni tanto s'impenna con qualcuna delle sue bizzarrie. (Giorgio Bocca)
  • Una volta, parecchi anni fa, Indro Montanelli, dicendosi disgustato della morbidezza e della mollezza della Democrazia Cristiana, che ammorbidiva, incorporava, estenuava e alla fine innocuizzava qualsiasi opposizione, togliendole ogni soddisfazione e dignità, mi mostrò una fotografia, incastonata in una cornicetta d'argento, che teneva, a mo' di santino, come altri fanno con le immagini della madre o della moglie e dei figli, sulla sua scrivania, al «Giornale». Con sorpresa vidi che si trattava di Stalin. «Con questo ci sarebbe stato gusto, a battersi», disse. (Massimo Fini)
  • Ognuno può pensarla come vuole, ma quando si passa dalla cronaca alla storia è necessario mantenere un giusto approccio ed essere oggettivi sui valori della persona. Indro Montanelli è stato forse il più autorevole giornalista che l’Italia ha avuto nel ventesimo secolo. La Toscana penserà ad azioni per valorizzarlo. (Eugenio Giani)
  • A Indro Montanelli devo molto: intanto, l'idea che chi conta è il pubblico. Poi la necessità di essere chiari, di far anche fatica, perché chi legge non ha voglia di impegnarsi troppo, e solo se uno si chiama Joyce può essere difficile.
  • Montanelli se n'è sempre fregato delle critiche, io molto meno, ho un carattere permaloso, spesso non ho resistito alla tentazione di rispondere a chi mi attaccava. Indro mi sgridava, diceva a mia moglie di tenermi calmo, che non ne valeva la pena, che erano tutte bischerate. [...] Per lui il buon risultato era il sorriso di un passante, l'oste che gli trovava il tavolo. Qualcuno si chiedeva che cos'avesse di speciale. A pensarci bene, niente. Scriveva degli articoli che erano letti e dei libri che si vendevano.
  • Non è una gran notizia che Indro e io non abbiamo mai fatto parte del coro, ma fu una grande notizia la spiegazione che ne diede Berlusconi: "Biagi e Montanelli hanno invidia del mio successo". La prima cosa che mi venne in mente fu: "Sai che risate si starà facendo Indro adesso". Poi mi dissi che c'era poco da ridere.
  1. Da Il meglio di «Controcorrente» 1974-1992, Rizzoli, Milano, 1993.
  2. Citato in Marco Travaglio, Bananas, Garzanti, Milano, 5 maggio 2001.
  3. Da Contro Corrente, Editoriale Nuova, Milano, 1978.
  4. Da L'Italia unita. Da Napoleone alla svolta del Novecento, Rizzoli BUR, Milano, 2015, p. 206. eISBN 978-88-58-68272-2
  5. Da Anna Magnani, la più grande attrice del nostro cinema, 23 ottobre 1999, in Le Nuove stanze, a cura di Michele Brambilla, RCS Libri, Milano, 2002, p. 280.
  6. Citato in Luciano Giannini, Walter Chiari genio irregolare che confessava di aver vissuto, Il Mattino, 24 febbraio 2024
  7. a b c Dal programma televisivo Milano, Italia, Rai 3, 11 gennaio 1994.
  8. Da Ora Montanelli critica Berlusconi, la Repubblica, 20 gennaio 1987.
  9. 2001; citato in Marco Travaglio, Ad personam, Chiarelettere, Milano, 2010, p. 39, ISBN 978-88-6190-104-9.
  10. Citato in Roberto Gervaso, Ve li racconto io, Mondadori, Milano, 2006, pp. 310-311, ISBN 88-04-54931-9.
  11. Dalla prefazione a Marco Travaglio, Il Pollaio delle Libertà, Vallecchi, Firenze, 1995.
  12. Dalla lezione di giornalismo all'Università di Torino, 12 maggio 1997; citato in La Stampa, 14 aprile 2009.
  13. Citato in Eugenio Scalfari, Incontro con io, Rizzoli, Milano, 1994, ISBN 8806200747.
  14. a b Citato in Francesco Battistini Montanelli: ragazzi, rifate il '68, Corriere della Sera, 19 dicembre 1997.
  15. Citato in Liberazione, 22 febbraio 2008.
  16. Citato in Paolo Martini, Crespi, la 'zarina' del Corriere della Sera che fondò il Fai, adnkronos.com, 19 luglio 2020.
  17. Citato in Antonella Rampino, Il rischio? Una missione impossibile, La Stampa, 17 giugno 2000.
  18. Citato in Marco Innocenti, 9 settembre 1991: se ne va il re degli arbitri, Concetto Lo Bello, ilsole24ore.com, 8 settembre 2009.
  19. Citato in Mauro Anselmo, Montanelli: così ho finito la mia Storia d'Italia, La Stampa, 4 agosto 1993.
  20. Citato in Massimo Gaggi, Quando il giornale del Pci pensò di pubblicare il nudo dell'ambasciatrice Usa, Corriere della Sera, 18 dicembre 2022.
  21. Citato in Leo Turrini, Lucio Battisti: la vita, le canzoni, il mistero, Mondadori, 2008, retrocopertina.
  22. a b c d Da Controcorrente, 1974–1986, Mondadori, Milano, 1987.
  23. Da un'intervista di Ferruccio de Bortoli, 1999; in Indro Montanelli, gli anni della televisione, puntata 8, di Nevio Casadio, Rai Premium, 2013.
  24. Citato da Guido Russo Perez nella Seduta pomeridiana del 31 ottobre 1949 della Camera dei deputati.
  25. Citato in Paolo Granzotto, Montanelli, p. 173.
  26. Dall'intervista di Pasquale Cascella, Montanelli: «Il regime? È alle porte, inutile aspettare il dittatore», l'Unità, 25 ottobre 1994, p. 5.
  27. a b Citato in Il grande vecchio del giornalismo rilegge gli ultimi anni della nostra storia, L'Indipendente, 25 luglio 1995.
  28. Dall'articolo di Polaczek, Teile und sende, in Frankfurter Allgemeine Zeitung, 15 agosto 1996, p. 29.
  29. Citato in Daniele Abbiati, La maîtresse di Indro nella Prima Repubblica delle marchette, il Giornale.it, 22 ottobre 2010.
  30. Dal programma televisivo di Rai 3 Eppur si muove, 20 marzo 1994.
  31. Citato in Umberto Veronesi, Non vince la scienza, la Repubblica, 14 novembre 2008.
  32. Citato in Pappagone e non solo, a cura di Marco Giusti, Mondadori, Milano, 2003.
  33. Citato in Carlo A. Martigli, Sul diritto alla morte si discute su Internet, la Repubblica, 25 aprile 2002.
  34. Citato in Cristina Taglietti, Montanelli: cari studenti, se volete spaccate tutto ma è inutile, Corriere della Sera, 17 dicembre 1998.
  35. a b c Indro Montanelli presenta "La Voce", conferenza stampa integrale, 1994.
  36. Citato in Riccardo Chiaberge Montanelli la voce controcorrente, Corriere della Sera, 21 marzo 1994.
  37. Citato in Roberto Gervaso, Ve li racconto io, Mondadori, Milano, 2006, p. 294, ISBN 88-04-54931-9.
  38. a b Radio Montecarlo, Intervista a Indro Montanelli, di Roberto Arnaldi, 1973.
  39. Citato nel programma televisivo Ippocrate, Rai News, 13 giugno 2010.
  40. Citato in Gian Guido Vecchi, Devolution e traffico, il voto è un rebus, Corriere della Sera, 8 aprile 2001.
  41. Citato in Stefano Preite, Il Risorgimento, ovvero, Un passato che pesa sul presente, Piero Lacaita, 2009.
  42. Citato in Cesare Medail, Il «Mein Kampf» torna nelle librerie italiane. Grazie a un editore cossuttiano, Corriere della Sera, 6 maggio 2000.
  43. a b Dal programma televisivo Dovere di cronaca, Rete 4, 1988, visibile su YouTube.
  44. intervista di Enzo Biagi a Indro Montanelli, (1982), da "Cento anni", Fabbri video, 1993.
  45. a b Da un'intervista del 1971, tratta da III B, Facciamo l'appello di Enzo Biagi; anche in Indro Montanelli, gli anni della televisione, puntata 7, di Nevio Casadio, Rai Premium, 2013.
  46. Citato in Paola Fallai, Marchesi, l'umorista che creò un'atmosfera, La lettura, Corriere della Sera, 25 marzo 2012; riportato in Cinquantamila.it.
  47. Da un'intervista del 1996, tratta da Tablet Italiani, puntata 2, "Montanelli/Bocca", Rai Storia, 25 agosto 2013.
  48. Citato in Roberta Scorranese, Vittorio Mangili, i cento anni dell’inviato Rai «Io, da Budapest a Madre Teresa», corriere.it, 8 ottobre 2022.
  49. a b Da: Repertorio della Fondazione Montanelli, in Indro Montanelli - Gli anni della televisione 4: Io sono soltanto un giornalista, a cura di Nevio Casadio, Rai Sat, 2009
  50. a b c d e Citato in Marco Travaglio, Montanelli e il Cavaliere, Garzanti, Milano, 2004.
  51. Citato in Mario Bernardi Guardi, La giovinezza di Montanelli ebbe un nome: Berto Ricci, Il Primato Nazionale, 3 maggio 2016.
  52. Citato in Mario Cervi, Ti ricordi Indro?, Società europea di edizioni, Milano, 2017, p. 57. ISBN 9778118178454
  53. Citato in Marco Cremonesi, Diecimila in piazza con i nomi dei lager, Corriere della Sera, 28 gennaio 2001, p. 31.
  54. Radio Radicale, Elezioni, 38:58-39:26, 25 maggio 1979.
  55. Citato in Enrico Bonerandi, Montanelli: pronto a morire, la Repubblica, 13 dicembre 2000, p. 36.
  56. Citato in Alessandro Longo, Perché si dice Aventino, Rep.repubblica.it, 17 marzo 2018.
  57. Citato in Paolo Granzotto, Montanelli, p. 129.
  58. Citato in Paolo Granzotto, Montanelli, p. 145.
  59. Citato in Federico Orlando, Il sabato andavamo ad Arcore, Larus, Bergamo, 1995.
  60. Citato in Franco Fontanini, Piccola antologia del pensiero breve, Liguori Editore, Napoli, 2007, p. 12.
  61. Citato in Luigi Mascheroni, Mai dette, ma le ripetiamo sempre. Ecco le frasi fantasma della storia, il Giornale, 21 marzo 2009, p. 22.
  62. Da Le Nuove stanze, Collana Saggi Italiani, Rizzoli, Milano, 2001.
  63. Citato in Luigi Mascheroni, Sette, settimanale del Corriere della sera, Edizioni 1-9, 1996.
  64. a b Citato in Rivogliono l'uomo della provvidenza, la Repubblica, 24 febbraio 1994, p. 11.
  65. Citato in Roberto Gervaso, Ve li racconto io, Mondadori, Milano, 2006, p. 310, ISBN 88-04-54931-9.
  66. Citato in Gianna Fregonara, Dal balcone di Mussolini al bianco sorriso di Belen, 24 gennaio 2010, p. 34.
  67. Citato in Roberto Gervaso, Ve li racconto io, Mondadori, Milano, 2006, p. 236, ISBN 88-04-54931-9.
  68. Dalla presentazione a Leo Longanesi, In piedi e seduti, Longanesi & C., Milano, 1968.
  69. Citato in Pierluigi Saurgnani, Vimercati, gran borghese. Il giornalista che scoprì Bossi, ecodibergamo.it, 13 marzo 2012.
  70. Da Il meglio di "Controcorrente": 1974-1992, Fabbri Editori-Corriere della Sera, La biblioteca del Corriere della sera, Milano, 1995, p. 104.
  71. Citato in Il meglio di controcorrente, p. 108.
  72. Citato in Dizionario delle citazioni, a cura di Italo Sordi, BUR, 1992. ISBN 88-17-14603-X
  73. Citato in La morte incute rispetto, ma su Craxi non cambio idea-
  74. Dal 1942, nel corso della seconda guerra mondiale, il Brasile fu in stato di guerra con Germania e Italia.
  75. Citato in Paolo Granzotto, Indro Montanelli, p. 92.
  76. a b c d e f g h Il libro raccoglie gli "epitaffi" scritti su personaggi al momento viventi (talvolta insieme a Leo Longanesi) e quasi tutti inediti.
  77. 1799.
  78. Prina, dopo l'abdicazione di Napoleone, fu linciato dalla folla a Milano il 20 aprile 1814.
  79. Maria Luisa di Borbone-Spagna (1782–1824).
  80. Come duca di Lucca nel 1824.
  81. Nei moti piemontesi del 1821, Carlo Alberto aveva prima dato e poi ritirato il suo appoggio ai congiurati.
  82. Nel 1823, Carlo Alberto aveva partecipato alla campagna militare per ristabilire l'assolutismo regio in Spagna.
  83. Degli ultimi casi di Romagna (1846).
  84. Seconda guerra d'indipendenza italiana.
  85. Scrittrice, cortigiana ed epistolografa francese (1620–1705).
  86. 20 maggio 1882.
  87. Nicola I del Montenegro.
  88. Capitale del Regno del Montenegro.
  89. "Opera dei congressi e dei comitati cattolici", spesso abbreviata in "Opera dei congressi", organizzazione cattolica italiana, sciolta nel 1904.
  90. Mussolini era nato a Dovia, frazione di Predappio.
  91. Etera dell'antica Grecia, celebre per la sua bellezza.

Bibliografia

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  • Indro Montanelli, Qui non riposano, Marsilio, 1982 (1945).
  • Indro Montanelli, Pantheon minore (incontri), Longanesi e C., Milano, 1950. (ISBN non disponibile)
  • Indro Montanelli, Gli incontri, Rizzoli, Milano, 1967. (ISBN non disponibile)
  • Indro Montanelli, Storia dei greci, Rizzoli, Milano, 1992. ISBN 8817115126
  • Indro Montanelli, Storia dei greci, RCS Quotidiani, Milano, 2004. ISBN 1-129-08505-8
  • Indro Montanelli, Storia di Roma, Longanesi, Milano, 1957; Rizzoli, Milano, 1959. (ISBN non disponibile)
  • Indro Montanelli, Storia di Roma, RCS Quotidiani, Milano, 2004. ISBN 1-129-08505-8
  • Indro Montanelli, L'Italia giacobina e carbonara (1789-1831), Rizzoli, Milano, 1971. (ISBN non disponibile)
  • Indro Montanelli, L'Italia del Risorgimento (1831-1861), terza edizione, Rizzoli, Milano, 1972. (ISBN non disponibile)
  • Indro Montanelli, L'Italia dei notabili (1861-1900), Rizzoli, Milano, 1973. (ISBN non disponibile)
  • Indro Montanelli, L'Italia di Giolitti (1900-1920), Rizzoli, Milano, 1974. (ISBN non disponibile)
  • Indro Montanelli, L'Italia in camicia nera (1919-3 gennaio 1925), Rizzoli, Milano, 1976.
  • Indro Montanelli, Dante e il suo secolo, Rizzoli, Milano, 1974. (ISBN non disponibile)
  • Indro Montanelli, I protagonisti, Rizzoli, Milano, 1976. (ISBN non disponibile)
  • Indro Montanelli, Contro Corrente, Editoriale Nuova, Milano, 1978. (ISBN non disponibile)
  • Indro Montanelli, Controcorrente, 1974 – 1986, Arnoldo Mondadori Editore, Milano, 1987. ISBN 8804300558
  • Indro Montanelli, Il testimone, TEA, Milano, 1993. ISBN 8878194182
  • Indro Montanelli, Mario Cervi; L'Italia del Novecento, BUR, Milano, 1998. ISBN 8817860147
  • Indro Montanelli, Soltanto un giornalista, BUR, Milano, 2003. ISBN 8817107042
  • Indro Montanelli, Le stanze, BUR, Milano, 2004. ISBN 8817004707
  • Indro Montanelli, I conti con me stesso, a cura di Sergio Romano, Rizzoli, Milano, 2010. ISBN 8817028202 (Anteprima su Google Libri)
  • Indro Montanelli, Ricordi sott'odio, Milano, Rizzoli, 2011, ISBN 978-88-17-04963-4
  • Indro Montanelli, Indro al Giro. Viaggio nell'Italia di Coppi e Bartali. Cronache del 1947 e 1948, a cura di Andrea Schianchi, Collana Saggi italiani, Milano, Rizzoli, 2016. ISBN 978-88-1708-969-2
  • Paolo Granzotto, Montanelli, Bologna, Il Mulino. ISBN 88-15-09727-9

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