Gianni Brera

giornalista e scrittore italiano (1919-1992)

Giovanni Luigi Brera (1919 – 1992), scrittore e giornalista italiano.

Gianni Brera nel 1975

Citazioni di Gianni Brera modifica

  • Alla ripresa l'Inter è tornata a fare forcing in modo che mi vien buona l'immagine abusata del passero che becca la roccia.[1]
  • Bini ha aperto con molta eleganza ad Einstein Bertini sulla sinistra. Einstein ha incominciato a far uncinetto con i suoi piedi balzanti e sbirolenti: si è autolanciato sull'estrema sinistra ed ha crossato in corsa un meraviglioso pallone-gol per Boninsegna.[2]
  • [Su Luigi Meroni] Era il simbolo di estri bizzarri e libertà sociali in un paese di quasi tutti conformisti sornioni.[3]
  • [Su Valentino Mazzola] Era un traccagno di piccola statura e tuttavia così dotato atleticamente da strabiliare. Scattava da velocista, correva da fondista, tirava con i due piedi come uno specialista del gol, staccava e incornava con mosse da grande acrobata, recuperava in difesa, impostava l'attacco e vi rientrava spesso per concludere. Era insieme regista e match-winner.[4]
  • Forse non è mai esistito regista di tanto valore. Schiaffino pareva nascondere torce elettriche nei piedi. Illuminava e inventava gioco con la semplicità che è propria dei grandi. Aveva innato il senso geometrico, trovava la posizione quasi d'istinto.[5]
  • [Su Alfredo Foni] Giocava onestamente bene, qualche volta di agilità, la sua battuta destra era lunga e forte, il tiro di collo una vera squisitezza.[6]
  • [Sul centrocampista] Ha da avere istintivo o quasi il senso geometrico del gioco.[2]
  • [Su Adolfo Baloncieri] Il più classico prodotto del calcio italiano negli anni 20 e uno dei più classici di sempre.[7]
  • Io non penso in italiano, penso in dialetto perché sono un popolano.[8]
  • Io sono il signore tecnico tuo, non avrai altri tecnici all'infuori di me.[8]
  • [Sul derby d'Italia] L'Inter è squadra femmina, quindi passionale, volubile, e pertanto agli antipodi del pragmatismo che caratterizza la Juventus.[9]
  • [Sulla partita della lattina] L'Inter ha eliminato il Borussia. A tanto è pervenuta dopo tre incontri: ha disastrosamente perso il primo in Germania (7 a 1, ma per sua immeritata fortuna uno spettatore ubriaco ha avuto il ticchio di scagliare una lattina di Coca Cola) sulla capa di Boninsegna, in azione presso l'out. Subito Mazzola gli ha gridato qualcosa che poteva anche essere "buttati giù". Boninsegna è franato perdendo i sensi e forse anche la faccia. I legali dell'Inter hanno sporto reclamo e l'UEFA ha annullato la partita. Il Borussia [Mönchengladbach] è poi venuto a San Siro e vi ha perso 4 a 2. Il ritorno in Germania ha avuto luogo a Berlino. I tedeschi non sono riusciti a segnare e gli interisti pure.[10]
  • L'Inter ha arraffato calcio alla viva il parroco di Ratenate...[2]
  • [Sulla Juventus del Quinquennio d'oro] La Juventus gioca bene, vince sempre e non è né lombarda, né emiliana, né veneta, né toscana: appartiene a una regione che ha innervato l'esercito e la burocrazia nazionali: di quella regione il capoluogo è stato anche capitale d'Italia [...] Nessuna città periferica aveva contratto odii nei suoi confronti, all'epoca dei Comuni. Essa batteva ormai le decadenti squadre del Quadrilatero [piemontese] e offriva agli altri italiani la soddisfazione di umiliare le città che nel Medio Evo avevano spadroneggiato: i romagnoli andavano in visibilio quando Bologna veniva mortificata dalla Juventus così come i lombardi di parte ghibellina come pavesi e comaschi quando le milanesi venivano battute in breccia, e ancora i lombardi che avevano squadre proprie come bergamaschi, bresciani e cremonesi, e le vedevano puntualmente vendicate dalla Juventus.[11]
  • La vecchiaia è bella. Peccato che duri poco.[12]
  • [Sul campionato di Serie A 1969-1970] Lo scudetto del Cagliari rappresentò il vero ingresso della Sardegna in Italia. Fu l'evento che sancì l'inserimento definitivo della Sardegna nella storia del costume italiano. Questa regione rappresentava fino agli anni Sessanta un'altra galassia [per non dire nazione n.d.r.]. Per venirci, bisognava prendere l'aereo e gli italiani avevano una paura atavica di questo mezzo di trasporto. La Sardegna aveva bisogno di una grande affermazione e l'ha avuta con il calcio, battendo gli squadroni di Milano e Torino, tradizionalmente le capitali del football italiano. Lo scudetto ha permesso alla Sardegna di liberarsi da antichi complessi di inferiorità ed è stata un'impresa positiva, un evento gioioso.[13]
  • Nelle entusiasmanti parabole del disco di Consolini noi vediamo assai più dell'arido significato numerico: noi vediamo nel suo slancio indomito, nella sua tenacia paziente, nella sua serietà encomiabile la prorompente vitalità sportiva d'un popolo che gli eventi contrari e disgraziati hanno voluto misero e invilito, ma sempre ritrova in se stesso la forza di sopravvivere e di progredire.[14]
  • Non vendo cultura in una boutique, la vendo sul "Guerino" o su "Il Giorno". Devo essere frettoloso per necessità di cose, per lo strumento che uso.[15]
  • [Su Giovanni Ferrari] Normotipo di larga cassetta e solide gambe, è di gran lunga il più specializzato e dotato dei centrocampisti italiani. Non ha la nevrile eleganza di Baloncieri, ma lo supera per fondo atletico e impegno. Possiede minor senso del gol, ma è largamente più assiduo nei recuperi difensivi [...]. È il tipico interno di spola: dove arriva lui, l'equilibrio di squadra è assicurato.[11]
  • Pelè vede il gioco suo e dei compagni: lascia duettare in affondo chi assume l'iniziativa dell'attacco e, scattando a fior d'erba, arriva a concludere. Mettete tutti gli assi che conoscete in negativo, poneteli uno sull'altro: stampate: esce una faccia nera, non cafra: un par di cosce ipertrofiche e un tronco nel quale stanno due polmoni e un cuore perfetti: è Pelè. Ma ce ne vogliono molti, di assi che conoscete, per fare quel mostro di coordinazione, velocità, potenza, ritmo, sincronismo, scioltezza e precisione.[16]
  • [...] se un centravanti riceve in solitudine una palla senza vizi di sorta e non riesce a lavorarla come dovrebbe, a così pochi metri dalla porta avversaria, non si dovrebbe dire che quella palla è da gol?[1]
  • Sul cross da sinistra Peppiniello Massa ha incornato fuori dandosi furibondi e pulcinelleschi punti sulla crapa, che indubbiamente teneva stonata.[1]

Attribuite modifica

  • Ché se tu fiderai nelli italiani, sempre aurai delusione.
[Citazione errata] Questa frase viene attribuita da Gianni Brera a Francesco Guicciardini, che in realtà non pronunciò né scrisse mai queste parole. Brera utilizzò questa citazione in varie opere di natura storica e in vari articoli.[17][18] Il giornalista ammise di essersi inventato la citazione in questo pezzo tratto da un suo articolo: «Il ragazzino Campanella crotonese come Milone! consola il cronista di ogni sconsiderata nequizia commessa in pedata e lo esime per una volta dal parafrasare ser Francesco Guicciardini, al quale ha fatto dire ormai da molti anni: Che se tu fiderai nelli italiani, sempre aurai delusione.»[19]

Citazioni tratte da articoli modifica

  • [Su Giuseppe Meazza] Grandi giocatori esistevano già al mondo, magari più tosti e continui di lui, però non pareva a noi che si potesse andar oltre le sue invenzioni improvvise, gli scatti geniali, i dribbling perentori e tuttavia mai irridenti, le fughe solitarie verso la sua smarrita vittima di sempre, il portiere avversario.[20]
  • La struttura morfologica di Coppi, se permettete, sembra un'invenzione della natura per completare il modestissimo estro meccanico della bicicletta.[21]

Italia-Germania 4-3 scritta da Gianni Brera

Da Il Giorno, 18 giugno 1970; citato in corriere.it.

  • Il vero calcio rientra nell'epica: la sonorità dell'esametro classico si ritrova intatta nel novenario italiano, i cui accenti si prestano ad esaltare la corsa, i salti, i tiri, i voli della palla secondo geometria e labile o costante... Trattandosi di un tentativo nuovissimo, non dovrei neanche temere di passare per presuntuoso.
  • [Riferendosi alla Partita del secolo] Italia-Germania è giusto di quelle partite che si ha pudore di considerare criticamente. La tecnica e la tattica sono astrazioni crudeli. Il gioco vi si svolge secondo meno vigili istinti. Il cuore pompa sangue ossigenato dai polmoni con sofferenze atroci. La fatica si accumula nei muscoli male irrorati. La squadra, a stento nata traverso la applicazione assidua di molti, si disperde letteralmente. Campeggia su diversi toni l'individuo grande o fasullo, coraggioso o perfido, leale o carogna, lucido o intronato. Se assisti con sufficiente freddezza, annoti secondo coscienza. Non ti lasci trasportare, non credi ai facili sentimenti, non credi al cuore (anche se romba nelle orecchie e salta in gola).
  • Parliamo allora di calcio, non di bubbole isteroidi. I bravi messicani sono impazziti a vedere italiani e tedeschi incornarsi con tanto furore. Adesso fanno i loro ditirambi. Pensano di apporre una lapide all'Azteca. Sarei curioso di leggere: e magari di veder fallire in altri la voglia di poetare ore rotundo.
  • Come dico, la gente si è tanto commossa e divertita. Noi abbiamo rischiato l'infarto, non per ischerzo, non per posa. Il calcio giocato è stato quasi tutto confuso e scadente, se dobbiamo giudicarlo sotto l'aspetto tecnico-tattico. Sotto l'aspetto agonistico, quindi anche sentimentale, una vera squisitezza, tanto è vero che i messicani non la finiscono di laudare (in quanto di calcio poco ne san masticare, pori nan).

la Repubblica modifica

  Citazioni in ordine temporale.

  • [Sulla Nazionale dopo la vittoria dei mondiali del 1982] Hai strabiliato solo coloro che non te ne ritenevano degna, non certo coloro che sanno strologare a tempo e luogo sul mistero agonistico del calcio. La tua vittoria è limpida, pulita: non è neppure venuta dal caso, bensì da un'applicazione soltanto logica (a posteriori!) del modulo che ti è proprio, e in tutto il mondo viene chiamato all'italiana. Eri partita misera outsider, fra lo scetticismo di tutti coloro che prendevano alla lettera i principi enunciati dal tuo bravissimo e un po' fissato C.T.[22]
  • [Dal necrologio per Beppe Viola] [...] Era nato per sentire gli angeli e invece doveva, oh porca vita, frequentare i bordelli. [...] Povero vecchio Pepinoeu! Batteva con impegno la carta in osteria e delirava per un cavallo modicamente impostato sulla corsa; tirava mezzo litro e improvvisava battute che sovente esprimevano il sale della vita. Aveva un humour naturale e beffardo: una innata onestà gli vietava smancerie in qualsiasi campo si trovasse a produrre parole e pensiero. Lavorò duro, forsennatamente, per aver chiesto alla vita quello che ad altri sarebbe bastato per venirne schiantato in poco tempo. Lui le ha rubato quanti giorni ha potuto senza mai cedere al presago timore di perderla troppo presto. La sua romantica incontinenza era di una patetica follia. Ed io, che soprattutto per questo lo amavo, ora ne provo un rimorso che rende persino goffo il mio dolore...[23]
  • Uno scudetto vinto da altre è sempre perso dalla Juventus: e proprio questo è il fascino del campionato.[24]
  • Odio l'asta perché mi ricorda il circo smaccato dell'ultima commedia dell'arte e mio padre povero nella parte di ladro acrobata. Rubava frutta, avendo sempre fame, e saltava la cinta di un'ortaglia preziosa servendosi di un palo da filare. Allora, i filari di viti avevano sostituito i pali di salice all'olmo della tradizione latina: non avendo più filari, mio padre si serviva dei pali per arrivare perigliosamente al fruttosio. Asta, martello e triplo sono discipline aclassiche. Quando qualcuno le esalta, io penso alle Clochemerle di tutto il mondo e agli sbronzi che, allineati lungo una proda, fanno la gara a chi orina più lontano. Non è anche quello agonismo, classico per giunta? Padre Aristofane mi è buon testimone.[25]
  • Chi segue i tuffi dal trampolino è autorizzato a pensare che l'ambizione degli uomini non abbia mai fine. In questa disciplina, peraltro onorata dal coraggio e dalla grazia, gli uomini si ingegnano di mimare i gabbiani e qualsiasi altro uccello usi tuffarsi in picchiata per catturare un pesce a tutto becco.[25]
  • Sara Simeoni esprime così dolce malinconia che io la recepisco in una sorta di intima gratitudine, come di fronte a un lago sereno.[26]
  • [Sulla strage dell'Heysel] Chi riferiva di dieci, poi di diciotto, infine di trenta, e adesso addirittura di quarantuno morti, e forse non è finita. Purtroppo, quasi tutti nostri connazionali, che il terrore aveva spinto a cercare salvezza calpestando chiunque incontrasse nella disperata fuga. Tra quella parte di tribuna occupata da una minoranza di italiani e da una folla preponderante di liverpoolesi, tre sparuti impotenti poliziotti belgi. Eccitati dall'odio, di cui si conoscono capaci come pochi al mondo, e ancora dall' alcol, di cui sono tragicamente avidi fino all'incontinenza più smaccata, non meno di cento mascalzoni si sono scatenati lanciando mattoni sassi e bottiglie. Il fuggi fuggi è stato accorante. La polizia belga è giunta sempre più in forze ma, ahimè, troppo tardi. Ormai l'attesa festa era bruttata da un eccidio senza precedenti in questa parte civile d'Europa.[27]
  • [Sulla strage dell'Heysel] L'imbarazzo sfiora il rimorso in tutti noi che allo sport credevamo come all'antidoto più puro e sincero della guerra. Così come siamo caduti, la voglia è di mandare tutti al diavolo. Se vogliamo prenderci a calci, stiamo a casa nostra. E si vergognino quei popoli che, atteggiandosi a civili, mandano per il mondo questi mascalzoni efferati e ahimè più volte recidivi nei loro eccessi delittuosi. Alle 21,40 inizia una partita che alcuni bene informati dicono finta. Questo per consentire alle forze dell'esercito acquartierate in Bruxelles di preparare due vie di ritirata e quindi di sfollamento per i gruppi nemici. A quele punto siamo giunti. Poiché si gioca, mi tocca guardare.[27]
  • Il loro Heysel, un tempo onorevolissimo, è ormai insopportabilmente obsoleto. Ha le due curve in terra battuta con gradini sorretti da pietre malferme: in queste curve gli spettatori sono costretti a stare in piedi. Ammassare oggi folte moltitudini sugli spalti di curve senza posti a sedere significa esporsi a rischiose calamità pubbliche. Per loro disgrazia, i belgi hanno ottenuto dalla Uefa l'incarico di organizzare la Coppa Campioni. Sapevano di aver a che fare con orde di inglesi avvinazzati e feroci. Non hanno riflettuto però che gli spiantati liverpooliani non potevano competere con i ricchi juventini di tutta Italia, e che metà della curva destinata agli ospiti albionici sarebbe stata accaparrata – magari a borsa nera – dagli italiani. Così non hanno ritenuto i belgi di dividere più efficacemente i rappresentanti di due popoli l'uno all'altro inviso per troppo differenti destini passati e presenti. Alla tradizionale spocchia degli inglesi, il visibile benessere degli italiani doveva suonare come un'offesa patente, uno sberleffo tragico della sorte: dunque, ai più scalmanati non è parso vero di farla subito fuori. I pochi sparuti poliziotti belgi sono stati travolti. Gli italiani, prima sorpresi, poi atterriti, si sono ristretti fino a soffocarsi. I vecchi spalti interrati dello Heysel sono divenuti orrendo cimitero. Mortificati e stravolti, i belgi hanno taciuto lì per lì la tragedia, hanno chiamato allo Heysel tutta la polizia a disposizione nel regno: non è bastato. La partita, che pareva giocata per tacitare i manigoldi, si è risolta a favore della Juventus, il cui tripudio ha un po' stupìto dopo tanti decessi. Gli inglesi di Liverpool sono tornati alle loro tane, alla loro quotidiana mortificazione di paria. Gli italiani, fino a ieri sottovalutati e derisi, hanno meritato la sincera comprensione di tutti.[28]
  • Maradona ha confermato di non essere uomo-squadra, bensì favoloso match-winner (cioè vincitore di incontri): è un centravanti spiazzato per convenienza tattica: ma quando il momento agonistico lo richiede sa trovarsi perfettamente coordinato al posto giusto, e per coordinato intendo dire in grado di inventare quel che dentro gli ditta il genio innato.[29]
  • [Sul campionato di Serie A 1985-1986] Odiosamata Juve, il nostro cappello sfiora la punta delle tue scarpine dorate. Ci inchiniamo ammirati del tuo carisma. È già avvenuto 22 volte, che è record assoluto: e il barenghese Gian Piero Boniperti ha subito rilevato che la sua Juventus da sola eguaglia la magna Milano. È un omaggio astutissimo a Torino. A suo modo, Gian Pier è transfuga; i suoi antenati esercitavano la Medicina a Milano. Ma la patria si sceglie, a dispetto degli avi. E Gian Pier è presidente-fattore della Juventus. La sua furberia, che è grande, è tutta nell'onestà dei servigi. [...] Niente spareggio, niente sorpasso. Vittoria della squadra che, valutata tecnicamente da poco, ha applicato in gara le tattiche più italiane possibili. Risultati grandiosi per schemi in fondo normali. Tutte le avversarie a boccheggiare lontano.[30]
  • Di esteti pedatori ne ricordo uno, Carcano, centromediano milanese dell'Alessandria. In pensione presso la famiglia Ferrari, allevò Gionnin e lo volle con sé in Juventus. Ebbe seri fastidi quando scoppiò lo scandalo intorno a Farfallino Borel, denunciato per gelosia da un consigliere 'nu poco ricchione. La cosa più divertente di quella Juventus fu la scoperta dei vizi montiani. Il mio amico Ippolito, centravanti della rappresentativa torinese (io ero centromediano di quella milanese), mi riferì d'un goffo litigio fra Monti e Varglien I, due gagliarde checche, a suo dire.[31]
  • [...] un autentico eroe del nostro tempo: per me non è mai nato nel calcio italiano uno come Gigirriva da Leggiuno. L'ho soprannominato prima Re Brenno e poi, dubitando del nostro senso storico, sono sceso a una metafora più western come "Rombo di tuono". Ha avuto fortuna almeno pari a quella di Toro Seduto.[32]
  • L'arbitro è un po' magistrato e un po' sacerdote.[32]
  • Maradona è la bestia iperbolica, nel senso infernale, anzi mitologico di Cerbero: se fai tanto di rispettarlo secondo lealtà sportiva, lui ti pianta le zanne nel coppino e ti stacca la testa facendola cadere al suolo come un frutto dal picciolo ormai fradicio. È capace di invenzioni che forse la misura proibiva a Pelè, morfologicamente irregolare nei soli piedi piatti, peraltro funzionali nella bisogna pedatoria. Maradona è uno sgorbio divino, magico, perverso: un jongleur di puri calli che fiammeggiano feroce poesia e stupore (è dei poeti il fin la meraviglia). Talora uno dei suoi piedi serve fulmineamente l'altro per una sorta di paradossale ispirazione atta a sorprendere: ma quando vuole, questo leggendario scorfano batte il lancio lungo che arriva, illumina, ispira: capisci allora che i ghiribizzi in loco erano puro divertissement: esibizione per i semplici: se il momento tecnico-tattico lo esige, in quelle tozze gambe animate dal diavolo entra solenne il prof. Euclide. E il calcio si eleva di tre spanne agli occhi di coloro che, sapendolo vedere, lo prediligono su tutti i giochi della terra.[33]
  • Dunque il campionato minore l'ha vinto l'Avellino, che i monti proteggono dagli insulti del clima mediterraneo. Aveva ragione don Ciriaco [De Mita], quando si tolse da un'aragosta dei Metalli per garantirmi che l'Avellino era una squadra! Si è vista. Lode a Vinicio ed ai suoi.[34]
  • Se il panorama le sembra eccessivo, s'informi del rugby: è stato inventato dai gentlemen per reagire alla moda fin troppo plebea e stradaiola della pedata: però per non restare troppo delusi, converrebbe meglio nascere in Nuova Zelanda.[35]
  • [Su Pietro Mennea nel 1988] Egli ha rappresentato al meglio tutti noi che la storia ha impoverito nei millenni, magari senza domare del tutto la protervia del nostro buon sangue antico. Lasciate che mi dica fiero di lui. L'inclita Barletta ci ha indennizzati di una patetica balla d'eroismo: ci ha dato Pietro Paolo, la cui volontà è rimasta degna del vigore fisico che i romani hanno aggiunto alla sofisticata cultura greca. Non temo proprio no grosse parole. La fiaba dei millenni chiamata storia mi ronza nel sangue come ricordo vitale. Porta la mia bandiera, Pietro Paolo, nessuno è più degno di te! Quattro Olimpiadi celebrate, quattro finali, di cui una addirittura vinta.[36]
  • Maradona, come tutti puro isso, cura lo suo particulare: ma questo non toglie che, eccellendo di per sé, egli esalti anche la squadra di cui è per solito gran parte. In effetti, Maradona è un carico da undici rinforzato: nessuno scopre nulla affermandolo. È un genio della pelota, dell'invenzione prestipedatoria, dell'esecuzione tecnica cum phantasia. A ragion veduta la squadra deve giocare per lui come lui gioca per la squadra. Ma è chiaro che non può sognarsi, lui solo, di imporsi ad undici avversari degni di questo nome. Il calcio è gioco collettivo per eccellenza: chi si illude di poter reggere solo soletto agli avversari tutti è un povero nesci, un megalomane, un solipsista insopportabile. Si capisce, Maradona è anche Primadonna: non è mai accaduto che un artista, quale che fosse il di lui o di lei sesso, non indulgesse anche alle fisime o comunque agli atteggiamenti tipici della primadonna.[37]
  • Dagli uruguagi, lo sapessimo o no, abbiamo imparato quasi tutto dopo gli anni Venti (dominati invece dai danubiani e dai mister britannici). Quello che so io è che mi hanno insegnato più di tutti, a partire dai quattro bolognesi agli interisti Mascheroni e Scarone, al grandissimo indimenticabile Pepe Schiaffino (per tacere di Faccio, degno erede di Monti, e dell'elegante Abbadie). L'Uruguay non ha la popolazione di Roma e manda per il mondo 200 pedatori di ventura.[38]
  • Gli uruguagi hanno insegnato che Uruguay es el padre e Inglaterra la madre del futbol. Giusto l'orgoglio uruguagio, ma un tantino esagerato. In effetti, il pallone è arrivato sul Rio de la Plata con i macellai inglesi dei frigorificos. La storia è dalla loro parte e gli inglesi lo sanno bene, anche se questo ha molto influito sul loro destino. Il calcio da loro giocato è sempre mazzolato con grossolana pervicacia: rarissimamente vedi un dribbling, un'intuizione fuori cliché, una qualsiasi trovata.[38]
  • Nel '24 ha felicemente scoperto un collega di laggiù che l'Uruguay era entrato in geografia. Non aveva tre milioni di abitanti e giocava calcolando ogni mossa con la virtù sparagnina di chi sa di non poter sprecare mai (come invece capitava agli argentini, ai brasiliani). Poi, curiosamente, gli uruguagi si sono eretti a colonizzatori nei nostri confronti. Grandi campioni cresciuti fra loro figurano nella storia del nostro calcio in virtù del duplice passaporto. Il massimo della tecnica e della bravura è stato espresso in questo dopoguerra dal fervore un po' nevrotico di Schiaffino. Se dunque ci vogliamo porre con un minimo di obiettività di fronte alla storia, dobbiamo riconoscere che l'Uruguay, padre del fùtbol (y fue madre Inglaterra!), ci è stato sovente maestro. Poi, come è legge nell'evolversi dei popoli, è toccato all'Italia di conseguire traguardi superiori a quelli del piccolo e lontano Paese rioplatense. La Svizzera sudamericana è decaduta a povera contrada, ancora civile ma inquieta per troppe e inconsuete lacune di indole economica: e gli uruguagi di buon calibro pedatorio sono andati numerosi per il mondo a cercare fortuna.[39]
  • Senza atteggiarmi a sacerdote deluso, e peraltro lieto di venire smentito, lasciate che io chiuda con un Timeo uruguagios, et male ludentes. (Temo gli uruguagi, anche se giocano male).[39]
  • [Su Michel Platini] Era un giocatore di notevolissima classe, però non valeva una gamba di Pelè e nemmeno di Cruyff. Il suo dinamismo era scarso. Potendo muoversi con qualche comodità, così da non cadere in debito di ossigeno, il suo cervello si conservava estremamente lucido, il piede destro si dimostrava capace di virtuosismi balistici quali soltanto un vero campione si poteva permettere. Povero invece il suo spirito agonistico. Intelligente e astuto, egli riusciva quasi sempre a truccare questa lacuna: io però non l'ho mai visto eccellere quando il clima della contesa aumentava: ogni suo gesto doveva essere meditato: nulla o quasi veniva espresso da lui seguendo l'istinto.[40]
  • Che Maradona fosse un genio, nessun dubbio è possibile. E che i geni siano un tantino squinternati di cerebro è risaputo e ammesso da sempre. Ma perché rimediando compagni di follia a Maradona cita anche Borg, autentico manovale del tennis? Vedendolo, non mi ha mai stupito per un'invenzione degna di questo nome. Egli maneggiava la racchetta come avrei potuto io la roncola, andando a potare salici nel bosco ceduo al mio paese. Maradona, come lei sa, ridava dignità inventiva e gestuale anche alle mani posteriori, divenute volgarissimi piedi da qualche milione di anni.[41]
  • Baresi II è dotato di uno stile unico, prepotente, imperioso, talora spietato. Si getta sul pallone come una belva: e se per un caso dannato non lo coglie, salvi il buon Dio chi ne è in possesso! Esce dopo un anticipo atteggiandosi a mosse di virile bellezza gladiatoria. Stacca bene, comanda meglio in regia: avanza in una sequenza di falcate non meno piacenti che energiche: avesse anche la legnata del gol, sarebbe il massimo mai visto sulla terra con il brasiliano Mauro, battitore libero del Santos e della nazionale brasiliana 1962 (Bicampeao do mundo em Cile).[42]
  • Roberto Baggio porta il codino: è troppo eccentrico per non dare nell'occhio. Ancora: il suo gioco è troppo particolare e disagevole per riuscire sempre al meglio. Il pregio di Platini era la semplificazione. Baggio è un asso rococò: mette il dribbling anche nel caffellatte. Solo sul piano balistico eguaglia Platini, non già nella misura del gioco.[43]

Giocava la palla in modo squisito

Su Aldo Campatelli, la Repubblica, 6 giugno 1984.

  • Avevo conosciuto in lui uno dei più bei ragazzini del nostro sangue. Esile, elegante, sveglio, sapeva sbrigarsela in tutti i giochi con il sesto senso del prestidigitatore: e fu proprio pensando a lui che mi venne il neologismo prestipedatore, come dire un calciatore capace di compiere con la palla squisitezze cinesi. [...] Toccava con i due piedi, e sempre con tanta eleganza da parer manierato. Era longilineo e fragile, forse pauroso.
  • Era destinato al Milan: lo dirottò astutamente all'Inter Bruno Slawitz, che ne guidava i ragazzi. Costò qualche centinaio di lire, un pallone, qualche paio di scarpe usate. [...] Sedusse immediatamente i tecnici maggiori ma nessuno seppe mai che, finito l'incontro mattutino nel campionato ragazzi di Milano, un'auto lo portava a giocare sotto altro nome nel campionato "liberi" di Pavia, fierissimo centravanti di concetto. Quelle scappate con i vidigulfesi gli fruttavano il pranzo e quindici o venti lire per il biliardo e il poker.
  • Non l'ho mai visto portare tackle (incontro, in italiano; andà sotta, in gergo lombardo): però, domata la palla, la colpiva di collo con impressionante nitore. E concludeva spesso da fuori con tiri alti o bassi di rara efficacia.

E Berrutti fu il primo Mennea

la Repubblica, 27 agosto 1987.

  • Pietro Paolo è vendetta quasimodica (ohibò): guida noi brutti alla conquista. È un lemure alato. Scopro di amarlo perché mi rappresenta in un cielo proibito. È la fatica esaltata nel dolore, forse qualcosa più dell'eroismo. Viene da mondi lontani, sicuramente non mediterranei. Mi unisce a lui una passione austera, priva di debolezze frivole. È lui l'atleta nell'accezione più sacra.
  • Livio Berruti fu il mio primo, vero abatino. Il suo stile era la risultante di continui raptus armoniosi. E qui non sono certo originale, ma neppure ho voglia di scadere a guardone estetizzante. L'apparizione di Berruti fu angelica e folgorante insieme. Un ragazzino costretto da qualche iddio a compiere gesti di superiore coordinazione, dunque di naturale eleganza. Lo ispira un orgoglio fisico mediocre, per non dire qualsiasi.
  • Livio Berruti è stato forse atteso come figlia da una madre severa. Io lo scopro già celebre. M'incanta. Debbo solo decidere a quale gens assegnarlo. Il resto mi vane tutto. Ha il profilo gentile di un ragazzo pianista (oh, delicato ha da essere!): ma lo stampino morfologico rasenta la perfezione a buon linea.
  • L'impressione che desta Berruti è sconvolgente. I muscoli deflagrano come in frenesia ma il gesto è di eleganza incredibile, mai vista.

Partito bianconero

la Repubblica, 31 ottobre 1987.

  • [La Juventus] non è una squadra, è un fenomeno sociale. La nobiltà le viene dagli anni, più giovane di poco ad altri club di Torino troppo esclusivi per non morire di solitudine. Il Duca degli Abruzzi esprimeva plus-calore con altri nobili che presto si vergognarono dei propri slanci plebei. Il calcio squalificava socialmente in Gran Bretagna e Scandinavia, dove era localizzabile l'élite della nuova religione sportiva. Borghesi ancora ignari unirono i propri estri snobistici chiamando pedissequamente Juventus la loro prima collusione pedatoria.
  • La gentile Torino spasimava per le rozze grandigie d'un popolo artigiano e contadino che inglesi ed europei centro-nordici stavano riportando all'industria. La Juventus fu sempre vagamente odorosa di privilegio sociale. Gli aristòcrati si beavano del Torino plebeo (esattamente come al Milan): a mezzo fra loro e la plebe usavano profondere slanci plus-calorici i borghesi colpevoli della retorica Juve.
  • Il tifoso juventino è borghese o aspirante borghese. Si manifesta dove un capoluogo abbia da farsi perdonare nequizie medioevali. Fuor dal Piemonte, i più devoti juventini sono lombardi, e ancora emiliani di Romagna. Se c'entri anche il Re sabaudo non so dire. Fatto è che la "Juventinitas" è un sentimento che fa casta. Io spesso ironizzo chiamando Thugs i devoti della dea Kahlì: ma sotto sotto li invidio. Hanno un garbo, una certezza, un piglio che non sempre si scopre.

Quel gran gol così classico

la Repubblica, 1º luglio 1988.

  • La vis polemica si sgonfia non appena s'incontra con Scetticillo, mio arguto inquilino con il nome in capo. Scetticillo mi ha convinto che argomentare di pedate è inutile come cercar di governare l'Italia secondo Benitone da Predappio. Scrivo di calcio da oltre mezzo secolo. Molti che scrivono usano tranquillamente i modi miei ma non se ne accorgono affatto; vedono il calcio con occhi miei ma si guardano bene dall'essermi riconoscenti. O se lo sono... non me lo danno a vedere.
  • [Su Mike Tyson] Questo hombre fuerte mi pare un incrocio fra il bisonte e il gorilla. Nel vasto petto gli ruggono diavoli spietati, che paiono realizzarsi solo nel gusto vandalico della distruzione. The noble Art si squalifica a pretesto omicida: non è più scherma fatta con le braccia, che dopo tutto sono le gambe anteriori dell'uomo antico: non è più danza virile, non invenzione, astuzia, coraggio. Tyson abbassa le corna al gong e inizia la carica: chi osa opporsi alla sua corsa è condannato senza mercé.
  • Il campione dei massimi che più mi ha impressionato è stato Foreman. Due o tre volte ho chiuso gli occhi al folgorante pendolo del suo uppercut smisurato. A ricevere quei colpi spaventosi era Frazier, che pure avevo visto ammaccare Muhammad Alì. Mio dio, che tremende balistae risultavano i suoi montanti! Poi, misteri della boxe e della negritudine ribelle, Foreman incontrò Alì a Kinshasa (controllare), in una notte greve e torbida. Alì aveva dalla sua gli dei della foresta e della savana. Non ho molto capito quell'incontro. Di Foreman non ho veduto un uppercut che è uno. Pareva che l'avessero stregato, che un filtro misterioso ne avesse improvvisamente ottenebrato le facoltà mentali. La negritudine fu soddisfatta a quel modo. Quando nello sport entrano di soppiatto questi veleni ideologici, non si può più seriamente parlare di tecnica: un uomo sensato pensa subito che qualcuno rida di lui a crepapelle, se appena esprime un giudizio che contrasta con la impoetica realtà delle combines e delle torte.

Nel dolore il calcio cambiò

la Repubblica, 4 maggio 1989.

  • [Raccontando la tragedia di Superga] Tradito dagli strumenti di bordo, il pilota non si accorge di volare diritto contro la scarpata della Basilica di Superga. Nell'urto immane, l'aereo esplode come una bomba. Ai primi soccorritori si presenta uno spettacolo orripilante. Membra umane sono sparse all'intorno con i resti sconciati dell'apparecchio. Identificare i cadaveri è quasi impossibile. Il solo impavido Vittorio Pozzo ha cuore di prendersi questo compito pietoso e orrendo. Una generazione decapitata Di colpo la notizia della sciagura si abbatte sull'Italia e sul mondo. Per tutti è cordoglio e pena. Non era mai accaduto che un'intera squadra perisse a quel tragico modo. Il bilancio è terribile. La città di Torino e l'Italia perdono diciotto fra i migliori atleti che vantasse il nostro calcio. Il vuoto appare subito incolmabile. Un'intera generazione viene decapitata...
  • In Valentino Mazzola vedevano tutti il meglio del nostro calcio sopravvissuto alla guerra.
  • Il lutto è atroce. La tragedia ci appare come una maledizione biblica, non meritata dal Torino né dall'Italia. Poi, com'è fatale, se ne ricercano le cause al di fuori del tragico destino che ha consentito la sciagura. Affiorano le miserie più vili, le astuzie torbide, i sotterfugi illegali. Vi è chi parla di contrabbando di valuta e persino di droga, di un cambio di rotta improvviso per ingannare i finanzieri comandati alla Malpensa. Ahimè, nella tragedia stona qualsiasi rilievo, foss'anche ragionevole e doveroso. La realtà è tale che lo sdegno aiuta a superare la desolazione. Ma intanto quei meravigliosi ragazzi non sono più con noi. E l'acerbo rimpianto non ha fine.

Non fate i bulli, lo sport è dannoso

la Repubblica, 10 maggio 1991.

  • Ho una gran voglia di dirle che lo sport è dannoso. L'ho affermato molte volte parlando a gente che era venuta alle mie conferenze per sentir dire il contrario. L'esempio infinitamente più agevole mi veniva offerto delle ore di ginnastica godute o sofferte alla scuola media.
  • Ma che lo sport agonistico sia pericoloso e quindi portatore di possibili danni è innegabile. Quando sento qualche attempato ex vantarsi pubblicamente della propria vigoria, dovuta secondo lui all'esercizio sportivo, io quasi sempre avrei voglia di dimostrargli giusto il contrario: che lui non è vigoroso agile e aitante perché fa sport, bensì fa sport in quanto è vigoroso agile e aitante. Quando è morto d'infarto sul suo pretenzioso lavoro l'inventore del Jogging, io non ho riso da jena perché non appartengo a quella specie animale, però mi sono affrettato a ritagliare la notizia ripromettendomi di sottoporla al mio amico Ottavio Missoni: che imparasse a fare il bullo come so che gli piaceva e gli piace.
  • Io non conosco Boskov. So da un mio amico olandese che dice di avere allenato l'Ajax: ma non la favolosa squadra dei lancieri; è un Ajax che sta a quello vero come la Juventus Domo alla Juventus. Di balle ne contiamo tutti secondo convenienza e umori. È vero però che Boskov ha allenato il Real e che nell'Ascoli ha fatto così bene da indurre Mantovani ad assumerlo per la Samp. Qui ha navigato da sornione, mai facendo la figura del ciolla. Si è sovente adeguato secondo astuzia e adesso risulta che i suoi giocatori non vogliono se ne vada. Io l'ho criticato perché non portava la sua gente fuori dal mollime mediterraneo e spiegavo con la dannosa permanenza a Bogliasco le ricorrenti magre della Samp.

Coppi e il diavolo modifica

Incipit modifica

Quando spunta il sole dietro il costone di Sant'Aloisio, i pochi sparuti abitanti di Castellania vedono illuminarsi prima i torrioni sbrecciati del castello, poi quasi di botto, la piccola valle divisa dal Rio. la terra è taccagna di argille che il sole estivo dissemina di crepe e le piogge invernali ammollano in fango spesso e tenace. Il Rio è uno stento fossatello che arriva serpeggiando allo Scrivia: il suo letto angusto e ineguale è cosparso di massi erratici levigati dai millenni. Le rive sono popolate di roveri olmi e ontani che formano duplice filare a dividere la valle.

Citazioni modifica

  • [Rispondendo a Giulia Occhini la quale non gradiva che si parlasse delle origini contadine di Coppi] Fausto e io siamo principi della zolla.
  • [Coppi] Trova nella bicicletta un complemento di sé che lo esalta. Dimentica di sentirsi brutto, di avere lo sterno da pollo, il collo corto, le spalle taccàa su, come gli dice il scio Ettore con spregio, e due piotino che paiono pinne di foca. La bicicletta diviene parte di lui e delle sue ossa sbilenche.
  • A lui [Coppi] par sempre di essere povero. Infatti, che cosa gli danni i quattrini, se è e rimane un forzato della pedivella? E come può dividersi dalla bicicletta, se vincere lo esalta quasi fosse un dovere? Scopre che questo è il destino degli atleti più fortunati.

Storie dei Lombardi modifica

Incipit modifica

Il mio nome è Gianni Brera. Sono nato l'8 settembre 1919 a San Zenone Po, in provincia di Pavia, e cresciuto brado o quasi fra boschi, rive e mollenti.[44]

Citazioni modifica

  • Mio paese natìo è Pianariva, che l'Olona divide a mezzo prima di confluire in Po. Sono cresciuto brado fra i paperi e le oche naviganti l'Olona.[45]
  • Salito a visitarci nel 225 a.C., il povero Catone sentiva chiamare marais (marè) queste paludi e ha tradotto marè in maria, al plurale, e così ha riferito ai romani che in Padania – la Gallia cis e traspadana – vi erano sette mari.[46]
  • Ho scritto e penso tuttora che l'Italia non sia mai nata perché Po non era un fiume, altrimenti Venezia l'avrebbe risalito più in forze – dico con navi idonee – e avrebbe sottratto la Padania alle ricorrenti follie papaline e alemanne del Sacro Romano Impero.[47]

Incipit di Mille e non più mille modifica

La scena rappresenta lo studio di Davide Bassani: un vasto sotterraneo con una sola finestra aperta nella parte sinistra, in alto. Il vano della finestra è ampio e ascendente, così da costituire una specie di imbuto.
Lo scrittoio di Davide è parallelo alla parete di fondo. Dietro la grande sedia, una biblioteca. A destra dello scrittoio, sul fondo, la porta principale.
Nella parete di destra si apre la porta segreta che dà sulla riva di Carona, dove è sistemata la fucina di Davide e Carlino.
Alla parete di sinistra, oltre il vano della finestra, un camino dalla grande cappa: una clessidra sulla mensola, e ancora un falco impagliato, qualche vaso da speziale, etc. Fra il camino e il proscenio, un rozzo tavolo sul quale figurano alla rinfusa crogiuoli, tenaglie, martelli, altri vasi e vasetti; infine una scansia nella quale sono riposti i cavalletti, le assi e i pagliericci di un letto.

Citazioni su Gianni Brera modifica

  • Affascinante. Perché in mezzo alla corte dei giornalisti lui risaltava come un pazzo. Non mi fraintenda, lo dico nel senso buono: come una persona originale, rispettatissima, di grande forza fisica e morale. Ecco, la prima volta mi fece quasi paura, tanto era grosso fisicamente, non grasso dico proprio grosso, ben piantato. Ho pensato che se mi avesse dato un pugno mi avrebbe accoppato. Ma era forte anche dentro, si capiva dal modo di parlare. E poi dava una sensazione di sincerità, ma quella si vedeva anche negli articoli. (Cochi Ponzoni)
  • Anche il nostro Gianni Brera (il nostro: l'abbiamo amato con passione e devozione) ha scritto dei bellissimi romanzi. Erano le sue cronache sportive. Piene di romanzesche vicende: Consolini che lancia il disco, Coppi che scala l'Izoard; e di personaggi mitico-romanzeschi. Come Gigi Riva, possente ala sinistra del Cagliari e della Nazionale che diventa una sorta di poderoso guerriero longobardo e viene ribattezzato "Rombo di tuono". Ma anche Gianni Brera deve aver avuto in vita i suoi momenti di debolezza (per questo l'amiamo ancora di più). Deve aver pensato anche lui che se vuoi essere considerato un vero scrittore – non un semplice estensore di cronache sportive, per quanto geniali – devi scrivere qualche storiella immaginaria, con personaggi immaginari. (Beniamino Placido)
  • Aveva una cultura vastissima. Ed era una persona di una sensibilità che pochi comprendevano, tanto era raffinata. Adesso qualcuno lo sminuisce, lo pensa come una macchietta che parlava di padanità e cose simili. Ma non era mica legato solo alla cassoeula. (Cochi Ponzoni)
  • Gianni fu infatti uno dei giornalisti più amati-odiati dell'intero dopoguerra, anche perché, spinto da necessità alimentari ad allontanarsi dalle lettere – non dabant panem – e addirittura dal primo amore, l'atletica leggera, finì a padroneggiare i terreni auriferi del football, che certo amava meno di altri habitat. Quelle lande sin lì desolate, percorse da analfabeti, retori, postdannunziani d'accatto, Gianni fertilizzò non solo con la grande cultura storica – collegio Ghisleri più Scienze Politiche- ma con gli studi su uno sconosciutissimo – da noi De Gobineau scrittore, su Flaubert e Maupassant e Jean Giono. Fu il primo a chiedersi perché si potesse amare Manzoni che detestava – e ignorare Carlo Porta – che adorava – fu il primo a trasformare una cronaca di calcio in uno studio alla Clausewitz, uno stratega che si esprimesse al contempo con gli accenti di Girolamo Cardano. (Gianni Clerici)
  • Gli scrittori Mario Soldati (PSI) e Gianni Brera (PSI) sono stati trombati [non sono stati eletti]. Peccato. Il Parlamento era l'unico posto in cui, dovendo parlare per gli altri, forse avrebbero finalmente taciuto. (Indro Montanelli)
  • Io, quando leggo Brera, non lo capisco. (Ennio Flaiano)
  • Leggere Brera farebbe bene a tantissimi e farebbe scoprire a molti che il giornalismo sportivo non è solo un genere di giornalismo e può diventare la cosa più trasversale del mondo. Brera era un grande, un intellettuale prestato al calcio. (Michele Dalai)
  • Più che un maestro è stato un padre. Quando ero in collegio leggevo i suoi articoli e sognavo tanto. Sognavo di fare il giornalista sportivo, sognavo di avere un padre come lui. Brera è stato una delle persone piu' importanti della mia vita insieme a mio padre e a pochi altri. (Franco Rossi)
  • Ti toglieva anche l'anima quando ti intervistava, anche perché non era una classica intervista con un giornalista, ma una amabile chiacchierata con un amico. (Luciano Castellini)
  • Un esempio deteriore di impiego gratuito di stilemi ex-colti è dato dalla prosa del cronista sportivo Gianni Brera, che rappresenta un esempio di "gaddismo spiegato al popolo", là dove il "popolo" avrebbe bisogno solo di un linguaggio appropriato alla materia trattata.[48] (Umberto Eco)

Gianni Mura modifica

  • E scrivevi come vivevi, da persona piena di umori e di amori, con una cultura larga e profonda che andava dalla pesca degli storioni all'uso del verso alessandrino. E le invenzioni, Giovanni, i neologismi. Ne hai inventate di parole.
  • E tu con coscienza e scrupolo artigianale (ma io non dimentico tutti i libri che hai in casa) avevi inventato una lingua viva, piena di venature, di rimandi, come uno che aveva letto Runyon ma anche Folengo. Eri nato con l'atletica e il ciclismo, sapevi raccontare gli uomini e le strade.
  • Ha alfabetizzato il tifoso di calcio con la sua rubrica della posta: stufo di Mazzola e Rivera, parlava più di Leopardi e Manzoni.
  • Io non sarò il tuo erede, Giovanni. Siamo onesti, come te non c'è stato nessuno e non ci sarà più nessuno. Mica solo per lo sport. Se c'è un libro di gastronomia da salvare, è "La pacciada", che hai scritto tu con Luigi Veronelli. Che adesso starà bevendo in memoria tua. Se si vuol capire qualcosa di ciclismo, degli anni eroici del ciclismo, bisogna leggere "Addio bicicletta", l'hai scritto tu un sacco di anni fa. E pochi letterati da Strega e da Campiello avrebbero descritto il paese di Coppi come hai fatto tu.
  • Sei morto come auguravi ai tuoi eroi sportivi, assunti in cielo su un carro di fuoco. Non sei morto di cuore né di fegato né di polmone, Giovanni, tu che fumavi cento sigarette al giorno e non parliamo di quello che hai bevuto, oppure parliamone, e parliamo del culo che ti sei fatto sgobbando fra le stanghe della Olivetti (il computer mai, avevi ragione tu, non fa rumore, ti cambia le parole già in testa) più di cinquant'anni.
  • Sapeva scrivere in maniera pregiata e rapida nello stesso tempo. Sfornava piatti da grande ristorante con ritmi da pizzeria!

Note modifica

  1. a b c Da Il calciolinguaggio di Gianni Brera; citato in Palla lunga e pedalare, p. 43.
  2. a b c Da Il calciolinguaggio di Gianni Brera; citato in Palla lunga e pedalare, p. 42.
  3. Citato in Maurizio Martucci, Gigi Meroni, l'eterna farfalla beat, ilfattoquotidiano.it, 16 ottobre 2012.
  4. Citato in Mario Gherarducci, Capitan Mazzola e il Grande Torino, due leggende in mostra, Corriere della Sera, 28 settembre 2001, p. 47.
  5. Citato in Sebastiano Vernazza, Addio geniale Schiaffino, La Gazzetta dello Sport, 14 novembre 2002.
  6. Citato in Stefano Bedeschi, Gli eroi in bianconero: Alfredo Foni, tuttojuve.com, 20 gennaio 2023.
  7. Citato in Marco Sappino (a cura di), Dizionario del calcio italiano vol. 2, Milano, Baldini, Castoldi & Dalai, 2000, p. 54.
  8. a b Citato in Palla lunga e pedalare, p. 43.
  9. Citato in Filippo Grassia e Giampiero Lotito, Inter. Il calcio siamo noi, Sperling & Kupfer, 2010, ISBN 8820049678.
  10. Citato in Gianpiero Lotito e Filippo Grassia, Inter. La grande storia nerazzurra dal 1908 a oggi, SEP, 2006; citato in 1970-1979: Una lattina per alleata, repubblica.it
  11. a b Da Storia critica del calcio italiano, Milano, Baldini & Castoldi, 1998, p. 114, ISBN 88-8089-544-3.
  12. Citato in Gino e Michele, Matteo Molinari, Anche le formiche nel loro piccolo s'incazzano, Arnoldo Mondadori Editore, 1997.
  13. Citato in Stefano Olivari, Lo scudetto cagliaritano dei Moratti, blog.guerinsportivo.it, 5 marzo 2011.
  14. Citato in Claudio Gregori, Milano celebra Brera. Noi lo ricordiamo così, milombardia.gazzetta.it, 18 novembre 2012.
  15. Citato in Palla lunga e pedalare, p. 44.
  16. Citato in Quel gol è la poesia più bella, la Repubblica.
  17. Da Nella dannata piscina picchia solo Moby Dick, la Repubblica, 1º agosto 1984.
  18. Da La mascotte diviso tre, la Repubblica, 21 novembre 1986.
  19. Da Quelle omeriche risate, la Repubblica, 20 settembre 1988, p. 3.
  20. Da Peppìn Meazza era il fòlber, il Giornale, 24 agosto 1979.
  21. Da La Gazzetta dello Sport, 27 luglio 1949; citato in L'anticavallo. Scritti sul ciclismo, Dalai Editore, 1996, p.104, ISBN 8880891421.
  22. Da San Catenaccio in cima al mondo, la Repubblica, 13 luglio 1982.
  23. Da È morto Giuseppe "Pepinoeu" Viola. Aveva 43 anni!, la Repubblica, 19 ottobre 1982; citato nella prefazione di Quelli che..., Dalai editore, 2009, p.10, ISBN 8860736153.
  24. Da Non sembra l'anno di Juventus e Roma, la Repubblica, 8 luglio 1984.
  25. a b Da Lasciate in pace Pietro Paolo primo, la Repubblica, 10 agosto 1984.
  26. Da Grazie divina donna per tanta serenità, la Repubblica, 12 agosto 1984.
  27. a b Da Una colpa che pesa su tutti, la Repubblica, 30 maggio 1985.
  28. Da Con tanta nostalgia di uno sport nobile, la Repubblica, 31 maggio 1985, p. 4.
  29. Da La fatica di essere primi, la Repubblica, 12 novembre 1985, p. 4.
  30. Da Ha vinto la squadra di oggi e di sempre, la Repubblica, 29 aprile 1986.
  31. Da Donadoni sì ma Galli no, la Repubblica, 19 settembre 1986.
  32. a b Da Un inventore spesso mortificato, la Repubblica, 16 gennaio 1987.
  33. Da Quel calcio lineare e sovrano, la Repubblica, 3 febbraio 1987.
  34. Da Ma io condanno Milan e Roma, la Repubblica, 19 maggio 1987.
  35. Da Italiani cattivi maestri..., la Repubblica, 19 giugno 1987.
  36. Da Care colombe che ardete sul tripode, la Repubblica, 18 settembre 1988.
  37. Da Maradona, genio in un collettivo, la Repubblica, 11 novembre 1988.
  38. a b Da Avanti, si gioca godetevi l'Italia, la Repubblica, 8 giugno 1990.
  39. a b Da L'Uruguay, un pericolo, la Repubblica, 24 giugno 1990.
  40. Da Immaginifico Platini, la Repubblica, 2 novembre 1990.
  41. Da Maradona, genio peccatore, la Repubblica, 12 aprile 1991.
  42. Da Il furore sportivo sovietico ci mancherà, la Repubblica, 3 gennaio 1992.
  43. Da Platini e Baggio, due assi distanti, la Repubblica, 6 marzo 1992.
  44. Citato in Giacomo Papi, Federica Presutto, Riccardo Renzi, Antonio Stella, Incipit, Skira, 2018. ISBN 9788857238937
  45. Da Invectiva ad Patrem Padum, Guerin Sportivo, 28 ottobre 1963; citato in Storie dei Lombardi, p. 421.
  46. Da Invectiva ad Patrem Padum, Guerin Sportivo, 28 ottobre 1963; citato in Storie dei Lombardi, pp. 423-424.
  47. Da Invectiva ad Patrem Padum, Guerin Sportivo, 28 ottobre 1963; citato in Storie dei Lombardi, pp. 425-426.
  48. Sintetizzata in «Brera è Gadda spiegato al popolo» (Marco Pastonesi e Giorgio Terruzzi, Palla lunga e pedalare, Dalai Editore, 1992, p. 42, ISBN 88-8598-826-2), tale etichetta irritò non poco Brera: «Umberto smemora, e parla di Gadda spiegato al popolo» (Gianni Brera, L'arcimatto. 1960-1966, Dalai editore, 1993); e ancora, su Gadda: «Lo detesto. È anche lui uno scapigliato che non racconta nulla, fa degli arpeggi da cui non escono melodie. Butirro! Ma andiamo... Nel Pasticciaccio fa due pagine sulla cagata della gallina o sul peto di un carabiniere che si china per vedere una moto. È un insieme di bozzetti. Il signor Eco Umberto, prima di diventare un grande botanico, era un professore pieno di spocchia che pretendeva di giudicare i miei articoli di sette o otto cartelle scritti in un'ora e mezzo. Diceva che ero un Gadda spiegato al popolo: non teneva conto che il giro mentale era diverso.» (dall'intervista di Paolo Di Stefano, Brera, le parole in campo, Corriere della Sera, 10 giugno 1992, p. 8)

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