Indro Montanelli e Mario Cervi

Voci principali: Indro Montanelli, Mario Cervi.

Citazioni a quattro mani

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  • Epitaffio per Alberto Moravia (ancor vivente):
    «Visse e operò | tra gioie e pene | all'erezione sempre intento | del proprio monumento».[1]
  • Qui | riposa | Enrico Mattei. | A nostre spese | spese | senza badare a spese.[2]

Storia d'Italia

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L'Italia littoria

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Completamente assorbito dal giornale che ho fondato e dirigo, temevo di non poter più riprendere questa Storia, rimasta all'Italia in camicia nera di due anni e mezzo fa. Se sono riuscìto a farlo, è perché ho trovato in Mario Cervi un collaboratore ideale e particolarmente congeniale. Ecco il caso di un libro a quattro mani, di cui sfidiamo qualunque lettore a riconoscere cosa è d'un autore e cosa dell'altro: tanto esso è nato da un continuo colloquio e compenetrazione fra i due. Il volume comprende il decennio che va dal '25, inizio della dittatura, al '36, conquista dell'Abissinia, quando parve che Regime e Paese si fossero per sempre identificati. Il titolo quindi non poteva essere che L'Italia littoria: essa lo fu, piaccia o non piaccia. Noi abbiamo cercato di spiegare perché lo fu, e come, proprio nel momento del suo maggior trionfo, il fascismo e il suo Duce entrarono in crisi. Per uno dei due autori si tratta di esperienza vissuta. Il volume successivo, che arriva all'ingresso dell'Italia nella seconda guerra mondiale, il 10 giugno 1940, sarà invece esperienza di entrambi. Questi libri dispiaceranno sia ai fascisti che agli antifascisti. Ma noi non li abbiamo scritti per piacere né agli uni né agli altri.

Citazioni

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  • L'Aventino avvertì, con irrimediabile ritardo, l'umore di buona parte del paese: e capì che Mussolini non si era abbandonato immediatamente, dopo l'arresto di Zaniboni e Capello, a spettacolari misure repressive – rifiutò per il momento il ripristino della pena di morte che gli veniva richiesto a gran voce da molti – proprio per consentire che il processo di fascistizzazione morbida si svolgesse senza sussulti. Evirati i grandi giornali di opposizione, vessati i quotidiani di partito (alcuni, come La Rivoluzione liberale e Il Popolo, erano stati costretti a chiudere), l'Aventino poteva riacquistare una voce solo tornando in aula. I comunisti l'avevano capito quasi immediatamente, ed infatti si erano ripresentati alle sedute. In altri gruppi la tendenza al ritorno acquistava forza crescente. Ma a questo punto, reso forte, nella sua intransigenza, dal complotto Zaniboni, politicamente provvidenziale, Mussolini era risoluto a sbarrare loro il passo. Gli aventiniani non avrebbero potuto rovesciare i rapporti di forza in un Parlamento dove la maggioranza governativa era solida. Ma le loro critiche e le loro polemiche sarebbero state fastidiose.
  • La Francia era angosciata dai sintomi di un riavvicinamento italo-tedesco, che era ancora psicologico, più che politico, ma che si delineava. Non che Hitler avesse preso risolutamente parte per l'Italia, nella guerra etiopica. Anzi, fino alla vigilia del 3 ottobre 1935, aveva rifornito di armi il Negus: e si capisce perché. Quanto più la campagna durava, tanto i rapporti tra Mussolini e le potenze occidentali si deterioravano. Nello stesso tempo diminuiva la capacità italiana, militare e politica, di reagire a un eventuale nuovo colpo tedesco sull'Austria, e aumentava la propensione italiana ad appoggiarsi al dittatore tedesco.
  • Mai egli trascorse una notte con Claretta a Palazzo Venezia. S'incontravano, tra molti e quasi comici sotterfugi anche a Riccione, quand'egli vi si recava con la famiglia e i Petacci si trasferivano per l'occasione in un albergo di Rimini o al Terminillo, durante qualche vacanza. Forse in qualche momento la Petacci ebbe l'ambizione essere l'ispiratrice o la consigliera politica, oltre che l'amante di Mussolini. Non vi riuscì mai, o dovette limitarsi ai queruli ammonimenti sulla pochezza e sull'infido comportamento dei suoi collaboratori (come Rachele, del resto). Cosi, nel 1936, Mussolini aveva tutto ciò che uno statista «cesareo» potesse sognare: l'onnipotenza, una popolarità quasi senza ombre, l'Impero, la sua favorita. E non mancavano che nove anni a piazzale Loreto.
  • Augusto Turati intendeva probabilmente cambiare il partito [fascista], «normalizzarlo» imborghesendolo, ripulirlo estromettendo gli «ultra», ma intendeva anche conservargli una influenza decisiva nella vita politica italiana. Se questo, come sembra, era il suo disegno, si sbagliò, per la semplice ragione che Mussolini ne aveva un altro. Il partito per lui doveva essere soltanto uno strumento da usare in caso di necessità, ma solo in caso di necessità, a sua richiesta. (cap. II, 2006, La fine dell'Aventino, pp. 26-27)
  • Eccellente organizzatore, uomo intelligente, Turati finì per consegnare al successore [Achille Starace] il partito che Mussolini desiderava. Non più una cassa di risonanza di fermenti politici, anche se non ancora la mummia imbellettata del periodo staraciano. (cap. II, 2006, La fine dell'Aventino, p. 27)
  • Il nodo vero [tra regime fascista e Santa Sede] restava l'Azione cattolica, alla quale il Papa rivendicava il diritto di «portarsi anche sul terreno operaio, lavorativo, sociale». Troppo per Mussolini, risoluto a relegare sempre più l'organizzazione nello stretto campo dello «spirituale» e a impedire che certi suoi uomini dimostrassero eccessivo mordente. Si asserì che a metà maggio esponenti della Azione cattolica avevano tenuto riunioni per discutere progetti ostili al Regime. Il 29 maggio 1931 Mussolini ruppe gli indugi e ordinò ai Prefetti di sciogliere «le associazioni giovanili di qualsiasi natura e grado di età che non facciano direttamente capo alle organizzazioni del Partito Nazionale Fascista o dell'Opera Nazionale Balilla». La Gioventù cattolica e ogni altra branca giovanile della Azione cattolica subirono così la sorte degli Esploratori cattolici. Le loro sedi furono chiuse, il materiale che vi si trovava sequestrato. (cap. IV, 2006, La Conciliazione, p. 79)
  • La moglie di Mussolini [Rachele Guidi] non volle mai essere «presidentessa», e a Palazzo Venezia, durante i quindici anni in cui Mussolini vi trascorse gran parte della sua giornata, mise piede solo poche volte, perché desiderava vedere meglio qualche sfilata o qualche manifestazione. In compenso A Villa Torlonia[3] comandava lei. (cap. V, 2006, Il Duce e la sua corte, p. 84)
  • L'IRI aveva scopi «riparatori», era cioè (e resterà nei decenni, prima e dopo la caduta del fascismo) un ospedale o un ospizio per imprese in collasso, o malate, o senescenti. Varando l'IRI, Mussolini si diceva certo che esso avrebbe tonificato potentemente il mercato italiano. Nessuna intenzione di collettivizzare l'economia, anche se lo Stato si trovò in grado di controllare, come scriveva Gerarchia[4], i tre quarti del meccanismo produttivo industriale e agricolo, almeno per le grandi imprese. (cap. VI, 2006, Il Decennale, p. 103)
  • Tra i tanti discorsi di routine ve ne fu, nel convegno [di studi corporativi di Ferrara del 1932], uno che fece scandalo. Lo pronunciò il filosofo Ugo Spirito, già allievo di Gentile e poi in dissenso con il maestro. Spirito parlò di «Individuo e Stato nella concezione corporativa» sostenendo che il corporativismo doveva segnare la fine della lotta di classe, ma nel senso che capitale e lavoro si sarebbero fusi, e che si sarebbe dovuto arrivare alla «corporazione proprietaria». Coerentemente con questa impostazione, che faceva del corporativismo «il liberalismo assoluto e il comunismo assoluto», Spirito proponeva che, come primi provvedimenti, dovesse essere inserito un rappresentante dello Stato nei consigli di amministrazione delle maggiori aziende, e dovesse inoltre essere assicurata una cointeressenza, oltre al salario, ai dipendenti. Quasi non bastasse, il filosofo disse che fascismo e comunismo non dovevano essere contrapposti in maniera antitetica. (cap. VI, 2006, Il Decennale, pp. 104-105)
  • [...] fin dai primi passi [Galeazzo] Ciano gerarca si rivelò per quello che era: intelligente ma superficiale, velleitario più che virile, fatuo più che brillante, smanioso di imitare Mussolini – anche nella ostentata rinuncia a ogni principio di moralità internazionale – ma privo della testa, della grinta, dell'intuito di lui. Si atteggiava a rude, e riusciva ad essere soltanto goffo. Bel ragazzo, un po' del genere tango, aveva però, nel modo di muoversi, alcunché di inguaribilmente molle. «Camminava – ha scritto Renzo Trionfera – divaricando i piedi come, per deformazione professionale, capita ai vecchi camerieri di trattoria.» Le male lingue gli lanceranno, quando firmerà il patto con la Germania [Patto d'Acciaio], una battuta al cianuro: «piede-piatto d'acciaio». (cap. VI, 2006, Il Decennale, p. 118)
  • L'iniziativa di Locarno era stata vista con sospetto da Mussolini, soprattutto per una ragione: essa «raddoppiava» la difesa della Francia, ma lasciava senza garanzie la frontiera del Brennero. Per poter vantare una parità internazionale con l'Inghilterra, l'altra garante, e anche per non restare isolato, Mussolini si rassegnò a firmare. Ma non perse più occasione di dichiarare che lo spirito di Locarno si andava «decolorando», che le illusioni da esso suscitate erano mal riposte, e che la corsa agli armamenti non ne era stata minimamente frenata: il che era vero. (cap. VII, 2006, L'odiato pupillo, p. 135)
  • Per sottoscrivere il 16 ottobre 1925 il trattato, Mussolini tornò, da Capo del governo, in Svizzera. A questo suo viaggio oltre frontiera non ne seguirono altri per 12 anni. Forse un incidente con i giornalisti contribuì all'avversione di Mussolini per gli ambienti esteri nei quali non fosse protetto – come sarebbe accaduto in Germania dopo l'avvento di Hitler – dallo scudo di una propaganda amica, e nei quali non gli venisse garantita una passerella, tappezzata di applausi ed elogi. Duecento corrispondenti incaricati di seguire i lavori della conferenza si erano impegnati a boicottare un'eventuale conferenza stampa del Duce che, informatone, affrontò nel salone del Palace Hotel l'inviato del Daily Herald, George Slocombe, portavoce dei corrispondenti esteri. «Ebbene, va sempre avanti il comunismo?» domandò Mussolini, corrucciato, a Slocombe. «Non saprei dirvelo, non sono comunista» fu la risposta. «Bene, allora mi sbaglio» borbottò Mussolini allontanandosi. Al che George Nyples, un olandese, gli lanciò alle spalle un «già, a lei capita spesso». (cap. VII, 2006, L'odiato pupillo, pp. 135-136)
  • I frutti di Locarno furono effimeri, anche perché in Germania, eletto il vecchio maresciallo Hindenburg alla presidenza della Repubblica, già si profilava il revanscismo; e la Francia reagiva alla minaccia riarmandosi. Contro la Francia si accaniva di più la stampa fascista: e alla Francia Mussolini presentava, con arroganza verbale, un «cahier de doléances» che andava dalla spartizione ingiusta dei mandati coloniali allo statuto degl'italiani di Tunisi, da una più favorevole sistemazione dei confini meridionali della Tripolitania alla mano libera nei Balcani, e alla situazione dei fuorusciti antifascisti. Proprio nei Balcani, in quello scorcio di anni, l'Italia raggiungeva, con re Zog di Albania, un accordo che inseriva saldamente il piccolo Stato nell'orbita italiana, stabilendo un rapporto di alleanza e protezione che il De Felice ha paragonato a quello tra l'Inghilterra e il Portogallo e che impensieriva, naturalmente, la Jugoslavia. (cap. VII, 2006, L'odiato pupillo, p. 136)

Nella prima metà degli anni Trenta era stato tutto un fiorire di piccoli giornali che rompevano la plumbea e solenne atmosfera del regime e v'immettevano un certo fervore. Longanesi con L'Italiano e Maccari col Selvaggio erano stati i primi, grazie anche al loro brevetto di fascisti antemarcia e alle immunità che gliene derivavano, a rompere il coro del conformismo di Regime. Ma, un po' per vocazione di artisti, un po' per prudenza, essi mantenevano il loro discorso sul piano della cultura e del costume, che solo di riflesso investiva quello politico. Essi però insegnarono a tutti noi a scrivere fra le righe, per allusioni che sfuggivano alla occhiuta ma ottusa censura, a parlare a nuora perché suocera intenda, e a colpire il Regime negli artisti, negli scrittori, negli architetti, negli urbanisti del Regime. Ebbero una funzione importantissima: in norne della tradizione, essi difendevano l'Italia prefascista rivalutandone quanto si poteva rivalutare. Diverso fu l'atteggiamento di chi invece vedeva o voleva vedere nel fascismo non già il ritorno al passato, ma l'apertura a un mondo nuovo, e cioè tuttora sperava di fare di esso una vera rivoluzione. Ad assumere questa posizione, e a tenerla con coerenza e rigore, furono soprattutto Cantiere e L'Universale di Berto Ricci, un giovane fiorentino, professore di matematica, approdato al fascismo da un'esperienza anarchica, forse la coscienza più alta della nostra generazione. Ricci poneva l'accento soprattutto, anzi quasi esclusivamente, sui valori morali e spirituali: per lui il fascismo doveva essere l'incubatrice e la scuola di un italiano antico e nuovo, anzi nuovo in quanto antico, del quale cercò di fornire egli stesso un modello che si avvicinava in sostanza a quello stoico. Sulla sponda opposta, Cantiere metteva invece l'accento sulle «strutture»: fu la prima pubblicazione, credo, d'ispirazione «sociologica», e infatti gran parte dei suoi collaboratori finirono poi in braccio al comunismo. [...] Ormai era chiaro che l'intellighenzia voltava le spalle al fascismo, cui non restavano che i somari zelanti. Coloro che, pur su posizioni di dissenso, non intendevano combatterlo per scrupolo di lealtà, si trassero in disparte e si chiusero nel silenzio. Fu il caso di Ricci, tornato a fare il professore di matematica. Ecco il brano di una sua lettera (e una testimonianza che gli debbo) a seguito di un colloquio nel quale lo avevo inutilmente esortato a schierarsi con noi: «Questo solo ti chiedo: di poter continuare a stimarti come avversario, visto che devo cessare di stimarti come amico e alleato. Se imbocchi la strada della dissidenza, devi batterla sino in fondo, sino alla galera o all'esilio...». Non la battei, per allora, sino in fondo. Ma rividi Ricci ancora una volta: a Napoli, quando s'imbarcava volontario per la Libia, agl'inizi della guerra mondiale. Gli chiesi perché lo faceva, lasciando la moglie e un figlio, ora che nemmeno lui ci credeva più. Mi rispose: «Nella vita di un uomo c'e posto per una conversione, e io l'ho già avuta. Ora devo affondare con la barca». E affondò: di lui rimane una croce nel deserto, e nella coscienza di chi gli fu amico un ricordo inquietante. Ci furono, nella nostra generazione, parecchi altri Ricci, anche se non della sua levatura intellettuale. Ce ne furono anche, mescolati a tanti avventurieri e canaglie nella Repubblica di Salò. Chi scrive è orgoglioso di appartenere alla generazione che ha dato di questi uomini. È stata l'ultima a dare degli uomini.

L'Italia dell'Asse

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Questo volume comprende, come il lettore vede, il quadriennio che va dall'intervento dell'Italia nella guerra civile spagnola a quello nel conflitto mondiale. Abbiamo fatto il possibile per contenerlo nella misura dei volumi precedenti, ma non ci siamo riusciti perché la parte svolta da Mussolini nella vicenda spagnola e poi nelle due grandi crisi – quella austriaca e quella cecoslovacca –, che condizionò tutta la politica italiana di quel periodo dando il passo a quella estera su quella interna, ci ha costretto ad allungare lo sguardo oltre confine. Ma non potevamo farne a meno, perché è impossibile capire i motivi che spinsero Hitler a mettere a ferro e fuoco l'Europa, e poi Mussolini ad associarglisi, se non si ha un'idea almeno approssimativa dei rapporti di forza tra le varie Potenze, e degli equivoci e degli errori che le condussero alla catastrofe. Questa idea, noi ci siamo sforzati di darla, sia pure sommariamente, ma senza pregiudizi né partiti presi. A distanza di quarantanni da quegli avvenimenti e scrivendo per dei lettori, la cui schiacciante maggioranza non li ha vissuti o ne ha soltanto un lontano ricordo, ci pare che il nostro dovere di storici – o, se preferite, di cronisti – sia più quello di raccontarli e spiegarli che di giudicarli. Ormai gli elementi per ricostruirne la trama ci sono: «rivelazioni» potranno ancora venire ad arricchirla di qualche particolare, ma senza intaccarne la sostanza.

Citazioni

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  • Roatta non aveva il fisico del condottiero. Con gli occhiali e la incipiente pinguedine – caratteristiche comuni a troppi alti ufficiali italiani del tempo – era un tipico generale da tavolino e da corridoio, capace di destreggiarsi egregiamente nelle rivalità e negli intrighi che inquinavano i vertici delle Forze Armate, abile nel tessere ottimi rapporti con la gerarchia fascista. (cap. 1, 2006, pp. 34-35)
  • Le leggi razziali del 1938 furono motivo di sgomento per gli ebrei e di indignazione per la stragrande maggioranza degli altri italiani. Ne apparve chiara, immediatamente, la estraneità non soltanto alla storia del paese, ma alla storia stessa del fascismo. Vennero intese come un prodotto di importazione e come il frutto peggiore dell'adeguamento mussoliniano alla «moda» tedesca. Molti zelanti razzisti dell'ultima ora andarono frettolosamente a ripescare, nelle cronache dei decenni prefascisti e del quindicennio fascista, precedenti, saggi, citazioni che avallassero la persecuzione. (cap. 9, 2006, p. 170)
  • Non fu difficile attingere materiale ad hoc anche dalla vastissima pubblicistica e oratoria del Duce, che su quasi ogni argomento aveva sostenuto, secondo che lo suggerissero le circostanze e la opportunità politica, tesi opposte. Ma questo inane e maldestro sforzo propagandistico, che pretendeva di dare coerenza a una scelta dell'ultima ora, non riusciva a occultare una realtà inconfutabile: l'idea razzista era stata in Italia, per lungo tempo, il patrimonio di pochi, inascoltati, e per lo più disprezzati profeti, e almeno fino al 1936 Mussolini l'aveva respinta. (cap. 9, 2006, p. 170)
  • Non si vuol affermare, con questo, che mancassero all'antisemitismo radici lontane. Ma era, quello «storico», un antisemitismo di origine religiosa, non razziale, legato all'antica accusa di deicidio mossa agli ebrei dalla Chiesa. Realizzata l'unità d'Italia, scomparsi i ghetti, gli ebrei italiani si erano mescolati al resto della società, confondendovisi a tal punto – soprattutto attraverso il meccanismo dei matrimoni misti – da suscitare allarme tra i correligionari più ortodossi, uno dei quali ammoniva: «Gli ebrei d'Italia, inebriati dai successi nella politica, nelle scienze, nelle industrie, nelle arti, nel giornalismo, si avviavano sulla china della più completa assimilazione, aprendo la via, per la sopravveniente generazione, all'assorbimento o all'annullamento di se stessi». (cap. 9, 2006, pp. 170-171)
  • Sulla sua rivista La vita italiana [Giovanni Preziosi] elaborò le linee di un antisemitismo che, dapprima rivolto contro le centrali ebraiche di potere economico, assunse successivamente i caratteri del razzismo più intransigente, in perfetta consonanza con le tesi naziste. (cap. 9, 2006, pp. 174-175)
  • L'antisemitismo di Preziosi ricalcò tutte le argomentazioni naziste sulla «congiura mondiale» dell'ebraismo, attingendo largamente, per convalidare le sue tesi, a quel grossolano falso che porta il nome di Protocolli dei Savi Anziani di Sion. (cap. 9, 2006, p. 175)
  • Indottrinata dal Minculpop la stampa – ora anche la grande stampa, non soltanto la Difesa della razza di Telesio Interlandi o il Tevere, con le loro pretese pseudo-scientifiche – iniziò un tambureggiamento propagandistico contro gli ebrei, provvedendo nel contempo a sopprimere ogni notizia che agli ebrei stessi fosse favorevole: dei loro meriti di combattenti, di uomini di cultura, di scienziati, non si parlò più. Rino Alessi, che sul Piccolo di Trieste si era battuto con coraggio, nel gennaio del 1938, contro le prime bordate antisemite, fu messo a tacere da Farinacci. (cap. 9, 2006, p. 181)
  • Gli editorialisti più tiepidi ed esitanti nel difendere il razzismo ricorrevano, per cavarsela, agli artifizi della retorica trombona, scrivendo ad esempio che il razzismo «è il coronamento e il compimento della nuova coscienza dell'Italia fascista, necessario coronamento per confermare e consacrare il trapasso dal ciclo nazionale al ciclo imperiale della terza Italia». (cap. 9, 2006, p. 181)
  • Alcuni studiosi, tra i quali figurava un solo nome di rilievo, quello dell'endocrinologo Nicola Pende, accettarono di elaborare un «Manifesto degli scienziati razzisti» nel quale si asseriva che «le razze umane esistono», che «ve ne sono di grandi e di piccole», che «la popolazione dell'Italia attuale è di origine ariana», che «esiste una pura razza ariana», che i caratteri fisici e psicologici puramente europei degli italiani «non debbono essere alterati in alcun modo». Agli ebrei era dedicato questo paragrafo: «Dei semiti che nel corso dei secoli sono approdati sul sacro suolo della nostra patria, nulla in generale è rimasto. Anche l'occupazione araba della Sicilia nulla ha lasciato all'infuori del ricorso di qualche nome: e del resto il processo di assimilazione fu sempre rapidissimo in Italia. Gli ebrei rappresentano l'unica popolazione che non si è mai assimilata in Italia perché essa è costituita da elementi razziali non europei, diversi in modo assoluto dagli elementi che hanno dato origine agli italiani». (cap. 10, 2006, pp. 181-182)
  • Il «Manifesto» era un centone di affermazioni banali e di affermazioni false. Il testo originario che gli «scienziati» avevano steso subì profonde modifiche, pare anche ad opera di Mussolini: tanto che Pende volle protestare pubblicamente, ma ne fu dissuaso con la minaccia di un totale boicottaggio alla sua attività di ricercatore e di pubblicista. Questi servili studiosi furono quindi ricevuti da Starace. Un comunicato del PNF annunciò, riassumendo i temi dell'incontro, che «gli ebrei si considerano da millenni, dovunque e anche in Italia, una razza diversa e superiore alle altre, ed è notorio che, nonostante la politica tollerante del Regime, gli ebrei hanno, in ogni nazione, costituito – coi loro uomini e coi loro mezzi – lo Stato Maggiore dell'antifascismo». (cap. 10, 2006, p. 182)
  • Questo avallo ormai inequivocabile scatenò ancor più lo zelo servile della stampa, provocò una serie di iniziative epuratrici con una gara disgustosa alla intransigenza, coinvolse istituzioni che avrebbero dovuto avere ben più austera coscienza della loro dignità e indipendenza. (cap. 10, 2006, p. 182)
  • Bottai raccomandò che La difesa della razza fosse letta e chiosata nelle biblioteche universitarie, stabilì che la «coscienza razzista» fosse gradualmente formata nelle scuole, dispose la sostituzione dei libri di testo di autori ebrei, ordinò ai provveditori di escludere gli ebrei da ogni incarico o supplenza. L'intellettuale del Regime s'inchinava al fanatismo più odioso. Durante la riunione del Gran Consiglio, che durò dalle dieci di sera del 6 ottobre fin quasi alle tre di notte, Bottai, insistendo per il rigore nel discriminare, disse: «Ci odieranno perché li abbiamo cacciati. Ci disprezzeranno perché li riammetteremo». (cap. 10, 2006, p. 184)
  • La folgore delle leggi razziali provocò tra gli ebrei italiani sgomento e, in un primo momento, anche divisioni e recriminazioni. Vi furono ebrei che non capirono immediatamente quanto l'antisemitismo fascista fosse occasionale e strumentale e quanto poco fosse legato ai comportamenti della comunità che ne era colpita. Vennero impegnate polemiche tra le pubblicazioni sioniste e quelle che, ripudiando il sionismo, considerato la causa prima della persecuzione, tentavano ingenuamente di recuperare i favori del Regime. Vi fu chi esortò ad «accettare fascisticamente le persecuzioni» per dimostrare che «la saggezza del Capo aveva ancora una volta vinto».
  • La persecuzione razziale determinò, nella comunità ebraica, due fenomeni che a volte si intrecciarono in un fenomeno unico: l'emigrazione, e l'adesione alle posizioni politiche antifasciste. Alcune migliaia di ebrei, o perché già in contatto con persone residenti all'estero, o perché più facoltosi, o perché più risoluti, abbandonarono l'Italia, per trovare un rifugio e rifarsi una vita oltre Oceano. Il fisico Enrico Fermi, padre della bomba atomica, si trasferì negli Stati Uniti anche per proteggere da pericoli futuri la moglie ebrea. Come lui, altre migliaia di famiglie lasciarono l'Italia, provocando in alcuni settori professionali o scientifici vuoti difficilmente colmabili: tanto che, quando nel novembre 1940 gli aerosiluranti inglesi danneggiarono catastroficamente tre navi da battaglia alla fonda a Taranto, il governo fascista dovette ricorrere all'aiuto del generale del genio navale Pugliese, messo a riposo a causa delle leggi razziali, che per tutta ricompensa chiese il rimborso delle spese di viaggio e l'autorizzazione a indossare ancora l'uniforme. Ma la persecuzione rivelò il volto peggiore del fascismo a molti che ad esso avevano sinceramente aderito, e le file degli ebrei che militavano nella opposizione clandestina e operante all'estero si infittirono parecchio. Quelli di Terracini, di Leone Ginzburg, dei Sereni, non furono più esempi isolati.
  • Le armate del Terzo Reich erano pronte all'avanzata, e quando Henderson e l'ambasciatore francese Coulondre seppero in cosa esattamente le proposte consistessero, l'ordine definitivo alla Wehrmacht era stato già impartito, la mattina del 31 agosto. La possibilità di una soluzione pacifica era stata esclusa sia da Hitler, animato da una volontà demoniaca di azione e di conquista, sia dai polacchi, romanticamente e fatalisticamente rassegnati ad un ennesimo tragico smembramento del loro paese. Ma, condannati alla sconfitta, non volevano aggiungere ad essa l'umiliazione di patteggiamenti inutili.
  • Alle 9 di sera del 31 agosto ci fu, puntuale, l'incidente provocatorio. Al comando di un ufficiale delle SS, Alfred Naujocks, alcuni uomini penetrarono, fingendosi polacchi, nella sede della radio tedesca di Gleiwitz, trasmisero un proclama in polacco, si lasciarono dietro alcuni morti. Alle 4,45 del 1º settembre 1939 i cannoni dell'incrociatore corazzato Schleswig-Holstein aprirono il fuoco contro installazioni costiere polacche, le sbarre di confine furono alzate, i reparti tedeschi penetrarono in Polonia. Così, senza dichiarazione di guerra, la guerra era cominciata.
  • Il 10 giugno alle 17,30, mezz'ora prima che Mussolini, dal balcone di Palazzo Venezia, annunciasse l'intervento, Ciano consegnò le dichiarazioni di guerra prima a François Poncet («È un colpo di pugnale ad un uomo in terra» disse l'ambasciatore francese e aggiunse: «I tedeschi sono padroni duri, ve ne accorgerete anche voi»), quindi a Percy Loraine, che «ha accolto la comunicazione senza batter ciglio, né impallidire». Pressappoco alla stessa ora Mussolini telefonò alla Camilluccia, la residenza dei Petacci. Gli rispose Myriam, la sorella minore di Claretta, che ha rievocato l'episodio in una intervista. Mussolini le disse che «tra poco dichiarerò la guerra, sono costretto a dichiararla». «Ma sarà breve, Duce?» chiese la ragazza. «Sarà lunga. Non meno di cinque anni.» Ma forse quel pessimismo, in netto contrasto con il pronostico fatto a Badoglio, era solo scaramantico.
  • II discorso che Mussolini rivolse alla folla non merita molte citazioni. Fu un collage di pretesti («noi vogliamo spezzare le catene di ordine territoriale e militare che ci soffocano nel nostro mare», «questa è la lotta dei popoli poveri e numerosi di braccia contro gli affamatori») che nascondeva il motivo vero dell'entrata in guerra. Infatti il Duce non indugiò sulla travolgente avanzata dei tedeschi, che in Francia avevano superato la Senna, a ovest di Parigi, e stavano accerchiando la capitale, dalla quale il governo era già fuggito. «Secondo le leggi della morale fascista quando si ha un amico si marcia fino in fondo» tuonò il Duce. E infine lanciò la parola d'ordine «Vincere!»
  • Seguirono gli immancabili scambi di telegrammi, tra Hitler e il Re, tra Hitler e Mussolini, e i proclami. Quello di Vittorio Emanuele III affidava al Capo del governo, Duce del fascismo, Primo maresciallo dell'Impero, il comando delle truppe operanti; Umberto di Savoia, comandante del gruppo Armate Ovest, espresse al Duce «infaticabile artefice del destino della Patria» la promessa di «tutto osare».

Di ritorno dalle Alpi savoiarde, dove per pochi giorni si era giuocato alla guerra senza farla, e in attesa di nuova destinazione (finirono poi per mandarmi in Albania), non trovai quasi più nessuno dei vecchi amici. Il richiamo alle armi ci aveva disperso. E quando tornammo a incontrarci, il 25 luglio del '43, stentammo a riconoscerci. Le diverse esperienze avevano maturato in noi convinzioni e atteggiamenti diversi. Alcuni di coloro che il 10 giugno avevano più recisamente avversato l'intervento e predicato il dovere di sabotare la guerra dell'Asse erano ora, in un sussulto di onore nazionale, per la fedeltà al Regime e al suo alleato, e molti di essi li vedemmo poi finire a Salò. Altri, che il 10 giugno si erano pronunciati per la lealtà alla Patria, erano ora per il rovesciamento del fronte, e parecchi di essi si arruolarono nelle formazioni partigiane. Nemmeno oggi saprei dire chi, fra questi e quelli, era migliore, e chi scelse la strada più giusta. So soltanto che, in mezzo agli uni come in mezzo agli altri, ci furono dei galantuomini e dei profittatori; e che la spaccatura non si ricompose più. La solidarietà che la fronda al fascismo aveva creato tra noi si era fusa al calor bianco della guerra e della disfatta. Questa disunione aprì il varco ai fantasmi dell'antifascismo, che tornavano chi dall'esilio, chi dal confino, carichi di rancori, ben decisi a far valere i loro meriti e titoli di «antemarcia» – esattamente come avevano fatto gli ex-squadristi –, e soprattutto convinti di poter e dovere cancellare il ventennio littorio, con tutto quello che c'era dentro – che poi eravamo noi, e la nostra vita, e le nostre speranze deluse, e i nostri consunti ideali – come un secchio d'immondizie e un errore della storia. Di tutto questo, il 10 giugno non avevamo una visione precisa; ma il presentimento, sì. Roma, come tutte le altre città italiane, fu al buio, quella sera. Anche noi lo eravamo.

L'Italia della disfatta

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Vittorio Emanuele non era più il Re di Peschiera, che nell'emergenza di Caporetto, quando tutto sembrava crollargli intorno, aveva incusso rispetto anche agli alleati anglo-francesi con la sua calma e risolutezza. Era stato lui, allora, ad assumersi la responsabilità delle più gravi decisioni, come il sacrificio di Cadorna, e il suo esempio era valso molto a rianimare la volontà di resistenza e dì rivincita. Alla guerra del fascismo, ch'egli non aveva fatto nulla per evitare, aveva invece assistito come un estraneo. Anche dopo essersi lasciato strappare dal Duce la delega del Comando supremo, avrebbe avuto molti modi e pretesti per far sentire la sua presenza alle truppe combattenti. Alle notizie delle continue sconfitte che subivamo su tutti i fronti, non reagì mai con parole di dolore, o di speranza, o d'incoraggiamento. Fino alla vigilia del 25 Luglio la sua condotta fu guardinga e ambigua. Più sollecito del suo trono che dell'Italia, credette di salvarlo accollando ad altri la responsabilità di seppellire il Regime e di abbandonare l'alleato. Ma l'unica iniziativa che prese facendo arrestare il Duce all'uscita dell'ultima udienza e sulla soglia stessa della villa reale non fu un gesto da Re, come gli rinfacciò sua moglie che, per quanto figlia dì un pastore montenegrino, si dimostrò più regina, di lui. Fu l'inizio di una serqua di errori che ci discreditarono agli occhi del mondo intero più di quanto ci discreditasse la disfatta. La scelta di Badoglio fu infelice. Gli approcci con gli alleati, malaccorti al punto da renderci sospetti di doppio giuoco. La fuga di Pescara, ignominiosa. E non è vero che il Re vi fu costretto dal dovere di assicurare la continuità dello Stato e la responsabilità del comando. Stato e comando non esistevano più, e comunque potevano essere affidati al Principe Umberto. Se il Re, proclamato l'armistizio, fosse rimasto al suo posto offrendosi ai tedeschi come capro espiatorio del «tradimento», quasi certamente avrebbe perso la vita, ma quasi certamente salvato la Monarchia e in un certo senso l'immagine dell'Italia.

Citazioni

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  • La squadra italiana al comando dell'ammiraglio Inigo Campioni aveva l'8 luglio 1940 scortato a Bengasi cinque piroscafi con uomini e materiali: la componevano le navi da battaglia Giulio Cesare e Cavour, armate di pezzi da 320, 6 incrociatori pesanti (pezzi da 203), 8 incrociatori leggeri (pezzi da 152), 16 cacciatorpediniere. La uscita di questa imponente formazione era stata decisa perché, secondo segnalazioni pervenute a Supermarina, le squadre inglesi di Alessandria e di Gibilterra avevano entrambe preso il mare. Gli inglesi non avevano, in realtà, propositi d'attacco. I loro movimenti erano determinati dalla esigenza di proteggere un convoglio per evacuare da Malta le famiglie di ufficiali e di funzionari, che erano sottoposte al pericolo delle incursioni aeree – e di un eventuale tentativo di sbarco dell'Asse – e che per di più aggravavano, con la loro presenza, le necessità dei rifornimenti.
  • Una volta assolta la sua missione, Campioni fece rotta verso est, con l'intenzione di impegnare le forze inglesi che avevano lasciato Alessandria: le quali a loro volta puntarono verso la Calabria, allo scopo di sorprendere le unità italiane durante il ritorno alle basi. All'ammiraglio Cunningham le circostanze dovettero sembrare abbastanza propizie: era assai più debole nel naviglio leggero, ma le sue tre navi da battaglia – anche se due di esse vecchie e poco veloci – avevano cannoni da 381. Solo l'impiego della Littorio e della Vittorio Veneto, da 35 mila tonnellate e con pezzi del massimo calibro – pronte ma non perfettamente a punto – l'avrebbe messo in condizioni di inferiorità: ma Supermarina ne aveva vietato l'uscita, considerata prematura e rischiosa.
  • «Generale affarista», come è stato definito, Ugo Cavallero aveva indubbie doti d'ingegno. Laureato in matematica pura, traduttore dall'inglese e dal tedesco, primo alla scuola di guerra, brillante ufficiale del Comando supremo nel '15–'18, generale a trentott'anni, aveva percorso tutta la carriera nello Stato Maggiore. Era suocero di Jacomoni, e si muoveva molto bene negli ambienti non militari. Aveva per insegna l'ottimismo, e Mussolini non chiedeva di meglio, assediato com'era da generali e ministri sconfortati e rissanti. (cap. 3, 2005, p. 58)
  • Mussolini aveva promesso che con la primavera sarebbe venuto il bello – una frase cui era affezionato, l'aveva già pronunciata nel 1925, riapparendo in pubblico dopo una seria malattia – e i fatti gli diedero in qualche modo ragione, perché le truppe dell'Asse presero trionfalmente l'iniziativa in Africa Settentrionale. Ma prima che questa schiarita succedesse a un inverno di sconfitte e di delusioni, o mentre essa si sviluppava, le Forze Armate italiane dovettero aggiungere al loro già pesante bilancio negativo due altre tragedie: lo scontro navale di Gaudo e Matapan, e la perdita dell'Impero.
  • Di gran lunga più risonante e sentimentalmente dolorosa, tra le due, la seconda tragedia. Cinque anni dopo il suo ritorno «sui colli fatali di Roma», l'Impero fascista già veniva relegato tra i fascicoli d'archivio della storia. Tuttavia questa mutilazione, a guerra ancora aperta ad ogni esito – almeno così credevano Hitler e Mussolini, e con loro molti tedeschi e italiani – poteva essere temporanea, una pagina triste e isolata. Ma la nuova catastrofe in mare denunciò, una volta ancora, le condizioni di inferiorità in cui si batteva la Marina italiana, sprovvista di portaerei e pertanto di una adeguata capacità di osservazione delle forze nemiche e di protezione, dal cielo, delle proprie; e inoltre priva del radar.
  • Prima che l'Armir fosse distrutta, Mussolini pronunciò il 2 dicembre 1942, alla Camera dei fasci e delle corporazioni, l'ultimo importante discorso politico fino alla caduta: qualcuno lo definì il suo «canto del cigno». Buona parte di esso ebbe il significato di una risposta a Churchill che aveva pronunciato la famosa frase: «Un uomo, e un uomo soltanto, ha portato il popolo italiano a questo punto». In tono insieme autodifensivo e aggressivo, Mussolini disse che «questa è una guerra che io proclamo sacrosanta e dalla quale non potevamo in nessun modo esimerci». Fu vago circa gli obbiettivi territoriali e politici che «hanno perduto alquanto della loro importanza» perché «oggi sono in giuoco valori eterni, è in giuoco l'essere e il non essere». Ma il discorso fu rivelatore là dove disse agli italiani quale fosse già l'entità delle distruzioni che i bombardamenti avevano causato nelle città del nord, e quale il costo della guerra in morti e prigionieri. 2.414 case colpite a Milano, 3.230 a Torino, 1.020 a Savona, 6.121 a Genova, 1.986 morti e 3.332 feriti sotto le macerie. «Bisogna sfollare le città – ammonì il Duce – bisogna organizzare lo sfollamento definitivo o semidefinitivo.» Annuncio che, a due anni e mezzo di distanza dall'intervento italiano, suonava come una confessione clamorosa di imprevidenza. Mussolini rivelò inoltre che si erano contati tra le Forze Armate 40 mila morti, 37 mila dispersi (da considerarsi morti) 232 mila prigionieri. Un dato di raffronto era umiliante. In mano italiana erano 40 mila prigionieri dell'armata britannica dell'Africa Settentrionale.
  • [...] il piano [per l'invasione della Sicilia, in codice operazione Husky] non convinse tutti, in particolare non convinse Montgomery che puntava sistematicamente su una preponderanza enorme di forze in un settore determinato (non per nulla veniva chiamato «il Generale quindici a uno»). Ed Eisenhower, Comandante in capo e mediatore, doveva convivere sia con Alexander[5] sia con Montgomery, uomini con caratteri opposti: l'uno distaccato e snob, l'altro spigoloso, testardo, presuntuoso. (cap. 13, 2005, p. 220)
  • Nella notte tra il 9 e il 10 luglio l'armata anglo-americana, con i suoi 2.800 tra navi e mezzi da sbarco, i suoi 150 mila uomini, i suoi 600 carri armati, i suoi 1.000 cannoni, si presentò davanti alle coste siciliane. Eisenhower capeggiava, tra Algeria, Tunisia e Libia, forze equivalenti a 35 divisioni: ne utilizzò 7. Un lancio di 3.400 paracadutisti ebbe esito quasi fallimentare perché il forte vento disperse quella truppa, insufficientemente addestrata, su un territorio molto vasto. Ma le segnalazioni sulla presenza di soldati nemici, provenienti da settori diversi e lontani, determinarono un panico ingiustificato, fin dal primo momento, in comandi e capisaldi italiani che soffrivano di una cronica insufficienza di collegamenti. Per il resto l'attacco fu un completo successo, anche se le acque agitate del canale di Sicilia avevano messo in qualche difficoltà i natanti. (cap. 13, 2005, p. 221)
  • Del complotto militare [contro Mussolini] erano depositari soprattutto due uomini, Ambrosio e il suo ufficiale addetto generale Castellano. Le loro personalità si integravano. Castellano, cinquantenne, era il più giovane generale dell'esercito. Siciliano di riflessi rapidi e di scilinguagnolo sciolto, mondano, i capelli accuratamente impomatati a coprire la incipiente calvizie, svelto nell'intrigo, era l'antitesi umana del suo capo. L'«ideologia» di Ambrosio, che non pativa pruriti democratici, si fondava su due dogmi: la totale fedeltà alla monarchia e l'avversione per i tedeschi. (cap. 14, 2005, p. 230)
  • La disinvoltura, miscelata a frivolezza, con cui l'Italia fascista [all'annuncio del 25 luglio sulle "dimissioni" di Mussolini] ripudiava il fascismo testimoniava la profonda decomposizione del regime, sotto la copertura d'orbace, ma anche la superficialità e leggerezza di un Paese allergico al caso di coscienza. Non ci furono drammi, tranne uno: quello del presidente dell'agenzia di stampa Stefani, Manlio Morgagni, che si tirò un colpo di rivoltella alla tempia, dopo aver vergato queste parole: «La mia vita è finita, Viva Mussolini». Ma i capi del Partito e della Milizia che nelle loro parole d'odine tonitruanti avevano promesso di combattere e morire per il Duce, si rassegnarono subito a vivere senza il Duce. (cap. 14, 2005, pp. 257-258)
  • Le prime epurazioni [caduto il fascismo] furono, come è regola in Italia, toponomastiche e costituzionali. Vie, navi, stadi, città cambiarono nome. Vennero subito aboliti il Partito fascista, il Gran Consiglio, la Camera dei fasci e delle corporazioni, il Tribunale speciale, la tassa sul celibato, le norme spiccatamente totalitarie dei codici. Ci si dimenticò di revocare la più grossa di tutte le vergogne fasciste, le leggi razziali: oppure si preferì non farlo per non provocare la Germania. L'alleato doveva essere blandito, nelle ore in cui Hitler nella sua «tana del lupo» urlava «tradimento, tradimento». (cap. 14, 2005, p. 259)
  • [La firma dell'armistizio di Cassibile del 3 settembre 1943] Inforcati gli occhiali, Castellano sedette al tavolo, sul quale erano appoggiati due telefoni, e firmò tre copie dell'armistizio corto. Quindi Smith[6], che lo aveva osservato rimanendo in piedi, firmò a sua volta «per delega del generale Eisenhower». Erano le 17.15. Ike[7] si avvicinò, a quel punto, a Castellano, e gli strinse la mano. Fu offerto del whisky, ma non si brindò. Poi vennero ammessi il fotografo e il cineoperatore. Eisenhower, che affermò più tardi di non aver voluto sanzionare con la sua firma «quello sporco affare», uscendo dalla tenda staccò una fronda di ulivo da un albero e la sventolò in segno di pace. (cap. 17, 2005, p. 286)
  • Nella difesa di Roma erano caduti, secondo i dati ufficiali del ministero della Difesa, 171 militari e 241 civili (Zangrandi ha contestato queste cifre secondo lui minimizzatrici e ha parlato di almeno 1.000 militari e 500 civili). Il loro sacrificio fu commovente e, sul piano morale, importante. Per i tedeschi la neutralizzazione delle Forze Armate italiane si risolse in una immensa operazione di polizia, contrassegnata da episodi di insensata ferocia, come lo sterminio della divisione Acqui a Cefalonia. Per realizzarla diedero e rinnegarono più volte, con cinismo, la loro parola d'onore e la loro firma. Il 7 novembre 1943 il generale Todi, occupandosi dell'Italia in un suo rapporto sulla situazione strategica, confessò che l'8 settembre «forse per la prima volta in questa guerra non seppi cosa proporre al Führer», aggiunse che «quanto più la truppa e i comandi tedeschi furono ingannati tanto più dura fu la reazione», e diede le cifre del colossale rastrellamento: disarmate «sicuramente» 51 divisioni, «probabilmente» altre 29, prigionieri 547 mila di cui 34.744 ufficiali, un bottino di un milione 255 fucili, 38 mila mitragliatrici, 10 mila cannoni, 15.500 automezzi, 970 mezzi corazzati, 67 mila cavalli e muli, 2.867 aerei di prima linea e 1.686 di altro tipo (dato stupefacente e gonfiato), 10 torpediniere e cacciatorpediniere e 51 unità minori della Marina, vestiario per cinquecentomila uomini. «Sono state reperite – concluse il rapporto – materie prime in quantità molto superiore a quelle che ci si poteva aspettare alla luce delle incessanti richieste economiche italiane.»
  • Verso le 19,30 [Badoglio] entrò nell'auditorio O [dell'EIAR][8], dove era stato convocato lo speaker Giovan Battista Arista. Furono messe in onda marce militari e canzonette mentre avveniva la registrazione. Con voce neutra Arista presentò il maresciallo, la cui voce abbastanza ferma lesse finalmente il testo concordato: «Il governo italiano, riconosciuta l'impossibilità di continuare l'impari lotta contro la schiacciante potenza avversaria, nell'intento di risparmiare ulteriori e più gravi danni alla nazione, ha chiesto l'armistizio al generale Eisenhower... La richiesta è stata accolta. Conseguentemente ogni atto di ostilità contro le forze anglo-americane deve cessare da parte delle forze italiane in ogni luogo. Esse però reagiranno ad eventuali attacchi da qualsiasi altra provenienza».
    Erano le 19,45. L'Italia s'illuse che la guerra fosse finita. (cap. 18, 2005, p. 309)
  • [Dopo l'annuncio dell'armistizio dell'8 settembre] Ambrosio stabilì che se i tedeschi ripiegavano verso il nord conveniva non infastidirli (cosa importava delle unità del nord e di oltrefrontiera?). Con un telescritto nella notte incitò le truppe a non farsi disarmare, ma si rifiutò di dare formale esecuzione alla memoria op. 44 perché quell'ordine spettava al Capo del governo [Pietro Badoglio], che non sapeva dove trovare (era a poche decine di metri di distanza, nello stesso palazzo, e dormiva). L'ultimo ordine di Ambrosio prescrisse: «Ad atti di forza reagire con la forza». (cap. 18, 2005, pp. 311-313)
  • Jodl non menzionò i morti: non si saprà mai esattamente quanti furono. La storia di questo collasso tragico è strettamente legato agli avvenimenti del buio periodo di Salò e del Regno del Sud. Ci ripromettiamo di riparlarne nel prossimo volume. I capi politici e militari italiani non riuscirono a ingannare e a sorprendere i tedeschi, ma ingannarono, sorpresero e abbandonarono i loro soldati.

L'Italia della guerra civile

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In realtà il titolo avrebbe dovuto essere non L'Italia della, ma delle guerre civili, perché non una sola, ma molte se ne intrecciarono in quel periodo. Ci fu quella degli Alleati «liberatori» contro i Tedeschi «invasori» (ma in realtà erano invasori gli uni e gli altri, sia pure con intenzioni e metodi diversissimi). Ci fu quella del Regno del Sud contro la Repubblica Sociale del Nord; ci fu quella degli antifascisti contro i fascisti, che divise le famiglie e le coscienze; e ci fu quella degli antifascisti tra loro per il tentativo comunista di assumere l'esclusiva della lotta al fascismo facendo fuori, in nome di essa, tutti gli altri. Già questo intreccio di fili e filoni basta a togliere ogni fondamento e credibilità al giudizio sommario con cui finora si è preteso distinguere l'Italia «buona», cioè quella degli antifascisti, dall'Italia «cattiva», cioè quella dei fascisti. Quando, il 29 aprile, andai a vedere la macabra (e ripugnante) scena di piazzale Loreto, fra quei poveri corpi appesi a testa in giù, ne riconobbi due, di cui ancora oggi non so come spiegare la vicenda che li aveva condotti lì: so soltanto che non ho il diritto di giudicarla. Uno era quello di Nicola Bombacci, vecchio tribuno socialista di Romagna, prima compagno di scuola e amico di Mussolini, poi suo mortale nemico, uno dei fondatori – con Gramsci, Bordiga, Togliatti, Terracini ecc. – del partito comunista, in seguito esule prima in Russia, poi in Francia, e poi spontaneamente tornato in Italia per mettersi sotto la protezione del Duce. Non aveva esitato a seguirlo a Salò, e questo si può spiegare con l'interesse e la gratitudine. Ma non aveva esitato nemmeno ad accompagnarlo in quell'ultimo viaggio verso una morte sicura: e per spiegare questo, ci vuole qualcosa di più. L'altro era quello di un ragazzo, di cui le cronache non registrarono neppure il nome. Si chiamava Mario Nudi, era stato mio compagno di battaglione in Abissinia, e non mi ero mai accorto che avesse idee politiche. Era un bell'atleta semplice e coraggioso, un po' da western, che faceva quella guerra per piacere sportivo. Ancora mi domando cosa lo aveva condotto a Salò, e poi su quel gancio da norcini accanto a un dittatore, sul quale non aveva mai nemmeno espresso opinioni. Potrei citare infiniti altri casi di uomini che l'8 settembre fecero una scelta assolutamente imprevedibile, e molto spesso la pagarono, da una parte e dall'altra, con la vita. Ce ne furono alcuni che, da un pezzo su posizioni di fronda al regime, considerarono l'8 settembre un tradimento e si sentirono in dovere di accorrere in aiuto di un Duce vinto e ormai abbandonato da quasi tutti. Nel serraglio di Salò si trovarono poi mescolati a delinquenti e avventurieri che nella Repubblica Sociale vedevano solo un pretesto per fare razzia e bottino. Così come vidi dei fascisti di buona e sicura fede cercare nelle file della Resistenza un lavacro e un riscatto. Altri lo fecero solo per procurarsi una benemerenza che li mettesse al riparo da una probabile «epurazione» e li accreditasse presso il nuovo regime. Tutto si mescolò in quei mesi di trambusto, di umiliazione e di violenza. E noi non abbiamo la pretesa di essere riusciti a distinguere il grano dal loglio, il nero dal bianco, il bene dal male, anche perché nemmeno noi sappiamo con esattezza cosa fu il bene e cosa fu il male. Abbiamo solo la certezza di esserci posti di fronte a questa ingarbugliatissima matassa senza pregiudiziali di sorta, pur consci che, così facendo, avremmo scontentato tutti. [...] Questa Italia della guerra civile l'abbiamo scritta con la stessa amarezza con cui scrivemmo il volume precedente, L'Italia della disfatta. Né l'uno né l'altro sono stati, per il nostro Paese, capitoli gloriosi. E di questo vorremmo rendere persuasi e coscienti soprattutto i giovani che non li vissero, e ai quali si sono raccontate un mucchio di fole. Sulle quali, secondo noi, non si può costruire nulla dì valido e durevole. Naturalmente non riteniamo di avere la privativa della verità. Ma crediamo dì averla onestamente cercata e, nei limiti dei nostri modesti mezzi, servita.

Citazioni

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  • I veri padroni, i tedeschi, erano appostati nei dintorni, tranne Kesselring che aveva mantenuto il Quartier generale a Frascati. Rahn e l'ambasciata erano nella Villa Bassetti a Fasano, Wolff e i suoi accoliti a Gardone (successivamente a Desenzano), i servizi di sicurezza a Verona, il plenipotenziario militare generale Toussaint nei pressi di Verona. Rommel restò a Belluno fino a quando, in novembre, tornò in Germania, il che segnò il passaggio di tutti i poteri militari a Kesselring. Il colonnello Jandl, ufficiale di collegamento, fu addetto alla persona di Mussolini ed era, in questo incarico, il più elevato in grado. A lui dobbiamo un resoconto della routine di Mussolini, presto non molto dissimile, negli orari, da quella ch'egli seguiva a Palazzo Venezia: «Va regolarmente in ufficio alle 8,45 e riceve i visitatori fino alle 2-2,30. Fa una breve pausa di circa mezz'ora a mezzogiorno e nel pomeriggio continua a lavorare di solito fino alle 9. Spesso lavora di notte per conto proprio. Recentemente ha lavorato fino alle 6 del mattino. Capita sovente che si ritiri prima di mezzanotte, si alzi alle 4, faccia un po' di lavoro fino alle 5, e dorma ancora un po'». Una giornata intensa e insieme vuota. Il Duce riceveva, esortava, scriveva, emanava ordini, ma tutto questo mancava di risonanza e di rispondenza. Trascorreva ore oziose, a fissare il muro, o in letture vagamente filosofiche. Come gli era accaduto in tutta la vita, non aveva amici e non ne cercava. Era finito e lo sapeva. Unica vera passione e interesse, gli era rimasto il giornalismo. La sua scrittura era sempre diretta, efficace, polemica.
  • Attorno a lui brulicavano ancora passioni e interessi. Se Dolfin, prefetto e console della Milizia, era il segretario ufficiale, il figlio Vittorio istituì presto un doppione anomalo di segreteria affollata di sportivi – che erano i suoi compagnoni abituali – e di parenti; tra essi il figlio di Arnaldo, Vito, e il cognato Vanni Teodorani. Di Vittorio Mussolini il già citato diplomatico Bolla scrisse, in un suo diario, che «è uno dei più grossi beceri che esistano sulla faccia della terra» e che «ne combina di tutti i colori, in parte per virtù propria, in parte per spinta del suo seguito di atleti e pugilatori, ex compagni di palestra». (Ma delle due, l'una: o il ritrattista ha calcato la mano, o il ritrattato, con l'esperienza, maturò.) (cap. 2)
  • Era così nata la Repubblica di Salò. Ma la sua capitale – o meglio l'arcipelago delle sue capitali – non ne interpretava esattamente né la sostanza né l'anima. Anzi le anime, perché in questa estrema versione del fascismo confluirono cinque filoni fondamentali. V'erano i fanatici, mossi da una fede fascista cieca e da un odio violento per i badogliani, che cercavano più la vendetta che la rivincita ben sapendo – almeno gli intelligenti – che la rivincita era un sogno irrealizzabile. Il fanatismo divenne violenza e crudeltà anche in uomini che, come Alessandro Pavolini, avevano sensibilità e cultura. V'era in loro una sorta di ansia di distruzione e di autodistruzione, di propensione al sangue e di aspirazione all'olocausto. E strano che alla schiera degli irriducibili votati alla morte abbiano finito per aggregarsi individui che non avevano alcun motivo razionale per farlo, un ex comunista come Nicola Bombacci e un ex perseguitato come Carlo Silvestri. I fanatici credevano al fascismo rigenerato anche se soccombente, purificato prima della fine da un lavacro di sangue, dei nemici e suo. (cap. 2)
  • L'avvio della Resistenza fu ricco di episodi umanamente toccanti, ma povero di risultati. In questo periodo i tedeschi si preoccuparono molto poco delle «bande» anche se, quando esse si manifestavano, reagivano con prontezza a volte feroce. Il fenomeno partigiano era considerato uno strascico minore e non allarmante dell'8 settembre. In effetti le poche migliaia di «ribelli» non costituivano una forza militare, privi com'erano di un comando unificato, di direttive, di una strategia. I primi a dare un assetto organico alle loro formazioni furono, ed era logico, i comunisti, che già ai primi di novembre istituirono a Milano un Comando generale delle formazioni Garibaldi, con Longo, il veterano delle brigate internazionali in Spagna, comandante militare, e Pietro Secchia – un intrattabile fanatico – commissario politico. I comunisti disposero che tutte le loro organizzazioni cittadine mandassero in montagna a combattere il 10 per cento dei quadri e il 15 per cento degli iscritti. Che siano stati obbediti, è dubbio: ma che abbiano potuto fornire un numero di partigiani superiore a quello di ogni altro schieramento ideologico, è certo. (cap. 3)
  • Il 25 novembre i fascisti fecero irruzione nella grande masseria di Praticello, tra Campegine e Gattatico, vicino a Reggio Emilia, dove viveva la famiglia Cervi. Erano, i Cervi, dei fittavoli che si erano insediati nel podere dal 1934: il padre, Alcide, la madre Genoveffa Cocconi, sette figli, il maggiore di 42 il più giovane di 22 anni. Nel loro cascinale i Cervi avevano dato ospitalità dopo l'8 settembre a prigionieri e sbandati – e di questo venivano sospettati dalle autorità fasciste – ma avevano anche organizzato azioni di squadre per disarmare i presidi fascisti. Il rastrellamento del 25 novembre mirava proprio a snidare i prigionieri rifugiati a Praticello (vi furono infatti catturati un russo, due sudafricani, un francese gollista, un irlandese, e un «rinnegato» italiano). I maschi della famiglia Cervi furono tutti trasferiti nelle carceri di San Tommaso, a Reggio Emilia. Due giorni dopo Natale a Bagnolo in Piano, nelle campagne di Reggio, venne ucciso da un commando il segretario fascista Vincenzo Onfiani, e questo segnò la condanna a morte, per rappresaglia, dei sette fratelli «rei confessi di violenze e aggressioni di carattere comune e politico, di connivenza e favoreggiamento con elementi antinazionali e comunisti». Il padre non seppe della feroce strage fino a quando uscì di prigione. (cap. 5)
  • Fu incriminato un gran numero di generali e ammiragli: tra questi ultimi [...] Inigo Campioni e Luigi Mascherpa, di nient'altro responsabili che d'avere obbedito, nel Dodecanneso, agli ordini che Badoglio impartì, firmato l'armistizio. Campioni e Mascherpa erano, dal punto di vista militare, in regola, e non s'erano macchiati di viltà. Il capo d'imputazione diceva che «avendo ricevuto l'ordine del Comando supremo di non ostacolare contatti e sbarchi anglo-americani» avevano obbedito «pur essendo tale ordine palesemente criminoso». Su queste basi fu pronunciata l'iniqua condanna a morte, eseguita il 24 maggio 1944. (cap. 5)
  • L'attentato di via Rasella, e la strage delle Fosse Ardeatine che ne fu la conseguenza, posero allora alla coscienza civile, e lo pongono tuttora allo storico, il problema d'un giudizio sulla legittimità morale dell'attentato, sulla ammissibilità della rappresaglia, sulla responsabilità personale di chi volle l'attentato e di chi volle la rappresaglia. L'attacco al reparto tedesco che ogni pomeriggio, puntualmente, percorreva la via Rasella, una parallela di via Tritone in pieno centro di Roma, era stato preparato da un GAP comunista con scrupolosa cura, e con un controllo minuzioso dei tempi. L'incarico di collocare le due bombe – l'una dodici chili di tritolo, l'altra sei chili – fu affidato a Rosario Bentivegna, studente in medicina, che sarebbe stato aiutato, al momento della fuga, da Carla Capponi. Erano entrambi giovani ma sperimentati gappisti, cimentatisi in imprese contro il cinema Barberini, e contro Regina Coeli. In una via laterale si sarebbero appostati altri partigiani, tra essi Franco Calamandrei, pronti a segnalare a Bentivegna il sopraggiungere della colonna di soldati e a sparare contro i tedeschi dopo lo scoppio per accrescere il panico. Bentivegna si travestì da spazzino, pose su un carretto due bidoni con l'esplosivo, e rimase in attesa. (cap. 7)
  • Quel giorno i tedeschi erano in ritardo. Attesi per le 15, fecero udire il loro passo cadenzato solo verso le 15,30. Calamandrei si tolse il cappello (era il segnale convenuto), Bentivegna accese la miccia e si allontanò verso via Quattro Fontane dove lo aspettava Carla Capponi, che lo copri con un impermeabile. Quella che stava marciando era la lla compagnia del terzo battaglione del Polizei Regiment Bozen, territoriali altoatesini che, troppo anziani per essere mandati al fronte, erano stati destinati al servizio d'ordine in città. L'esplosione fu apocalittica, e seguita da raffiche di mitra. Il leader comunista Giorgio Amendola discuteva in quel momento con De Gasperi, in un edificio non lontano. A De Gasperi, che si domandava cosa potesse essere quella esplosione, Amendola rispose asciutto «deve essere una delle nostre» e l'altro, con un blando sorriso: «Dev'essere così. Voi una ne pensate e mille ne fate». Poi ripresero a occuparsi della crisi del CLN, con Bonomi che minacciava di dimettersi per i contrasti che lo dilaniavano.
  • Gli ordigni esplosivi fecero strage. Trentadue militari tedeschi rimasero sul terreno insieme a un bambino e a sei civili italiani, che per fatalità erano in quei pressi (il comando partigiano affermò poi che i civili erano stati vittime della sparatoria forsennata cui i tedeschi si erano abbandonati, nella prima reazione all'attentato). Il decesso d'un ferito portò poi il totale delle vittime tedesche a 33. Sopraggiunsero in breve il comandante militare di Roma generale Maeltzer, il colonnello Dollmann e il console Moellhausen. Congestionato per l'emozione, e anche perché veniva da un lungo e copioso pranzo all'Hotel Excelsior, Maeltzer urlava, gli occhi pieni di lacrime, e inveiva contro Moellhausen e la sua politica «morbida». Hitler, avvertito al suo Quartier generale (era malandato in salute, e pochi giorni prima aveva dovuto ordinare l'occupazione dell'Ungheria per timore di un «tradimento all'italiana» dell'ammiraglio Horthy), dispose che fosse raso al suolo un intero quartiere, e che venissero passati per le armi cinquanta italiani per ogni morto tedesco. Kesselring, in ispezione al fronte, era introvabile, ma quando tornò ritenne eccessiva la misura della rappresaglia. Vi fu una sorta di patteggiamento tra Kappler – il maggiore delle SS cui sarebbe toccato il compito di trovare gli ostaggi da sacrificare – Kesselring e il Quartier generale del Führer, e la proporzione di dieci a uno fu accettata, e ritenuta da Kesselring equa, tanto che alle 7 del giorno successivo ripartì per il fronte. Dollmann a sua volta andò a visitare padre Pfeiffer, che aveva accesso al Papa e lo pregò di intervenire perché si preparava qualcosa di grave. Dal Vaticano fu fatta una telefonata all'ambasciata tedesca, per sapere se fossero in vista esecuzioni, e la risposta fu evasiva. La Santa Sede stava portando a conclusione la trattativa con i tedeschi per la proclamazione di Roma città aperta, e non aveva interesse a rompere i ponti.
  • Anche includendo tutti gli ebrei disponibili, all'alba Kappler aveva non più di 223 nomi (su quattro soltanto era già stata pronunciata una condanna a morte). Chiese aiuto al questore Caruso e a Koch, che interpellarono Buffarini Guidi, ministro dell'Interno di Salò, casualmente a Roma e alloggiato nell'Hotel Excelsior. Il ministro, svegliato di soprassalto e ansante, assentì. «Sì sì dateglieli sennò chissà cosa potrebbe succedere.» Ma anche con l'aiuto di Caruso la lista rimaneva incompleta, e così ci si rivolse a Celeste di Porto perché procurasse altri ebrei. L'orribile «pieno» fu così raggiunto (anzi, come si vide poi, risultò sovrabbondante).
  • Cinque alla volta, i prigionieri tratti da via Tasso e da Regina Coeli – molti convinti che li si stesse avviando al lavoro forzato in Germania – furono fatti entrare e finiti con colpi alla nuca. Gli ufficiali erano tenuti a dare il buon esempio sparando anch'essi, e Kappler rincuorò i carnefici, alcuni dei quali assaliti da nausea e disgusto, facendo fuoco personalmente e distribuendo cognac in abbondanza. Alle otto di sera – 24 marzo – tutto era finito. 335 corpi – 5 in più di quelli che la proporzione di dieci a uno avrebbe sia pure crudelmente legittimato – erano accatastati nelle cave. Caddero alle Fosse Ardeatine, con un gran numero di ebrei, alcune tra le più luminose figure della Resistenza: il colonnello Montezemolo, il generale Simoni, il generale Fenulli già vice comandante della divisione Ariete, i comunisti Valerio Fiorentini e Gioacchino Gesmundo, gli azionisti Armando Bussi e Pilo Albertelli, il colonnello dei carabinieri Frignani, alcuni giovanissimi, quasi adolescenti. Il 25 marzo i quotidiani pubblicarono un comunicato che parlava della «vile imboscata» ordita da «comunisti badogliani» e annunciava la rappresaglia, «già eseguita». Quando si seppe cos'era avvenuto Carla Capponi provò secondo quanto essa stessa ha detto «un'angoscia, una disperazione terribile» e Bentivegna fu assalito «da ira dolore sdegno per la vigliaccheria di una rappresaglia simile». Capi ed esecutori materiali già capivano che l'immane tragedia non sarebbe stata addebitata ai soli tedeschi, e Amendola scrisse, in tono di autogiustificazione: «Noi partigiani combattenti avevamo il dovere di non presentarci, anche se il nostro sacrificio avesse potuto impedire la morte di tanti innocenti... Avevamo solo un dovere: continuare la lotta». Ma L'Osservatore Romano, pur nel suo linguaggio circospetto, ricordò le oltre trecento «persone sacrificate per i colpevoli sfuggiti all'arresto». Il che non piacque né ai tedeschi né ai gappisti.
  • Due fatti sono certi: il primo è che non vi fu alcun invito delle autorità tedesche perché gli autori materiali dell'attentato si costituissero. La ritorsione terribile fu ordinata a tambur battente, e attuata in segreto. Il secondo è che i gappisti non potevano pensare che la strage, progettata ed eseguita mentre si negoziava per proclamare Roma città aperta, e rivolta contro un reparto non impegnato nei combattimenti, restasse senza conseguenze per gli sventurati, ebrei e non ebrei, che erano in mani naziste e fasciste. Sul piano militare, l'azione avrebbe potuto avere un significato, sia pure simbolico – era chiaro che Roma sarebbe stata liberata entro breve termine – solo se si fosse collegata a una insurrezione cittadina. Roma non prese le armi, né allora né quando le truppe alleate furono a distanza di pochi chilometri. Le divisioni di Kesselring poterono ripiegare in ordine. I morti delle Ardeatine erano stati sacrificati alla ragione politica, al proposito di dimostrare, per fini appunto politici, che i tedeschi se ne andavano non soltanto perché incalzati dagli anglo-americani, ma perché scacciati dalla popolazione. Questo scopo fallì. In un libro (Achtung Banditeti!) pubblicato di recente Bentivegna ha rivendicato la legittimità, anche morale, dell'attentato, aggiungendo: «È probabile che di fronte alla sconvolgente minaccia di quel delitto (la rappresaglia, N.d.A.) qualcuno di noi, o forse tutti, avremmo preferito morire al posto dei martiri delle Ardeatine. È veramente diffìcile dire dopo se ci saremmo spontaneamente presentati ove ce ne fosse stata offerta prima l'opportunità».
  • Il separatismo siciliano s'era fatto vivo non appena gli Alleati avevano messo piede nell'isola, rivendicando in qualche modo la primogenitura del disfattismo e del tradimento. Confluivano nel movimento indipendentista siciliano (Mis), che aveva una sua organizzazione militare clandestina (Evis), varie componenti: baroni nostalgici e ansiosi di impossibili restaurazioni, contadini che in una Sicilia sganciata dall'Italia e protetta dagli Alleati speravano di conquistare la proprietà della terra su cui lavoravano, affaristi attirati dal miraggio di buoni commerci con gli Stati Uniti, mafiosi che nello stretto collegamento politico con l'America vedevano schiudersi ampie prospettive per traffici leciti o illeciti.
  • Leader del Mis era Andrea Finocchiaro Aprile, un avvocato e professore d'università che veniva da una famiglia di notabili e nell'epoca prefascista era stato deputato, e sottosegretario nel 1919 con Nitti. Convertitosi all'indipendentismo, ne difendeva e diffondeva le tesi con virulento slancio. Gli argomenti degli indipendentisti – un loro movimento si formò anche in Sardegna, ma con minore presa popolare e ancora più fragili giustificazioni storiche – si rifacevano al «sopruso» piemontese, e alla politica di dominio, e di smantellamento delle iniziative isolane, che il Regno unitario aveva praticato. Finocchiaro Aprile coinvolgeva nelle sue accuse non solo i Savoia ma anche i Borboni, rivendicando alla Sicilia una perenne insofferenza sia verso Napoli, sia verso Torino, sia verso Roma.
  • Il bolognese Leandro Arpinati, squadrista e manganellatore in gioventù, ma nemico giurato di Starace e oppositore interno di Mussolini – che aveva invano tentato di recuperarlo per la Repubblica di Salò – fu prestamente abbattuto da partigiani penetrati nella sua cascina emiliana. Buffarini Guidi venne trascinato alla fucilazione, il 10 luglio, dopo un giudizio un poco più regolare: aveva ingoiato un veleno, per evitare l'esecuzione, e fu collocato di peso sulla sedia dove la scarica lo finì. (Capitolo undicesimo. Macelleria messicana, p. 337)
  • Il 10 dicembre il primo governo De Gasperi giurò nelle mani di Umberto di Savoia. Il leader democristiano tenne per sé anche gli Esteri, Nenni ebbe la vicepresidenza e il Ministero per la Costituente, Togliatti e Scoccimarro furono confermati alla Giustizia e alle Finanze, Corbino ebbe il Tesoro, Romita gli Interni, Manlio Brosio la Guerra, La Malfa la Ricostruzione, Scelba le Poste e Telecomunicazioni, Riccardo Lombardi i Trasporti, Mole la Pubblica Istruzione, Gronchi l'Industria e commercio, congeniali alla sua personalità, Cattani i Lavori Pubblici. L'impronta ciellenistica restava solennemente confermata, l'esigenza di maggiore competenza affacciata dai liberali disattesa.
  • Poteva sembrare che non fosse cambiato molto, nel passaggio da Parri a De Gasperi: ed era invece avvenuto un giro di boa in qualche modo più decisivo di quello, imminente, tra Monarchia e Repubblica. L'Italia si lasciava alle spalle – senza avvedersene – non solo le recenti smanie resistenziali (o almeno i loro contenuti rivoluzionari), ma anche la tradizione risorgimentale. Si affermava, al vertice del paese, un politico fuori dagli schemi. Non un prefascista, non un tipico esponente dell'antifascismo combattivo ed esule, non infine un esponente delle generazioni nuove, cariche di humus fascista e di intransigenza antifascista: ma un cattolico trentino «prestato all'Italia» che affondava le sue radici in tutt'altro contesto storico-politico e in un'altra cultura. A sessantadue anni, De Gasperi era per l'Italia un uomo nuovo.
  • Impegnato in questa convulsa fase politica e assillato dai problemi economici, tra gli altri la minaccia della carestia – a fine aprile s'era presentata la necessità di ridurre a 150 grammi la razione di pane – De Gasperi partì il 2 maggio per Parigi, dove si sarebbe svolta una seconda tornata delle riunioni dei ministri degli Esteri, sui trattati di pace.

«Re Umberto è fermo sulla riva e osserva l'imbarco degli Augusti Genitori. Alle 19,40 l'incrociatore leva l'ancora e si muove lentamente. Inizia il viaggio che porta il Re verso l'esilio. Non si sente una voce. Si sente soltanto il silenzio». Non sappiamo cosa pensasse e provasse Umberto in quel momento. Se nell'addio c'era stato fra i due qualche abbandono alla commozione, questo era avvenuto nell'incontro di qualche ora prima, che si era svolto senza testimoni. Ma ne dubitiamo. Gli abbandoni non erano contemplati nel galateo dei Savoia, di cui padre e figlio – l'uno forse per cinismo, l'altro per disciplina – furono sempre scrupolosi osservanti. Ma da quanto, nel rifugio di Cascais, Umberto confidò a uno degli autori di questo libro, egli comprese benissimo che su quella nave si allontanava per sempre non un Re, ma la Monarchia. Quello ch'egli si accingeva a vivere non era che un poscritto. Doveva durare in tutto 23 giorni.

L'Italia della Repubblica

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Questo volume, che va dal referendum istituzionale del giugno '46 alle elezioni del 18 aprile '48, avremmo anche potuto intitolarlo «L'Italia delle scelte» perché fu in questo triennio che il nostro Paese fece quelle fondamentali: instaurò la Repubblica al posto della Monarchia, e si schierò nel campo delle Democrazie occidentali. Si dirà che questa seconda scelta non la facemmo noi; l'avevano già fatta, per noi, gli accordi di Yalta, dove gli anglo-americani e i russi si erano spartiti l'Europa, e più ancora l'avevano fatta gli eserciti che la occupavano. Ma questo è vero solo per quanto riguarda i Paesi dell'Est, piantonati dall'Armata Rossa, che non consentì loro di esprimere la propria volontà. L'Italia, come tutte le altre nazioni liberate dagli anglo-americani, avrebbe potuto decidere il proprio destino contro i loro interessi. Le truppe che ci occupavano non sarebbero mai intervenute per impedircelo: su questo punto i governi di Washington e di Londra furono sempre espliciti: pronti a dare manforte alla nostra democrazia se fosse stata aggredita con mezzi illegali e violenti, ma anche ad abbandonarla alla sua sorte, se con mezzi democratici, cioè con libere elezioni, avesse deciso dì seguirne un'altra.

Citazioni

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  • Romita era un ingegnere sulla sessantina. Tortonese di nascita, si era formato, come militante socialista, a Torino. Il padre, «capomastro», era stato fervente monarchico e galoppino elettorale di deputati conservatori. Molto piccolo di statura, con una faccia brutta e simpatica da gnomo, Romita aveva modi bonariamente bruschi. I giornalisti che lo interrogavano sapevano che, se la domanda era appena impertinente, avrebbero avuto per risposta un ceffone semipaterno o un pugno. (cap. I, Il Re di maggio, p. 21)
  • Bollata dalla stampa comunista come reazionaria e bellicista, assimilata all'imperialismo tedesco, la «dottrina Truman» era la risposta occidentale alla dottrina Stalin nell'Europa dell'Est. (cap. V, La svolta, p. 140)
  • La Costituzione passò con 453 voti a favore e solo 62 contrari, di destra: una maggioranza cui anche quarant'anni dopo, ad esempio per l'elezione del Presidente Cossiga, sarebbe stato dato il nome – improprio, anzi truffaldino – di «arco costituzionale». La nuova struttura del governo ampliò e consolidò invece il blocco anticomunista, mentre prendeva definitivamente forma il Fronte popolare di Togliatti e Nenni: e insieme delineò la formula di maggioranza politica sulla quale la democrazia italiana si sarebbe retta, sia pure con tentennamenti e lacerazioni, nei decenni successivi. (cap. VIII, La Costituzione, pp. 192-193)
  • Luigi Gedda, uno studioso che era stato allievo del famoso endocrinologo Pende, e che si era specializzato in ricerche sui gemelli, era l'esponente di un integralismo cattolico esasperato. [...]. Era ambizioso, e probabilmente riteneva che le sue qualità meritassero più alti riconoscimenti: ne faceva fede una lettera – rimasta senza risposta – che indirizzò a Badoglio, dopo il 25 luglio 1943. (cap. IX, La vigilia, p. 212)
  • Quest'uomo [Luigi Gedda] impastato di fede e di arrivismo era [...] riuscito a radunare in piazza San Pietro, davanti al Papa, nel settembre del 1947, settantamila «baschi blu» (il colore, spiegò, gli era stato ispirato dal gran mazzo di fiordalisi offerto alla Madonna di Lourdes, durante un pellegrinaggio) e in altre occasioni masse imponenti di baschi verdi, creati poco dopo. Pio XII fu conquistato dalla sua sicurezza e dalla sua fermezza. De Gasperi ne era più impensierito che affascinato. (cap. IX, La vigilia, p. 213)
  • La Magna Charta della Repubblica italiana fu concepita sotto l'ossessione di un ritorno alla dittatura, ossessione che ne condizionò e spesso viziò gli istituti: e venne tenuta a battesimo, nella sostanza, da due forze politiche – la cattolica e la marxista – che erano state estranee al Risorgimento, quando non ostili, e che erano per tradizione, e per i personali convincimenti di alcuni loro uomini, scarsamente sensibili ai grandi ideali liberali. Tortuosa e farraginosa fu inoltre la procedura attraverso la quale si arrivò alla formulazione di questa legge fondamentale. Dai 600 costituenti fu espressa una commissione più ristretta, detta dei Settantacinque, che a sua volta si divise in sotto-commissioni per la redazione di questa o quella parte, di questo o quell'articolo. I testi che dai gruppi settoriali risalivano ai Settantacinque, e dai Settantacinque all'assemblea plenaria, erano sganciati l'uno dall'altro e scaturivano a volte da ispirazioni diverse. Con la conseguenza, rilevata da Piero Calamandrei, che «quando si arriverà a montare questi pezzi usciti da diverse officine potrà accadere che ci si accorga che gli ingranaggi non combaciano e che le giunture del motore non coincidono: e potrà occorrere qualche ritocco per metterlo in moto». La Costituzione ebbe una impronta unitaria, e omogenea, proprio in quella che si rivelerà una delle sue caratteristiche più negative: la voluta debolezza del potere esecutivo, cioè del governo, nel nome di un parlamentarismo esasperato che il tempo trasformerà in partitocrazia e lottizzazione.
  • Nessuno dei freni che in altri paesi già esistevano o furono adottati per scongiurare l'instabilità dei governi – e in definitiva del sistema – e la frammentazione del quadro politico fu accolto dai costituenti. Niente collegio uninominale, niente soglia del cinque per cento (come nella Germania federale) per l'ammissione di un partito in Parlamento, niente premio di maggioranza (nel '53 De Gasperi tenterà di introdurlo con quella che sarà malignamente bollata come la «legge truffa», e sarà battuto), niente obbligo di presentare una maggioranza di ricambio già pronta prima di far cadere la maggioranza sulla quale si regge il governo. Tutto il potere al Parlamento, non soltanto l'esame delle leggi importanti ma anche quello delle famigerate «leggine», una giungla nella quale il lavoro di deputati e senatori dovrà aprirsi il varco con stento, e in tempi lunghi. Il sistema bicamerale, sicuramente utile per correggere taluni errori d'una Camera, finiva per diventare, in quel trionfo della lentezza, un ulteriore motivo di ritardo all'iter dei disegni di legge.
  • Nel documento erano contenuti, in nuce, la girandola dei governi, la perennità delle crisi, l'esigenza che il Presidente del Consiglio e i suoi ministri s'impegnino quotidianamente più a sopravvivere che ad amministrare. Paradossalmente, la Dc e il Pci, l'una e l'altro per niente tranquilli sull'esito delle elezioni politiche prossime venture, erano in egual misura interessati a castrare l'esecutivo. Il Pci perché una democrazia debole è una democrazia facilmente infiltrabile e rovesciabile, la Dc perché un Fronte popolare trionfante avrebbe trovato, proprio in quella Costituzione, più d'una remora all'instaurazione d'un potere autoritario. Da qui certi aspetti equivoci della Costituzione, di cui Mario Paggi scrisse che era «un fragile tessuto fatto di non armoniose giustapposizioni cattoliche da un lato e marxiste dall'altro, con qualche malinconico residuo di un liberalismo che ha persino pudore della parola libertà». Da questo ibrido, o da questa confusione, derivò un certo tono messianico e verboso della Costituzione (la stessa solenne affermazione secondo la quale la Repubblica italiana è fondata sul lavoro appartiene più alla retorica politica che alla legislazione).
  • La smania di regolare tutto, con minuzia notarile e insieme con velleità innovatrici, diede all'Italia una Costituzione prolissa e lacunosa insieme. In realtà quel documento che ambiva a guidare la vita della nuova Repubblica per chissà quanti decenni futuri era lo specchio della situazione e del momento politico in cui fu formulato. Non che manchino, in esso, parti degne di sopravvivere. La Costituente aveva nel suo seno ingegni politici e giuridici quali forse l'Italia non ritrovò più nelle fasi successive della sua storia. Ma anche i migliori vollero impedire il ritorno del passato e porre le basi di un radioso futuro sociale – c'era in questo l'ideologia, seppure temperata, della Resistenza – trascurando l'opportunità loro offerta di formulare una Charta chiara, semplice e non soggetta – come la Charta che concepirono – a letture diverse, a volte opposte: tanto che la Corte Costituzionale ha dato, degli stessi articoli, interpretazioni varianti secondo i tempi e le occasioni.
  • L'ibrido ambiguo e il messianesimo verboso della Costituzione furono lo specchio di quell'«arco costituzionale» che la concepì: e che pretese di armonizzare gli opposti. Per questo la Costituzione non è soltanto vecchia. È invecchiata male.
  • I dirigenti democristiani del tempo tendono a ridimensionare, se non a minimizzare, l'apporto dei Comitati Civici, rilevando, come Gonella, che «la nostra forza veniva dalle parrocchie... e anche senza l'intervento di Gedda questo appoggio non ci sarebbe certamente venuto a mancare». Andreotti ha riconosciuto ai Comitati Civici un contributo prezioso nel «portare la gente a votare», insegnare ai meno colti dove bisognava mettere la croce, coniare slogans efficaci come «coniglio chi non vota», in riassunto «scuotere gli strati più assonnati della popolazione». Le sinistre, e i radical-chic che hanno in odio il 18 aprile inisistono sui risvolti superstiziosi e pittoreschi di quella mobilitazione e ricordano «le Madonne che piangevano e muovevano gli occhi». Ma c'era ben altro. C'era anzitutto il netto miglioramento della situazione economica, dovuto insieme alla politica di risanamento einaudiana e al consistente appoggio americano. Ormai la crescita dei salari aveva sopravanzato quella del costo della vita (rispetto al 1939 il rapporto nella primavera del 1948 era di 1 a 49 per il costo della vita, 1 a 51 per i salari). Non mancavano gli elementi negativi, come la crescita dei disoccupati di mezzo milione d'unità, ma la gente avvertiva che l'Italia stava economicamente risorgendo. E avvertiva inoltre che questo slancio avrebbe perso ogni vigore qualora l'Italia avesse votato per il Fronte.
  • I risultati definitivi diedero la misura della vittoria democristiana e della sconfìtta socialcomunista. Al partito di De Gasperi era andato il 48,5 per cento, contro il 35,2 del voto per la Costituente; al Fronte il 31 per cento contro il 39,7 di due anni prima. I socialdemocratici (7,1 per cento) avevano ottenuto, in condizioni diffìcili, un'affermazione notevole. Tutte perdenti le altre formazioni. Quasi dimezzati i repubblicani (dal 4,4 al 2,5 per cento), sostanzialmente distrutta la coalizione liberal-qualunquista. L'Unione democratica (ossia il partito liberale con la benedizione dei «grandi vecchi» del prefascismo) aveva conquistato il 2 giugno il 6,8 per cento dei suffragi, l'Uomo Qualunque il 5,3: totale 12,1. Questa volta dovettero accontentarsi, insieme, del 3,8 per cento. La Dc aveva assunto a pieno titolo la rappresentanza politica dei moderati, decretando il declino liberale e la rapida marcia verso l'estinzione del qualunquismo.
  • La Camera (574 deputati) risultò composta da trecento democristiani, centoventisei comunisti, cinquantatré socialisti, trentacinque socialdemocratici, tredici liberal-qualunquisti, tredici monarchici, dieci repubblicani storici, ventitré del gruppo misto (tra essi cinque missini). Non ci fossero stati i senatori di diritto (politici prefascisti e antifascisti) la Dc avrebbe conseguito la maggioranza assoluta anche in Senato dove si contarono, su 334 senatori, centoquarantanove democristiani, sessantasei comunisti, trentanove socialisti, ventuno socialdemocratici, undici liberal-qualunquisti, nove repubblicani storici, otto democratici di sinistra, trentuno del gruppo misto. Anche per le preferenze De Gasperi stravinse: a Roma ne ebbe 285 mila contro le 97 mila di Togliatti e le 57 mila di Nenni.
  • Tramontato Sforza, l'alternativa era Einaudi, il cui nome sarebbe stato presentato ai gruppi parlamentari della Dc alle otto del mattino successivo (11 maggio) prima del terzo scrutinio. De Gasperi delegò seduta stante Andreotti a comunicare a Einaudi la proposta democristiana. Il vicepresidente del Consiglio viveva ancora nella residenza che gli era stata assegnata come governatore della Banca d'Italia, in via Tuscolana. Ricevette l'ambasciatore di De Gasperi alle sei e mezzo, con le prime luci del giorno: si disse lieto d'accettare anche se confessò che la sua zoppia gli causava qualche perplessità. Temeva gli mancasse «la prestanza necessaria nelle pubbliche cerimonie, e particolarmente nelle riviste militari». «Sono claudicante e in piedi ho bisogno di appoggiarmi al bastone con la mano destra. La sinistra sarà occupata a tenere il cappello. Come farò a salutare bandiere e a stringere la mano a generali e ammiragli?». Rassicurato, riaffermò la sua disponibilità. Einaudi, marito modello, non trovò obbiettori tra i deputati e senatori della DC. Con una delle sue caratteristiche mosse, Togliatti avrebbe voluto, alla terza votazione, far convergere su Einaudi anche i voti delle sinistre, consentendone la nomina al terzo scrutinio.
  • In extremis le sinistre estrassero dalla manica il nome di V.E. Orlando, sperando di dividere la maggioranza. Ma al quarto scrutinio Einaudi uscì senza problemi, cinquecentodiciotto voti contro trecentoventi a V.E. Orlando.
  • L'indomani, a Montecitorio, Einaudi giurò e lesse il messaggio d'insediamento nel quale ricordò di aver votato per la Monarchia nel Referendum del 2 giugno 1946, «una opinione radicata nella tradizione e nei sentimenti», ma s'impegnò a dare «al nuovo regime voulto dal popolo qualcosa di più di una mera adesione». I parlamentari monarchici, che avevano atteso l'arrivo di Einaudi inchinandoglisi, se ne uscirono «compostamente zitti ed in punta di piedi dalla porta di destra» (Gorresio) mentre egli giurava. La Repubblica italiana aveva la sua Costituzione, il suo primo vero Parlamento, il suo primo vero Presidente: aveva soprattutto un protagonista, Alcide De Gasperi.

Nel Nord occupato dai tedeschi, la strafe, il castigo, annunziato da Hitler dopo l'8 settembre, era stato attutito dalla Repubblica di Salò (questo è un merito che non le si può contestare), e nel Sud gli Alleati erano sbarcati senza intenzioni punitive. Ma la grande illusione, covata dalla maggioranza della popolazione, che l'Italia potesse trasferirsi e inserirsi nel campo dei vincitori senza pagare dazio, come se i tre anni di guerra combattuta, sia pure di malavoglia, a fianco dei tedeschi, potessero essere cancellati con un colpo di spugna, fece presto a cadere lasciandosi dietro una scia di amarezze e di rancori, che non rimasero senza conseguenze sulla ripresa politica. Pochi italiani si rendevano conto che quello fattoci dai vincitori era un trattamento di favore, e che per esempio la perdita delle colonie, dolorosa per i connazionali che vi si erano trasferiti, ci liberava da un problema che altrimenti avrebbe avvelenato tutta la nostra vita politica, come l'Indocina e l'Algeria avvelenarono in seguito quella francese. L'unica vera e grave amputazione fu quella delle terre dàlmate e giuliane, che ci costò la perdita di città e popolazioni fra le più civili e le più italiane. Ma era impossibile evitarla, visto il contributo di sangue che gli iugoslavi avevano dato alla resistenza antitedesca. Era già un mezzo miracolo che gli Alleati ci aiutassero a salvare Trieste e Gorizia.

L'Italia del miracolo

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Questo libro avrebbe dovuto chiamarsi «L'Italia di De Gasperi», e in realtà lo è. Ma l'editore suggerì che questo titolo non avrebbe facilitato le vendite, e noi abbiamo avuto la debolezza d'inchinarci a queste ragioni commerciali e di accettare «L'Italia del miracolo», titolo certamente più attraente, ma non altrettanto pertinente almeno dal punto di vista cronologico. Il «miracolo» infatti venne dopo l'episodio conclusivo del libro: la morte dello statista trentino, nel '54. Se non come scusante, almeno come attenuante, noi possiamo tuttavia addurre il fatto che, anche se sbocciò più tardi, il miracolo ebbe le sue premesse in questo periodo, che vide il definitivo inserimento dell'Italia, nella famiglia delle democrazie occidentali, e non solo come vincolo di politica estera col Patto atlantico e la Comunità europea, ma anche come accettazione delle regole del giuoco economico. Se non ci fossero state, grazie soprattutto a De Gasperi, queste decisive scelte contro le resistenze sia della sinistra comunista che si batté all'ultimo sangue contro di esse al servizio dell'Urss, sia della destra nazionalista, nostalgica e rancorosa verso gli ex nemici, nessun miracolo sarebbe stato possibile. De Gasperi non fece in tempo a vederlo. Ma ce lo lasciò in eredità. [...] In questi anni il Paese subisce infatti un'autentica rivoluzione con l'apertura delle sue frontiere, l'accettazione delle regole del mercato internazionale e le tumultuose migrazioni interne dalla campagna alla città e dal Sud al Nord. Le premesse di tutto questo erano state poste da De Gasperi e dalla sua «squadra»: gli Einaudi, gli Sforza, i La Malfa, i Merzagora, i Menichella con le misure di liberalizzazione avversate sia dai comunisti che dalla parte più retriva dell'imprenditoria nazionale avvezza da sempre ai pannicelli caldi dell'autarchia. Ma, scomparso De Gasperi, tutto questo prese a svolgersi al di fuori di una classe politica sempre più chiusa nella, sua cittadella, e quindi sempre più estranea al Paese. Sicché, mentre la vita italiana si sviluppava – sia pure nel più totale disordine e con drammatici scompensi – nel campo economico, sociale, culturale eccetera, quella politica si sclerotizzava riducendosi a un giuoco di potere fra partiti, «correnti» e clans e dando inizio a quel deleterio fenomeno che si chiama «partitocrazia», e che oggi è arrivato alla sua fase di putrescenza.

Citazioni

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  • Dapprima fu stabilito – 30 marzo 1948 – che il personale occidentale diretto a Berlino attraverso la zona d'occupazione sovietica della Germania, dovesse presentare documenti d'identità; poiché i trasporti fossero ammessi a transitare per i posti di blocco solo se disponevano d'un permesso dell'Armata Rossa; infine – 24 giugno – fu annunciato che era stata interrotta la circolazione dei passeggeri e delle merci sulla linea Berlino-Helmstedt, l'unica che fosse rimasta aperta. Gli anglo-americani decisero di rifornire i settori occidentali dell'ex capitale per via aerea: impegnandosi così a scaricare nella città suppergiù 3.500 tonnellate di merci al giorno. Solo il 5 maggio del 1949 il blocco, che segnò uno dei momenti più drammatici e acuti della tensione tra sovietici e «occidentali», ebbe termine. (pp. 12-13)
  • Quel 14 luglio 1948 era una giornata afosa. La Camera dei deputati si dedicava, piuttosto distrattamente, alla discussione di provvedimenti che non gremivano né accendevano l'emiciclo. Secondo Massimo Caprara, che era allora segretario di Togliatti, e che ha scritto, sull'attentato, un libro ricco di informazioni preziose e di vividi ricordi personali – anche se influenzato, e non poteva essere altrimenti, dal legame umano e politico con Togliatti – ci si occupava di contratti sul fitto dei fondi rustici e di vendite delle erbe per il pascolo: era presente, per il governo, il ministro dell'Agricoltura Antonio Segni. (p. 18)
  • Quel giorno, insieme a Nilde Iotti, Togliatti aveva lasciato Montecitorio dalla porta secondaria di via della Missione, anziché dal portone principale, con l'intenzione appunto di prendersi in pace un gelato da Giolitti, in via Uffici del Vicario. L'aveva detto a Ugo La Malfa, incrociandolo, e La Malfa aveva ribattuto che lui invece andava a Mosca per trattare la questione delle riparazioni di guerra. «Hai il billet de confession dell'ambasciatore americano?» scherzò un po' pesantemente Togliatti. Quindi sboccò in via della Missione.
  • In quel momento un giovane magro e bruno esplose contro di lui, da brevissima distanza, quattro colpi di pistola. Tre arrivarono a segno. Ha raccontato Caprara: «Colpito alla nuca e al torace, Togliatti cadde senza un grido, in ginocchio: prima si appoggiò al cofano dell'auto, una 1100 nera dell'onorevole Randolfo Pacciardi, ministro della Difesa, poi, raggiunto da un proiettile accanto al cuore, scivolò all'indietro, gli occhi sbarrati. L'urlo di Nilde Iotti che si chinò con le mani tese, sporcandole vistosamente di sangue, chiamando per nome Togliatti, fece accorrere i due carabinieri di servizio, altri poliziotti, alcuni giornalisti e deputati. Più giù, all'angolo dei magazzini Zincone, lo sparatore consegna la pistola scarica, una Smith and Wesson, a un ufficiale di polizia in borghese che lo sospinge alle spalle». Il ferito fu trasportato in auto ambulanza al Policlinico dove il professor Valdoni stava operando, e fu subito introdotto in camera operatoria. (p. 21)
  • Figlio di un ex milite forestale, Pallante aveva ultimato gli studi medi superiori e si era iscritto al primo anno della facoltà di legge. Dopo di allora aveva fatto credere alla famiglia che la sua frequentazione universitaria fosse regolare: invece covava torbide ideologie e ambizioni politiche, degenerate in fanatismo. Le ultime 3.500 lire inviategli dalla famiglia per il pagamento delle tasse universitarie erano state destinate all'acquisto della vecchia pistola con cui sparò a Togliatti. (p. 28)
  • Si dice che Valdoni gli avesse fatto recapitare una parcella molto salata per le sue prestazioni. Quando la ricevette, Togliatti accompagnò il pagamento con queste parole: «Eccole il saldo, ma è denaro rubato». Valdoni rispose: «Grazie per l'assegno. La provenienza non mi interessa».
  • Walter Audisio, l'uomo cui è stata ufficialmente accreditata dal pci l'«esecuzione» di Benito Mussolini e di Claretta Petacci, indicò in De Gasperi l'istigatore dell'assassinio di Togliatti così come Mussolini lo era stato di quello di Matteotti. Nel tumulto che ne seguì De Gasperi seppe rispondere che il confronto «ripugna a me, aventiniano convinto, come non tutti voi che m'insultate».
  • Il 18 marzo 1949, dopo una seduta durata ininterrottamente tre giorni e tre notti – l'orologio di Montecitorio era stato fermato, per una finzione procedurale più volte usata prima e dopo d'allora – l'adesione al Patto atlantico fu approvata con 342 sì, 170 no e 19 astensioni. Tra gli astenuti 11 socialdemocratici, compresi il citato Mondolfo, Matteo Matteotti, Zagari, Vigorelli; 6 missini (tra essi Almirante e Michelini); il sindacalista democristiano Rapelli. Il sottosegretario agli Esteri Moro era assente: cinque giorni dopo, in sede di proceso verbale, dichiarò che era stato costretto a disertare la seduta per ragioni di famiglia, ma che, se presente, si sarebbe associato al voto della maggioranza. In Senato alle astensioni di alcuni socialdemocratici e del missino Franza si aggiunsero quelle dei notabili prefascisti Vittorio Emanuele Orlando, Francesco Saverio Nitti e Alberto Bergamini.
  • L'Eni divenne realtà nel 1953, Enrico Mattei ne fu presidente. Della creazione di posti di lavoro egli aveva un concetto molto peculiare. In cima alla lista di coloro che potevano essere assunti stavano i raccomandati della madre, poi i nati a Matelica o dintorni, quindi gli ex-partigiani cattolici o gli amici di partito. Oltre che da questo clientelismo e campanilismo ruggente Mattei – non sarebbe stato Mattei, altrimenti – si faceva guidare anche da scelte indovinate, da intuizioni che parevano bizzarre ed erano spesso azzeccate, da simpatie folgoranti come le sue antipatie. Il rottame Agip, comunque, era diventato il colosso Eni: e l'Eni portava l'impronta di un uomo, Enrico Mattei.
  • [...] Vanoni, che elaborerà la famosa riforma fiscale, era un democristiano di sinistra, ferrato in economia e un galantuomo anche se venne accusato d'aver percepito emolumenti troppo alti quand'era stato commissario – come Mattei all'Agip – della Banca Nazionale dell'Agricoltura. Dimostrò d'aver versato nelle casse del Partito due terzi della sua liquidazione, il che venne ritenuto al tempo – e in sostanza lo sarà sempre, dopo d'allora – una giustificazione assolutoria. (pp. 117-118)
  • Il governo italiano, diventato «amministratore» a tutti gli effetti della Zona A, s'impegnava a mantenere a Trieste il porto franco. Entro un anno coloro che già risiedevano nelle Zone A e B e che se ne erano allontanati potevano farvi ritorno, con gli stessi diritti degli altri residenti: coloro che non volessero far ritorno, o che intendessero nel frattempo andarsene, erano autorizzati a trasferire i loro fondi. La mattina del 26 ottobre, in un tripudio di bandiere tricolori e in una immensa commozione di folla, i soldati italiani entrarono in Trieste restituita per la seconda volta all'Italia. Alle celebrazioni del 4 novembre 1954 intervenne, acclamatissimo, Luigi Einaudi.
  • Quanto alle recriminazioni dei giuliani e di taluni accesi ambienti nazionalistici (del tutto comprensibili le prime, non così le seconde), si deve soltanto osservare che la Zona A, la Zona B e le terre istriane non furono perdute né alla firma del Trattato di pace né alla firma del memorandum d'intesa. Furono perdute il 10 giugno 1940, quando Mussolini precipitò l'Italia nella seconda guerra mondiale. (p. 243)
  • La Democrazia cristiana si appropriò della memoria di De Gasperi. Un'appropriazione politicamente umanamente ineccepibile, perché De Gasperi fu soprattutto cristiano, e insieme democristiano, fino all'ultimo respiro. Ma l'Italia sentì – anche se presto altri avvenimenti la distrassero – che quel democristiano era d'una specie particolare: un gradino al di sopra e al di fuori degli schemi di partito. Non per caso, ai funerali di Sella, mentre la bara veniva portata a spalle da una calca di volontari in lagrime, «un uomo con i capelli già bianchi, un avversario di parte laica» volle unirsi agli altri, anzi quasi si insinuò a forza sotto la pesante cassa gridando «"De Gasperi è nostro" e lo accompagnò fino alla chiesa dimentico di asciugarsi le lacrime» (nei ricordi di Maria Romana). De Gasperi era di tutti perché, prestato all'Italia, pensava all'Italia prima che alla Dc e a se stesso: perché, credente senza turbamenti, sapeva rispettare i dubbi altrui; perché, cattolico fin nelle più intime fibre, conosceva i pericoli e le tentazioni del clericalismo e dell'integralismo, contro i quali s'era battuto associando al governo gli alleati laici; li volle in momenti in cui non erano necessari, ed erano magari fastidiosi.
  • Nesuno dei diadochi di De Gasperi ereditò le sue qualità, ve ne furono che non ne ereditarono nemmeno una. Scelba ebbe la sua onestà e il suo senso dello Stato, Fanfani il suo pragmatismo sorretto da una religiosità autentica, Pella la sua dignità. Moro la sua arte nel compromesso. Ma nessuno raggiunse la sua completezza. Dopo il politico che era anche statista vennero i politici che, nei casi migliori, erano soltanto politici. Se ne ebbe il primo segno l'anno dopo quando, alle elezioni per la Presidenza della Repubblica, il posto di Luigi Einaudi fu preso da Giovanni Gronchi. (p. 307)

L'Italia dei due Giovanni

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L'idea di fare un po' di chiaro nelle vicende del '68 col loro lugubre strascico di esplosioni terroristiche, e nelle responsabilità che vi ebbero soprattutto gl'intellettuali, ci stimola a continuare. È vero che sono avvenimenti di ieri, che tutti hanno vissuto. Ma in questi tempi di «accelerazione della Storia», come diceva Halévy, lo ieri fa presto a diventare l'altro ieri, per i giovani di vent'anni esso rappresenta già il West (con tante scuse al medesimo), ma soprattutto non è stato ancora enucleato dalle polemiche e dalle dietrologie di cui seguita ad essere oggetto. Noi non pretendiamo di possedere la pietra di paragone che lo restituisca alla sua verità assoluta (che poi non esiste). Ma crediamo, per il modo in cui abbiamo attraversato quel periodo senza lasciarci piegare dalle ventate di demagogia e di conformismo salottier-barricadiero che lo solcarono, di poter portare un valido contributo al suo chiarimento. Comunque, abbiamo l'intenzione di provarci. Un'ultima cosa – poiché le prefazioni si leggono solo quando sono brevi, anzi fulminee – circa il titolo di questo libro: L'Italia dei due Giovanni. Si tratta, come già avrete capito, di Giovanni XXIII e di Giovanni Gronchi, che furono i due protagonisti di spicco di quel decennio. A qualcuno potrà sembrare disdicevole, se non addirittura empio, il fatto dì aver abbinato nel protagonismo un grande – anche se discusso – Papa come Roncalli e un piccolo Presidente della Repubblica come quel ganimede di provincia, velleitario e di mano lesta. Ma l'editore ha voluto così perché, ha detto, è un titolo «che si vende bene». E noi ci siamo arresi, lo confessiamo, a questa esigenza di bottega. Una bottega che di solito fa valere, senza procurare rimorsi a nessuno, delle esigenze ben altrimenti oltraggiose al comune senso della misura.

Citazioni

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  • Sempre ansioso d'avere solidi appigli, e solide armi per assicurarseli, Enrico Mattei si fece editore, tra la primavera e l'estate del 1956. A Milano era sopravvenuto, nell'editoria quotidiana, un avvenimento rivoluzionario: dopo alcuni tentativi fiacchi e abortiti dell'immediato dopoguerra, una nuova testata s'era alzata a contrastare il virtuale monopolio del Corriere della sera, affidato alle curatissime e morbide mani di Mario Missiroli. Il Giorno – questo il nome del quotidiano anticonformista che vide la luce il 21 aprile del 1956 – fu il frutto di una combinazione alla quale Mattei parve all'inizio formalmente estraneo. Demiurghi noti dell'operazione furono Gaetano Baldacci, inviato speciale del Corriere della sera, siciliano di non scorrevole prosa ma d'intelligenza viva, di piglio arrogante, di grande spregiudicatezza manovriera; e Cino Del Duca. Era quest'ultimo un marchigiano – come Mattei – di famiglia e di convinzioni socialiste e antifasciste che, emigrato in Francia, vi aveva fatto fortuna con la presse du coeur, la stampa popolare e dolciastra che anche in Italia stava ottenendo successo. Nous deux tirava due milioni di copie, un milione Intimité, quattrocentomila Bolero. Nelle discussioni che precedettero il lancio del Giorno ebbe una parte Leo Longanesi, che con la prodigalità di talento che lo contraddistingueva suggerì alcune idee preziose. (pp. 33-34)
  • Il Giorno, dalla testata pariniana e puritana – benché poggiasse sui miliardi di Del Duca e sul petrolio di Mattei –, volle essere L'anti-Corriere. «Fondi» brevi e secchi – uscito di scena Baldacci questa norma, che era buona, andò perduta –, fotografie in abbondanza, niente terza pagina, poca letteratura, tanta cronaca, vistose concessioni al gusto popolare, inserti, supplementi. Una formula che senza dubbio anticipò alcune strategie dei quotidiani nei decenni successivi, e che ebbe un discreto successo di vendita, riuscendo ad aprire brecce nel fortilizio un po' sguarnito del colosso di via Solferino. (p. 34)
  • Mattei non aveva aspettato così a lungo per valersi, con discrezione, delle possibilità di pressione e di allettamento che il quotidiano gli consentiva. A Gronchi diceva suadente: «Giovanni, da questo giornale non dovrai temere attacchi», a Nenni confidava con aria complice: «Per lei ho fatto quello che nessuno ha fatto, cioè Il Giorno». Le polemiche divampavano: l'Eni aveva come compito statutario la ricerca e lo sfruttamento del metano e del petrolio, non il finanziamento d'un quotidiano fortemente passivo; ma in definitiva lasciarono, e continuano a lasciare il tempo che trovano. (p. 35)
  • Impossibile dire cosa Mattei, cosa I'Eni, e cosa l'Italia sarebbero diventati se il Morane Saulnier fosse felicemente atterrato a Linate, quella sera fatale. Si può tuttavia fondatamente supporre che le vicende del Palazzo sarebbero state, con un inquilino come lui, diverse. Mattei era unico, nel bene e nel male. Non lasciò veri eredi né veri successori. Le dinastie dei personaggi di quella fetta cominciano con loro, e con loro finiscono.
  • La lingua ufficiale del Concilio fu, per volontà di Giovanni XXIII (che respinse l'idea della traduzione simultanea), il latino. Nel suo discorso d'apertura il Papa disse che con il Concilio la cattolicità doveva adeguarsi al mondo che la circondava. «La Provvidenza ci sta conducendo ad un nuovo ordine di rapporti umani... Dalla rinnovata, serena e tranquilla adesione a tutto l'insegnamento della Chiesa nella sua interezza, lo spirito cristiano cattolico e apostolico del mondo intero attende un balzo innanzi verso una penetrazione dottrinale e una formazione delle coscienze in corrispondenza più perfetta di fedeltà all'autentica dottrina.» (p. 95)
  • Giovanni XXIII non vide la conclusione del Concilio ch'egli aveva voluto, e che durò fino al 1965 (allo svolgimento del dibattito, e ai documenti che furono approvati, dedicheremo alcune pagine più avanti). Nella primavera del 1963 Angelo Roncalli, colpito da un male incurabile, si aggravò rapidamente. I suoi ultimi atti pubblici furono l'accettazione del premio Balzan per la pace, che gli fu assegnato il 10 maggio, e l'udienza solenne al Presidente della Repubblica italiana, Antonio Segni, il giorno successivo. Il 23 maggio, festa dell'Ascensione, il Papa si affacciò per l'ultima volta alla finestra del suo appartamento e salutò la folla in piazza San Pietro. La sera del 31 maggio entrò in agonia: spirò alle 19.49 del 3 giugno 1963. Aveva ottantadue anni. (pp. 95-96)
  • La personalità di Gronchi, lo sappiamo, aggravò i rischi dell'interventismo e del presenzialismo di chi, essendo Capo dello Stato, è nello stesso tempo irresponsabile (dal punto di vista costituzionale) e autorevole (dal punto di vista sostanziale). Gronchi aveva molte ambizioni: una delle quali era la realizzazione d'una politica estera del Quirinale, parallela alla politica estera governativa. Prima che Moro inventasse le convergenze parallele, Gronchi aveva inventato le divergenze parallele. «La Costituzione – disse a Mario Luciolli, che era stato nominato suo consigliere diplomatico – non consente al Presidente della Repubblica di fare molto, ma non gli vieta di far conoscere le sue idee.» La prima delle quali era che l'Italia dovesse assumere, nell'Alleanza atlantica, un ruolo più importante e meno aderente alle direttive degli Stati Uniti. (p. 110)
  • Michelini, scettico amabile e disponibile, poteva essere tutt'al più l'erede del fascismo affaristico opportunista e grasso. Soddisfatto del credito politico ottenuto con l'appoggio [del Movimento Sociale Italiano] al Governo Tambroni, che senza quell'appoggio sarebbe defunto, Michelini si proponeva di sanzionare nel Congresso [di Genova del 1960] (secondo la testimonianza di Filippo Anfuso) la rottura ideologica con il fascismo storico, e l'integrazione nel sistema democratico. Forse sarebbero stati cambiati anche l'etichetta e il simbolo del Partito. (cap. VI, p. 129)
  • Segni non era Gronchi. Rifuggiva dai meschini intrighi del suo predecessore. La sua vulnerabilità alle suggestioni di De Lorenzo era d'altro genere. Segni temeva insidie per l'Italia e per la sua democrazia. Aveva per le Forze Armate una patriottica, sincera simpatia: alla sfilata militare del 2 giugno 1964 lo si era visto piangere commosso, durante il passaggio della brigata meccanizzata dei carabinieri, una unità di nuova istituzione: nata in concomitanza con il centocinquantesimo anniversario della fondazione dell'Arma. Le apprensioni di Segni furono utili a De Lorenzo quanto le disinvolture di Gronchi.
  • La sera del 28 dicembre Giuseppe Saragat diventò Presidente con 646 voti su 927 votanti (150 schede bianche per almeno due terzi democristiane), 9 liberali insistettero sul nome del loro presidente Gaetano Martino, e i missini su quello di Augusto De Marsanich. I sette dissenzienti socialdemocratici si pronunciarono per Paolo Rossi. Come osservò il Times, «l'uomo migliore era stato scelto nel modo peggiore». Migliore certo di tantissimi altri, ma imprevedibile. Con atteggiamento ispirato aveva detto a Nenni, pochi momenti prima dell'ultima votazione: «Gente come te e come me, al Quirinale, se c'è una sommossa di destra, spara: se ce n'e una di sinistra, si spara». Per sua buona fortuna gli mancò l'occasione di confermare, nei fatti, la validità dell'assunto. (p. 266)
  • Il dialogo con Saragat non era mai altro che un monologo di Saragat. Quella che nell'ordinaria amministrazione era la sua debolezza, fu la sua forza nel momento dell'emergenza. Solo un uomo impermeabile alle voci altrui poteva affrontare i comizi e sfidare le piazze del 1947-48, schiumanti di rabbia e di odio contro di lui, il socialfascista, il socialtraditore, il rinnegato. Impassibile sotto quell'uragano, Saragat svolgeva le sue argomentazioni: asciutte, serrate, senza concessioni alla retorica tribunizia. Non si può dire che Saragat si fosse fatto ripagare il grande servigio reso alla democrazia in sostanziose fette di potere. Nei vari Ministeri che occupò, aveva brillato per la sua assenza. Anche come capo del Psdi lasciava alquanto desiderare. Forte del fatto di averlo inventato lui, e di schiacciare con la sua personalità quella di tutti gli altri, se ne curava poco. S'era sempre considerato parecchie spanne al di sopra della nomenklatura, e lo era specie sul piano culturale. L'unica carica che considerava all'altezza della sua altezza, e per la quale veramente si era battuto, era la Presidenza della Repubblica. Al primo tentativo aveva fallito. Al secondo, come sappiamo, riuscì. Purtroppo sappiamo anche in quale modo tortuoso riuscì. Ma le elezioni passano presto, i Presidenti durano sette anni. Saragat sarà un buon Presidente. (p. 267)
  • Sappiamo che tra gli intimi di Fanfani era – anche qui purtroppo – Giorgio La Pira, pacifista ecumenico e politico confusionario. Il «santo» siculo-fiorentino era riuscito a raggiungere Hanoi, e vi si era intrattenuto con il leader nordvietnamita Ho Ci Min. Quale che fosse stata la capacità di comprensione tra i due che parlavano linguaggi così diversi – e non soltanto in senso semantico – La Pira ebbe l'impressione che Ho Ci Min fosse disposto a trattare con gli americani rinunciando alla precondizione del ritiro dei loro soldati. Di ciò che La Pira gli aveva scritto – inframmezzandolo con citazioni bibliche e invocazioni alla Madonna – Fanfani inviò un riassunto al Presidente americano Johnson. Ma La Pira, che fremeva in attesa di reazioni, anticipò ogni eventuale risposta della Casa Bianca lasciando trapelare indiscrezioni sulla sua «missione». Ne risultò un pasticcio, e il fondato sospetto degli Usa e di altri alleati occidentali che l'Italia avesse due politiche estere, quella del Governo (e di Fanfani come ministro) e quella di La Pira (e di Fanfani come Presidente dell'Onu): la seconda favorevole a un negoziato di pace ad ogni costo nel Vietnam e all'ammissione della Cina nelle Nazioni Unite. (p. 274)
  • L'Italia dei due Giovanni fu insieme l'erede – non sempre degna – di De Gasperi, e l'incubatrice degli anni di violenza e di piombo. Fu l'una e l'altra cosa in maniera stagnante, opaca, confusa e in larga misura inconsapevole. Gli uomini che si avvicendarono sulla scena politica, anche i migliori, ebbero intuizioni di largo respiro, come il passaggio dei socialisti dall'opposizione al Governo, ma non videro né capirono i veri fermenti e le peggiori insidie che covavano nel corpo del Paese. Attento alle grandi o piccole manovre d'anticamera e di corridoio, il Palazzo aveva, o così parve, le finestre chiuse. Quando le aprì, allarmato dal clamore, era già '68. (p. 279)

L'Italia degli anni di piombo

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Per tutti gli anni Settanta, e per i primi Ottanta, noi fummo indicati alla pubblica esecrazione come i fascisti, i golpisti, in una parola i lebbrosi. E forse saremmo ancora nel ghetto in cui ci avevano relegato, se a trarcene fuori dandoci completa ragione non fossero sopravvenuti i fatti. Spogliarci di questo passato e parlarne come se non ci avessimo partecipato è stato, per Cervi e per me, lo sforzo più grosso. Speriamo di esservi riusciti: nei limiti, si capisce, di quell'angolatura da cui nemmeno lo storico più obbiettivo e imparziale può prescindere. Per noi gli anni che vanno dalla strage di piazza Fontana all'assassinio di Moro non sono affatto «formidabili» come li dipingono certi commentatori e memorialisti di sinistra per giustificare i propri trascorsi di fiancheggiatori del terrorismo. Per noi quei «formidabili» anni furono quelli del sopruso di una minoranza ubriaca di mode e di modelli d'importazione (Marcuse, Mao, Che Guevara) su una maggioranza succuba anche perché priva di una voce che la rappresentasse. Noi fummo questa voce. E non possiamo prescinderne anche se abbiamo fatto di tutto per dimenticarcene. Secondo noi, il bilancio di quei «formidabili» anni è tutto in passivo. Essi non si sono lasciati dietro che lutti, galere, e quella cosiddetta «cultura del sospetto» che seguita ad inquinare la nostra vita pubblica, continuamente scossa da scandali più o meno pretestuosi che proprio in quei «formidabili» anni hanno la loro origine e radice.

Citazioni

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  • Gli anni che precedettero quelli di piombo furono piuttosto anni di gomma. La situazione politica era insieme statica e friabile, con maggioranze parlamentari ognuna sempre simile alla precedente e sempre pericolanti, con governi protesi a parole verso ambiziosi traguardi e nella realtà impegnati a risolvere quotidiani bisticci di meschina bottega. I partiti maggiori erano affidati a leaders di non consolidato e contestabile prestigio, tranne uno: il Psi con Pietro Nenni. (p. 9)
  • Per quanto riguardava specificamente l'Italia il progetto cominciò a prender corpo, il 26 novembre 1956, con un accordo tra il Sifar, ossia i servizi segreti italiani, e la Cia, ossia i servizi segreti statunitensi. La rete clandestina post-occupazione fu battezzata ufficialmente stay behind, stare indietro, e nel gergo corrente di chi della rete si occupava, Gladio. Il nome non era molto indovinato: proprio il gladio era stato adottato dalla Repubblica di Salò per sostituire le stellette. Chi lo riesumò aveva la memoria troppo corta. O troppo lunga. Nel '59 l'Italia fu chiamata a partecipare, accanto a Usa, Gran Bretagna e Francia, ai lavori del Comitato clandestino di pianificazione che, in ambito Nato, studiava le contromosse per il dopo-invasione. Sotto la guida del generale De Lorenzo il Sifar procedette dunque all'arruolamento dei gladiatori: tutta gente che «per età, sesso ed occupazione avesse buone possibilità di sfuggire ad eventuali deportazioni ed internamenti». (pp. 48-49)
  • Quando l'esistenza di Gladio è diventata di dominio pubblico Cossiga e Andreotti hanno ripetuto che l'organizzazione aveva, in tempi di guerra fredda, scopi pienamente conformi all'interesse nazionale. La sorpresa ostentata da molte parti politiche per la scoperta di Gladio è del resto poco credibile. Se n'era parlato molto – pur senza specificare il nome dell'organizzazione – negli anni precedenti. Ma a quel punto – estate del 1990 – Gladio divenne un'arma preziosa per distogliere l'attenzione dell'opinione pubblica dallo sfascio della ideologia e dei partiti comunisti, e per avvalorare la tesi che l'Italia fosse vissuta in una falsa democrazia, viziata da presenze poliziesche, autoritarie e golpiste. (pp. 54-55)
  • La mattina della vigilia di Natale Leone fu eletto con 518 voti, Nenni ne raccolse 418. Mentre Pertini faceva lo spoglio delle schede, avendo al fianco un accigliato Fanfani, ci fu suspense fino a quando il nome di Leone risuonò per la cinquecentesima volta. Allora dalle schiere Dc si levò un applauso, e l'irascibile Pertini, che possedeva imprevedibili riserve d'umorismo tagliente, disse: «Dato che ancora non ho proclamato eletto nessuno, devo supporre, onorevoli colleghi, che il vostro applauso sia diretto ai vostri due copresidenti. Ve ne ringrazio anche a nome del Presidente Fanfani, ma vi invito a consentirmi di proseguire nello scrutinio». Le cifre di quest'ultima votazione furono passate al microscopio, con intenti polemici, da socialisti e comunisti: i quali sostennero che a Leone (benché in teoria la coalizione Dc, Pli, Pri, Psdi, fosse in grado di eleggerlo autonomamente) fossero serviti i voti missini, essendogliene mancato un buon numero di democristiani, una sessantina. (pp. 166-167)
  • Esistevano le condizioni tecniche per il colpo di grazia al nascente terrorismo: mancavano invece le condizioni politiche. Tutta la sinistra «legale» si strappava le vesti non per l'apparire alla ribalta del Partito armato, ma per le già avvenute o possibili prevaricazioni della polizia contro inoffensivi e benintenzionati, anche se turbolenti, apostoli della rivoluzione. Non il Partito armato faceva paura, ma la Polizia armata; della quale infatti si chiedeva a gran voce, in cortei e manifestazioni, il disarmo. Tutti i firmatari di manifesti, tutti i politici timorosi di rimanere in retroguardia (e ve n'erano anche nello schieramento di governo, e nella Dc) minimizzavano la minaccia delle «fantomatiche» Brigate rosse, ed enfatizzavano invece quella dei gruppi neofascisti o neonazisti. (p. 186)
  • All'anagrafe Bettino Craxi risultava chiamarsi Benedetto, che è, osserverà malignamente qualcuno, l'equivalente italiano di Benito. Milanese di nascita, siciliano per parte di padre, Craxi aveva fatto l'apprendistato di dirigente socialista prima nella sua città, e poi, a livello nazionale, come vicesegretario del Partito. Un apparatchik cui tutti riconoscevano doti d'efficienza e di pragmatismo, e a cui pochissimi erano invece disposti a riconoscere le qualità che fanno d'un funzionario un buon politico. (pp. 221-222)
  • Il giovane dirigente non era mai stato di quelli che ispirano simpatia a prima vista. Intanto perché con il suo metro e novanta di statura era sconsideratamente alto in un universo politico folto di bassotti, a cominciare dal Presidente della Repubblica Giovanni Leone, e da Amintore Fanfani. Oltre che alto, era massiccio, un po' goffo, con una calvizie precoce e una faccia paffuta dove il piccolo naso era sormontato dagli occhiali dalla montatura spessa, e la mascella era forte (Forattini tradurrà quel forte, con tratti implacabili, in mussoliniana). Parlava lento, riflettendo su ogni frase, e raramente attenendosi alle banalità pensose di cui i politici si compiacciono. Diceva, di solito, cose concrete su problemi precisi: non le diceva con grazia, anzi aveva il vizio o il vezzo d'una certa brutalità. (p. 222)
  • Non erano mancati nel suo passato le sbandate populiste con cui ogni socialista paga pedaggio alla storia del Partito: ma negli anni del declino nenniano era stato molto vicino al patriarca del Psi, e aveva capeggiato la corrente autonomista, minoritaria. Amava le citazioni, anche raffinate, ma nella quotidianità le sue frequentazioni culturali erano piuttosto mondano-salottiere. Arrivato al vertice del Psi soprattutto perché gli altri notabili e capicorrente si elidevano a vicenda, Craxi fu considerato all'inizio un uomo di ripiego, che non impensieriva i «grandi» proprio per la carriera in qualche modo burocratica, e per l'assenza d'un retroterra umano e ideologico il cui spessore potesse essere anche lontanamente paragonato a quello dei Nenni, dei Lombardi, dei Basso, degli stessi De Martino e Mancini. (pp. 222-223)
  • La primavera del 1975 era stata a Milano, capitale dell'eversione, tremenda. Il 13 marzo 1975 un commando di Avanguardia operaia aveva massacrato a colpi di chiave inglese lo studente diciassettenne Sergio Ramelli, aggredito sotto casa sua all'Ortica (un quartiere periferico milanese) mentre parcheggiava il ciclomotore. Ramelli era un simpatizzante dell'estrema destra: per questo nell'istituto tecnico industriale Molinari, dove studiava, l'avevano sottoposto a un «processo» assembleare, e costretto a cambiare scuola. I fanatici che lo perseguitavano non ne furono appagati. Radunatisi nei locali della facoltà di Medicina dell'Università Statale – dove la facevano da padroni – decisero di «dare una lezione» al ragazzo. La «lezione» gli costò la vita, Ramelli morì dopo oltre un mese di agonia (elementi della stessa Avanguardia operaia assalirono con bottiglie Molotov, biglie, spranghe un bar milanese frequentato dai «neri», e di «neri» o presunti tali ne ferirono seriamente sette). Nei covi dell'eversione si auspicò che la marcia rivoluzionaria annoverasse «cento, mille, centomila Ramelli». Morti, ovviamente. Dieci anni dopo l'agguato a Ramelli i suoi uccisori furono individuati e arrestati: alcuni resero piena confessione. Erano quasi tutti ex-studenti di Medicina che, approdati alla laurea, avevano per lo più trovato posto in strutture sanitarie pubbliche. Professionisti rispettati, con famiglia, anche se uno di loro era rimasto in politica, come dirigente di Democrazia proletaria. Le condanne furono abbastanza severe: dagli undici anni per i «capi» della squadraccia a sei anni per i gregari. Così come per l'omicidio di Calabresi, anche per questo di Ramelli apparve scioccante, negli imputati, l'apparente estraneità psicologica e anche ideologica alla cieca e sanguinaria furia del tempo in cui imperava la legge della chiave inglese. (pp. 251-252)
  • Il 16 aprile successivo (1975) un neofascista noto, Antonio Braggion, uccise con un colpo di pistola uno studente – anche lui, come Ramelli, diciassettenne – Claudio Varalli. Quasi tutta la stampa invocò una pena durissima, e quando fu pronunciata la sentenza la sinistra protestò rumorosamente perché era stata – sostenne – troppo mite. I fatti furono così ricostruiti: un gruppo di studenti reduci da una manifestazione contestataria aveva avvistato, in piazza Cavour a Milano, tre neofascisti: due erano scappati, il terzo, appunto il Braggion, oltretutto impedito nei movimenti perché zoppicava, s'era rifugiato nella sua auto, parcheggiata lì vicino. Il gruppo gli era piombato addosso, ed aveva cominciato a tempestare con le aste delle bandiere o con altro la vettura, infrangendone il lunotto posteriore. Allora il terrorizzato Braggion, che teneva una pistola nell'auto, l'aveva impugnata e aveva sparato centrando uno degli assalitori, appunto Claudio Varalli. Questo era tanto vero che la Corte d'Assise inflisse in primo grado al Braggion cinque anni per eccesso colposo di legittima difesa e cinque per possesso abusivo d'arma: in secondo grado la condanna fu di tre anni e tre mesi, per gli stessi reati. I giudici seppero resistere ad una pressione politica, di stampa e di piazza, che avrebbe voluto fosse disconosciuto il fatto, evidente, che l'omicida non aveva aggredito, ma era stato aggredito. (pp. 252-253)
  • Fu invece inequivocabilmente volontario e «nero» l'assassinio di Alberto Brasili, il 25 maggio 1975, in piazza San Babila, che era a Milano l'area privilegiata del peggior neofascismo. Brasili, uno studente che militava alla sinistra estrema, fu circondato da una pattuglia di forsennati ultras di destra. Uno di loro l'accoltellò, a morte. L'episodio era esecrabile. Ma non per questo diventano credibili i commenti, come quello del Corriere, secondo i quali «chi ammazza deliberatamente, chi disprezza la vita altrui, chi è pronto a usare la pistola e il coltello, sono i fascisti». Anche i fascisti. Ma non solo loro. (p. 253)
  • La storia non si fa – e nemmeno la cronaca – con i se. Ma è legittimo ipotizzare ciò che sarebbe potuto accadere se i brigatisti rossi, anziché obbedire alla voluttà di distruzione e di morte – quella che induceva un militante a sognare l'avvento d'un regime alla Pol Pot, con una immane e salvifica carneficina – avessero liberato Moro: quel Moro che aveva coperto d'accuse e recriminazioni i suoi amici di partito, che aveva rinnegato la Dc, che sarebbe riemerso dalla segregazione catacombale di via Montalcini gonfio di rancori, e ansioso di vendette da assaporare a freddo. Per la Dc la sua presenza sarebbe stata dirompente, se non devastatrice. Il martire sfuggito alla morte poteva diventare – lo diventeranno del resto la moglie e i figli – il peggior nemico della Nomenklatura democristiana. Altro che Cossiga (il Cossiga del 1991, per intenderci). (p. 293)
  • Emersero invece dai referendum due tendenze opposte dell'elettorato. Per la legge Reale esso rispettò i suggerimenti dei partiti di governo. Ventiquattro milioni di elettori su trentun milioni di voti validi furono per il mantenimento della legge. Ben diverso il risultato del referendum sul finanziamento pubblico dei partiti. Il no passò, ma con il 56 per cento dei voti. Questa maggioranza diventava minoranza rispetto all'intero corpo elettorale (calcolando cioè anche le astensioni). Il sì prevalse in molte grandi città: Milano, Torino, Roma, Napoli, Bari, Palermo, Cagliari. Tenuto conto dell'indirizzo adottato dai partiti, e del tambureggiamento propagandistico che ne era derivato nei mezzi d'informazione, e in particolare nella Televisione di Stato, quella vittoria risicata fu per il Palazzo un autentico schiaffo. Se i politici ne ebbero le guance arrossate, durò poco. Continuarono ad incassare serenamente i finanziamenti, e ad incrementarli con varie forme di tangenti. (pp. 296-297)
  • Di lui, scrivemmo «a caldo» che «rappresentava al meglio il peggio degli italiani». A cadavere raffreddato, lo confermiamo. Gli italiani si riconobbero in Pertini, nel quale la classe politica non s'era mai riconosciuta. Fu la sua forza. (p. 316)

L'Italia degli anni di fango

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Noi scriviamo, o almeno presumiamo di scrivere di Storia, e dobbiamo stare a ciò che la Storia ci offre, nel bene e nel male. I pochi memorialisti che ci hanno tramandato le cronache del crollo dell'Impero Romano le intonarono concordemente al Miserere. Oggi crolla soltanto un sistema politico, ma anche questo offre pochi spiragli alla speranza. Quanto alla prematurità del «fango», che effettivamente ha incominciato a dilagare solo agli inizi degli anni Novanta, a parte il fatto che il nostro volume ingloba anche questi, se il fango ha cominciato a tracimare solo a questo punto, è perché solo a questo punto si sono scoperchiati i tombini. Sotto di essi il fango si accumulava da lunga data, e specialmente nell'ultimo decennio. Come il lettore può facilmente immaginare, non abbiamo avuto bisogno di molta documentazione, trattandosi di avvenimenti da noi personalmente e giorno per giorno vissuti: non da protagonisti, ma da testimoni, che è il ruolo più adatto a chi voglia ricostruirli. Non c'illudiamo d'averlo fatto con quella assoluta oggettività, che rappresenta nel migliore dei casi l'illusione e nel peggiore la truffa di una certa storiografia. L'oggettività assoluta non esiste. Nessuno storico può prescindere da una sua «angolatura». Noi possiamo soltanto dire che quella nostra – di convinti e irriducibili liberaldemocratici moderati – non coincide con quella di nessun partito o interesse costituito. Non abbiamo taciuto nulla di ciò che può inficiare le nostre pregiudiziali, così come non abbiamo enfatizzato nulla di ciò che loro conviene.

Citazioni

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  • Giovanni Paolo I lamentò che chiunque gli chiedesse udienza, tra gli alti prelati, lo facesse per sparlare di altri. Si cercava ancora di capire se questo Papa anomalo fosse un restauratore, dopo gli scossoni conciliari, e si riallacciasse al filone tradizionale d'una storia millenaria, o fosse invece un pastore candido che diceva ciò che l'animo gli suggeriva, e senza chiedersi se fosse vecchio o nuovo. Prima che arrivasse la risposta a questo interrogativo Papa Luciani tolse quietamente l'incomodo. Era il 28 settembre 1978, e il suo pontificato era durato 33 giorni. (pp. 20-21)
  • Nel contesto politico nazionale, piuttosto opaco per la pochezza delle idee e per lo spicco non eccezionale degli uomini – solo l'adulazione dei giornalisti cortigiani descriveva l'onesto e scrupoloso Berlinguer come un genio – l'unica pennellata originale era costituita da Marco Pannella, con i suoi radicali. Un po' apostolo e un po' giullare, intriso di convinzioni liberali ma propenso ad ogni mattana, leader d'un movimento che riusciva a mettere insieme intellettuali come Leonardo Sciascia e Fernanda Pivano, ex parlamentari comunisti e socialisti, ex dirigenti di Lotta continua come Mimmo Pinto e Marco Boato, Pannella parlava incessantemente ma riusciva anche a far parlare incessantemente di sé. Nella confusione dei suoi propositi e dei suoi proseliti s'avvertiva già allora la premonizione d'un moto di fondo dell'opinione pubblica destinato a svilupparsi impetuosamente all'inizio degli anni Novanta: l'insofferenza per la partitocrazia e per le sue arroganze, il desiderio di qualcosa che fosse diverso dalla politique politicienne prediletta da Andreotti & C. (pp. 47-48)
  • Due giorni dopo il Natale (1979) le truppe sovietiche invadevano l'Afghanistan portando al loro seguito un Quisling, Babrak Karmal, che si insediava alla testa del Paese dopo che il suo predecessore Amin (anche lui asservito a Mosca, che tuttavia non lo gradiva più) era stato spicciativamente ammazzato. Sorte toccata del resto anche al predecessore del predecessore, ossia Taraki. Il mondo libero insorse, il Consiglio di sicurezza dell'Onu non poté votare una risoluzione di condanna solo perché l'Urss oppose il suo veto, il presidente degli Stati Uniti Carter deliberò una serie di sanzioni contro l'Urss, la più clamorosa delle quali fu il boicottaggio delle Olimpiadi di Mosca dell'estate successiva. Anche in Italia la deplorazione fu sostanzialmente unanime. Ad essa si associò il Pci, ricorrendo tuttavia all'espediente che, in circostanze come questa, gli consentiva di non rinnegare totalmente le sue amicizie e il suo passato. Berlinguer si fece apostolo di pace, fustigò tutti gli imperialismi (l'Afghanistan come il Vietnam, i Pershing e i Cruise come gli SS 20, la Nato che era in Germania o in Italia come l'Armata Rossa che era in Polonia o nella Germania Est). «Fermiamo la corsa al riarmo, fermiamo il pericolo atomico» fu uno dei suoi slogan generosi ed evasivi. (pp. 66-67)
  • L'equivoca storia di Ciro Cirillo è riaffiorata anche di recente nelle cronache della malapolitica napoletana: alla quale senza dubbio appartenne; così come appartenne ad una estrema fase del terrorismo durante la quale – per alleanze carcerarie o per collusioni d'altro genere – le Br vollero agganciare la criminalità organizzata, o ne furono in qualche misura agganciate. Più rilevante, ai fini d'un giudizio sul comportamento delle autorità, è il diverso modo in cui il caso Cirillo fu trattato, in confronto al caso Moro. È vero che l'immagine pubblica del piccolo assessore napoletano non era paragonabile a quella del presidente democristiano; è vero che l'adesione alla trattativa, e il coinvolgimento in essa di capi camorristi – e anche, sembra, del faccendiere Pazienza – non ebbero carattere di ufficialità. Ma la vita di Ciro Cirillo poté in qualche modo sembrare più importante della vita di Aldo Moro: e i fautori della trattativa per Moro osservarono ragionevolmente che il fronte della fermezza – la Dc in particolare – non aveva obbedito, irrigidendosi allora, a un principio sacro e inviolabile, ma a motivazioni contingenti: che poterono, a distanza di pochissimi anni, essere tranquillamente trasgredite. Non sappiamo, essendo stato trovato un miliardo e mezzo per salvare Cirillo, quanti milioni siano stati trovati per le famiglie dei due uomini di scorta abbattuti. Speriamo molti. (pp. 126-127)
  • Mentre lo Spadolini II decollava per un breve e periglioso viaggio a Palermo venivano falciati, in un agguato di strada (3 settembre 1982) il prefetto Carlo Alberto Dalla Chiesa e la giovane moglie Emanuela Setti Carraro. La mafia lanciava così allo Stato una sfida di ferocia e arroganza senza precedenti, abbattendo l'uomo che della guerra alle cosche avrebbe dovuto essere – senza averne i mezzi e l'autorità – il condottiero, e che ne era comunque la personificazione. C'era stato un tempo in cui la mafia patriarcale e contadina, surrogato perverso ma a suo modo efficiente dello Stato assente o carente, s'era astenuta dal suscitare il clamore e le reazioni violente ch'erano inevitabili quando veniva scelto, come bersaglio, un esponente di primo piano delle istituzioni. Quel tempo era passato da un pezzo. Legata a reti criminali internazionali per il traffico di droga, fortemente collegata alla politica e all'amministrazione nella speculazione edilizia e nell'assegnazione degli appalti, pronta a negoziare il «voto di scambio» (come nelle sue stagioni remote), ma pronta anche a uccidere chi si rifiutasse di scambiare, la mafia s'era, se possibile, imbarbarita: anche quella in doppiopetto. Al fucile a canne mozze aveva associato il mitra e l'esplosivo, i pezzi da novanta alla Calogero Vizzini erano diventati boss alla Lucky Luciano, era esperta di omicidi, della lupara bianca ma anche di computer e di riciclaggio del denaro sporco. (pp. 143-144)
  • Il 24 giugno 1985, al primo scrutinio, Cossiga passò con 752 voti favorevoli e 141 schede bianche. L'eletto disse di voler essere il Presidente «della gente comune» e restituì la tessera della Dc. Gesto che fu dai più considerato formale, ma che più tardi si rivelò invece indicativo d'un deliberato distacco dal partito cui Cossiga aveva sempre appartenuto. Craxi fu sveltamente confermato alla Presidenza del Consiglio, Fanfani ridivenne Presidente del Senato. (p. 176)
  • Tra tante celebrità, nessuno fece caso ad un senatore, anzi ad un senatur, che la Lega lombarda era riuscita a portare a Palazzo Madama (insieme a un deputato, l'architetto Giuseppe Leoni, a Montecitorio). Si chiamava Umberto Bossi e pareva destinato, con la sua pronuncia brianzola e le sue cravatte da bar dello sport, a far magra figura tra gli incalliti marpioni. (p. 220)
  • Negli anni del Pci avanzante e degli osanna tributati da turbe estasiate d'intellettuali e di giornalisti a Enrico Berlinguer, Saragat era trattato dai più con la sufficienza caritatevole dovuta a un personaggio superato e un po' patetico, nelle idee e negli ideali. Uno che non aveva capito quali scintille di rinnovamento, di mutazione, e di fecondo avvenire, vi fossero nell'universo marxista, sotto le bandiere rosse con falce e martello. La stessa sufficienza – ma per lui meno caritatevole – era riservata a Mario Scelba (si spegnerà nell'ottobre del 1991, novantenne) che aveva l'imperdonabile colpa d'essersi opposto, con la sua forza di carattere e con la sua Celere, ai generosi fautori del progresso che volevano modellare l'Italia sull'esempio dell'Unione Sovietica (quella di Stalin, per intenderci). Entrambi arnesi d'archeologia politica, secondo le sinistre, morti prima di morire. Invece era archeologia politica il comunismo. Saragat non assistette al suo crollo, ma in cuor suo aveva sempre saputo che quel giorno sarebbe venuto. (pp. 242-243)
  • Al Psi non mancava in un momento cruciale – o almeno così parve – il vigore del suo leader. Gli venne invece meno, il 24 febbraio 1990, uno dei suoi personaggi simbolici, il vegliardo Sandro Pertini: che si spense quietamente, dopo le tante tempeste d'una lunga, coraggiosa e onesta vita, e dopo tante impennate generose. Era stato, nei suoi anni al Quirinale, più il nonno che il padre della Patria: del nonno aveva il piglio, con la sua pipa, le sue sgridate, le sue lodi, i suoi baci: anche con qualche sua intemperanza bizzosa, mai cattiva. Gli italiani lo rimpiansero con affetto fervido e spontaneo. All'estremo saluto – solenne e commosso – che l'Italia diede al socialista cristallino e al Presidente indimenticabile, mancò, per renderlo più toccante, solo una presenza: quella di Sandro Pertini, se avesse potuto seguire il suo funerale. (p. 271)
  • Cambiava l'Italia, e ancor più, e più celermente, cambiava il mondo. Il 23 febbraio 1991 l'esercito dell'Onu schierato contro Saddam Hussein – che era poi un esercito in gran parte statunitense, comandato dal generale Schwarzkopf – aveva sferrato l'attacco contro le forze irachene, accreditate d'una forza e d'una volontà di battersi che sul campo non dimostrarono. Se non una passeggiata, quella delle divisioni di Schwarzkopf fu un'avanzata travolgente, che in breve tempo liberò il Kuwait e costrinse alla resa Saddam Hussein, la cui Guardia nazionale, che raggruppava il meglio dei suoi reparti, si dissolse come il resto dello schieramento. I pacifisti italiani, che si erano risvegliati al fragore dei cannoni americani – quello d'altre armi e d'altre armate li lascia indifferenti – accusarono il Presidente Bush di condurre una guerra di conquista e di vendetta a sfondo petrolifero, e di voler occupare l'Irak e Bagdad per scacciarne il dittatore, contravvenendo il mandato internazionale: che concedeva, come obbiettivo, la sola liberazione dell'emirato invaso. Quando poi Bush si astenne dallo sguinzagliare le colonne di Schwarzkopf verso il cuore dell'Irak, le voci di quegli stessi pacifisti e d'altri si levarono per imputargli d'aver lasciato al potere il tiranno. (p. 291)
  • Milano aveva gran bisogno che la Malpensa, aeroporto da Terzo mondo, diventasse un aeroporto moderno, ma gli sciacalli si avventarono subito su Malpensa Duemila. La metropolitana milanese era stata una manna. E questo vale per il resto d'Italia, forse con una differenza, a vantaggio del Nord: sia pure con sprechi e latrocini giganteschi nel Nord le opere pubbliche venivano un giorno completate, e messe in funzione. Il Sud aveva invece l'aggravante di opere pubbliche che assolvevano la sola funzione d'arricchire i costruttori e i politici: e che rimanevano inutilizzate. (p. 301)
  • Quanto all'interrogativo angoscioso che scaturisce dal Cassonpensiero (perché mai se non c'era nulla di losco in Stay-behind non lo si abolì quando era ormai superfluo?), interrogativo che, posto a quel modo, sembra comportare una sola risposta (non lo si abolì per covare il golpe) noi azzardiamo una spiegazione più banale e più semplice. Gladio era diventato un ente inutile. E quando mai in Italia si abolisce un ente inutile che comporta uffici, segreterie, auto blu, indennità speciali per chi lo comanda? Il merito d'aver conseguito la soppressione d'un ente inutile – ma solo quello – a Casson va riconosciuto. (pp. 333-334)
  • Il 18 aprile 1993 gli italiani furono chiamati a pronunciarsi, l'abbiamo ripetutamente accennato, su otto referendum: di assoluto spicco politico e sociale quelli sulla riforma elettorale del Senato (quasi l'83 per cento in favore della riforma) e sulla non punibilità penale dell'uso di droga (55 a favore, 45 contro, ma nelle città più minacciate dal flagello della tossicodipendenza vi fu una maggioranza per il no). E poi una valanga di sì (90 per cento, la quota più alta) per l'abolizione del finanziamento pubblico ai partiti. Sì anche all'abolizione dei ministeri dell'Agricoltura, del Turismo e delle Partecipazioni statali, a nomine meno lottizzate politicamente dei dirigenti nelle Casse di Risparmio, a una estromissione delle Usl dai controlli ambientali. E indubbio che abbia agito, in aiuto dei sì, un potente fattore di vischiosità psicologica, una sorta di memoria collettiva del sì alla preferenza unica. I sì erano un rifiuto del passato. Ma l'elettorato dosò comunque i consensi: e sulla droga fu – a nostro avviso ragionevolmente, e avrebbe dovuto esserlo ancora di più – perplesso. (pp. 368-369)
  • Libero com'è da ossessioni elettoralistiche, Ciampi fronteggia come meglio può le scadenze politiche e le emergenze economiche, prima tra tutte la disoccupazione. Ha conseguito risultati notevoli nella difesa della lira e nella lotta all'inflazione giovandosi peraltro d'una congiuntura internazionale che è contrassegnata sia dalla recessione, sia da una relativa stasi dei prezzi. I banchieri e finanzieri del governo traghettatore sanno il loro mestiere, e sembrano sulla buona strada per domare l'inflazione italiana. Sta a vedere come riusciranno a domare la rivoluzione italiana, e le tante controrivoluzioni che sotterraneamente le si stanno opponendo. Il futuro è già cominciato, ma nessuno sa come proseguirà. (pp. 382-383)

L'Italia di Berlusconi

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Ed eccoci giunti, Cervi ed io, al capolinea della nostra Storia dell'Italia contemporanea. E non aggiungo un «finalmente!» per non macchiarmi d'ipocrisia. Questo lavoro ci è costato molta fatica perché più un panorama storico è ravvicinato nel tempo, e più è difficile distinguerne le linee maestre da quelle marginali che rischiano sempre di renderne dispersiva, la ricostruzione. Però la fatica ci è stata largamente compensata dal piacere di raccontare cose ed avvenimenti non derivati da testimonianze altrui, ma da noi stessi vissuti nella nostra qualità di cronisti. Sia Cervi che io possiamo avanzare qualche titolo alla credibilità perché né io né lui abbiamo militato, dalla Liberazione in poi, sotto qualche bandiera partitica. Questo non ha impedito né a lui né a me di avere le nostre idee politiche, genericamente liberali, e quindi sempre in contrasto con quelle dominanti, che per tre decenni sono state, specie nei ranghi della cosiddetta Intellighenzia, quelle di una Sinistra aggressiva e intollerante, ed ora lo sono di una Destra altrettanto aggressiva e intollerante. È quindi facile prevedere che i nostri libri, e specialmente quest'ultimo, siano poco apprezzati sia dall'una che dall'altra. Non ci dispiace. Anzi ce l'auguriamo: sarebbe la riprova della nostra imparzialità.

Citazioni

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  • Proprio mentre il Presidente della Repubblica poneva delicatamente mano – in duplice funzione di becchino e d'ostetrico – alle procedure istituzionali che avrebbero seppellito la Prima Repubblica e fatto nascere la Seconda, un sasso cui qualcuno volle dare le dimensioni d'un macigno s'abbatté sulle vetrate del Quirinale. Quel sasso aveva nome Sisde, la branca dei servizi segreti che si occupa della sicurezza interna. I servizi segreti hanno, non ne dubitiamo, anche dei meriti segreti: ma nella vita palese della Repubblica hanno rappresentato una zavorra, o una cancrena, rimasta tale attraverso i molti cambi di sigla e i molti avvicendamenti d'ufficiali e funzionari. La principale funzione dei servizi segreti è stata per decenni quella di legittimare, con i loro comportamenti, ogni voce di golpe: e di convalidare, con fughe di documenti e «rivelazioni» di testimoni o presunti tali, i sospetti sulle deviazioni dei servizi stessi, e sul loro coinvolgimento in manovre piduiste, stragi, attentati e quant'altro di destabilizzante si può immaginare. (p. 18)
  • Quando venne, tra la fine del '92 e gli inizi del '93, l'ora della verità, si scoprì che alla base di questo feuilleton fantasioso non erano né putschisti assatanati né abili emissari della Cia né infiltrati del Kgb né killers spietati. Erano, in totale e perfetta sintonia con la realtà italiana, dei ladri. Il Sisde – fermo restando che una parte di coloro che vi lavoravano e vi lavorano sono immuni da colpe – era un tipico ente italiano gremito di raccomandati e di mariuoli (per usare l'espressione con cui Craxi definì Mario Chiesa). Nessuno può pretendere che i servizi segreti documentino alla lira, con precisione contabile, le loro spese: destinate – almeno dovrebbero esserlo – anche a pagare informatori. Ma le molte decine di miliardi «riservati», ossia svincolati da ogni rendiconto, di cui il Sisde poteva disporre, finivano in larga parte non nelle tasche degli informatori ma in quelle degli informati: ossia dei funzionari che al Sisde facevano il bello e il cattivo tempo. Poiché questi funzionari non erano egoisti e avevano buon cuore, erogavano miliardi per arredare – con il pretesto di provvedere alla sicurezza – gli appartamenti di personalità politiche. (pp. 18-19)
  • Questo marciume era affiorato, abbastanza casualmente, quando un magistrato romano che indagava sulle compravendite immobiliari degli enti pubblici e sui loro risvolti tangentizi aveva scoperto conti correnti per 14 miliardi intestati a cinque funzionari del Sisde: i quali s'erano giustificati spiegando che le somme appartenevano ai servizi, e che i loro nomi rappresentavano soltanto una copertura. Questo primo magistrato s'accontentò della spiegazione, pur ordinando che i 14 miliardi rientrassero nelle casse ufficiali dei servizi: spiegazione che invece non parve convincente, qualche mese dopo, al suo collega della Procura di Roma Leonardo Frisani. Mentre indagava sul fallimento d'una agenzia di viaggi, Frisani aveva scoperto che ne erano proprietari due dei cinque funzionari già sentiti per i conti in banca. Frisani ordinò l'arresto dell'ex direttore amministrativo del Sisde, Maurizio Broccoletti, che fu seguito in carcere da Antonio Galati, Michele Finocchi, Gerardo Di Pasquale e Rosa Maria Sorrentino. La tesi che i funzionari avevano da principio sostenuto, e che il direttore del Sisde, prefetto Riccardo Malpica, aveva avallato – ossia che i conti correnti personali dei funzionari «coprissero» fondi riservati del Sisde – aveva subito, cammin facendo, modificazioni: qualche incriminato aveva ammesso che quei quattrini erano proprio suoi; ma non avevano origine illecita. Erano il frutto di regalie miliardarie che il Sisde aveva elargito ai suoi più validi dirigenti e agenti, a compenso d'operazioni eccezionali: operazioni al cui confronto quelle della Cia e del Mossad israeliano dovevano essere, se si bada all'entità dei compensi, roba da apprendisti. (pp. 19-20)
  • L'esecutivo di Berlusconi destò invece un interesse che era sì notevole, ma purtroppo negativo. C'era da aspettarselo: ma delle due caratteristiche che rendevano sospetta l'equipe berlusconiana fu sottolineata con particolare insistenza, dai politici e dai mezzi d'informazione stranieri, la più appariscente e la meno sostanziosa: ossia il pericolo che la democrazia italiana fosse minacciata da conati fascisti. Rimase invece piuttosto in ombra la vera insidia, ossia la coesistenza nella stessa persona – ed era un unicum nelle democrazie occidentali – del potere politico e d'un grande potere economico associato a un semimonopolio televisivo. (p. 146)
  • Probabilmente l'allarme fascismo, amplificato ed esasperato, giovò a Berlusconi anziché nuocergli: lo si constatò alle europee del 12 giugno. Alla gente stavano a cuore altri problemi: e le lezioni provenienti dall'estero risvegliarono in molti l'insofferenza verso chi pareva pronto a consentire che l'Italia fosse umiliata pur di colpire il nemico politico («non abbiamo bisogno di maestri» era sbottato Scalfaro dopo il voto censorio di Strasburgo). Analoga insofferenza provocavano del resto le dichiarazioni di quanti – come lo scrittore Vincenzo Consolo, che s'era impegnato a lasciare Milano dopo ch'era caduta in mani leghiste, o come Umberto Eco che annunciava l'espatrio a Sarajevo dopo l'insediamento del Cavaliere a Palazzo Chigi – rinnegavano l'ingrata Patria: guardandosi bene, tuttavia, dal lasciarla davvero. (pp. 149-150)
  • Non crediamo ad una possibile resurrezione del fascismo in Italia, così come non crediamo ad una possibile resurrezione del comunismo. Il fascismo, ideologia degenere appartenente a un ben delimitato periodo della storia europea, è morto mezzo secolo fa insieme ai suoi duci; il comunismo è anch'esso morto da alcuni anni benché in alcuni Paesi – e nel più popoloso del mondo, la Cina – si finga che sia ancora vivo, e benché in Italia Cossutta e Bertinotti abbiano preteso di rifondarlo invocando ad esempio di buongoverno il brontosauro Fidél Castro. Il Movimento sociale italiano aveva le sue radici nel fascismo – per la precisione nel fascismo di Salò – e alcuni estremisti passati ad Alleanza nazionale (ma ancor più quelli dei gruppuscoli bradi) covano di sicuro aneliti squadristici. Ma sono un'infima minoranza. (p. 150)
  • Allo stesso modo vi sono covi di deliranti estremisti di sinistra, ed è certo che una frangia dei militanti di Rifondazione, o magari dello stesso Pds, ha ancora in mente utopie collettivistiche ed egualitarie. Ma appunto di frange si tratta. Il prospettare ritorni delle squadracce in camicia nera è fuorviante così come il prospettare un revival del «socialismo reale», delle sue polizie segrete, della sua langue de bois. Con molto buonsenso, ma con una qualche malizia, Clinton aveva ricordato che nei più «occidentali» tra i Paesi ex satelliti di Mosca, in particolare l'Ungheria e la Polonia, sono al governo ex comunisti che in prima persona militarono nel partito e vi ricoprirono incarichi, e che pure nessuno contesta, quando visitano capitali estere chiedendo l'aggregazione alla comunità democratica. È giusto non contestarli. Quei successori del comunismo – che fu odiato in Polonia e in Ungheria come il fascismo non fu odiato in Italia se non nella versione «repubblichina» – vengono in Occidente a chiedere l'ingresso nell'Unione europea, smaniosi di condividerne le gioie e le pene consumistiche e mercantili. Più pentiti e meno pericolosi di così non potrebbero essere. (p. 151)
  • Ci piacerebbe che la reciproca accusa «comunista!» «fascista!» con cui i furbi e gli intolleranti pretendono di chiudere ogni civile confronto e di zittire gli avversari fosse bandita, ora più che mai, dal repertorio polemico. Putroppo sappiamo che non lo sarà. (p. 152)
  • Per le «europee» vigeva la proporzionale classica. Per le «politiche» vigeva una miscela di maggioritario – 75 per cento – e proporzionale – 25 per cento – distillata da Mattarella e altri, e per questo battezzata, lo sapete, mattarellum. Per le comunali nei centri con più di 15 mila abitanti e per le provinciali vigeva un sistema a doppio turno – alla francese per intenderci – con successivo ballottaggio se nessuno dei candidati aveva raggiunto al primo turno il 50 per cento dei voti (più uno). Per le comunali nei centri con meno di 15 mila abitanti vigeva il maggioritario secco a un turno. Altre varianti erano state introdotte nelle leggi elettorali delle Regioni a statuto speciale. Infine c'erano i referendum. Un enigmista che si fosse messo d'impegno per sottoporre a prove d'estrema difficoltà gli italiani non avrebbe potuto approdare a niente di meglio (o di peggio). Scovato questo tesoro di legge, le «regionali» – riguardanti le sole quindici Regioni a statuto ordinario – furono fissate per domenica 23 aprile 1995. Dagli ultras del resistenzialismo si levarono dissensi perché la vicinanza della data a quella del 25 aprile poteva distogliere l'attenzione degli italiani da un anniversario solenne: ma Dini non cambiò idea. Alle «regionali» fu aggregato un massiccio pacchetto di elezioni provinciali, e un altro meno consistente pacchetto di comunali: il che moltiplicò le schede, i sistemi, in definitiva la confusione. Gli artefici delle norme elettorali ce l'avevano messa tutta per scoraggiare gli italiani dall'andare alle urne. (pp. 295-296)
  • Gaspare Mutolo (appunto un «pentito») ha sostenuto che proprio nel 1979 Bruno Contrada fu assoggettato a Cosa nostra. Da allora in poi la carriera di Contrada può essere letta in due modi diversi, anzi opposti: o in chiaro, come il progredire d'un funzionario stimato e capace (capo di gabinetto dell'Alto commissariato antimafia, uomo di punta del Sisde in Sicilia) o in controluce come il doppiogioco d'un colluso con le cosche che ostentava zelo inquisitorio per buttare fumo negli occhi: e sotto sotto si dava da fare per favorire i boss. Alla vigilia di Natale del 1992 Contrada fu arrestato per associazione mafiosa e portato prima nel carcere militare romano di Forte Boccea, quindi in quello militare palermitano, riaperto apposta per lui: e del quale rimase unico ospite. (pp. 380-381)
  • Ma per Contrada, e anche per Antonino Lombardo – ammesso e non concesso che qualche trasgressione l'abbiano commessa – valgono due considerazioni. La prima è questa: si possono applicare agli uomini della polizia e dei carabinieri, e a maggior ragione a quelli dei servizi segreti, le stesse regole morali che valgono per i comuni cittadini? Il campo d'azione di questi uomini sono le fogne. C'è qualcuno capace di rimestare nelle fogne senza sporcarsi le mani e contrarne il fetore? (pp. 382-383)
  • Chi indaga sulla malavita, in tutte le sue espressioni, deve penetrare nei suoi ambienti, dove non si trovano malleverie e protezioni se non a patto di offrirne. È vero che in questo giuoco è facile perdere il senso del limite fino a diventare talvolta il complice, per farselo amico, del nemico: e non escludiamo che questo sia stato il caso di Contrada. Ciò di cui dubitiamo è che il purismo giuridico sia un metro ragionevole per valutare, senza che si commetta un'iniquità in nome della legge, gli uomini cui chiediamo di tuffarsi nel fango per farvi pesca di malavitosi: e i nostri dubbi crescono se il purismo giuridico è avallato non da prove inconfutabili o dalla parola di specchiati galantuomini, ma dalla parola d’altri malavitosi della peggiore specie che possono avere mille e una ragione per incolpare a torto. (p. 383)
  • Sui Contrada devono pronunciarsi, promuovendoli o bocciandoli o cacciandoli o denunciandoli, i loro capi. Se i capi sono incapaci, vengano anche loro cacciati. I Contrada non sono al disopra della legge, ne sono ai margini: quando la legge agisce contro di loro con i suoi strumenti e i suoi criteri, li porta su un terreno che non è quello in cui s'erano dovuti avventurare, magari smarrendo la retta via. La seconda considerazione è semplice: una carcerazione preventiva che duri quanto quella inflitta a Contrada è una barbarie indegna d'un paese che pretende d'essere la culla del diritto, e che sembra avere una gran voglia d'esserne la bara. (pp. 383-384)
  • Di Pietro, con il suo fare naïf, ci tiene tutti sulla corda. A occhio e croce – e senza giurarci – azzardiamo la previsione che, se si cimenterà in politica, andrà ad affollare quell'area di centro che Prodi sostiene essergli congeniale, che Berlusconi vuol etichettare con il tricolore di Forza Italia, che Dini ha temporaneamente fatto sua per volontà di Scalfaro, che infine i notabili dell'ex Dc vorrebbero ricompattare, resuscitando la balena bianca: sia pure ridotta alle più modeste dimensioni d'un delfino o d'un tonno. Il che attesterebbe che nell'Italia di Berlusconi – per attenerci al titolo di questo libro – tutto desimi inpìscem, finisce in pesce. Come nelle Italie precedenti. (pp. 423-424)

Mancuso fu subito rimpiazzato, come Guardasigilli, da Dini, ad interim (non venne invece rimosso come ministro, il che attesta quanto il problema costituzionale fosse complesso). Ma i contraccolpi della sua azione e della sua destituzione intossicarono un clima politico già torbido: e sulla scia di quest'episodio il Polo berlusconiano passò senza più mezzi termini all'opposizione, annunciando un voto contrario anche alla finanziaria in gestazione. La vicenda Mancuso non è stata edificante: non lo è stata né per lo stile del personaggio né per il modo in cui le sue peculiarità temperamentali sono state strumentalizzate. Forse Mancuso è stato cacciato con qualche eccesso di enfasi punitiva. Di sicuro ha reagito senza eleganza (per usare un eufemismo), cedendo agli impulsi della sua sicilianità vendicativa.

L'Italia dell'Ulivo

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Citazioni

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  • L'Ulivo era un contenitore, più che un vero schieramento, i «Popolari» in cui Prodi ideologicamente si riconosceva erano un partito minore cui la discendenza diretta dalla Dc di sinistra non dava un gran titolo di nobiltà. Nell'era d'un governissimo il personaggio Prodi avrebbe portato sulla scena politica, come certi simpatici caratteristi, un tocco di bonomia emiliana, ma poco d'altro. Per di più, come moderato disponibile per un'esperienza interlocutoria, Dini era più sperimentato di Prodi, tecnico quanto Prodi, meno boiardo di Prodi. Inoltre il suo accento era yankee, non bolognese. L'Ulivo di Prodi era in grado di affrontare la prova delle urne, e di superarla vittoriosamente, se alle urne si andava presto: un'armata composita si decompone, se resta troppo a lungo nei bivacchi. (p. 20)
  • Il 12 marzo 1996, quando mancava poco più d'un mese alle elezioni, il pool di «mani pulite» ordinò l'arresto a Roma di Renato Squillante, settantenne capo dei Gip (i giudici per le indagini preliminari) romani, magistrato legato da una fitta rete di conoscenze - alcune delle quali si traducevano, secondo gli inquirenti, in favori – a gente della cosiddetta «Roma bene» (che spesso e volentieri è «Roma male»). La cattura e la «traduzione» dell'anziano giudice da Roma a Milano avvennero con l'apparato scenografico che in queste operazioni, sempreché si svolgano sotto gli occhi delle telecamere, non manca mai. Gli italiani videro in televisione un carosello di auto rombanti e un nugolo di uomini in divisa, mentre sarebbe bastato un agente, e un viaggio (seppur non privo d'incognite alla luce d'un successivo disastro ferroviario) con il Pendolino. Ma al di là dell'enfasi spettacolare, l'arresto era sensazionale. (pp. 39-40)
  • Un alto magistrato finiva in galera con l'accusa d'aver ricevuto mazzette e d'essersi adoperato per sviare e adulterare il corso della giustizia a vantaggio di chi lo foraggiava. Con lui finì dentro l'avvocato Attilio Pacifico, complice, secondo Borrelli e i suoi sostituti, nella grande abbuffata. Ben presto si seppe che la «gola profonda» delle rivelazioni che avevano portato a Squillante era una teste – designata in codice come Omega – che per l'anagrafe si chiamava Stefania Ariosto, bionda signora quarantaseienne, assai nota nella «Milano bene» (qui vale la stessa osservazione fatta a proposito della «Roma bene») per il suo fascino elegante, per le sue frequentazioni importanti, per le sue irrequietezze, per i suoi molti debiti e per l'affettuosa amicizia – tutti sappiamo cosa s'intende con questo – che la legava all'avvocato Vittorio Dotti. (p. 40)
  • L'Ulivo vinse. Di poco o niente in termini di voti: anzi a conti fatti risultò che al Polo era andata una manciata di consensi in più. Ma un sistema maggioritario – o semimaggioritario – ha meccanismi che premiano la qualità oltre che la quantità dei voti. Con i suoi 157 senatori su 315 – cui dovevano essere aggiunti i 2 della Sudtiroler Volkspartei e parte dei 10 senatori a vita – l'Ulivo ebbe una maggioranza abbastanza comoda a Palazzo Madama. I 10 senatori di Rifondazione potevano essergli utili in qualche circostanza, ma non erano necessari. Altro discorso per la Camera. I deputati dell'Ulivo erano 284 sui 630 dell'assemblea. La maggioranza poteva essere raggiunta solo con l'apporto dei 35 di Rifondazione comunista. Bertinotti promise il suo appoggio a un governo Prodi, pur riservandosi libertà d'azione quando si fosse trattato d'approvare singoli provvedimenti. Il Polo gridò che l'Ulivo era prigioniero di Rifondazione e che Bertinotti avrebbe dettato la politica del governo. Era un segnale d'allarme enfatico – come si addice all'opposizione – ma non campato in aria. Proprio l'indispensabilità di Rifondazione faceva la differenza – una differenza profonda – tra la situazione del primo Mitterrand – che già abbiamo ricordata – e quella di Prodi. Mitterrand s'era potuto liberare con cinica soddisfazione del Pcf perché i deputati socialisti facevano, da soli, la maggioranza assoluta all'Assemblea Nazionale. Prodi era invece costretto a tenersi stretto Bertinotti, senza il quale gli era impossibile governare, ma con il quale governare sarebbe stato un tormento. (pp. 61-62)
  • Il Ministero Prodi parve in complesso, per la qualità e la capacità delle persone, d'ottimo livello. Includeva due ex-Presidenti del Consiglio, Lamberto Dini e Carlo Azeglio Ciampi. Al primo furono assegnati gli Esteri, poltrona prestigiosa e defilata. L'abilità negoziatrice, la conoscenza degli ambienti internazionali – oltre che delle lingue – la mondanità un po' superciliosa, la moglie miliardaria facevano di Dini un perfetto titolare della Farnesina. Per di più, messo agli Esteri, non aveva voce in capitolo – nonostante la lunga esperienza bancaria – per la guida dell'economia italiana: e questo avrebbe evitato conflitti con Ciampi (cui lo legava una stagionata inimicizia) che dell'economia era, come ministro del Tesoro e del Bilancio, il supervisore e il coordinatore. Un altro esperto d'economia, Beniamino Andreatta, fu dirottato verso la Difesa. La vicepresidenza e il Ministero dei Beni culturali e ambientali (con delega per Io sport e lo spettacolo) furono assegnati a Walter Veltroni, sostenitore incondizionato di Prodi in un Pds dove molti erano, a cominciare dallo stesso D'Alema, i dubbiosi. (pp. 69-70)
  • Per soddisfare i molti appetiti Prodi fu costretto ad aumentare il numero dei sottosegretari: 49, nella peggior tradizione repubblicana, contro i 42 di Dini e i 39 di Berlusconi. Merita un cenno, a titolo di curiosità, la nomina a viceministro della Difesa di Gianni Rivera, ex-calciatore famoso che per la verità s'era distinto, sui campi di giuoco, più come attaccante che come difensore. (p. 73)
  • Gli obbiettivi che il governo s'era proposti – o che piuttosto gli erano imposti dalla situazione del Paese e dagli impegni internazionali – apparivano d'una chiarezza abbagliante. L'Italia doveva intanto adeguarsi, entro il 1998, ai parametri di Maastricht: ossia alle regole in mancanza delle quali le sarebbe stato negato l'ingresso nel club dell'Euro, la moneta unica europea. Da questo punto di vista l'Italia stava, nel 1996, non solo peggio della Germania e della Francia ma anche peggio della Spagna. Guardiamo i dati. Maastricht vuole un'inflazione al 2,6 per cento e l'Italia era al 4,7, sia pure con un andamento in rapida discesa (la Germania all'1,3, la Francia al 2,1, la Spagna al 3,8). Maastricht vuole che il deficit statale rappresenti il 3 per cento del Prodotto interno lordo, e l'Italia era al 6,6 (la Germania e la Francia al 4, la Spagna al 4,4). Infine – ed è per l'Italia il punto più dolente – Maastricht vuole che il debito pubblico sia al massimo il 60 per cento del Prodotto interno lordo, e in Italia era il 123 per cento (in Germania il 60,8, in Francia il 56,4, in Spagna il 67,8). (p. 75)
  • La politicizzazione totale di quelle fucine che erano il Pci, l'Unità, Lotta continua e le pubblicazioni «rivoluzionarie» addestrava al comizio, alla dialettica, allo scontro di idee, al rapporto con gli interlocutori. Quei giovani di sinistra leggevano e studiavano, sia pure per sostenere delle balordaggini, i giovani di destra s'accontentavano in generale di poche – e poco conta che alcune fossero solide e magari vere – idées reçues. (p. 132)
  • La conquista dell'Euro è stata la grande promessa e la grande scommessa di Prodi e dei suoi ministri finanziari. Conquista dell'Euro voleva dire essere in regola con i parametri di Maastricht alle scadenze fissate (e ancora valide quando andava in stampa questo libro). Nel marzo del 1998 dovrebbe essere compilata la lista dei Paesi che, avendo onorato gli impegni di Maastricht, parteciperanno alle fasi successive per la creazione della moneta unica europea. Nel secondo semestre dello stesso anno saranno decise le parità monetarie, ossia i cambi tra le varie monete, e il cambio di ogni moneta con l'Euro. Il 1º gennaio 1999 le parità diventeranno, in base alla tabella di marcia, irrevocabili, nascerà la banca centrale europea, cominceranno gli scambi internazionali in Euro. Il 1º gennaio 2002 circoleranno in tutti i Paesi ammessi nel club della moneta unica le banconote e le monete in Euro, valide per un semestre insieme alle monete e alle banconote nazionali. Dal 1º luglio 2002 rimarrà solo l'Euro, le banconote nazionali avranno perduto valore legale, ma i distratti che non se ne fossero sbarazzati disporranno di tempi lunghi per cambiarle agli sportelli delle banche autorizzate. (p. 141)
  • La disfatta del 15 giugno ha ispirato riflessioni sulle modifiche da apportare all'istituto del referendum e in particolare sull'opportunità d'introdurre il referendum propositivo, che non si limita ad abrogare una legge, ma crea una legge. Ci dispiace per Pannella, ma la prima regola dei referendum (consentiteci di non scrivere referenda, al plurale) è: pochi ma buoni. (p. 202)
  • Dopo la fuga del dittatore Siad Barre da Mogadiscio (gennaio 1991) la Somalia era stata preda delle convulsioni d'una feroce guerra civile. Nell'intento di risollevarla dall'abisso in cui era sprofondata, I'Onu aveva approvato l'invio di 36 mila uomini messi a disposizione da venti Paesi diversi, e coordinati da un comando degli Stati Uniti. A capo del contingente italiano s'erano succeduti i generali Giampiero Rossi, Bruno Loi e Carmine Fiore. Nel maggio del 1993 la responsabilità dell'impresa – la cui etichetta era diventata Continue Hope – passava direttamente all'Onu, senza che per questo ne crescesse l'efficacia. Poi fu il «tutti a casa», e il contingente italiano abbandonò Mogadiscio il 20 marzo 1994, lo stesso giorno in cui fu assassinata la giornalista Ilaria Alpi del Tg3. Restore Hope aveva forse lenito sofferenze materiali, ma non pacificato né ripristinato un tollerabile contesto d'istituzioni democratiche. Insomma poco meno che un disastro: del quale non poteva essere chiamata a rispondere l'Italia, coinvolta in un'impresa fallimentare voluta e organizzata dagli Stati Uniti. I reparti italiani avevano pagato un prezzo di sangue (con una dozzina di morti) per la loro presenza, e altri morti s'erano avuti, in quell'imperversare di banditi e di fazioni sanguinarie, tra giornalisti, fotografi, cineoperatori. Carmen Lasorella era scampata a un agguato nel quale aveva perso la vita il suo operatore Marcello Palmisano, in un altro agguato era stata uccisa, come s'è accennato, Ilaria Alpi. Quelle tragedie erano ormai passate all'archivio, nella coscienza del Paese. (pp. 265-266)
  • L'impresa di questi secessionisti da sbarco, che s'erano impadroniti d'una motonave lagunare per raggiungere il loro obbiettivo e che disponevano d'armi per fortuna non utilizzate e d'un artigianale mezzo blindato (Vtd ossia Veneto Tank Distruttore, più colloquialmente tanko, o tanketo) ha scosso l'Italia e interessato il mondo. L'azione di guerriglia incruenta s'era svolta nello scenario più suggestivo e solenne che si potesse immaginare, e i richiami alla gloriosa Repubblica dominatrice dei mari, ai dogi, a un cattolicesimo integralista di tipo vandeano, erano fatti apposta per ispirare romantiche fantasticherie e nostalgie. Accantonate le quali gli assaltatori e i loro complici apparivano solo l'espressione di confusi risentimenti e di grossolane velleità politiche: il tutto tradotto in un blitz vernacolo da «Se no i xe mati no li volemo». Gente modesta gli incursori e – fuori da questa parodia del Chiapas – onesta e tranquilla: ma ubriacata – oltre che dalla grappa – dalla predicazione del professor Miglio, ad altissimo tasso d'alcol ideologico, da letture male assimilate e da trascorsi storici male adattati all'attualità. Dapprima questi fanatici da bar s'erano limitati al disturbo di trasmissioni televisive della Rai, e intanto preparavano i mezzi e le armi per l'attacco ad un simbolo famoso della venezianità. I risvolti goliardici della spedizione hanno sollecitato l'estro di cronisti e commentatori. Gli autodidatti dell'insurrezione erano provvisti – oltre che d'ordigni bellici pericolosi soprattutto per chi si fosse azzardato ad impiegarli, nonché di bevande tra le quali non figurava l'acqua – anche di biancheria pulita per il caso che dovessero subire un assedio di lunga durata. Ma il ministro dell'Interno Napolitano, personaggio alieno da violenze anche verbali, ha dato – ci scommettiamo a malincuore – l'ordine di usare le maniere forti. (pp. 276-278)
  • Cossutta e Bertinotti sono una strana coppia. Cossutta è un apparatchik di matrice sovietica, Bertinotti ha le sue radici ideologiche nel socialismo di Riccardo Lombardi: che era intelligente e di un'onestà cristallina: ma covava la voluttà dello sfascio, era contento come una pasqua se gli riusciva di mettere a soqquadro un governo, o il suo partito, o la sua corrente. Quell'insegnamento Bertinotti non l'ha dimenticato. Il male oscuro del governo Prodi veniva dunque da lontano, dalle desistenze che erano utili ma piuttosto disoneste, e da una maggioranza che di quelle desistenze era il frutto: e che metteva insieme gli inflessibili contabili di Bankitalia e gli sbarazzini inventori dell'occupazione per decreto. Pare che all'estero Bertinotti sia piaciuto: è piaciuto anche Dario Fo, insignito del Nobel mentre Prodi annunciava il suo congedo dopo 514 giorni a Palazzo Chigi e mentre Silvio Berlusconi rinunciava ad essere candidato premier per il Polo nell'eventualità di elezioni ravvicinate, riservandosi i compiti di regista della coalizione di centrodestra. Bertinotti, Fo, anche Bossi sono, a modo loro, divertenti. L'Italia seria lo è molto meno. (p. 336)
  • S'è perpetuata l'anomalia di questa stagione della politica italiana: l'opposizione che il governo deve tenere a bada non è quella ufficiale, è quella interna alla maggioranza. L'anomalia durerà – quale che sia lo schieramento al potere – finché dureranno in Italia non solo regole imperfette avvolte da una giungla di cavilli, ma un costume politico bizantino, allergico alla chiarezza. Un costume che ci propina le quasi-crisi, le quasi-maggioranze, le quasi-riforme. E non c'è rimedio. (p. 340)

Questo volume segna il capolinea della nostra Storia dell'Italia contemporanea. Mario Cervi, di parecchi anni più giovane di me, potrà, se vorrà (e io spero che lo voglia) continuarla da solo. Io debbo prendere congedo dai nostri lettori. E non soltanto per ragioni anagrafiche, anche se di per sé abbastanza evidenti e cogenti. Ma perché il congedo l'ho preso negli ultimi tempi dalla stessa Italia, un Paese che non mi appartiene più e a cui sento di non più appartenere. [...] Credemmo che l'Italia avesse liquidato [...] un regime [quello fascista] che le aveva impedito di essere se stessa. Ed invece gli eventi [...] ci dimostravano che non era affatto cambiata con il cambio del regime. Erano cambiate le forme, ma non la sostanza. Era cambiata la retorica, ma era rimasta retorica. Erano cambiate le menzogne, ma erano rimaste menzogne. Erano soprattutto cambiate le mafie del potere e della cultura, ma erano rimaste mafie. [...] Entrambi assistemmo e fummo i cronisti della rapida degenerazione della democrazia in partitocrazia, cioè in un oligopolio di camarille e di gruppi che esercitavano il potere in nome della cosiddetta «sovranità popolare»; in realtà nel solo interesse di quei gruppi e camarille, che di interesse ne avevano uno solo: che il potere restasse «cosa nostra», come infatti per quasi cinquant'anni è stato, e come seguita ad essere anche ora che ha cambiato titolari, ma sempre restando «cosa nostra». [...] Anche la Repubblica, «nata dalla Resistenza», com'era d'obbligo chiamarla, riconobbe ed anzi enfatizzò l'indipendenza della Magistratura dal potere politico. E per meglio garantirla, la dotò di un organo di autogoverno, il Consiglio superiore della magistratura, riservandosene però una componente «laica», cioè di non magistrati nominati ai quei posti dal potere politico, e per esso dai tre maggiori partiti, che se lo contendevano, o meglio se lo spartivano. [...] È questo che spiega l'impunità con cui le forze politiche poterono compiere la loro opera di corruzione, che non consisteva soltanto nel prelievo dei pedaggi imposti a tutte le attività economiche pubbliche e private, [...] che alla corruzione avrebbero dovuto porre un freno e che invece ne diventarono lo strumento. La corruzione non è un fenomeno soltanto italiano. Clemenceau diceva che non c'è democrazia che ne sia al riparo. Ma quella che aveva sotto gli occhi lui, in Francia, si limitava alla classe politica, forse non molto migliore della nostra. Ma a sbarrarle la strada c'era uno Stato che dai tempi di Colbert era servito da una vera e propria casta di commis, di funzionari rigorosamente selezionati in scuole speciali ed alla corruzione impermeabili. La burocrazia italiana non disponeva di un personale di altrettanto livello e non oppose resistenza al potere politico che se l'annesse distribuendo favori soprattutto di carriera agli arrendevoli e castighi a chi non si adeguava. I due milioni di miliardi e passa di debito pubblico non si possono spiegare che come il frutto di un reticolo di complicità fra classe politica e classe amministrativa che rese del tutto vano il disposto costituzionale secondo cui lo Stato non poteva procedere a spese che non fossero coperte da adeguate entrate. [...] Studente negli anni Venti, ho sognato, come tanti, quasi tutti i miei coetanei, di contribuire a fare del fascismo una cosa seria, e automaticamente ce ne trovammo emarginati. Ci schierammo con le poche forze liberaldemocratiche della Resistenza, e ce ne ritraemmo vedendola trasformata in uno strumento di partito e ridotta a grancassa della sua propaganda col consenso – o la sottomissione – della maggioranza degl'italiani. La speranza di contribuire a qualcosa di buono si riaccese subito dopo la Liberazione sotto la guida di pochi vecchi uomini del prefascismo, presto anch'essi emarginati dalle nuove leve di mestieranti della politica, abilissimi nei giochi di potere, ma soltanto in quelli. E da allora iniziò la degenerazione mafiosa della democrazia sotto gli occhi indifferenti, o ipocritamente indignati, di una pubblica opinione alle mafie assuefatta da secoli. Oramai sono giunto alla conclusione che la corruzione non ci deriva da questo o quel regime o da queste o quelle «regole», di cui battiamo, inutilmente, ogni primato di produzione. Ci deriva da qualche virus annidato nel nostro sangue e di cui non abbiamo mai trovato il vaccino. Tutto in Italia ne viene regolarmente contaminato. [...] Ho smesso di credere all'utilità di una Storia scritta al di fuori di tutti i circuiti della politica e della cultura tradizionali. Anzi, ad essere sincero sino in fondo, ho smesso di credere all'Italia. Questo volume, che include la sceneggiata di piazza San Marco, include anche la convinzione di uno dei suoi due autori che in un'Italia come questa anche una sceneggiata può bastare a provocarne la decomposizione. Sangue non ce ne sarà: l'Italia è allergica al dramma, e per essa nessuno è più disposto ad uccidere e tanto meno a morire. Dolcemente, in stato di anestesia, torneremo ad essere quella «terra di morti, abitata da un pulviscolo umano», che Montaigne aveva descritto tre secoli orsono. O forse no, rimarremo quello che siamo: un conglomerato impegnato a discutere, con grandi parole, di grandi riforme a copertura di piccoli giuochi di potere e d'interesse. L'Italia è finita. O forse, nata su dei plebisciti-burletta come quelli del 1860-'61, non è mai esistita che nella fantasia di pochi sognatori, ai quali abbiamo avuto la disgrazia di appartenere. Per me non è più la Patria. È solo il rimpianto di una Patria.

Milano ventesimo secolo

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Né Cervi né io siamo di Milano. Cervi vi approdò da pochi chilometri di distanza, Crema; io da un po' più giù, Firenze. Per entrambi Milano è stata una scelta, definitiva e mai rimpianta. Anche perché – come già aveva capito Stendhal – milanesi non si nasce, si diventa. E da milanesi abbiamo vissuto, nel bene e nel male, tutti gli avvenimenti dell'ultimo cinquantennio di storia italiana, che è stato tutto di origine e d'impronta milanese. Non lo diciamo per zelo di neòfiti: come il lettore vedrà, non tutto quello che Milano ha dato all'Italia ci sembra esente da critiche e riserve; ma se dall'Italia si detraesse tutto ciò che ha dato Milano, resterebbe ben poca cosa.

Citazioni

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  • Il 1898 fu l'anno fatale di Milano. Lo fu ancora di più del 1900 che pure venne insanguinato dal regicidio di Monza: perché l'assassinio di Umberto I appartiene alle varianti più prevedibili della cronaca e della storia, mentre la sommossa milanese e le cannonate di Bava Beccaris s'inserirono in una logica concatenazione di avvenimenti. Tanto che osservatori di mente acuta, anche se non imparziali (come Gaetano Salvemini), pronosticarono con largo anticipo l'esplosione di collera popolare che, disordinata e convulsa in quel momento, veniva tuttavia da lontano: da un aggravarsi – non solo a Milano ma in tutta Italia – delle condizioni di vita delle classi più umili.
  • Albertini s'era ripromesso di raggiungere «una posizione eminente» prima dei trent'anni. Mantenne l'impegno. Il 13 luglio 1900 la «Società E. Torelli Viollier e C. per la proprietà e la pubblicazione del Corriere della Sera» divenne la «Società L. Albertini e C. per la proprietà etc. etc.». Le carature erano divise tra Benigno Crespi (32), Ernesto De Angeli (11), Giovanni Battista Pirelli (7), Luca Beltrami (4) e Luigi Albertini (2).
  • Le prime formazioni partigiane entrarono in Milano il 28 aprile alle 17.30: erano seicento uomini provenienti dall'Oltrepò pavese. Mezz'ora dopo sopraggiunsero, dall'Ossola, elementi dell'ottava brigata Matteotti, con l'avvocato Antonio Greppi, che diverrà poi sindaco della città. L'insurrezione generale, ordinata dal Clnai, divampò quando non c'era più nulla contro cui insorgere perché il generale tedesco Wolff aveva già accettato e ordinato la resa dei suoi reparti. Le efferatezze delle formazioni fasciste furono ripagate con alti interessi. Per un certo periodo si assistette alla mattanza cui queste occasioni rivoluzionarie danno infallibilmente luogo. Tra i condannati e i giustiziati (o semplicemente «fatti fuori») vi furono due personaggi famosi e decadenti, gli attori Osvaldo Valenti e Luisa Ferida.
  • La Scala, fu deciso, sarebbe rinata com'era, senza innovazioni e ardimenti architettonici. L'impresa di realizzare in breve tempo il miracolo fu affidata ad Antonio Ghiringhelli, un industriale ch'era compagno di partito del sindaco Greppi. Per la direzione del concerto inaugurale non poteva esserci che un nome: Arturo Toscanini.
  • L'11 maggio 1946 la Scala riaprì i suoi battenti, e Toscanini, impugnata la bacchetta nel teatro ch'era stato quello della sua giovinezza e della sua maturità trionfale, diresse un concerto interamente italiano.
  • Nella Milano che voleva riassaporare la vita e dimenticare il sangue e le tragedie recenti, si diffuse la sera di quel 29 novembre la notizia d'una strage orrenda. In un appartamento al primo piano di via San Gregorio 40, dalle parti della Stazione Centrale, una Donna, Franca Pappalardo, era stata massacrata a colpi di spranga insieme ai suoi tre figli: Giovanni di sette anni, Giuseppina di cinque e Antonio di pochi mesi.
  • L'assassina fu presto trovata. Era Rina Fort, una friulana trentunenne d'aspetto grezzo che, conosciuto il Ricciardi mentre era solo a Milano (lui s'era spacciato per scapolo), ne era diventata la collaboratrice e l'amante. Ma che era stata costretta a farsi da parte quando il magliaro – in viaggio a Prato mentre i suoi venivano abbattuti in un raptus di furia selvaggia – fu raggiunto dalla moglie. Rina Fort fu ribattezzata «la belva di San Gregorio».
  • Rina Fort ammise l'uccisione di Franca Pappalardo, negò ostinatamente – contro l'evidenza – quella dei bambini. Fu condannata all'ergastolo, e si comportò come una detenuta modello durante i ventinove anni di prigionia. Graziata nel 1975, morì il 2 marzo del 1988.
  • Alle urne Greppi rastrellò ancora una valanga di preferenze, ma per il socialismo, tradizionalmente delegato ad avere il sindaco di Milano, fu tutt'altro che un trionfo. I due tronconi del Psi e del Psdi (il primo con 110 mila voti, il secondo con 114 mila) ebbero, sommati insieme, meno voti della Democrazia cristiana (239 mila) e il Pci si aggiudicò nettamente, con 177 mila voti, il secondo posto. Nelle manovre per la nuova giunta, tramontò Greppi e spuntò Ferrari: un socialdemocratico cauto, cugino di Emilio Caldara, e un tisiologo di chiara fama, primario del sanatorio di Garbagnate, designato nella precedente amministrazione, con inusuale rispetto per la competenza, all'assessorato della Sanità.
  • Nel gennaio del 1964 Gino Cassinis fu stroncato da un malore, mentre era a Roma. Fu il primo sindaco di Milano il cui mandato fosse stato interrotto dalla morte. Durante il tragitto verso il cimitero il carro funebre fu fatto sostare davanti alla Scala al cui interno l'orchestra suonava la Marcia funebre di Sigfrido, diffusa nella piazza da altoparlanti. (p. 167)
  • Ma a Milano quell'ottobre 1964 segnò una data storica in un senso più modesto, eppure senza dubbio più importante per la vita della città. Fu inaugurata la linea uno della metropolitana. Qualche giorno prima della data fissata per l'inaugurazione il presidente della società MM, l'onorevole Ezio Vigorelli, era mancato improvvisamente. Da Roma venne, in rappresentanza del governo, il socialdemocratico Roberto Tremelloni, un ministro milanese. L'inaugurazione fu – come ha ricordato colui cui toccò l'ingrato compito d'organizzarla, lo «storico» comunale Ciro Fontana – un disastro. Nel mezzanino di piazzale Lotto dove erano stati radunati gli ospiti c'era una calca indescrivibile, il viaggio inaugurale fu una Babele. Ma Milano poté affiancarsi, sia pure per il momento con una sola linea, alle metropoli dotate del più razionale e «decongestionante» tra i mezzi di comunicazione pubblici. (p. 170)
  • Pietro Bucalossi durò fino all'autunno del 1967, quando diede le dimissioni da sindaco (poco dopo passò al Partito repubblicano che lo candidò deputato: per il Pri fu anche ministro). L'atmosfera della città stava cambiando, non in meglio. Alla magari un po' opaca stagnazione precedente era seguito un suggerirsi di sintomi d'irrequietezza. (p. 171)
  • Pietro Cavallero, che nel settembre 1967 aveva compiuto con la sua gang una rapina nella quale tre persone persero la vita, proclamava esaltato che «colpendo le banche io colpivo il sistema capitalistico nel suo cuore vitale, nel suo simbolo più evidente e prepotente». Erano i germi della contestazione e del terrorismo. Milano era matura per altri – e bui – anni e destini. I sindaci che erano politici part-time, come Greppi, Ferrari, Cassinis, lo stesso Bucalossi, avevano fatto il loro tempo. S'erano preoccupati della città più che della popolarità. Scoccava l'ora degli uomini pienamente fedeli al motto di Nenni: politique d'abord. Scoccava l'ora di Aldo Aniasi. (p. 171)
  • L'11 marzo 1969 Trimarchi tenne una sessione di esame. Quattro studenti superarono la prova, il quinto cadde perché, lo ammette Capanna, «francamente impreparato». Lo studente, Marco Orefice, chiese gli fosse restituito lo «statino» senza che il voto fosse annotato. Trimarchi si oppose. Bisognava «convincerlo». La folla eccitata degli studenti gli ingiunse di spiegare perché volesse certificare il voto negativo (la bocciatura era ritenuta un atto d'inaudita repressione). Trimarchi taceva e resisteva. Fu «liberato» dalla forza pubblica. Nei giorni successivi gli fu impedito, con clamori e insulti, di tenere lezione. In via Albrici, inseguito e attorniato da esagitati, fu coperto di sputi. La contestazione diventava violenza. Nell'Università tra gli irruenti seguaci di Capanna s'andavano consolidando le schiere dei katanghesi nel cui arsenale facevano la loro apparizione le bottiglie molotov. Sull'opposto fronte politico i neofascisti, in grande inferiorità numerica, abbozzarono o progettarono conati di reazione. (p. 178)
  • La contestazione camminò a un certo punto parallelamente alle grandi rivendicazioni operaie del momento, senza mai saldarsi veramente da esse. In questa Milano inquieta, e a giorni angosciata, che vedeva dissipati in breve tempo i frutti – per la verità non distribuiti equamente – del «miracolo economico» e d'una straordinaria crescita sociale, deflagrò la bomba di piazza Fontana. Un'esplosione terrificante, la cui caligine morale politica e giudiziaria pesa tuttora sulla città. (p. 179)
  • Erano le 16.37 del 12 dicembre 1969. Un venerdì, e l'orario di chiusura della Banca dell'Agricoltura, in piazza Fontana, era passato già di mezz'ora abbondante. Ma nel salone si assiepava ancora la clientela – tra essa molti agricoltori o mediatori provenienti dalla provincia – che stava concludendo le operazioni. L'ordigno distruttore era collocato sotto un tavolo attorno al quale molta gente compilava moduli o consultava documenti. È superfluo chiedersi se l'attentatore avesse fisato il timer della bomba su un'ora in cui riteneva che la banca sarebbe stata vuota, o se di proposito avesse voluto fare una carneficina. Sta di fatto che la banca era gremita e l'ordigno provocò 16 morti e molti feriti. Tra questi ultimi un ragazzino, Enrico Pizzamiglio, cui dovette essere amputata una gamba dilaniata: tragico, vivente simbolo d'uno dei più tenebrosi episodi della vita della città, e dell'Italia. (pp. 179-180)
  • Nel corso degli anni i riflettori dell'accusa si spostarono dagli anarchici ai neofascisti. Valpreda fu assolto anche se un tassista di probità insospettabile, Cornelio Rolandi, comunista, aveva riconosciuto in lui un «cliente» portato in piazza Fontana in concomitanza con l'attentato. È possibile, anzi probabile, che il povero Rolandi, da tempo morto, si fosse sbagliato. Ma il linciaggio morale cui fu sottoposto ebbe aspetti crudeli. (p. 180)
  • Il mite anarchico Giuseppe Pinelli – uno specchiato galantuomo – precipitò nel cortile della Questura di Milano, da un locale del quarto piano, mentre veniva interrogato sui possibili coinvolgimenti di suoi compagni di fede nell'atto terroristico. Era stato buttato nel vuoto dagli inquirenti, asserirono molti esponenti della sinistra e d'un giornalismo che si definiva «impegnato». Questa tesi – poi smentita dall'epilogo di due istruttorie – fu corredata dall'indicazione d'un colpevole del «delitto»: il commissario di polizia Calabresi. Era un'accusa temeraria. Non fu neppure dimostrato, anzi venne escluso, che Calabresi si trovasse nella stanza dell'interrogatorio di Pinelli al momento della tragedia. Ma si ritenne non occorressero prove per fare di Calabresi il bersaglio di fanatici «giustizieri». Il giovane commissario doveva essere, per logica politica, il bieco boia d'un innocente. (p. 180)
  • La vendetta ci fu. Il 17 maggio del 1972 Calabresi fu ammazzato con tre colpi di pistola, l'ultimo, quello di grazia, alla nuca. Un anno dopo, durante lo scoprimento in Questura d'un busto del commissario (presenti il ministro dell'Interno Rumor, il prefetto Libero Mazza e il sindaco Aniasi), un esaltato sanguinario, Gianfranco Bertoli, lanciò una bomba che lasciò morte sul terreno quattro persone e altre 45 ne ferì. «Morirete tutti come Calabresi e ora uccidetemi come Pinelli» aveva urlato l'invasato. Si proclamò anarchico, ma era un individuo ambiguo, con precedenti penali. (p. 182)
  • In questo rosario di lutti va inclusa anche la morte dell'editore miliardario (e rivoluzionario) Giangiacomo Feltrinelli, straziato dall'esplosivo nel marzo del 1972 mentre era issato su un traliccio dell'energia elettrica, nelle campagne di Segrate. Anche in quel caso furono affacciate verità politiche. Contro l'ipotesi della polizia – ad anni di distanza avvalorata dagli stessi compagni di Feltrinelli – secondo la quale l'editore guerrigliero era stato dilaniato da un ordigno che egli stesso voleva collocare sul traliccio, si ersero i fautori d'un altro crimine di Stato: i quali asserivano che Feltrinelli era stato vittima d'un complotto. Chi aderiva alla sensata ricostruzione delle autorità era bollato come reazionario, e complice dei potenti e ignoti mandanti dell'«assassinio». Dagli anni che Capanna ha esaltato come «formidabili» si passava così, senza soluzione di continuità e secondo un crescendo logico, agli anni di piombo. (p. 182)
  • Aniasi negava l'esistenza di opposti estremismi, una fola sostenuta – secondo lui – dai reazionari della «maggioranza silenziosa». Tutto questo non toglie nulla alle sue doti di amministratore e di politico, che erano e sono notevoli. Ma toglie molto alla sua statura di sindaco.
  • Anche nella sua città Mazza non raccolse consensi ufficiali, anzi. Ebbe la maggioranza dei partiti contro, ebbe contro il sindaco Aldo Aniasi. Questi ha spiegato, ancora recentemente, d'essersi irritato perché il prefetto aveva fatto un rapporto al governo sulle tensioni che c'erano in città e nessuno aveva avuto la sensibilità d'informarne il sindaco. «La reazione negativa al rapporto Mazza fu anche determinata dal fatto che i milanesi seppero dell'effettiva gravità della situazione da un'indiscrezione venuta da Roma grazie alla soffiata di autorevoli personaggi». Aniasi giustifica anche il marchio d'infamia apposto alla teoria degli opposti estremismi asserendo che la polemica si innestò su una battaglia contro l'estremismo di destra e contro la violenza nera. Ma se il rapporto gli fosse stato mostrato in anticipo cosa avrebbe detto Aniasi? L'avrebbe condiviso, o si sarebbe adoperato per insabbiarlo? (p. 192)
  • I sabati del disordine divennero un rito, le devastazioni un suo immancabile corollario. La Statale era infrequentabile per chi non fosse «rosso» o non fingesse d'esserlo, piazza San Babila non era consigliabile, in certe ore, a chi non fosse nero. Gli opposti estremismi avevano perfino una uniforme: l'eskimo per i rossi, il loden e le scarpe nere a punta in San Babila. I neri erano di solito in minoranza, e ricorsero alle bombe a mano per dimostrarsi capaci d'iniziativa (così fu ucciso nell'aprile del 1973, in uno scontro di strada, l'agente di polizia Antonio Marino tra i cui assalitori era Vittorio Loi, figlio del famoso campione di pugilato Duilio). (p. 192)
  • Milano fu la capitale del terrorismo. Non perché solo a Milano, o prevalentemente a Milano, esso abbia infierito. Ma perché a Milano erano presenti tutte le condizioni che potevano favorirne la nascita e lo sviluppo. Una contestazione giovanile in progressione di violenza; frange operaie convinte che la lotta armata fosse l'unica via per cambiare la società; un tessuto industriale potente e quindi con un sindacalismo forte dal quale fuoriuscivano i rivoli incontrollabili della «rivoluzione» redentrice e sanguinaria insieme; una grande stampa spesso imbarazzata e reticente, sempre desiderosa di comprendere i moventi e le sollecitazioni che erano alla base della spietata utopia (proprio uno dei giornalisti che con maggiore intelligenza e penetrazione vollero studiare questo fenomeno, Walter Tobagi, rimase vittima del feroce fanatismo «rosso»); una borghesia riservata o timida o cinica, incapace comunque di trasformarsi in maggioranza silenziosa, tanto che questa etichetta fu lasciata a patetici esponenti della destra nostalgica: una borghesia nei cui salotti – almeno in alcuni di essi – veniva ritenuto elegante atteggiarsi a simpatizzanti dell'estremismo di sinistra. (p. 194)
  • Walter Tobagi non aveva che trentatré anni, ed era forse il miglior prodotto della sua leva, non soltanto professionalmente. Era d'idee (forse anche di tessera) socialiste, ma moderate, in tono col suo carattere fermo ma mite, con la sua solida cultura, con la sua etica di galantuomo. Si era occupato, come tutti, di terrorismo, ma facendolo da cronista coscienzioso e maturato qual era, di stile efficacissimo per le sue fresche coloriture, ma sobrio, asciutto e allergico a ogni sensazionalismo. L'unico motivo che può aver richiamato su di lui le pistole dei killers è la carica, che ricopriva, di presidente dei giornalisti lombardi. O forse nemmeno quella. Probabilmente hanno scelto Tobagi solo perché era uno dei bersagli più indifesi, un tiro a bersaglio fermo e scoperto, com'era nelle preferenze di questi eroi dell'agguato. Tobagi non aveva altra scorta che la sua innocenza. (p. 194)
  • Milano aveva paura ma le autorità, locali o nazionali, ostentavano serenità, e da molti pulpiti venivano richieste non di severità ma di maggior garantismo, di maggiori vincoli alla polizia, di svolte sociali. Finché la cattura la prigionia e l'assassinio di Aldo Moro, nella primavera del 1978, provocarono una valanga di conversioni. I fiumi dell'ubriacatura si dissolsero lentamente, e Milano, con il Paese, riacquistò coscienza della realtà. O piuttosto l'aveva sempre avuta: ma essa non riusciva ad esprimersi attraverso le casse di risonanza d'un mondo politico e sindacale che quando evocava cautamente il terrorismo rosso si sentiva il dovere di aggiungere, anche se l'occasione fosse inadatta, il rituale riferimento al terrorismo nero. (p. 195)
  • Protagonista di una bancarotta, Sindona fu, dopo il 12 luglio 1979, qualcosa di molto peggio: mandante d'un omicidio. L'accusarono d'aver ingaggiato un killer professionista, William Joseph Aricò, per eliminare il troppo onesto troppo puntiglioso e troppo fastidioso Ambrosoli. Aricò s'era dimostrato degno della sua truce fama: con quattro colpi di una Magnum 357 aveva abbattuto a Milano in via Morozzo della Rocca la vittima designata. Poco meno di sette anni dopo, il 18 marzo 1986, la Corte d'Assise di Milano dichiarò Michele Sindona colpevole di omicidio aggravato e lo condannò all'ergastolo. (p. 206)
  • Sindona e Calvi: finali da Grand Guignol per due vite che avevano percorso a lungo un cammino trionfale e s'erano intrecciate. Con gli anni di piombo Milano aveva avuto anche gli anni di cenere, ciò che restava di istituzioni, patrimoni, nomi fino ad allora prestigiosi. Poi i guasti parvero in qualche modo sanati. Il sistema finanziario s'era riassestato, e il Banco Ambrosiano era diventato Nuovo Banco Ambrosiano. Il panorama giornalistico s'era normalizzato, e l'ormai fuggiasco Gelli aveva dovuto mollare la presa ch'era riuscito a stabilire sul quotidiano di via Solferino. Angelo Rizzoli era uscito di scena. A Milano era calata, per «salvare» il Corriere della sera, la Fiat: un atto di resa abbastanza malinconico per l'orgogliosa «capitale morale». Fine di due storie a loro modo esemplari, e poco milanesi, se per milanese s'intende ciò che è serio, produttivo, sensato. Addio anni Settanta, Milano ricominciava da ottanta.

L'Italia del Novecento

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  • Di fisico asciutto, capelli impomatati, salutista, maniaco delle uniformi, [Achille Starace] non aveva una collocazione politica autonoma né un seguito personale. Proprio i suoi difetti più evidenti, la superficialità, la limitatezza di orizzonti culturali, la propensione per una pompa pseudo-guerriera e in effetti piuttosto sudamericana, la docilità agli ordini, fecero cadere su di lui la scelta di Mussolini. (p. 97)
  • Achille Starace – che seppe poi morire bravamente, in piazzale Loreto – devitalizzò e narcotizzò il Pnf applicando puntualmente la volontà di Mussolini. Questa fu, se vogliamo usare una parola grossa, la sua funzione storica. (p. 98)
  • Nella gerarchia fascista un solo uomo contrastò con vigore i procedimenti antisemiti, e fu Italo Balbo. Egli fu tenace, e coraggioso in questa azione: e riuscì ad ottenere qualche emendamento nelle misure persecutorie. Avverso alle leggi razziali fu anche il quadrumviro De Bono, probabilmente non per simpatia per gli ebrei, o per scrupoli umanitari, ma semplicemente perché gli pareva che l'improvviso zelo antisemita del Regime fosse malaccorto e sospetto. (p. 162)
  • Se mai un Presidente del Consiglio italiano meritò la qualifica di galantuomo, questi fu Parri. Era timido nella vita quotidiana, sapeva essere intrepido nei frangenti pericolosi. (p. 292)
  • Il 2 agosto 1980 l'Italia fu atterrita da una nuova strage politica. Un ordigno esplosivo collocato nella stazione ferroviaria di Bologna, affollata di viaggiatori in attesa dei treni delle vacanze, provocò un'ottantina di morti. Come autori materiali dell'orrendo attentato furono condannati all'ergastolo, anni dopo, i terroristi di destra «Giusva» Fioravanti e Francesca Mambro, già riconosciuti colpevoli di altri assassinî. Entrambi continuano a protestare la loro estraneità alla strage. (p. 504)
  • I partiti avevano finalmente messo l'uomo sbagliato al posto sbagliato. De Mita non è senza qualità. Ma gli facevano interamente difetto le doti di un governo. Lo si era visto quand'era ministro, e concludeva poco: e quel poco, di solito, sarebbe stato meglio non fosse stato concluso. (p. 536)
  • Prodi e il suo vice Veltroni ipotizzavano un Ulivo planetario – insieme all'inglese Tony Blair e a Bill Clinton – ma l'ambizioso progetto passò in sott'ordine quando il Presidente americano subì invece una grottesca gogna planetaria per i suoi incontri ravvicinati con la stagista Monica Lewinsky. La Russia affondava nel caos, l'Italia galleggiava, nemmeno tanto male, nella confusione: sotto la sorveglianza dei guardiani europei. Poi, alle prime avvisaglie d'autunno del 1998, il mondo fu sconvolto da una crisi economica seria – la Russia era in bancarotta, il Giappone aveva l'affanno, le maggiori borse crollavano – e anche l'Italia venne investita nella bufera. (p. 677)
  • Bertinotti replicava la recita dell'anno precedente e, imputando alla finanziaria elaborata dal governo un'impronta troppo «capitalista», annunciava che Rifondazione avrebbe votato contro. Prodi, che aveva posto la questione di fiducia, venne sconfitto, per un solo voto, a Montecitorio e rassegnò le dimissioni. Era caduto il governo, e si era scissa Rifondazione: Cossutta e i suoi, contrari alla rottura della maggioranza, si distaccarono da Bertinotti e fondarono un altro partito comunista. A Prodi non riuscì di rimettere insieme una maggioranza, e l'incarico di provarcisi fu da Scalfaro affidato a Massimo D'Alema in quanto leader del maggior partito italiano. (p. 677)
  • Tra critiche e auspici il governo D'Alema ebbe un solo unanime riconoscimento: aveva una rappresentanza femminile – sei ministeri – superiore a quella d'ogni precedente governo della Repubblica. (p. 677).

L'Italia del Millennio

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Questo libro, io e Cervi, l'abbiamo concepito e scritto come un libro «di servizio», cioè per fornire ai nostri lettori il «tracciato» delle grandi vicende politiche del millennio, attraverso le quali l'Italia si è formata, e che ne spiegano la condizione attuale: pregi (pochi) e difetti (molti). La difficoltà non è stata d'individuarle: lo abbiamo già fatto nei volumi precedenti; ma di scartare quelle che avrebbero snaturato, dilatandolo, il carattere di «sommario» che volevamo dare alla nostra modesta impresa. Fra gli altri accadimenti, per esempio, abbiamo dovuto scartare quelli relativi alla cultura, all'arte, al pensiero che per tre o quattro secoli fecero la grandezza del nostro Paese e ne assicurarono il primato nel mondo. Ci siamo limitati ad accennare soltanto a quelli che sulla politica esercitarono qualche influsso. Sacrificando, per esempio, Ariosto e Tasso, Machiavelli e Guicciardini che del loro tempo furono testimoni e ritrattisti. Nessun critico potrà essere, su questa nostra fatica, più severo di noi. A più riprese siamo stati al punto di rinunciarvi. Poi ha finito sempre per prevalere l'impegno (o l'illusione) del «servizio». Crediamo di averne reso uno, anche se umile, al comune lettore, aiutandolo a riconoscere e a dipanare gl'ingarbugliati fili di un millennio fra i quali è difficile individuare quali furono i più importanti e decisivi. Noi ci siamo provati. Al lettore, il giudizio.

Citazioni

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  • Dapprima il governo D'Alema poté contare su Ciampi come ministro del tesoro: ma poi – con un consenso molto alto, e con riconoscimenti unanimi al suo prestigio, alla sua autorevolezza, alla sua imparzialità – Ciampi venne eletto presidente della repubblica (13 maggio 1999) e Giuliano Amato ne prese il posto al Tesoro. Con il suo piglio scostante e a volte presuntuoso, D'Alema che ha doti politiche notevoli non era fatto per catturare simpatie né tra la folla né nel Palazzo. In alcuni passaggi difficili – come la partecipazione dell'Italia all'intervento della Nato in Kosovo, premessa necessaria alla caduta, nell'ottobre 2000, del dittatore Milosevič – aveva dimostrato risolutezza, polso e senso dello Stato. Ma la sua compagine era indebolita dal fatto di non essere tale, perché al suo interno ognuno diceva e faceva quanto gli passava per la testa, le anime postcomunista e postdemocristiana faticavano a convivere, e gli andirivieni trasformisti disorientavano i cittadini. (p. 458)
  • Il governo era incalzato da un'opposizione aggressiva su temi – fisco, immigrazione clandestina, criminalità, servizi pubblici – che non trovavano adeguata soluzione. Inoltre, in vista delle elezioni regionali previste per il 16 aprile 2000, Berlusconi aveva attuato una riuscita manovra di riagganciamento della Lega, che a sua volta rinunciava ai furori secessionisti. A Teano – non era proprio Teano ma fa lo stesso – dove Garibaldi aveva consegnato il Sud conquistato a Vittorio Emanuele II, Berlusconi e Fini, e il solito Maroni in rappresentanza di Bossi s'incontrarono, e attestarono fedeltà all'Italia unita. (p. 458)
  • Le regionali – che riguardavano solo le regioni a statuto ordinario – dimostrarono che gli aruspici avevano visto giusto: fu una disfatta per il centrosinistra che s'era affermato solo in sei regioni su quindici. Tra le nove del Polo erano tutte quelle del Nord, Liguria inclusa. La parte più ricca, popolosa e produttiva del Paese aveva voltato le spalle a D'Alema: cui non dava molta consolazione il fatto che i Ds avessero ottenuto, come partito, un buon risultato. Il governo si dimise, e Berlusconi invocò elezioni immediate, perché la maggioranza ufficiale non era più una maggioranza reale: fu una volta di più deluso. Ciampi voleva portare a compimento la legislatura, e fece ricorso a un personaggio che come pontiere o traghettatore aveva ottime credenziali, Giuliano Amato. (pp. 458-459)
  • Il suo governo ha agito nell'attesa d'una scadenza elettorale – le politiche di primavera del 2001 – che il centrodestra attendeva con impazienza, sicuro com'era della vittoria: e che il centrosinistra attendeva con trepidazione e incertezza, senza nemmeno aver deciso, fino all'autunno del duemila, chi dovesse essere il suo candidato. La logica suggeriva Amato, che era premier e che aveva vasto credito interno ed estero. Ma i sondaggisti erano di parere diverso, ritenevano che, nel duello con il grande comunicatore Berlusconi, Amato apparisse fragile o flebile. Fu pertanto sfoderato il nome di Francesco Rutelli, giovane sindaco di Roma: che viene dai verdi e da una scuola pannelliana, e là ha imparato la dialettica. E che per di più è bello, un «piacione» o un «cicciobello» (come s'è scritto) cui dovrebbero andare molti consensi femminili. (p. 459)
  • L'Italia che non ha più il problema della fame ma ha quello della dieta, e che non soffre i guai dell'emigrazione ma quelli dell'immigrazione, chiudeva dunque il millennio con un duello politico singolare: nel quale la sostanza dei programmi era lasciata in ombra dai profili e dai sorrisi davanti ai riflettori televisivi. Ma ormai è così ovunque. L'importante è apparire. (pp. 459-460)
  1. Da una rubrica di epitaffi scritti su personaggi ancora in vita, comparsa per breve tempo su il Giornale; citato in Paolo Granzotto, Ti ricordi Indro?, p. 59.
  2. Da una rubrica di epitaffi scritti su personaggi ancora in vita, comparsa per breve tempo su il Giornale; citato in Paolo Granzotto, Ti ricordi Indro?, p. 60.
  3. Residenza privata della famiglia Mussolini dal 1925 al 1943.
  4. Rivista ufficiale del fascismo, fondata da Mussolini nel 1922.
  5. Harold Alexander, I conte Alexander di Tunisi (1891 – 1969), generale e politico britannico.
  6. Walter Bedell Smith (1895 – 1961), generale statunitense.
  7. Soprannome familiare del generale Eisenhower.
  8. Ente italiano per le audizioni radiofoniche, dal 1954 Rai Radiotelevisione Italiana.

Bibliografia

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  • Indro Montanelli e Mario Cervi, L'Italia littoria (1925-1936), Rizzoli, Milano, 1979.
  • Indro Montanelli e Mario Cervi, L'Italia littoria (1925-1936), settima edizione BUR Saggi, Rizzoli, Milano, 2006. ISBN 88-17-25843-1.
  • Indro Montanelli e Mario Cervi, L'Italia dell'Asse (1936-10 giugno 1940), Rizzoli, Milano, 1980.
  • Indro Montanelli e Mario Cervi, L'Italia della disfatta (10 giugno 1940-8 settembre 1943), Rizzoli, Milano, 1982.
  • Indro Montanelli e Mario Cervi, L'Italia della disfatta (10 giugno 1940-8 settembre 1943), sesta edizione BUR Saggi, Rizzoli, Milano, 2005. ISBN 88-17-25868-7.
  • Indro Montanelli e Mario Cervi, L'Italia dell'Asse (8 settembre 1943-9 maggio 1946), Rizzoli, Milano, 1983.
  • Indro Montanelli e Mario Cervi, L'Italia dell'Asse (8 settembre 1943-9 maggio 1946), sesta edizione BUR Saggi, Rizzoli, Milano, 2006. ISBN 88-17-25845-8.
  • Indro Montanelli e Mario Cervi, L'Italia della guerra civile (8 settembre 1943-9 maggio 1946), Rizzoli, Milano, 1983.
  • Indro Montanelli e Mario Cervi, L'Italia della Repubblica (2 giugno 1946-18 aprile 1948), Rizzoli, Milano, 1985, ISBN 88-17-42724-1.
  • Indro Montanelli e Mario Cervi, L'Italia del miracolo (14 luglio 1948-19 agosto 1954), Rizzoli, Milano, 1987, ISBN 88-17-42725-X.
  • Indro Montanelli e Mario Cervi, L'Italia dei due Giovanni (1955-1965), Rizzoli, Milano, 1989, ISBN 88-17-42726-8.
  • Indro Montanelli e Mario Cervi, Milano ventesimo secolo. Storia della capitale morale da Bava Beccaris alle Leghe, Rizzoli, Milano, 1990, ISBN 88-17-42727-6.
  • Indro Montanelli e Mario Cervi, L'Italia degli anni di piombo (1965-1978), Rizzoli, Milano, 1991, ISBN 88-17-42805-1.
  • Indro Montanelli e Mario Cervi, L'Italia degli anni di fango (1978-1993), Rizzoli, Milano, 1993, ISBN 88-17-42729-2.
  • Indro Montanelli e Mario Cervi, L'Italia di Berlusconi (1993-1995), Rizzoli, Milano, 1995, ISBN 88-17-42810-8.
  • Indro Montanelli e Mario Cervi, L'Italia dell'Ulivo (1995-1997), Rizzoli, Milano, 1997, ISBN 88-17-42810-8.
  • Indro Montanelli e Mario Cervi, L'Italia del Novecento, Rizzoli, Milano, 1998.
  • Indro Montanelli e Mario Cervi, L'Italia del Millennio. Sommario di dieci secoli di Storia, Rizzoli, Milano, 2000.
  • Paolo Granzotto, Ti ricordi Indro?, Società Europea di Edizioni S.p.A., Milano, ISBN 9 778118 178454

Voci correlate

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