Piero Calamandrei

giurista, politico e scrittore italiano (1889-1956)

Piero Calamandrei (1889 – 1956), giurista, politico e scrittore italiano.

Piero Calamandrei

Citazioni di Piero Calamandrei modifica

  • Al giudice occorre più coraggio ad essere giusto apparendo ingiusto, che ad essere ingiusto apparendo giusto.[1]
  • All'Italia questo patto [il Patto Atlantico] non solo non dà la garanzia di allontanare dal nostro territorio la catastrofe della guerra, ma dà anzi a essa la certezza della immediata invasione, anche se il conflitto sarà provocato da urti extraeuropei.[2]
  • Anche quando si trovi un ministro pieno di buone intenzioni, il quale si proponga di ridurre la scuola a essere veramente creatrice della democrazia come la Costituzione vorrebbe, è difficile che esso abbia approfondita conoscenza dei problemi tecnici, attinenti a tutti gli ordini di scuole, che occorre affrontare per avvicinarsi a questo ideale: per la tecnica, gli uomini politici debbono rimettersi ai burocrati; e i burocrati, assai spesso, sono conoscitori di congegni amministrativi, ma non di anime. Come volete che possa sentire la funzione formativa di libertà che deve avere la scuola in una democrazia un direttore generale che fino a ieri fu l'artefice “ a tout faire” dell'asservimento della scuola al fascismo?[3]
  • Auguriamoci che mentre la Costituzione repubblicana attende ancora il suo compimento, la firma di questo patto atlantico non sia il primo colpo di piccone dato per smantellarla.[2]
  • Chi prepara la guerra, anche a fini che crede difensivi, non fa altro, senza accorgersene, che volere la guerra.[2]
  • [Subito dopo la Liberazione] Conversando con Benedetto Croce, egli m'aveva detto: «Gli uomini nuovi verranno. Bisogna non lasciarsi scoraggiare dal feticismo delle competenze. Gli uomini onesti assumano con coraggio i posti di responsabilità, e attraverso l'esperienza gli adatti non tarderanno a rivelarsi».
    Poche settimane dopo quel discorso, salì al governo un uomo nuovo: un uomo onesto, un uomo coraggioso. Egli non illuse e non deluse.[4]
  • [Sulla Costituzione italiana] Credono tutti che sia democratica solo perché è antifascista.[5]
  • Delle cause e degli aspetti del fascismo, storici di diverse tendenze hanno già dato svariate interpretazioni: e hanno messo in evidenza, secondo le premesse politiche o filosofiche da cui partivano, i fattori psicologici e morali, o quelli sociali ed economici di questa crisi: la esasperazione contingente del primo dopoguerra, o le lontane tare tradizionali di servaggio e di conformismo, o l'ultimo tentativo reazionario di una classe conservatrice, che tenta di sbarrare il cammino alle nuove forze progressive che avanzano. Forse in ognuna di queste concezioni c'è una parte di vero. Ma ciò che soprattutto va messo in evidenza del fascismo è, secondo me, il significato morale: l'insulto sistematico, adoprato come metodo di governo, alla dignità morale dell'uomo: l'umiliazione brutale ostentata come una gesta da tramandare ai posteri, dell'uomo degradato a cosa. [...] Nel macabro cerimoniale in cui gli incamiciati di nero, preceduti dai loro osceni gagliardetti, andavano solennemente a spezzare i denti di un sovversivo o a verniciargli la barba o a somministrargli, tra sconce risa, la purga ammonitrice, c'era già, ostentata come un programma di dominio, la negazione della persona umana. Il primo passo, la rottura di una conquista millenaria, fu quello: il resto doveva fatalmente venire.[4]
  • Facciamo comprendere a questi ridicoli vociferatori, che ogni tanto risognano, come nel macabro festino di Arcinazzo, di ritrovarsi a cantare le loro sconce canzoni di violenza, facciamo comprendere a questi miserabili superstiti che domani, se occorresse, se occorrerà, tutti quanti coloro che si sentirono fratelli nella Resistenza, democristiani e comunisti, liberali e socialisti, contadini e operai e studiosi e sacerdoti, tutti quanti si troverebbero, si troveranno ancora insieme, tutti uniti contro il mostro, tutti uniti in difesa della civiltà indivisibile. Tra noi lo sappiamo bene; ma è bene che tutti lo sappiano in Italia e fuori d'Italia.[4]
  • Facciamo l'ipotesi, così astrattamente, che ci sia un partito al potere, un partito dominante, il quale però formalmente vuole rispettare la Costituzione, non la vuole violare in sostanza. Non vuole fare la marcia su Roma e trasformare l'aula in alloggiamento per i manipoli; ma vuol istituire, senza parere, una larvata dittatura. Allora, che cosa fare per impadronirsi delle scuole e per trasformare le scuole di Stato in scuole di partito? Si accorge che le scuole di Stato hanno difetto di essere imparziali. C'è una certa resistenza; in quelle scuole c'è sempre, perfino sotto il fascismo c'è stata. Allora il partito dominante segue un'altra strada. Comincia a trascurare le scuole pubbliche, a screditarle, ad impoverirle. Lascia che si anemizzino e comincia a favorire le scuole private. Non tutte le scuole private. Le scuole del suo partito, di quel partito. Ed allora tutte le cure cominciano ad andare a queste scuole private. Cure di denaro e di privilegi. Si comincia persino a consigliare i ragazzi ad andare a queste scuole, perché in fondo sono migliori si dice di quelle di Stato. [...] Così la scuola privata diventa una scuola privilegiata.[6]
  • Fra le tante distruzioni di cui il passaggio della pestilenza fascista è responsabile, si dovrà annoverare anche quella, non riparabile in pochi anni, del senso della legalità. [...] Per vent'anni il fascismo ha educato i cittadini proprio a disprezzare le leggi, a far di tutto per frodarle e per irriderle nell'ombra.[7]
  • GIUSTIZIA E LIBERTÀ
    PER QUESTO MORIRONO
    PER QUESTO VIVONO
    [8]
  • I ragazzi delle scuole imparano chi fu Muzio Scevola o Orazio Coclite, ma non sanno chi furono i fratelli Cervi. Non sanno chi fu quel giovanetto della Lunigiana che, crocifisso ad una pianta perché non voleva rivelare i nomi dei compagni, rispose: «Li conoscerete quando verranno a vendicarmi», e altro non disse. Non sanno chi fu quel vecchio contadino che, vedendo dal suo campo i tedeschi che si preparavano a fucilare un gruppo di giovani partigiani trovati nascosti in un fienile, lasciò la sua vanga tra le zolle e si fece avanti dicendo: «Sono io che li ho nascosti (e non era vero), fucilate me che sono vecchio e lasciate la vita a questi ragazzi». Non sanno come si chiama colui che, imprigionato, temendo di non resistere alle torture, si tagliò con una lametta da rasoio le corde vocali per non parlare. E non parlò. Non sanno come si chiama quell'adolescente che, condannato alla fucilazione, si rivolse all'improvviso verso uno dei soldati tedeschi che stavano per fucilarlo, lo baciò sorridente dicendogli: «Muoio anche per te… viva la Germania libera!».
    Tutto questo i ragazzi non lo sanno: o forse imparano, su ignobili testi di storia messi in giro da vecchi arnesi tornati in cattedra, esaltazione del fascismo ed oltraggi alla Resistenza.[4]
  • Il carattere che distingue la Resistenza da tutte le altre guerre, anche da quelle fatte da volontari, anche dall'epoca garibaldina, è stato quello di essere più che un movimento militare, un movimento civile.[4]
  • Il compito degli uomini della Resistenza non è finito. Bisogna che essa sia ancora in piedi.[4]
  • Il dramma della Resistenza e del nostro Paese è stato questo: che la Resistenza, dopo aver trionfato in guerra, come epopea partigiana, è stata soffocata e bandita dalle vecchie forze conservatrici appena essa si è affacciata alla vita politica del tempo di pace, ov'essa era chiamata a dar vita a una nuova classe politica che riempisse il vuoto lasciato dalla catastrofe.
    I morti della Resistenza vollero essere, credettero di essere, le avanguardie di una nuova classe dirigente, pulita ed onesta, fatta di popolo, destinata a prendere il posto di tutti i profittatori e di tutti i corruttori. Quei morti furono la testimonianza e la promessa di un autogoverno popolare in formazione: ma, finita la guerra, i vecchi vivi risalirono sulle poltrone e la voce dei giovani morti fu ricoperta da quelle vecchie querele. [...] Eppure, amici, questa è stata la sorte singolare dell'Italia dopo il breve esperimento del governo Pani: che essa è tornata ad essere governata dalla classe dirigente prefascista; governata dai fantasmi.[4]
  • Il mondo è purtroppo diviso in compartimenti stagni da grandi muraglie che si dicono invalicabili, senza porte e senza finestre ma queste mura non sbarrano soltanto quella linea che ormai si suol chiamare la « cortina di ferro » e che taglia il genere umano in due emisferi ostili. Mura altrettanto invalicabili ci attorniano, sui confini, nell'interno degli Stati, spesso nell'interno della nostra coscienza le mura del conformismo, dell'imperialismo, del colonialismo, del nazionalismo le mura che separano la miseria dal privilegio e dalla ricchezza spudorata e corrotta. Questo è ancora, secondo me, il compito della Resistenza. inutile qui ricercare le colpe per le quali siamo arrivati a questa tragica divisione del mondo forse non c'è partito o popolo che non abbia la sua parte di colpa. Ma gli uomini che appartennero alla Resistenza devono far di tutto per cercare che queste mura non diventino ancora più alte, che non diventino torri di fortilizi irte di ordigni di distruzione e ricercare i valichi sotterranei attraverso i quali, in nome della Resistenza combattuta in comune, si possa far passare ancora una voce, un sussurro, un richiamo. Quello che unisce, non quello che separa rifiutarsi sempre di considerare un uomo meno uomo, solo perché appartiene a un'altra razza o a un'altra religione o a un altro partito.[4]
  • Il ventennio fascista non fu, come oggi qualche sciagurato immemore figura di credere, un ventennio di ordine e di grandezza nazionale: fu un ventennio di sconcio illegalismo, di umiliazione, di corrosione morale, di soffocazione quotidiana, di sorda e sotterranea disgregazione morale. Non si combatteva più sulle piazze, dove gli squadristi avevano ormai bruciato ogni simbolo di libertà, ma si resisteva in segreto, nelle tipografie clandestine dalle quali fino dal 1925 cominciarono a uscire i primi foglietti alla macchia, nelle guardine della polizia, nell'aula del Tribunale speciale, nelle prigioni, tra i confinati, tra i reclusi, tra i fuorusciti. E ogni tanto in quella lotta sorda c'era un caduto, il cui nome risuonava in quella silenziosa oppressione come una voce fraterna, che nel dire addio rincuorava i superstiti a continuare: Matteotti, Amendola, don Minzoni, Gobetti, Roselli, Gramsci, Trentin. Venti anni di resistenza sorda: ma era resistenza anche quella: e forse la più difficile, la più dura e la più sconsolata.[4]
  • In queste celebrazioni che noi facciamo della Resistenza, di fatti e di figure di quel tempo, noi ci illudiamo di essere qui, vivi, che celebriamo i morti. E non ci accorgiamo che sono loro, i morti, che ci convocano qui, come dinanzi a un tribunale invisibile, a render conto di quello che in questi dieci anni possiamo aver fatto per non essere indegni di loro, noi vivi. [...] Noi sentiamo, quasi con la immediatezza di una percezione fisica, che quei morti sono entrati a far parte della nostra vita, come se morendo avessero arricchito il nostro spirito di una presenza silenziosa e vigile, con la quale ad ogni istante, nel segreto della nostra coscienza, dobbiamo tornare a fare i conti. Quando pensiamo a loro per giudicarli, ci accorgiamo che sono loro che giudicano noi: è la nostra vita, che può dare un significato e una ragione rasserenatrice e consolante alla loro morte; e dipende da noi farli vivere o farli morire per sempre.[4]
  • La capacità a delinquere, per me avvocato civilista, ha due aspetti: uno giuridico e uno sociale. Sotto l'aspetto giuridico mi pare che essa sia la tendenza e la attitudine a violare il diritto altrui; sotto l'aspetto sociale mi pare sia la incapacità di intendere che la vita in società è fatta di solidarietà e di altruismo: che senza solidarietà e senza altruismo non vi è civiltà. Il delinquente è essenzialmente un infelice esiliato nel suo sfrenato egoismo, un solitario incapace di vivere in società.[9]
  • "La legge è uguale per tutti" è una bella frase che rincuora il povero, quando la vede scritta sopra le teste dei giudici, sulla parete di fondo delle aule giudiziarie; ma quando si accorge che, per invocar la uguaglianza della legge a sua difesa, è indispensabile l'aiuto di quella ricchezza che egli non ha, allora quella frase gli sembra una beffa alla sua miseria.[10]
  • Le diversità di opinioni politiche sono essenziali in ogni convivenza democratica; ma alla base ci deve essere un sentimento di fede nell'uomo, di rispetto alla dignità dell'uomo, che è poi una grande idea cristiana [...][11]
  • La Resistenza aveva lasciato al mondo una speranza: più che una speranza, un impegno. Chi l'ha tradito? Perché l'abbiamo tradito?
    Se si vuole intendere che cosa fu la Resistenza, non si deve dar questo nome soltanto al periodo finale che va dall'8 settembre al 25 aprile. Questo fu il parossismo finale della lotta; ma l'inizio di essa risaliva a venticinque anni prima. [...] Essa era cominciata fin da quando era cominciata l'oppressione, cioè fin da quando lo squadrismo fascista aveva iniziato per le vie d'Italia la caccia dell'uomo.[4]
  • La scienza del diritto, se rinuncia ad ogni valutazione critica delle istituzioni vigenti, senza la quale non è possibile progresso verso ordinamenti migliori, si condanna ad essere vuota accademia, tagliata fuori dalla vita che è perpetuo movimento.[12]
  • Le dittature sorgono non dai governi che governano e che durano, ma dall'impossibilità di governare dei governi democratici.[13]
  • Legalità significa partecipazione di tutti i cittadini alla formazione delle leggi; e significa altresì preventiva delimitazione dei poteri del legislatore, nel senso che esso si impegna in anticipo a non menomare colle sue leggi certe libertà individuali («diritti di libertà»), il rispetto delle quali si considera come condizione insopprimibile di legalità.[14]
  • Lo avrai | camerata Kesselring | il monumento che pretendi da noi italiani | ma con che pietra si costruirà | a deciderlo tocca a noi.[15]
  • [...] lungi da noi il proposito di tornare a confondere la morale con la politica, o la morale con l'arte, o la morale con la scienza: ma noi pensiamo che dove manca dal centro la vigile interezza della coscienza, il sapere diventa gretta erudizione, l'arte miserabile gioco oratorio, la politica stolto brigantaggio condannato in anticipo, per la sua fondamentale incapacità a valutare le forze morali che a lungo andare sono sempre vittoriose, alla finale catastrofe. Non è la storia che fa la fede, ma è la fede che fa la storia.[16]
  • [La Costituzione italiana] non è una Costituzione immobile che abbia fissato un punto fermo, è una costituzione che apre le vie verso l'avvenire. Non voglio dire rivoluzionaria, perché per rivoluzione nel linguaggio comune s'intende qualche cosa che sovverte violentemente, ma è una costituzione rinnovatrice, progressiva, che mira alla trasformazione di questa società n cui può accadere che, anche quando ci sono, le libertà giuridiche e politiche siano rese inutili dalle disuguaglianze economiche.[17]
  • Ovunque è un sacrificio per il bene degli altri, ovunque è la disposizione morale da preferire al tradimento lucroso di un'idea la morte squallida per quell'idea, ivi è religione.[4]
  • Però, vedete, la Costituzione non è una macchina che una volta messa in moto va avanti da sé. La Costituzione è un pezzo di carta: la lascio cadere e non si muove. Perché si muova bisogna ogni giorno rimetterci dentro il combustibile. Bisogna metterci dentro l’impegno, lo spirito, la volontà di mantenere queste promesse, la propria responsabilità; per questo una delle offese che si fanno alla costituzione è l’indifferenza alla politica, l'indifferentismo che è, non qui, per fortuna, in questo uditorio, ma spesso in larghi strati, in larghe categorie di giovani, un po' una malattia dei giovani.[18]
  • Quando io considero questo misterioso e miracoloso moto di popolo, questo volontario accorrere di gente umile, fino a quel giorno inerme e pacifica, che in una improvvisa illuminazione sentì che era giunto il momento di darsi alla macchia, di prendere il fucile, di ritrovarsi in montagna per combattere contro il terrore, mi vien fatto di pensare a certi inesplicabili ritmi della vita cosmica, ai segreti comandi celesti che regolano i fenomeni collettivi, come le gemme degli alberi che spuntano lo stesso giorno, come certe piante subacquee che in tutti i laghi di una regione alpina affiorano nello stesso giorno alla superficie per guardare il cielo primaverile, come le rondini di un continente che lo stesso giorno s'accorgono che è giunta l'ora di mettersi in viaggio. Era giunta l'ora di resistere; era giunta l'ora di essere uomini: di morire da uomini per vivere da uomini.[19]
  • Quando per la porta della magistratura entra la politica, la giustizia esce dalla finestra.[20]
  • Questa è, secondo me, la grande eredità ideale che la Resistenza, anche quando i suoi eroismi saranno trasfigurati dalla leggenda, avrà lasciato al popolo italiano come viva forza politica del tempo di pace: il senso della democrazia; il senso del governo di popolo: del popolo che vuol governarsi da sé, che vuole assumere su di sé la responsabilità di governarsi, che vuol cacciare via tutti i tiranni, tutti i padroni, tutti i privilegiati, tutti i profittatori, e identificare finalmente, in una Repubblica fondata sul lavoro, popolo e Stato.
    Se nel campo morale la Resistenza significò rivendicazione della ugual dignità umana di tutti gli uomini e rifiuto di tutte le tirannie che tendono a trasformare l'uomo in cosa, nel campo politico la Resistenza significò volontà di creare una società retta sulla volontaria collaborazione degli uomini liberi ed uguali, sul senso di autoresponsabilità e di autodisciplina che necessariamente si stabilisce quando tutti gli uomini si sentono ugualmente artefici e partecipi del destino comune, e non divisi tra padroni e servi.[4]
  • Se noi siamo qui a parlare liberamente in quest'aula, in cui una sciagurata voce [Benito Mussolini] irrise e vilipese venticinque anni fa le istituzioni parlamentari, è perché per venti anni qualcuno ha continuato a credere nella democrazia, e questa sua religione ha testimoniato con la prigionia, l'esilio e la morte.
    Io mi domando, onorevoli colleghi, come i nostri posteri tra cento anni giudicheranno questa nostra Assemblea Costituente: se la sentiranno alta e solenne come noi sentiamo oggi alta e solenne la Costituente Romana, dove un secolo fa sedeva e parlava Giuseppe Mazzini. Io credo di sì: credo che i nostri posteri sentiranno più di noi, tra un secolo, che da questa nostra Costituente è nata veramente una nuova storia: e si immagineranno, come sempre avviene che con l'andar dei secoli la storia si trasfiguri nella leggenda, che in questa nostra Assemblea, mentre si discuteva della nuova Costituzione Repubblicana, seduti su questi scranni non siamo stati noi, uomini effimeri di cui i nomi saranno cancellati e dimenticati, ma sia stato tutto un popolo di morti, di quei morti, che noi conosciamo ad uno ad uno, caduti nelle nostre file, nelle prigioni e sui patiboli, sui monti e nelle pianure, nelle steppe russe e nelle sabbie africane, nei mari e nei deserti, da Matteotti a Rosselli, da Amendola a Gramsci, fino ai giovinetti partigiani, fino al sacrificio di Anna-Maria Enriquez e di Tina Lorenzoni, nelle quali l'eroismo è giunto alla soglia della santità.
    Essi sono morti senza retorica, senza grandi frasi, con semplicità, come se si trattasse di un lavoro quotidiano da compiere: il grande lavoro che occorreva per restituire all'Italia libertà e dignità. Di questo lavoro si sono riservata la parte più dura e più difficile; quella di morire, di testimoniare con la resistenza e la morte la fede nella giustizia. A noi è rimasto un compito cento volte più agevole; quello di tradurre in leggi chiare, stabili e oneste il loro sogno: di una società più giusta e più umana, di una solidarietà di tutti gli uomini, alleati a debellare il dolore.
    Assai poco, in verità, chiedono a noi i nostri morti.
    Non dobbiamo tradirli.[21]
  • Se si vuole che la democrazia prima si faccia e poi si mantenga e si perfezioni, si può dire che la scuola, a lungo andare, è più importante del Parlamento e della Magistratura e della Corte Costituzionale.[22]
  • Signori Giudici, che cosa vuol dire libertà, che cosa vuol dire democrazia? Vuol dire prima di tutto fiducia del popolo nelle sue leggi: che il popolo senta le leggi dello Stato come le sue leggi, come scaturite dalla sua coscienza, non come imposte dall'alto. Affinché la legalità discenda dai codici nel costume, bisogna che le leggi vengano dal di dentro non dal di fuori: le leggi che il popolo rispetta, perché esso stesso le ha volute così.[9]
  • Sulla libertà bisogna vigilare, dando il proprio contributo alla vita politica.[17]
  • Uomini della Resistenza, questo è il vostro compito continuare, riaprire il dialogo della ragione ed educare, se ancora siamo in tempo, non in un solo partito ma in tutti i partiti, una nuova classe politica di giovani, che portino nella vita politica quella serietà civica, quell'impegno religioso di sincerità e di dignità umana, che fu il carattere distintivo della Resistenza questo senso di autoresponsabilità, questa volontà di governarsi da sé contro il paternalismo, contro il conformismo, contro l'immobilismo. E che torni, anche in politica, il tempo della buona fede.[4]
  • Vittoria contro noi stessi: aver ritrovato dentro noi stessi la dignità dell'uomo. Questo fu il significato morale della Resistenza: questa fu la fiamma miracolosa della Resistenza.
    Aver riscoperto la dignità dell'uomo, e la universale indivisibilità di essa: questa scoperta della indivisibilità della libertà e della pace, per cui la lotta di un popolo per la sua liberazione è insieme lotta per la liberazione di tutti i popoli dalla schiavitù del denaro e del terrore, questo sentimento della uguaglianza morale di ogni creatura umana, qualunque sia la sua nazione o la sua religione o il colore della sua pelle, questo è l'apporto più prezioso e più fecondo di cui ci ha arricchito la Resistenza.
    Quando si dice che la guerra partigiana si distingue da tutte le altre guerre perché fu una guerra fatta interamente da volontari, si dice giusto, ma non si dice tutto. Essa fu qualcosa di più: un'adunata spontanea e collettiva: un movimento di popolo, una iniziativa di popolo. [...]
    L'8 settembre, quando cominciò spontaneo e non ordinato da qualcuno questo accorrere di uomini liberi verso la montagna, avvenne qualcosa di misterioso che a ripensarlo oggi sembra un miracolo di cui si stenta a trovare una spiegazione umana. Nessuno aveva ordinato l'adunata: questi uomini accorsero da tutte le parti e si cercarono e si adunarono da sé. [...] Quella chiamata fu anonima, non venne dal di fuori: era la chiamata di una voce diffusa come l'aria che si respirava, che si svegliava da sé in ogni cuore, nei più generosi e nei più pigri, un'ispirazione che sussurrava dentro: «Se sei un uomo, se hai dignità d'uomo, questa è l'ora!».[4]

Citazioni tratte da articoli de Il Ponte modifica

Agosto 1945 modifica

  • La giustizia sociale non è pensabile se non in funzione della libertà individuale: e sono sorti così quei movimenti politici che invece di accentuare l'antagonismo tra l'idea liberale e l'idea socialista, hanno messo in evidenza che una democrazia vitale può attuarsi soltanto nella misura in cui la giustizia sociale, piuttosto che come ideale separato ed assoluto, sia concepita come premessa necessaria e come graduale arricchimento della libertà individuale. Questo è il significato delle varie formule in cui è stata espressa ugualmente questa inscindibile interdipendenza dei due aspetti di un solo ideale: «socialismo liberale» di Rosselli; «liberalsocialismo» di Calogero; «giustizia e libertà» del Partito d'Azione; «democrazia progressiva» dei comunisti italiani.
  • Se vera democrazia può aversi soltanto là dove ogni cittadino sia in grado di esplicar senza ostacoli la sua personalità per poter in questo modo contribuire attivamente alla vita della comunità, non basta assicurargli teoricamente le libertà politiche, ma bisogna metterlo in condizione di potersene praticamente servire. E siccome una assai facile esperienza dimostra che il bisogno economico toglie al povero la possibilità pratica di valersi delle libertà politiche e della proclamata uguaglianza giuridica, ne viene di conseguenza che di vera libertà politica potrà parlarsi solo in un ordinamento in cui essa sia accompagnata per tutti dalla garanzia di quel minimo di benessere economico, senza il quale viene a mancare per chi è schiacciato dalla miseria ogni possibilità pratica di esercitare quella partecipazione attiva alla vita della comunità che i tradizionali diritti di libertà teoricamente gli promettevano.
  • L'ostacolo alla libera esplicazione della persona morale nella vita della comunità può derivare non solo dalla tirannia politica, ma anche da quella economica: sicché i diritti che mirano ad affrancare l'uomo da queste due tirannie si pongono ugualmente come rivendicazioni di libertà.
  • Noi uomini vissuti e destinati a morire in questa tragica stagione del dolore, dovremo serenamente creare nella Costituente lo strumento per aprire alla giustizia sociale le vie di un domani che noi potremo soltanto intravedere.

Settembre 1945 modifica

  • Libertà: [...] a ripeterla oggi, questa dolce parola che si può ancora gridare ad alta voce, il cuore trema come al primo incontro con l'amante ritrovata; e vien voglia di abbracciare, in nome di essa, il primo sconosciuto che s'incontra per via, tutti fratelli in questo nome, tutti rinati per essa a dignità di persone? Superata la prima emozione si rimane esitante: che vuol dire libertà? Qualcuno potrebbe osservare che tutto quello che è avvenuto, è avvenuto proprio per colpa della libertà: libertà dei ricchi, di oziare e accumulare altre ricchezze; libertà di una banda di criminali, d'impadronirsi del potere e di precipitare i popoli nell'abisso; libertà di un popolo di preparare scientificamente la schiavitù di altri popoli. Se a questo ha servito la parola libertà, cinquantacinque milioni di uomini si sarebbero dunque sacrificati soltanto per ricominciare tra dieci anni la stessa esperienza?
    Non vogliamo crederlo. Se la carneficina deve avere un senso, se essa non è stata soltanto un fenomeno cieco e senza perché, bisogna che essa abbia servito ad arricchire la coscienza umana di una verità che va oltre la libertà: di una fede che non è contro la libertà, ma che è un approfondimento di essa, una libertà più piena e universale. Unità e indipendenza, il programma del Risorgimento, non basta più. Libertà intesa soltanto come indipendenza può voler dire, nelle relazioni tra singoli, rissa di egoismi, privilegio, sfruttamento, «homo homini lupus»; nelle relazioni tra regioni di una stessa patria, campanilismo e separatismo; nelle relazioni tra nazioni, nazionalismo e guerra. Indipendenza, ecco il tragico pregiudizio: l'orgoglio dell'uomo che considera la propria sorte staccata da quella degli altri, la cieca albagia nazionale che si illude di servire la patria collo schiacciare le patrie altrui. Non più indipendenza, ma "interdipendenza": questa è la parola non nuova in cui se non si vuol che il domani ripeta ed aggravi gli orrori di ieri, si dovrà riassumere in sintesi il nuovo senso della libertà, quello da cui potrà nascere da tanto dolore un avvenire diverso dal passato.
  • Alla fine di dieci anni di martiri, la bomba atomica si affaccia come un simbolo riepilogativo, come la morale di un apologo: basterà che un uomo tocchi un tasto, perché tutti gli uomini, lui compreso, siano cancellati dal mondo. Cinquantacinque milioni di vittime si sono immolate per arrivare a scoprire la chiave misteriosa che può dischiudere aUa civiltà umana le porte del nulla: questo è il guadagno fruttato dall'immenso sacrificio.
    Da questa raggiunta interdipendenza nella morte, deve nascere, come unica salvezza, la coscienza mondiale della interdipendenza di tutti gli uomini nella vita. Ormai l'avvenire è ridotto a un dilemma: o la pace nella giustizia, o l'esplosione cosmica nell'infinito di questa folle bolla di sapone iridata di sangue.

Ottobre 1946 modifica

  • Quel miracoloso soprassalto dello spirito che si è prodotto, quando ogni speranza pareva perduta, in tutti i popoli europei agonizzanti sotto il giogo della tirannia interna ed esterna, ha ormai ed avrà nella storia del mondo un nome: «resistenza». Sotto la morsa del dolore o sotto lo scudiscio della vergogna, gli immemori, gli indifferenti, i rassegnati hanno ritrovata dentro di sé, insospettata, una lucida chiaroveggenza: si sono accorti della coscienza, si sono ricordati della libertà. Prima che schifo della fazione interna, prima che insurrezione armata contro lo straniero, questo improvviso sussulto morale è stato la ribellione di ciascuno contro la propria cieca e dissennata assenza: sete di verità e di presenza, ritorno alla ragione, all'intelligenza, al senso di responsabilità. La resistenza è stata, nei migliori, riacquisto della fede nell'uomo e in quei valori razionali e morali coi quali l'uomo si è reso capace, nei millenni, di dominare la stolta crudeltà della belva che sta in agguato dentro di lui.
    Si è scoperto così che il fascismo non era un flagello piombato dal cielo sulla moltitudine innocente, ma una tabe spirituale lungamente maturata nell'interno di tutta una società, diventata incapace, come un organismo esausto che non riesce più a reagire contro la virulenza dell'infezione, di indignarsi e di insorgere contro la bestiale follia dei pochi. Questo generale abbassamento dei valori spirituali da cui son nate in quest'ultimo ventennio tutte le sciagure d'Europa, merita di avere anch'esso il suo nome clinico, che lo isoli e lo collochi nella storia, come il necessario opposto dialettico della resistenza: "Desistenza". Di questa malattia profonda di cui tutti siamo stati infetti, il fascismo non è stato che un sintomo acuto: e la Resistenza è stata la crisi benefica che ci ha guariti, col ferro e col fuoco, da questo universale deperimento dello spirito.
  • Talvolta il perdono è una forma superiore di disprezzo.
  • Tutto è religione quello che dimostra la transitorietà dell'uomo ma la perpetuità dei suoi ideali.[23]
  • Oggi le persone benpensanti, questa classe intelligente così sprovvista di intelligenza, cambiano discorso infastidite quando sentono parlar di antifascismo. [...] Finita e dimenticata la resistenza, tornano di moda gli «scrittori della desistenza»: e tra poco reclameranno a buon diritto cattedre ed accademie.
    Sono questi i segni dell'antica malattia. E nei migliori, di fronte a questo rigurgito, rinasce il disgusto: la sfiducia nella libertà, il desiderio di appartarsi, di lasciare la politica ai politicanti. Questo il pericoloso stato d'animo che ognuno di noi deve sorvegliare e combattere, prima che negli altri, in se stesso: se io mi sorprendo a dubitare che i morti siano morti invano, che gli ideali per cui son morti fossero stolte illusioni, io porto con questo dubbio il mio contributo alla rinascita del fascismo.
    Dopo la breve epopea della resistenza eroica, sono ora cominciati, per chi non vuole che il mondo si sprofondi nella palude, i lunghi decenni penosi ed ingloriosi della resistenza in prosa. Ognuno di noi può, colla sua oscura resistenza individuale, portare un contributo alla salvezza del mondo: oppure, colla sua sconfortata desistenza, esser complice di una ricaduta che, questa volta, non potrebbe non esser mortale.

Dicembre 1946 modifica

  • Ma chi è che semina le guerre? Se tra uno o tra dieci anni una nuova guerra mondiale scoppierà, dove troveremo il responsabile? Nell'ultima guerra la identificazione parve facile: bastò il gesto di due folli che avevano in mano le leve dell'ordigno infernale, per decretare il sacrificio dei popoli innocenti. Ma oggi quelle dittature sono cadute: oggi le sorti della guerra e della pace sono rimesse al popolo. Questo vuol dire, infatti, democrazia: rendere ogni cittadino, anche il più umile, corresponsabile della guerra e della pace del mondo: toglier di mano queste fatali leve ai dittatori paranoici che mandano gli umili a morire, e lasciare agli umili, a coloro ai quali nelle guerre era riservato finora l'ufficio di morire, la scelta tra la morte e la vita.
    Ma ecco, si vede con terrore che, anche cadute le dittature, nuove guerre si preparano, nuove armi si affilano, nuovi schieramenti si formano. Chi è il responsabile di questi preparativi? Si dice che gli uomini, che oggi sono al potere, sono stati scelti dal voto degli elettori: si deve dunque concludere che le anonime folle degli elettori sono anch'esse per le nuove carneficine?
    Questa è oggi la terribile verità. La salvezza è solo nelle nostre mani; ma ognuno di noi, se la nuova guerra verrà, sarà colpevole per non averla impedita. [...]
    Se domani la guerra verrà, ciascuno di noi l'avrà preparata. Non potremo nascondere la nostra innocenza dietro l'ombra dei dittatori: quando c'è la libertà, tutti sono responsabili, nessuno è innocente.

Luglio 1948 modifica

  • Per far funzionare un Parlamento, bisogna essere in due, una maggioranza e una opposizione. [...]
    La maggioranza, affinché il parlamento funzioni a dovere, bisogna che sia una libera intesa di uomini pensanti, tenuti insieme da ragionate convinzioni, non solo tolleranti, ma desiderosi della discussione e pronti a rifare alla fine di ogni giorno il loro esame di coscienza, per verificare se le ragioni sulle quali fino a ieri si son trovati d'accordo continuino a resistere di fronte alle confutazioni degli oppositori. Se la maggioranza si crede infallibile solo perché ha per sé l'argomento schiacciante del numero e pensa che basti l'aritmetica a darle il diritto di seppellire l'opposizione sotto la pietra tombale del voto con accompagnamento funebre di ululati, questa non è più una maggioranza parlamentare, ma si avvia a diventare una pia congregazione, se non addirittura una società corale, del tipo di quella che durante il fatidico ventennio dava i suoi concerti nell'aula di Montecitorio.
  • Chi dice che la maggioranza ha sempre ragione, dice una frase di cattivo augurio, che solleva intorno lugubri risonanze; il regime parlamentare, a volerlo definire con una formula, non è quello dove la maggioranza ha sempre ragione, ma quello dove sempre hanno diritto di essere discusse le ragioni della minoranza.
  • In realtà, se la opposizione intende l'importanza istituzionale della sua funzione, essa deve sentirsi sempre il centro vivo del parlamento, la sua forza propulsiva e rinnovatrice, lo stimolo che dà senso di responsabilità e dignità politica alla maggioranza che governa: un governo parlamentare non ha infatti altro titolo di legittimità fuor di quello che gli deriva dal superare giorno per giorno pazientemente i contrasti dell'opposizione, come avviene del volo aereo, che ha bisogno per reggersi della resistenza dell'aria.
    Si dirà che questo idilliaco quadro del governo parlamentare pecca di ingenuo ottimismo. E sia pure. Ma insomma, chi vuol sul serio il sistema parlamentare, non può concepirlo che così: altrimenti del parlamento resta soltanto il nome sotto il quale può anche rinascere di fatto la «Camera dei fasci e delle corporazioni».
  • Talvolta ci si domanda perché le sedute parlamentari non si riducano per semplicità a riunioni dei soli capigruppo, ognuno dei quali si porti in tasca per le votazioni tante palline quanti sono i deputati ai suoi ordini.
  • In tutte le assemblee parlamentari, e anche nella Camera italiana dei tempi migliori, zuffe ci son sempre scappate ogni tanto; e sono state considerate sempre con indulgenza, come segni di esuberante vitalità politica. Non si dimentichi che quasi mezzo secolo fa a Montecitorio si dové provvedere a inchiodare i calamai sui banchi, come sono tuttora, per evitare che gli onorevoli se li lanciassero da un settore all'altro (una volta uno di questi proiettili sperduti arrivò a macchiare il palamidone di Giolitti); e che ci fu perfino un presidente contro il quale i deputati dell'estrema sinistra si divertivano a tirare pallottole di carta per spregio!
  • Queste forme di sprezzante rifiuto, colle quali la maggioranza ostenta di non degnarsi neppure di discutere gli argomenti dell'opposizione, mi sembrano, per la sorte del sistema parlamentare, più pericolose delle reazioni violente; è una specie di ostruzionismo a rovescio con cui la maggioranza, mirando a screditar l'opposizione, viene in realtà a tradire la ragion d'essere del Parlamento, nel quale il voto dovrebbe essere in ogni caso la conclusione di una discussione e non il mezzo brutale per soffocarla.
  • In questo fronteggiarsi di due intransigenze religiose, sembra quanto mai problematico che ci sia da attendersi dalle nuove assemblee legislative un funzionamento corrispondente alla fisiologia del sistema parlamentare: e si può dubitare se non ci si avvii a una situazione parlamentare che riproduca in forma torpida e cronica quella stessa malattia di cui in forma acuta soffrì la Camera italiana tra il 1924 e il 1927, quando la maggioranza considerava gli oppositori («biechi» e «lividi» per definizione) come banditi, e l'opposizione aventiniana a sua volta aveva lasciato l'aula proprio per non aver contatto con quella maggioranza di ritenuti criminali, coi quali non c'era più la possibilità morale neanche di una discussione polemica in stile parlamentare.

Marzo 1949 modifica

  • Il passaggio del ventennio fascista ha deliberatamente portato nella disciplina dei reclusori, colla riforma della legislazione penale e dei regolamenti carcerari, un soffio di gelida crudeltà burocratica e autoritaria, che senza accorgersene sopravvive al fascismo.
    Se oggi nella stampa è diventato un episodio ordinario di cronaca nera, che lascia indifferenti i lettori, il fatto di detenuti che soccombono alle sevizie inflitte loro nel carcere, si deve ringraziare ancora quel celebre art. 16 del Codice di procedura penale del 1930, che garantendo praticamente l'impunità agli agenti di pubblica sicurezza «per fatti compiuti in servizio e relativi all'uso delle armi o di un altro mezzo di coazione fisica», costituiva una specie di tacita istigazione alla tortura.
  • E tuttavia, anche se la condizione delle carceri è ricaduta a quella che era mezzo secolo fa, vi è oggi nella vita pubblica italiana un elemento nuovo, che potrebbe essere decisivo per una fondamentale riforma di esse. Se nel 1904 gli uomini politici che avessero esperienza della prigionia si potevano contare nella Camera italiana sulle dita di una mano, oggi nel Parlamento della Repubblica essi sono certamente centinaia; solo nel Senato siedono diverse diecine di senatori di diritto che hanno scontato più di cinque anni di reclusione per condanna del Tribunale speciale.
    Mai come ora è stata presente nella nostra vita parlamentare la cupa esperienza dolorante della prigionia vissuta; se neanche questa volta si facesse qualcosa per cominciare a portare un po' di luce di umanità nel buio delle carceri, non si potrebbe addurre questa volta la comoda scusa burocratica della mancanza di precise informazioni!

Giugno 1950 modifica

  • Quando la fede si trasforma in partito, e la lotta politica diventa guerra di religione, il partito confessionale è portato anche senza volerlo, anche senza accorgersene, a comportarsi come partito totalitario: finché sarà minoranza, difenderà la libertà, perché cercherà di servirsene per diventare maggioranza; ma una volta diventato maggioranza, sentirà il dovere di negar la libertà degli altri, perché il credente ha il dovere di obbedire ciecamente all'unica verità che può salvarlo, e di combattere per sbarrare la strada all'eresia che vuol dir perdizione. «Credere, obbedire, combattere».
  • Anche questo ordinamento in cui viviamo oggi rischia, come accadde a quello che durò un ventennio, di diventare un regime a doppio fondo; un regime in cui le vere autorità che governano lo Stato non sono quelle che figurano sui seggi ufficiali, ma quelle, potenti ed invisibili, che dall'esterno ne tirano i fili.
  • Più grave è quello che avviene senza clamore, giorno per giorno, sul piano economico e sociale; dove la Democrazia cristiana, con ammirevole pazienza e coerenza, sta sistemando i suoi fedeli non soltanto nei pubblici uffici, necessariamente temporanei, ma nelle più stabili e più lucrose cariche direttive degli istituti controllati dallo Stato, nelle banche, nei giornali, nei consigli di amministrazione delle grandi industrie: ovunque ci sia un profitto da trarre, una prebenda da lucrare, un gettone di presenza da riscuotere, una poltrona comoda con molti campanelli sulla scrivania e alla porta un'automobile da sdraiarcisi senza pagare. [...] E c'è qualcos'altro: cioè la frode e la corruzione ammesse come sistema di finanziamento del partito, il quale non si rifiuta di farsi complice di speculatori e di avventurieri a spese dello Stato, purché questi versino nelle casse del partito una parte delle loro ruberie.
  • Quando per diventare direttore di una banca, o preside di una scuola, o socio di un'accademia scientifica, o componente di una commissione di concorso universitario è necessario aver la tessera del partito che è al governo, allora quel partito sta diventando regime: allora la politica, che è necessaria e benefica finché scorre fisiologicamente negli uffici fatti per essa diventa, fuori di li, un pretesto per infeudare la società a una classe di politicanti parassiti; diventa una specie di malattia paragonabile all'arteriosclerosi perché impedisce quella circolazione e quel continuo ringiovanimento della classe dirigente, che è la prima condizione di vitalità d'ogni sana democrazia.
  • [Parlando della Democrazia Cristiana] Questi falsi credenti che non credono a nulla, ma che vanno in processione perché questo serve a i loro sporchi affari; questi bocciati agli esami che vincono i concorsi, in mancanza di una laurea, con un certificato parrocchiale; questi professionisti della corruzione, i quali si accorgono che i metodi di arricchimento che ieri erano tollerati a prezzo di un saluto romano, sono anche oggi rispettati ugualmente a prezzo di una genuflessione.

Giugno 1951 modifica

  • È stato detto che la vera Costituzione è la maggioranza: se la maggioranza non vuol rispettare la Costituzione, vuol dire che la Costituzione non c'è più. Ma proprio per non sentir ripetere questo discorso, che era di moda sotto il fascismo, la Costituzione aveva predisposto al disopra della maggioranza organi indipendenti di garanzia costituzionale, destinati a proteggere la Costituzione contro la stessa maggioranza.

Dall'arringa di difesa di Danilo Dolci

Pronunciata il 30 marzo 1956 dinanzi al Tribunale penale di Palermo

  • «Non è permesso digiunare: vi vietiamo formalmente di digiunare.»
    «Ma come possiamo non digiunare se non abbiamo più pesce da pescare?»
    «Non importa: digiunate a casa vostra, in privato, in segreto. È un delitto digiunare in pubblico. Digiunare in pubblico vuol dire disturbare l'ordine pubblico.»
  • Ci sono a Partinico, oltre pescatori, altre migliaia di disoccupati. La Costituzione dice che il lavoro è un diritto e un dovere. Allora, che cosa fanno questi settemila disoccupati: invadono le terre dei ricchi, saccheggiano i negozi alimentari, assaltano i palazzi, si danno alla macchia, diventano banditi?
    No. Decidono di lavorare: di lavorare gratuitamente; di lavorare nell'interesse pubblico.
    Nelle vicinanze del paese si trova, abbandonata, una trazzera destinata al passo pubblico; nessuno ci passa più, perché il comune non provvede, come dovrebbe, alla sua manutenzione; è resa impraticabile dalle buche e dal fango. Allora i disoccupati dicono: «Ci metteremo a riparare gratuitamente la trazzera, la nostra trazzera. Ci redimeremo, lavorando da questo avvilimento quotidiano, da questa quotidiana istigazione al delitto che è l'ozio forzato. In grazia del nostro lavoro la strada tornerà ad essere praticabile. I cittadini ci passeranno meglio. Il sindaco ci ringrazierà». Che cosa è questo? È la stessa cosa che avviene quando, dopo una grande nevicata, se il Comune non provvede a far spalare la neve sulle vie pubbliche, i cittadini volenterosi si organizzano in squadre per fare essi, di loro iniziativa, ciò che la pubblica autorità dovrebbe fare e non fa; e la stessa cosa che avviene, e spesso è avvenuta, quando, a causa di uno sciopero degli spazzini pubblici, i cittadini volenterosi si sono messi a rimuovere dalle strade cittadine le immondizie e in questo modo si sono resi benemeriti della salute di tutti.
  • Allora, per impedire anche questo secondo misfatto, arrivano i soliti commissari Lo Corte e Di Giorgi, e questa volta non si limitano alle diffide. Questa volta fanno di più e di meglio: aggrediscono questi uomini mentre pacificamente lavorano a piccoli gruppi dispersi sulla trazzera, strappano dalle loro mani gli strumenti del lavoro, lì incatenano e li trascinano nel fango, tirandoli per le catene come carne insaccata, come bestie da macello.
  • È, tradotto in cruda rossa di cronaca giudiziaria, il dialogo eterno tra Creonte e Antigone, tra Creonte che difende la cieca legalità e Antigone che obbedisce soltanto alla legge morale della coscienza, alle «leggi non scritte» che preannunciano l'avvenire.
  • Ma che cosa sono le leggi, illustre rappresentante del P.M. se non, esse stesse, correnti di pensiero? Se non fossero questo, non sarebbero che carta morta: se lo lascio andare, questo libro dei codici che ho in mano, cade sul banco come un peso inerte.
    E invece le leggi sono vive perché dentro queste formule bisogna far circolare il pensiero del nostro tempo, lasciarvi entrare l'aria che respiriamo, mettervi dentro i nostri propositi, le nostre speranze, il nostro sangue e il nostro pianto.
    Altrimenti le leggi non restano che formule vuote, pregevoli giochi da legulei; affinché diventino sante, vanno riempite con la nostra volontà.
  • Oggi l'Italia vive uno di questi periodi di trapasso, nei quali la funzione dei giudici, meglio che quella di difendere una legalità decrepita, è quella di creare gradualmente la nuova legalità promessa dalla Costituzione.
    La nostra Costituzione è piena di queste grandi parole preannunziatrici del futuro: «pari dignità sociale»; «rimuovere gli ostacoli che impediscono il pieno sviluppo della persona umana»; «Repubblica fondata sul lavoro»; «Diritto al lavoro"; «condizioni che rendano effettivo questo diritto»; assicurata ad ogni lavoratore e alla sua famiglia «un'esistenza libera e dignitosa»...
    Grandi promesse che penetrano nei cuori e li allargano, e che una volta intese non si possono più ritirare. Come potete voi pensare che i derelitti che hanno avuto queste promesse, e che vi hanno creduto e che chi si sono attaccati come naufraghi alla tavola di salvezza, possono ora essere condannati come delinquenti solo perché chiedono, civilmente senza far male nessuno, che queste promesse siano adempiute come la legge comanda?
  • Ricordate le parole immortali di Socrate nel carcere di Atene? Parla delle leggi come di persone vive, come di persone di conoscenza. «le nostre leggi, sono le nostre leggi che parlano». Perché le leggi della città possano parlare alle nostre coscienze, bisogna che siano come quelle di Socrate, le «nostre» leggi.
    Nelle più perfette democrazie europee, in Inghilterra, in Svizzera, in Scandinavia, il popolo rispetta le leggi perché ne è partecipe e fiero; ogni cittadino le osserva perché sa che tutti le osservano: non c'è una doppia interpretazione della legge, una per i ricchi e una per i poveri!
    Ma questa è, appunto, la maledizione secolare che grava sull'Italia: il popolo non ha fiducia nelle leggi perché non è convinto che queste siano le sue leggi. Ha sempre sentito lo Stato come un nemico. Lo Stato rappresenta agli occhi della povera gente la dominazione. Può cambiare il signore che domina, ma la signoria resta: dello straniero, della nobiltà, dei grandi capitalisti, della burocrazia. Finora lo Stato non è mai apparso alla povera gente come lo Stato del popolo.
    Da secoli i poveri hanno il sentimento che le leggi siano per loro una beffa dei ricchi: hanno della legalità e della giustizia un'idea terrificante, come di un mostruoso meccanismo ostile fatto per schiacciarli, come di un labirinto di tranelli burocratici predisposti per gabbare il povero e per soffocare sotto le carte incomprensibili tutti i suoi giusti reclami.
  • Non dimentichiamo come è cominciata la vicenda di Danilo. Il caso determinante della sua vita è stato l'incontro con un bambino morto di fame. Quando nell'estate del 1952 Danilo ebbe visto morire di fame il figlioletto di Mimma e Giustina Barretta, allora egli si accorse di trovarsi "in un mondo di condannati morte"; e gli apparve chiara l'idea che questo mondo non si redime con la violenza, ma col sacrificio. Fu allora che disse: «su questo stesso letto dove questa creatura innocente è morta di fame, io, che potrei non essere povero, mi lascerò morire di fame come lui, per portare una testimonianza, per dare con la mia morte un esempio, se le autorità non si decideranno a provvedere». E dopo una settimana di digiuno, che già aveva ridotto Danilo in fin di vita, le autorità finalmente intervennero, non per pietà, ma per liberarsi dalla responsabilità di lasciarlo morire; essi decisero di offrire subito le prime somme occorrenti per pagare i debiti dei pescatori e dei braccianti del luogo e, e per iniziare i lavori di sistemazione delle strade e delle acque. Poi nuovamente si fermarono: ma soltanto così Danilo era riuscito a svegliare il torpore burocratico dei padroni.
  • Danilo mi fa venire in mente la storia di fra Michele Minorita. È un'antica cronaca fiorentina, rievoca anche la figura di un monaco, appartenente all'ordine dei «fraticelli della povera vita», che praticavano la povertà assoluta che predicavano che nel Vangelo Cristo e gli apostoli non avevano mai riconosciuto la proprietà privata. Il Papa Giovanni XXII condannò questa affermazione come eresia: e fra Michele per averla predicata fu condannato, nel 1389, al rogo. [...]
    A un certo punto, quando ormai è vicino al rogo, poiché ancora uno dei presenti torna a gridargli: «Ma perché ti ostini a voler morire?», egli risponde: «Io voglio morire per la verità: questa è una verità, ch'io ho albergata in me, della quale non se ne può dare testimonio se non morti». E con queste parole sale sul rogo; ma proprio mentre stanno per dar fuoco, ecco che arriva un messo dei Priori a fare un ultimo tentativo, per persuaderlo a smentirsi e così salvargli la vita. Ma egli dice di no. E uno degli armigeri, di fronte a questa fermezza, domanda: «ma dunque costui ha il diavolo addosso?»; al che l'altro armigero, nel dar fuoco, risponde (e par di sentire la sua voce strozzata dal pianto): «Forse ci ha Cristo».

Da Critica sociale, XLVIII, 5 ottobre 1956.

  • Quando si parla in senso dispregiativo del «parlamentarismo» come degenerazione del sistema parlamentare, non si vuole intendere, è chiaro, che si possano corrompere in sé le leggi che stabiliscono in astratto il modo con cui i congegni parlamentari dovrebbero funzionare; ma si intende dire che gli uomini incaricati di metterle in pratica, gli elettori e gli eletti, i deputati e i governanti, le possono far servire a finalità in contrasto con quelle per le quali queste leggi sono state in astratto dettate: a finalità di gruppo, in contrasto coll'interesse pubblico (per esempio gli interessi di un gruppo finanziario), o addirittura a finalità private: vi mettono dentro i loro propri moventi psicologici di carattere personale, ed è proprio per questo che a poco a poco tutto il sistema si trova a essere deformato e corrotto.
  • Uno degli aspetti psicologici più inquietanti della crisi del parlamentarismo è costituito, secondo me, da quel fenomeno che si potrebbe chiamare il «professionismo politico».
  • Un tempo, quando le Camere si adunavano di rado e i loro compiti erano relativamente limitati, il mandato parlamentare non aveva carattere professionale: i deputati, quando il Parlamento era convocato, interrompevano per qualche settimana la loro professione; ma appena chiusi i lavori, tornavano a casa loro a vivere di essa (o magari, a casa loro, a vivere di rendita). Le cariche parlamentari erano un sovrappiù marginale aggiunto all'attività professionale; appagavano ambizioni, aumentavano magari il prestigio e talvolta il reddito professionale di chi ne era investito (specialmente degli avvocati), ma non erano esse stesse un impiego e un mestiere: l'indennità parlamentare non era stata ancora inventata. Il politicante professionale era considerato, nella pubblica opinione, come un affarista spregevole.
    Ma questo sistema aveva indubbiamente i suoi gravi inconvenienti: veniva a fare del mandato parlamentare un privilegio riservato a chi viveva di rendita o ai professionisti; era un lusso, non consentito ai rappresentanti delle classi operaie e contadine, che non potevano interrompere periodicamente il loro lavoro dei campi e delle fabbriche e mantenersi a Roma, nei periodi di attività legislativa a spese loro o del partito.
  • L'indennità parlamentare fu una grande conquista democratica, resa necessaria dal costante allargarsi della attività legislativa e dall'ascesa politica delle classi lavoratrici. Il Parlamento, invece di stare aperto per brevi periodi di qualche settimana, ha dovuto gradualmente prolungare i periodi del suo lavoro, fin quasi a sedere in permanenza, in modo che l'attività dei deputati ha dovuto, in misura sempre crescente, rimanere assorbita dalle esigenze della carica; e nello stesso tempo restringersi sempre più, fino ad annullarsi, il margine lasciato alla attività professionale privata.
  • In questo modo deputati e senatori sono diventati a poco a poco, anche senza volerlo, professionisti della politica: la politica, da munus publicum, è diventata una professione privata, un impiego.
  • Il deputato e il senatore sta diventando sempre più, in tutti i paesi dov'è in esercizio il sistema parlamentare, un funzionario stipendiato. Bisognerà arrivare a inibirgli il cumulo coll'esercizio di ogni altra attività retribuita, professionale o impiegatizia, come si vieta oggi agli impiegati dello Stato, la cui attività dev'essere interamente dedicata alla loro funzione, dalla quale essi legittimamente ritraggono quanto basta per vivere.
    Ma in questo modo è chiaro che la psicologia del parlamentare si «burocratizza»: essere eletti deputati vuol dire trovare un impiego: l'attivismo politico diventa una «carriera». Non esser rieletti vuol dire perdere il pane: le campagne elettorali diventano, per molti candidati, lotte contro la (propria) disoccupazione.
  • Chiamare i deputati e i senatori i «rappresentanti del popolo» non vuol più dire oggi quello che con questa frase si voleva dire in altri tempi: si dovrebbero piuttosto chiamare impiegati del loro partito.
  • Qui e fuori di qui siamo in molti a pensare e a ripetere che la cultura, se vuol essere viva e operosa, qualcosa di meglio dell'inutile e arida erudizione, non deve appartarsi dalle vicende sociali, non deve rinchiudersi nella torre d'avorio senza curarsi delle sofferenze di chi batte alla porta di strada. Tutto questo lo diciamo e lo scriviamo da decenni; ma tuttavia siamo incapaci di ritrovare il contatto fraterno con la povera gente. Siamo pronti a dire parole giuste; ma non sappiamo rinunciare al nostro pranzo, al nostro comodo letto, alla nostra biblioteca appartata e tranquilla. Tra noi e la gente più umile resta, per quanto ci sforziamo, come uno schermo invisibile, che ci rende difficile la comunicazione immediata. Il popolo ci sente come di un altro ceto: sospetta che questa fraternità di parole sia soltanto oratoria.
  • Nella Maremma della mia Toscana, nelle terre incoltivate che si distribuiscono ai contadini, per poter arrivare a seminare bisogna prima spezzare la crosta di tufo pietroso che vi è depositata da due millenni di alluvioni; per spezzarla occorrono i trattori: e solo così, sotto quella crosta, si trova la terra fertile e fresca, e in essa, ancora intatte le tombe dei nostri padri etruschi.
    Bisogna in tutta Italia spezzare nello stesso modo questa crosta di tradizionale feudalesimo e di inerte conformismo burocratico che soffoca la nostra società: e ritrovare sotto la crosta spezzata il popolo vivo, il popolo sano, il popolo fertile, il popolo vero del nostro Paese: e le tradizioni di saggia ed umana equità che esso ha conservato dai lontani millenni.

La costituzione e la gioventù modifica

  • Dietro ogni articolo della Costituzione, o giovani, voi dovete vedere giovani come voi che hanno dato la vita perché la libertà e la giustizia potessero essere scritte su questa Carta.
  • La libertà è condizione ineliminabile della legalità; dove non vi è libertà non può esservi legalità.
  • La nostra Costituzione è in parte una realtà, ma soltanto in parte è una realtà. In parte è ancora un programma, un ideale, una speranza, un impegno di lavoro da compiere. Quanto lavoro avete da compiere! Quanto lavoro vi sta dinanzi!
  • «La politica è una brutta cosa. Che me n'importa della politica?». Quando sento fare questo discorso, mi viene sempre in mente quella vecchia storiellina che qualcheduno di voi conoscerà: di quei due emigranti, due contadini che traversano l'oceano su un piroscafo traballante. Uno di questi contadini dormiva nella stiva e l'altro stava sul ponte e si accorgeva che c'era una gran burrasca con delle onde altissime, che il piroscafo oscillava. E allora questo contadino impaurito domanda ad un marinaio: «Ma siamo in pericolo?» E questo dice: «Se continua questo mare tra mezz'ora il bastimento affonda». Allora lui corre nella stiva a svegliare il compagno. Dice: «Beppe, Beppe, Beppe, se continua questo mare il bastimento affonda». Quello dice: «Che me ne importa? Non è mica mio!». Questo è l'indifferentismo alla politica.
  • Se voi volete andare in pellegrinaggio nel luogo dove è nata la nostra costituzione, andate nelle montagne dove caddero i partigiani, nelle carceri dove furono imprigionati, nei campi dove furono impiccati. Dovunque è morto un italiano per riscattare la libertà e la dignità, andate lì, o giovani, col pensiero, perché lì è nata la nostra costituzione.
  • La Costituzione deve essere considerata, non come una legge morta, deve essere considerata, ed è, come un programma politico. La Costituzione contiene in sé un programma politico concordato, diventato legge, che è obbligo realizzare.
  • La libertà è come l'aria: ci si accorge di quanto vale quando comincia a mancare.
  • Rendersi conto – questa è una delle gioie della vita – rendersi conto che ognuno di noi nel mondo non è solo, che siamo in più, che siamo parte di un tutto, un tutto nei limiti dell'Italia e del mondo.

Elogio dei giudici, scritto da un avvocato modifica

  • L'avvocato che si lagna di non essere capito dal giudice, biasima non il giudice, ma sé stesso. Il giudice non ha il dovere di capire: è l'avvocato che ha il dovere di farsi capire [...]. (p. 55)
  • – Inutile la chiarezza, se il giudice, vinto dalla prolissità, si addormenta. Più accetta la brevità, anche se oscura: quando un avvocato parla poco, il giudice, anche se non capisce quello che dice, capisce che ha ragione (p. 81)
  • – Evidentemente lei ha sbagliato la difesa... – No – disse l'avvocato – ho sbagliato la porta.[24] (p. 152)
  • [...] A questa inversione della logica formale par che il giudice sia consigliato ufficialmente da certi procedimenti giudiziarii: come quelli che, mentre gli impongono di pubblicare in fine d'udienza il dispositivo della sentenza (cioè la conclusione), gli consentono di ritardar di qualche giorno la formulazione dei motivi (cioè delle premesse). (p. 170)

Citazioni su Piero Calamandrei modifica

  • Bobbio corregge [...] la communis opinio secondo cui Calamandrei era un fautore della repubblica presidenziale, rilevando giustamente che egli non riteneva che si dovesse accogliere integralmente la tesi di chi avanzava la proposta della repubblica presidenziale: l'importante era trovare qualche espediente per rendere stabile, continuativa e sincera la coalizione. Suggeriva una forma di costituzionalizzazione del piano o del programma politico, in modo che la scelta del primo ministro implicasse necessariamente l'approvazione del piano. (Paolo Barile)
  • Calamandrei è il primo ad aver capito che in una repubblica parlamentare basata su un sistema elettorale rigidamente proporzionalistico, sull'esistenza di due Camere elettive perfettamente simmetriche, e su un capo dello stato dai poteri limitati, il potere reale sarebbe stato detenuto dai partiti, con scarse o nulle possibilità di ricambio alla maniera delle più antiche e attrezzate democrazie parlamentari dell'Occidente. (Gianni Corbi)
  • Era abituale, nell'uomo Calamandrei, questo nascondersi del fondo amaro e sconsolato dell'animo dietro la celia sorridente. Chi lo conobbe da vicino, ben lo sa. Ma sotto questa segreta piega dolente e questo irresistibile umorismo restava, come una salda roccia, la fede nella giustizia, il riconoscimento dell'altissima funzione della magistratura: anche se (e lo disse) era propenso ad ammirare più la nobiltà del giudicare che l'effettivo operare, più quel che il giudice dovrebbe essere che non quello che in effetti è. (Alessandro Galante Garrone)
  • Era semplicemente un giudice giusto: e per questo lo chiamavano "rosso" (perché sempre, tra le tante sofferenze che attendono il giudice giusto, vi è anche quella di sentirsi accusare, quando non è disposto a servire una fazione, di essere al servizio della fazione contraria). (da Elogio dei giudici, prefazione alla III edizione, p. XIV)
  • Molti anni fa, nel 1951, Piero Calamandrei teneva un discorso all'università; parlava a giovani e giovanissimi nati e cresciuti sotto il fascismo. Alle spalle, quei ragazzi avevano la tragedia della guerra, incrociata quando la loro vita iniziava. La Costituzione era in vigore da soli tre anni e quei ragazzi la conoscevano poco e male e Calamandrei, giurista e costituente, nel rivolgersi a loro, cominciò proprio citando l'articolo 34, l'uguaglianza sostanziale nel campo dell'istruzione. Lo definì - parole sue - l'articolo più importante di tutta la Costituzione, il più impegnativo per noi che siamo al declinare, ma soprattutto per voi giovani che avete l'avvenire davanti. (Gianni Cuperlo)
  • Per decifrare i miasmi che dalla decomposizione del fascismo si avventavano sul presente della nuova Italia repubblicana, egli coniò l'immagine straordinariamente efficace della «desistenza». [...] Calamandrei usa il termine in contrapposizione a «resistenza», mettendo a confronto quelle che essenzialmente sono due diverse concezioni della politica, oltre che due modi diversi di vivere la realtà della guerra e del dopoguerra. (Giovanni De Luna)
  • Su Piero Calamandrei, uno dei protagonisti della mia Italia civile, sono tornato più e più volte nella mia vita, studiando la sua opera, in specie gli scritti politici e giuridici, pieno di ammirazione per la sua meravigliosa e multiforme attività di scrittore, di giurista, di avvocato, di uomo politico, di letterato: un'ammirazione, accompagnata da un profondo affetto per l'uomo severo e insieme amante della lieta conversazione, sferzante ed ironico, ilare e melanconico, coraggioso senza spavalderia, prodigo di sé senza vanità, animato da una fervida passione per la giustizia attraverso la legge, quando è possibile, o attraverso l'aperta lotta politica quando il diritto vien meno, diviso, secondo gli eventi e la natura dei suoi interlocutori, tra incontenibili sdegni e buoni sentimenti, tra l'irriducibile avversione per i ribaldi e il culto della più pura e disinteressata amicizia, insofferente dei prepotenti e sofferente coi poveri, i derelitti, le vittime del potere, sempre alla ricerca di un'innocenza perduta che identificava nell'età dell'infanzia felice e verso una innocenza da ritrovare in una futura società più libera e più giusta. (Norberto Bobbio)

Giorgio Luti modifica

  • È impossibile non accorgersi che in tutti gli scritti di Calamandrei, anche in quelli più tecnicamente impegnati, traspaiono una naturale disposizione artistica e una modalità operativa in cui convivono in perfetto equilibrio il giurista, il politico e il letterato.
  • Nella vita di Piero Calamandrei è impossibile tracciare una linea netta di demarcazione tra l'attività del giurista e quella del letterato. Nel bene e nel male, nei momenti di appassionata partecipazione al proprio lavoro e nei rari momenti di passeggero abbandono o di ripiegamento accorato nello spazio del «tempo perduto», la prassi operativa del giurista e del letterato tendono sempre a coincidere, secondo una visione unitaria e coerente del proprio destino.
  • Non è solo l'uso moderno della memoria a connotare la prosa classica di Calamandrei. Bisogna aggiungere al profilo dello scrittore altri due elementi che lo contraddistinguono: il gusto dell'ironia e una spontanea disposizione pittorica esente da ogni insistenza oleografica. Da buon toscano Calamandrei giuoca di rimessa, cioè di frequente smussa con l'arguzia e l'ironia la carica sentimentale che percorre la sua pagina narrativa e diaristica. Altrettanto può dirsi per la qualità pittorica di questa prosa che certo deve molto all'esperienza della «macchia» toscana, ma che in questa non si esaurisce, travalicandone notevolmente i limiti. C'è da aggiungere che la descrizione, o meglio la messa in funzione della tavolozza pittorica, non è mai gratuita poiché lo sguardo del narratore è sempre sostanziato da una capacità analitica che certo non è estranea al giurista e all'avvocato di grido.

Note modifica

  1. Citato in Piero Pajardi, Per questi motivi... Vita e passioni dedi un giudice, Jaca Book, Milano, 1986, p. 7. ISBN 88-16-28016-6
  2. a b c Dichiarazione di voto fatta nella seduta della Camera dei Deputati del 18 marzo 1949, che precede la votazione sull'ingresso dell'Italia nel Patto Atlantico.
  3. Prefazione alla raccolta postuma di scritti di Giovanni Ferretti, Scuola e democrazia, Einaudi, Torino, 1956.
  4. a b c d e f g h i j k l m n o Dal discorso tenuto il 28 febbraio 1954 al Teatro Lirico di Milano, alla presenza di Ferruccio Parri.
  5. Citato in Indro Montanelli, Soltanto un giornalista. Testimonianza resa a Tiziana Abate, Milano, Rizzoli, 2002, cap. 26, p. 284. ISBN 88-17-12991-7
  6. Dal discorso al III Congresso dell'Associazione a difesa della scuola nazionale, Roma, 11 febbraio 1950.
  7. Da Costituzione e leggi di Antigone. Scritti e discorsi politici, Sansoni.
  8. Epitaffio riportato sulla lapide di Carlo e Nello Rosselli, cimitero di Trespiano, Firenze; da Uomini e città della Resistenza: discorsi, scritti ed epigrafi, a cura di Sergio Luzzatto, Laterza, 2006.
  9. a b Testo stenografico dell'arringa pronunciata il 30 marzo 1956 dinanzi al Tribunale penale di Palermo, pubblicato in "Quaderni di "Nuova Repubblica"", 4, 1956, p. 15, anche in "Il Ponte",XII, 4, aprile 1956, pp. 529-544 e in Processo all'art. 4,"Testimonianze", 8, pp. 291-316.
  10. 1954; citato in Mauro Cappelletti, Giustizia e Società, Edizioni di Comunità, Milano, 1972, p. 11.
  11. Citato in Edoardo Sanguineti, Ghirigori, Marinetti, 1988, p. 144.
  12. In Opere giuridiche, II, "Magistratura, avvocatura, studio e insegnamento del diritto", Roma Tre-Press, 2019, p. XIV. ISBN 9788832136432
  13. Dal discorso all'Assemblea costituente del 5 settembre 1946.
  14. In Opere giuridiche, III, "Diritto e processo costituzionale", Roma Tre-Press, 2019, p. 56. ISBN 9788832136456
  15. Incipit da Lapide ad ignominia.
  16. Da Scritti e discorsi, I, 1, 101; citato in Paolo Barile, Calamandrei e la Costituzione in Giornata lincea in ricordo di Piero Calamandrei, Accademia Nazionale dei Lincei, Roma, 1993, p. 33.
  17. a b Dal Discorso sulla Costituzione, Milano, 26 gennaio 1955.
  18. Citato in Gian Piero Iaricci, Istituzioni di diritto pubblico, Maggioli Editore, Santarcangelo di Romagna, 2014, p. 56. ISBN 8891605824
  19. Dal discorso tenuto al Teatro Lirico di Milano, 28 febbraio 1954, in Uomini e città della Resistenza: discorsi scritti ed epigrafi, Laterza.
  20. Citato in Indro Montanelli, Il testimone, a cura di Manlio Cancogni e Piero Malvolti, Longanesi, 1992². Si confronti Francesco Carrara: «Quando la politica entra dalla porta del tempio, la giustizia fugge impaurita dalla finestra per tornarsene al cielo» (da Programma del corso di diritto criminale dettato nella R. Università di Pisa, Fratelli Cammelli, 1898).
  21. Discorso pronunciato all'Assemblea Costituente nella seduta del 4 marzo 1947.
  22. Da “Prefazione”, in G. Ferretti, Scuola e democrazia, Einaudi, 1956.
  23. Dal dibattimento in Assemblea costituente, seduta del 22 dicembre 1947.
  24. Situazione in cui il cliente aveva perduto la causa davanti a una sezione di una Corte, quando altra sezione della Corte – la cui aula d'udienza era ubicata accanto alla prima – lo stesso giorno aveva deciso in modo esattamente opposto una questione analoga; il cliente, in altri termini, avrebbe vinto (ndr).

Bibliografia modifica

  • Piero Calamandrei, Discorso sulla Costituzione [Audioregistrazione] (1959), Cetra, Torino, Collana Letteraria 449, 33 giri.
  • Piero Calamandrei, La costituzione e la gioventù: discorso pronunciato da Pietro Calamandrei nel gennaio 1955 a Milano, a cura dell'ufficio stampa e pubbliche relazioni della provincia di Livorno, 1975.
  • Piero Calamandrei, Elogio dei giudici, scritto da un avvocato, Milano, Andrea Salani Editore – Ponte delle Grazie, 2009.

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