Emil Cioran

filosofo, scrittore e saggista rumeno
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Emil M. Cioran (1911 – 1995), filosofo e saggista rumeno.

Emil Cioran

Citazioni di Emil Cioran

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  • [...] il destino individuale, come realtà interiore, irrazionale e immanente, ci è rivelato solo nel dolore, che rappresenta la sola via che ci permette di comprendere in maniera più profonda i problemi personali. [...] il peccato nelle interpretazioni religiose – che equivale al dolore per i credenti – non ha questa funzione perché, essendo strettamente legato all'oggettività del mondo storico, non pone in modo rigoroso il problema dell'esistenza individuale. – Per questo il dolore deve essere amato.[1]
  • [...] invidio persino la loro lingua, feroce se altre mai, di una bellezza che nulla ha di umano, con quelle sonorità di un altro mondo, possente e corrosiva, fatta per la preghiera, le urla e le lacrime, venuta su dall'inferno per perpetuarne gli accenti e lo splendore. Anche se ne conosco solo le bestemmie mi piace immensamente, non mi stanco di ascoltarla, mi incanta e mi raggela, sono succube del suo fascino e del suo orrore, di tutte quelle parole di nettare e di veleno così adatte alle esigenze dell'agonia. Bisognerebbe spirare in ungherese – o rinunciare a morire.[2]
  • L'imperatrice Elisabetta appartiene alla mia biografia spirituale.[3]
  • La Francia ha cominciato a decadere da quando si è gettata nelle braccia della democrazia. Il Primo Impero è stata la sua ultima follia vitale. Da allora è finita. L'Inghilterra è arrivata prima grazie al conformismo e alla stupidità illuminata dei suoi abitanti. La Svizzera è un paese nato morto. Il virus della libertà [...] è la fine dei popoli. Finis Europae, come diceva un mago, il Sâr Péladan. Dal momento che il virus è entrato nel sangue, ils sont foutus. Absolument. [...] i barbari stessi si sono oramai contagiati al virus della libertà. Il disgelo, appunto, e col disgelo la valanga, l'apocalisse: l'invasione cinese, l'invasione africana.[4]
  • [...] la nostra [lingua romena], che mi capita di rimpiangere per quell'odore di fresco e di marcio, per quel misto di sole e di fango, quella bruttezza nostalgica, quella regale sciatteria.[5]
  • [Joseph de Maistre] Più lo si frequenta, più si pensa alle delizie dello scetticismo o all'urgenza di una perorazione per l'eresia.[6]
  • Provo un vero affetto per la forma mentis di Tocqueville.[7]
  • Se per cinismo intendiamo sincerità portata al parossismo, allora sono necessariamente cinico.[8]
  • Vorrei aggiungere che Joseph de Maistre è uno degli autori che più ho frequentato. Giovanissimo, mi sono appassionato a Del Papa, e poi ho letto più volte le Serate di San Pietroburgo e le sue Considerazioni sulla Rivoluzione.[9]

Al culmine della disperazione

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  • Avete mai provato la bestiale e stupefacente soddisfazione di guardarvi in uno specchio dopo innumerevoli notti bianche? Avete mai subìto la tortura dell'insonnia, quando si avverte ogni istante della notte, quando esistete solo voi al mondo, e il vostro dramma diventa il più importante della storia, di una storia ormai svuotata di senso, e che neppure più esiste, giacché sentite levarsi in voi le fiamme più spaventose, e la vostra esistenza vi appare come unica e sola in un mondo nato soltanto per portare a termine la vostra agonia – avete conosciuto questi innumerevoli momenti, infiniti come la sofferenza, per vedere poi riflessa, quando vi guardate, l'immagine del grottesco? (da Grottesco e disperazione, p. 29)
  • Che cosa succederebbe se il volto umano esprimesse fedelmente tutta la sofferenza di dentro, se l'espressione traducesse tutto il tormento interiore? Riusciremmo ancora a conversare? Non dovremmo parlare nascondendoci il volto con le mani? La vita diventerebbe decisamente impossibile se i nostri tratti palesassero l'intensità dei nostri sentimenti.
    Nessuno avrebbe più il coraggio di guardarsi allo specchio, perché un'immagine insieme grottesca e tragica mescolerebbe ai contorni della fisionomia macchie di sangue, piaghe sempre aperte e rivoli di lacrime irrefrenabili. (da La passione dell'assurdo, p. 23)
  • Ci sono due modi di sentire la solitudine: sentirsi soli al mondo o avvertire la solitudine del mondo. Chi si sente solo vive un dramma puramente individuale; il sentimento dell'abbandono può sopraggiungere anche in una splendida cornice naturale. In tal caso interessa unicamente la propria inquietudine. Sentirti proiettato e sospeso in questo mondo, incapace di adattarti ad esso, consumato in te stesso, distrutto dalle tue deficienze o esaltazioni, tormentato dalle tue insufficienze, indifferente agli aspetti esteriori – luminosi o cupi che siano –, rimanendo nel tuo dramma interiore: ecco ciò che significa la solitudine individuale. Il sentimento di solitudine cosmica deriva invece non tanto da un tormento puramente soggettivo, quanto piuttosto dalla sensazione di abbandono di questo mondo, dal sentimento di un nulla esteriore. Come se il mondo avesse perduto di colpo il suo splendore per raffigurare la monotonia essenziale di un cimitero. Sono in molti a sentirsi torturati dalla visione di un mondo derelitto, irrimediabilmente abbandonato ad una solitudine glaciale, che neppure i deboli riflessi di un chiarore crepuscolare riescono a raggiungere. Chi sono dunque i più infelici: coloro che sentono la solitudine in se stessi o coloro che la sentono all'esterno? Impossibile rispondere. E poi, perché dovrei darmi la pena di stabilire una gerarchia della solitudine? Essere solo non è già abbastanza? (Solitudine individuale e solitudine cosmica, p. 62)
  • Così vogliono gli uomini: perché credano in te, devi rinunciare a tutto ciò che ti appartiene, e in ultimo a te stesso. Sono malvagi e criminali; esigono la tua morte come garanzia dell'autenticità della tua fede. Per quale ragione idolatrano le opere scritte col sangue? Perché questo li dispensa dalle sofferenze, o ne dà loro l'illusione. Vogliono intravedere il sangue o le lacrime al di là delle righe, perché la loro mediocrità vi riconosca un destino particolare, degno di venerazione. Tutta l'ammirazione della folla trasuda sadismo. (da La fuga dalla croce, p. 111)
  • I filosofi sono troppo orgogliosi per confessare la loro paura della morte, e troppo pretenziosi per riconoscere alla malattia una fecondità spirituale. C'è una serenità fasulla nelle loro riflessioni sulla morte; in realtà sono loro a tremare di più. Ma non dimentichiamo che la filosofia è l'arte di mascherare i propri sentimenti e i propri supplizi interiori al fine di ingannare il mondo sulle vere radici del filosofare. (da Sulla morte, p. 40)
  • L'insonnia è una vertiginosa lucidità che riuscirebbe a trasformare il Paradiso stesso in luogo di tortura. Qualsiasi cosa è preferibile a questo allerta permanente, a questa criminale assenza di oblio. È durante quelle notti infernali che ho capito la futilità della filosofia. Le ore di veglia sono, in sostanza, un'interminabile ripulsa del pensiero attraverso il pensiero, è la coscienza esasperata da se stessa, una dichiarazione di guerra, un infernale ultimatum della mente a se medesima. Camminare vi impedisce di lambiccarvi con interrogativi senza risposta, mentre a letto si rimugina l'insolubile fino alla vertigine. (Prefazione, pp. 11-12)
  • La bestialità della vita mi ha calpestato e schiacciato, mi ha tagliato le ali in pieno volo e derubato di tutte le gioie cui avevo diritto. (da Io e il mondo, p. 25)
  • La scissione della vita corrisponde a una perdita totale dell'ingenuità, dono meraviglioso distrutto dalla conoscenza, nemica dichiarata della vita. Il vivere cosmico, la gioia per l'esistenza e per ciò che vi è di pittoresco nei suoi singoli aspetti, il rapimento davanti al fascino spontaneo dell'essere, l'esperienza incosciente delle contraddizioni, che perdono implicitamente il loro carattere tragico, sono espressioni dell'ingenuità, terreno fecondo per l'amore e l'entusiasmo. Non provare il dolore delle contraddizoni significa giungere alla gioia verginale dell'innocenza, essere impenetrabili alla tragedia e alla coscienza della morte, che presuppongono una complessità sconvolgente e una disgregazione paradossale. (da Scissione, p. 59)
  • Le vere confessioni non si scrivono che con le lacrime. (da Solitudine individuale e solitudine cosmica, p. 63)
  • Porsi dei problemi equivale a essere perduti, perché gli spiriti problematici, non amando niente, non sono in grado di risolvere niente. Dov'è in loro la capacità di abbandono, il seducente paradosso dell'amore come stato puro, l'attualità permanente e totale che apre a tutto in ogni istante, e dov'è, infine, l'ingenua irrazionalità? Il mito biblico del peccato della conoscenza è il più profondo di quanti ne abbia mai immaginati l'umanità. Ora, l'incontestabile felicità degli entusiasti deriva dal fatto di non conoscere la tragedia della conoscenza. Perché non dirlo? La vera conoscenza è la tenebra assoluta. Rinuncerei a tutti i problemi senza sbocco in cambio di un'ingenuità dolce e incosciente. Lo spirito non innalza: lacera. (da L'entusiasmo come forma di amore, p. 92)
  • Pur continuando a respirare e a mangiare, ho perso tutto ciò che ho mai potuto aggiungere alle mie funzioni biologiche. Non è che una morte approssimativa. (da Il presentimento della follia, p. 31)
  • Se la melanconia è uno stato di trasognamento diffuso che non giunge mai a una grande profondità né a una intensa concentrazione, la tristezza presenta, al contrario, una serietà ripiegata su se stessa e un'interiorizzazione dolorosa. Si può essere tristi da qualsiasi parte; ma mentre gli spazi aperti acuiscono la melanconia, quelli chiusi fanno aumentare la tristezza. Nella tristezza la concentrazione deriva dal fatto che essa ha quasi sempre una ragione precisa, mentre per la melanconia la coscienza non saprebbe individuare nessuna causa esterna. So perché sono triste, ma non saprei dire perché sono melanconico. Prolungandosi nel tempo senza mai raggiungere un'intensità particolare, gli stati melanconici cancellano dalla coscienza ogni motivo iniziale, presente invece nella tristezza. (da Sulla tristezza, pp. 53-54)
  • Se non c'è salvezza attraverso la follia, è perché non c'è nessuno che non ne tema gli sprazzi di lucidità. Si desidererebbe il caos, ma si ha paura delle sue luci. (da Il presentimento della follia, p. 31)
  • Provo soltanto disgusto per coloro che nell'agonia si dominano e s'impongono atteggiamenti destinati a suscitare impressione. Le lacrime sono cocenti unicamente nella solitudine. Tutti quelli che nell'ora suprema vogliono circondarsi di amici lo fanno per paura e per incapacità di affrontare i loro ultimi istanti. Cercano di dimenticare, nel momento capitale, la propria morte. (da Come tutto è lontano!, p. 19)
  • Una constatazione che verifico, con mio grande rammarico, a ogni istante: sono felici solo coloro che non pensano mai, vale a dire coloro che pensano giusto il poco che basta per vivere. (da Sulla tristezza, p. 56)
  • [...] una lacrima ha radici più profonde di un sorriso. (da Sulla morte, p. 33)
  • Vivo perché le montagne non sanno ridere né i vermi cantare. (da La passione dell'assurdo, p. 21)
  • Vorrei perdere la ragione a un unico patto: essere sicuro di diventare un pazzo allegro, brioso ed eternamente di buon umore, senza problemi né ossessioni, che ride senza motivo dalla mattina alla sera. (da Il presentimento della follia, p. 31)

Confessioni e anatemi

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  • Alla minima contrarietà, e a maggior ragione al minimo dispiacere, bisogna precipitarsi nel cimitero più vicino, dispensatore immediato di una calma che si cercherebbe invano altrove. Un rimedio miracoloso, per una volta.
  • Bisogna che una sensazione sia caduta bene in basso perché si degni di mutarsi in idea.
  • Ciò che non è straziante è superfluo, almeno in musica.
  • Di tutto ciò che si prova, niente dà tanto l'impressione di essere al cuore stesso del vero quanto gli accessi di disperazione senza ragione: a paragone, tutto sembra frivolo, sofisticato, privo di sostanza e d'interesse.
  • Divorare una biografia dopo l'altra per persuadersi meglio dell'inutilità di qualsiasi impresa, di qualunque destino.
  • È l'umanità tarata a costituire la materia della letteratura. Lo scrittore si rallegra della perversione di Adamo, e prospera solo in quanto ciascuno di noi la assume e la rinnova.
  • Il fatto che la vita non abbia alcun senso è una ragione di vivere – la sola, del resto.
  • Il miglior mezzo per sbarazzarsi di un nemico è dirne bene ovunque. Glielo riferiranno, e lui non avrà più la forza di nuocervi: avete spezzato la sua molla... Sarà sempre in guerra contro di voi ma senza vigore né costanza, giacché inconsciamente avrà smesso di odiarvi. È vinto, e ignora la propria disfatta.
  • Il nulla per il buddhismo (a dire il vero per l'Oriente in generale) non comporta il significato leggermente sinistro che gli attribuiamo noi. Coincide con un'esperienza-limite della luce o, se si vuole, con uno stato di eterna assenza luminosa, di vuoto radioso: è l'essere che ha trionfato su tutte le sue proprietà, o piuttosto un non-essere supremamente positivo che dispensa una felicità senza materia, senza substrato, senza alcun appoggio in qualsiasi mondo.
  • La conversazione con lui era convenzionale come quella con un agonizzante.
  • La meditazione è uno stato di veglia mantenuto per via di un'oscura turba, che è insieme devastazione e benedizione.
  • La musica esiste solo fintantoché dura l'ascolto, come Dio finché dura l'estasi. L'arte suprema e l'essere supremo hanno questo in comune: dipendono interamente da noi.
  • Non aver realizzato nulla, e morire sfiniti.
  • Non è grazie al genio ma grazie alla sofferenza, e solo grazie ad essa, che smettiamo di essere una marionetta.
  • Non si abita un paese, si abita una lingua. Una patria è questo, e niente altro.[10]
  • Non so quale sete diabolica m'impedisca di denunciare il patto col mio respiro.
  • Perdere il sonno e cambiare lingua. Due prove, l'una indipendente da sé stessi, l'altra deliberata. Da soli, faccia a faccia con le notti e con le parole.
  • Più si è sofferto, meno si rivendica. Protestare è segno che non si è attraversato alcun inferno.
  • Pubblicare un libro comporta lo stesso genere di noie di un matrimonio o di un funerale.
  • Quale sollievo gettare nella pattumiera un manoscritto, testimone di una recrudescenza di febbre, di frenesia costante!
  • Quei figli che non ho voluto, sapessero la felicità che mi debbono!
  • Se obbedissi al primo impulso, passerei le giornate a scrivere lettere di ingiurie e di addio.
  • Si insiste sulle malattie della volontà, e si dimentica che la volontà come tale è sospetta, e che non è normale volere.
  • Sono talmente appagato dalla solitudine che il minimo appuntamento è per me una crocifissione.
  • Un silenzio improvviso nel mezzo di una conversazione ci riporta d'un tratto all'essenziale: ci rivela a quale prezzo dobbiamo pagare l'invenzione della parola.

Esercizi di ammirazione

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  • Il positivismo trasse il maggior profitto dai sistemi «retrivi», di cui rifiutò il contenuto e le credenze solo per adottarne meglio l'armatura logica, il contorno astratto. Auguste Comte si servì delle idee di Maistre come Marx di quelle di Hegel.
    Diversamente attenti alla sorte della religione, ma parimenti asserviti ai rispettivi sistemi, positivisti e cattolici sfruttarono nel modo più appropriato ai loro interessi il pensiero dell'autore di Du Pape; ben più libero, un Baudelaire vi attinse, per semplice necessità interiore, alcuni temi, come quelli del male e del peccato, o taluni suoi «pregiudizi» contro le «idee democratiche» e il «progresso». (da Joseph de Maistre, pp. 73-74)
  • «Ciò che si crede vero va detto e detto arditamente; vorrei, qualsiasi cosa mi costasse, scoprire una verità capace di urtare tutto il genere umano: gliela direi a bruciapelo». Il Baudelaire della «franchezza assoluta», delle Fusées e di Mon cœur mis a nu è contenuto e in un certo modo annunciato in questa dichiarazione delle Soirées, che ci offre la formula di quell'incomparabile arte della provocazione nella quale Baudelaire si sarebbe distinto quasi quanto Maistre. Vi si distinguono d'altro canto tutti coloro i quali, per chiaroveggenza o per acredine, ripudiano gli incantesimi astuti del Progresso. Perché i conservatori impiegano così bene l'invettiva e in genere scrivono con maggior cura dei ferventi dell'avvenire? Il fatto è che, furenti di essere contraddetti dagli avvenimenti, si gettano, nel loro scompiglio, sul verbo, dal quale, in mancanza di una più sostanziale risorsa, traggono vendetta e consolazione. Gli altri vi ricorrono con noncuranza e persino con disprezzo: complici del futuro, tranquilli dal lato della «storia», scrivono senza arte, anzi senza passione, consci che lo stile è la prerogativa e quasi il lusso del fallimento. (da Joseph de Maistre, pp. 74-75)
  • Quando parliamo di fallimento, non pensiamo solo a Maistre, ma anche a Saint-Simon. Nell'uno come nell'altro un eguale attaccamento, esclusivo, ristretto, alla causa dell'aristocrazia, una massa di pregiudizi difesi con una rabbia continua, l'orgoglio di casta spinto fino all'ostentazione, e un'eguale incapacità di agire che spiega perché furono così audaci come scrittori. Che l'uno mediti su problemi o l'altro descriva avvenimenti, la minima idea, il minimo fatto esplodono sotto la passione che vi mettono. Volerne anatomizzare la prosa equivale ad analizzare una bufera. (da Joseph de Maistre, p. 75)
  • In assoluto, le perplessità pascaliane ai limiti della preghiera contano più di qualsiasi segreto strappato al mondo esterno. Ogni conquista oggettiva presuppone una regressione interiore. Quando l'uomo avrà raggiunto lo scopo che si era prefisso, asservire la Creazione, sarà completamente svuotato: dio e fantasma. (Valéry di fronte ai suoi idoli, p. 95)
  • Di colui che tende all'illuminazione si dice, nel buddhismo, che deve essere accanito come «il topo che rosicchia una bara». Ogni vero scrittore compie uno sforzo simile. È un distruttore che accresce l'esistenza, che l'arricchisce scalzandola. (Beckett. Alcuni incontri, p. 107)
  • Maria Zambrano non ha venduto l'anima all'Idea, ha salvaguardato la sua essenza unica mettendo l'esperienza dell'Insolubile al di sopra della riflessione su di esso, insomma ha oltrepassato la filosofia... È vero ai suoi occhi solo ciò che precede o segue il detto, solo il verbo strappato agli intralci dell'espressione o, come dice magnificamente, la palabra liberada del lenguaje. (Maria Zambrano. Una presenza decisiva, p. 177)
  • [Su Guido Ceronetti] [...] la sua aria d'uomo che non è di nessuna parte, la sua aria d'inappartenenza originaria, di predestinazione all'esilio quaggiù, mi ha fatto pensare immediatamente a Myṥkin. [...] dà l'impressione di un uomo ferito, allo stesso modo, sarei tentato di aggiungere, di tutti coloro cui fu negato il dono dell'illusione. [...] fra tutte le persone, le meno insopportabili sono quelle che odiano gli uomini. Non bisogna mai fuggire un misantropo. (pp. 202, 205)
  • Niente di più miserevole della parola, eppure grazie ad essa ci si apre a sensazioni di felicità, a una dilatazione estrema in cui si è totalmente soli, senza il minimo senso di oppressione. Il supremo raggiunto con il vocabolo, con il simbolo stesso della fragilità. (In forma di confessione, p. 214)

Fascinazione della cenere

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  • Tutte le teorie politiche che non esitano a considerare l'uomo un animale «ragionevole» rientrano nell'utopia. Essa propone un ideale; non constata. (Intorno a Machiavelli [1954], p. 15)
  • Ma lo sviluppo storico è là per dimostrare che re, tiranni, dittatori, sobillatori, tutti quanti – nella misura in cui hanno avuto successo o almeno si sono affermati – non hanno tenuto in alcun conto le esigenze morali. Certuni furono abili: sapevano raggirare, camuffare o truccare i loro gesti e le loro intenzioni; altri, meno perfidi, meno ipocriti, rivelarono il loro gioco. È l'unica differenza che li separa. Il buon principe è più commediante del cattivo. L'esercizio del potere non si concilia molto con il rispetto per l'uomo; agire e comandare, due atti inseparabili da un certo cinismo. (Intorno a Machiavelli [1954], p. 16)
  • Machiavelli sa troppo bene che un Marco Aurelio è un fenomeno raro, anzi unico, che è un'eccezione di cui è inutile tenere conto. I Tiberio, i Nerone, i Caligola, ecco la materia della storia. Ogni principe degno di questo nome si avvicina più o meno a loro; ogni principe che conosca il proprio mestiere è un mostro dichiarato o attenuato e corretto. I suoi sudditi lo meritano. Per questo Machiavelli lo mette in guardia contro i pericoli della bontà. Uno Stato non si compone né di angeli, né di agnelli: è la giungla organizzata. Tale è l'idea, talora espressa, talora sottintesa, del Principe. (Intorno a Machiavelli [1954], p. 17)
  • Il materialismo è di per sé una filosofia semplicistica. Ma, deludente in ciò che afferma, è almeno efficace in ciò che nega, dato che ogni negazione è una via verso la liberazione. (Qualche parola su Leopardi [1983], p. 23)
  • Invidiamo coloro che hanno trovato la liberazione e la pace, ma restiamo con chi non ha incontrato né l'una né l'altra. (Qualche parola su Leopardi [1983], p. 23)
  • Dove risiede il vero: nell'appello del Buddha o nell'apologia del suicidio fatta da Porfirio alle prese con Plotino? A ben riflettere entrambi invitano alla rinuncia. Nessuna soluzione, dunque, se non al di fuori dell'esistenza. Si può anche andare oltre: rifiutare l'idea di soluzione, affondar sempre più nell'impasse capitale che annulla tutte le domande e tutte le risposte – e che si chiama noia. Nessuno ne ha conosciuto i tormenti come Leopardi. (Qualche parola su Leopardi [1983], pp. 23-24)
  • Non contano tanto per noi gli autori che abbiamo letto molto quanto quelli ai quali non abbiamo mai smesso di pensare, che ci sono stati presenti nei momenti essenziali e che, con il loro martirio, ci hanno aiutato a sopportare il nostro. (Qualche parola su Leopardi [1983], p. 24)
  • Non si dovrebbe instituzionalizzare l'essenziale: l'Università è lo spirito in lutto. Si insegna la filosofia nell'agorà, in un giardino o a casa propria. (Gabriel Marcel. Ritratto di un filosofo [1969], p. 27)
  • Lo scettico pone un problema per il piacere di porlo e poi di denunciarlo, disgregarlo, rivelarne l'inanità. Giubila davanti all'insolubile o vi si immerge, si inebria di vicoli ciechi. Lo scetticismo, nella sua forma estrema, comporta fatalmente un elemento morboso. (Gabriel Marcel. Ritratto di un filosofo [1969], p. 34)
  • [...] il nichilismo non è affatto una posizione paradossale o mostruosa, ma la conclusione normale alla quale è costretto chiunque abbia perduto il contatto intimo col mistero, parola pudica per designare l'assoluto. (Gabriel Marcel. Ritratto di un filosofo [1969], p. 35)
  • La curiosità, non lo si ricorderà mai abbastanza, è il segno che si è vivi e ben vivi; la curiosità risolleva e arricchisce ad ogni istante questo mondo, vi cerca ciò che in fondo non smette di proiettarvi, è la modalità intellettuale del desiderio. Perciò, a meno che non sbocchi nel nirvana, l'incuriosità è un sintomo dei più allarmanti. In certe contrade dell'America latina, è consuetudine annunciare un decesso in questo modo: Un tale è diventato indifferente. Questo eufemismo da partecipazione funebre nasconde una filosofia profonda. (Gabriel Marcel. Ritratto di un filosofo [1969], p. 39)
  • Mi appare chiaro che, senza una dose notevole di megalomania, non si può intraprendere nulla, anzi non si può nemmeno pensare. Solo se ci si sente istintivamente il centro del mondo è possibile emettere sentenze e atteggiarsi a giudici universali. Certo un dubitatore nato è in grado di reagire in modo diverso. Sfortunatamente questa specie di mostri è una rarità. (Da Vaugelas a Heidegger [1990], p. 44)
  • Una lingua è un continente, un universo e chi se lo appropria è un conquistatore. (Incontri con Paul Celan [1987][11], p. 45)
  • È per me una certezza che il solo ad aver capito a fondo un libro è colui che si è preso la pena di tradurlo. Generalmente, il buon traduttore è più lucido dell'autore che, nella misura in cui è catturato dalla sua opera, ignora i propri segreti, dunque i propri difetti e i propri limiti. (Incontri con Paul Celan [1987], p. 46)
  • Essere segnati dalla fatalità è un'elezione o una maledizione? Entrambe le cose contemporaneamente. Questo doppio aspetto definisce la tragedia. Ora Paul Celan era un personaggio, un essere tragico. Per questo è per noi qualcosa di più che un poeta. (Incontri con Paul Celan [1987], p. 49)
  • In fondo noi due eravamo scandalosamente diversi, pur avendo una complicità segreta. L'amicizia – questa è la sua forza – resiste all'analisi. (Eliade [1991], p. 55)
  • Si è liberi soltanto vivendo come se non si fosse nati, come se, nell'ipotesi di una scelta anteriore all'esistenza, si fosse pronunciato un no senza equivoci. Quando si è compenetrati del disastro della nascita, ogni attesa è un'attesa senza oggetto. (Beckett e l'orrore di essere nati [1990], p. 58)
  • Mettere in questione la nascita è una disintossicazione e una liberazione. Proprio perché vi si esercita da sempre il buddhista raggiunge il distacco e la serenità più sicuramente del cristiano. Nessun affrancamento di nessuna specie senza la rimuginazione sull'inopportunità di ogni venuta al mondo. (Beckett e l'orrore di essere nati [1990], p. 60)
  • La cenere sarebbe insomma l'esito e il segreto di tutto.
    Questo lo si è intuito e saputo sempre. E proprio per dimenticarlo sono state inventate le religioni, la cui peculiarità consiste nell'infliggere un supplemento al nulla, un atto in più ad una farsa bell'e e terminata. (Fascinazione della cenere [1987], p. 61)
  • L'originalità del nostro tempo è di aver svuotato l'avvenire di ogni contenuto utopico, quanto dire dell'errore di sperare. Un balzo enorme sul piano della conoscenza, una liberazione... intellettuale senza precedenti, sprovvista – va da sé – di ogni certezza euforica. Conoscenza ed esultanza sono lungi dal rappresentare termini correlativi. Conoscere significa smascherare, scuotere fondamenta, significa avviarsi trionfalmente verso la vertigine ed è questo il solo elemento positivo che tale attività comporta. (Fascinazione della cenere [1987], p. 61)
  • È il suo paradosso quello di poter essere superficiale pur sapendo di essere mortale. Se l'individuo in quanto tale si rassegna a non essere più nulla, perché non dovrebbe accettare anche l'epilogo del processo storico, la fine della specie? Egli tuttavia continua come se niente fosse: nessuno, d'altronde, fa tanti progetti quanti un moribondo. (Fascinazione della cenere [1987], p. 64)
  • Fatto degno di nota: non c'è silenzio frivolo, silenzio superficiale. Ogni forma di silenzio è essenziale. Quando lo si assapora, si conosce automaticamente una sorta di supremazia, una strana sovranità. È possibile che ciò che si designa con interiorità non sia nient'altro che un'attesa muta. Perciò, non c'è «vita vera» o, semplicemente, vita spirituale che non implichi la morte dell'immagine e della parola, la distruzione – nel più profondo dell'essere – di questo mondo e di tutti i mondi. L'esperienza mistica, al suo limite estremo, si identifica con la beatitudine di un supremo rifiuto. (Contro l'immagine [1965], p. 66)
  • Fra tutti coloro che cercano, soltanto il mistico ha trovato, ma, prezzo di un favore così eccezionale, non potrà mai dire che cosa, benché egli abbia la certezza che conferisce unicamente il sapere incomunicabile (il vero sapere insomma). La strada sulla quale egli vi inviterà a seguirlo sbocca su una vacuità senza uguali ma, ed è questa la meraviglia, una vacuità che vi colma, poiché si sostituisce a tutti gli universi aboliti. Ciò di cui si tratta in questo caso è un'impresa, la più radicale che sia stata tentata, per ancorarsi in qualcosa di più puro dell'essere o dell'assenza dell'essere, in qualcosa di superiore a tutto, perfino all'assoluto. (Contro l'immagine [1965], p. 66-67)

Finestra sul nulla

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Incipit

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L'imbecille fonda la sua esistenza solo su ciò che è. Non ha scoperto il possibile, finestra sul Nulla...
L'imbecillità è il radicamento supremo, innato, un'indistinzione dalla natura che trae la propria reputazione dall'ignoranza dei pericoli. Perché nessuno è meno oppresso dell'imbecille, e l'oppressione è il segno di un destino lontano dalla mollezza e dall’anonimato della felicità.

Citazioni

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  • Di tutte le codardie che rendono possibili i rapporti tra gli esseri umani, la più delicata resta comunque l'amicizia. La sincerità totale è compatibile solo con il monastero o l'assassinio.
  • Quando, cullato dall'amore, riscopri l'innocenza dell'infanzia e le attrattive dell'avvenire, non lontano il Diavolo sorride. Lui lo sa che finirai comunque nelle sue braccia, le braccia del risveglio e dell'insonnia.

Il funesto demiurgo

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  • Abbiamo disimparato l'arte di sopprimerci a freddo. (p. 79)
  • Al concilio del 1211 contro i bogomili furono colpiti da anatema quelli di loro che sostenevano che «la donna concepisce nel suo ventre grazie alla cooperazione di Satana, e che Satana vi resta da quell'istante in poi, senza ritirarsene, fino alla nascita del bambino». Non mi arrischio a supporre che il Demonio possa interessarsi di noi al punto di tenerci compagnia per qualche mese; ma non saprei dubitare che siamo stati concepiti sotto il suo sguardo, e che abbia assistito, effettivamente, i nostri amati genitori. (p. 88)
  • Basilide, lo gnostico, è uno dei rari intelletti ad avere capito, all'inizio della nostra èra, ciò che oggi è un luogo comune, cioè che se l'umanità vuole salvarsi, deve rientrare nei propri limiti naturali mediante il ritorno all'ignoranza, vero segno di redenzione. (p. 132-133)
  • Bisogna pensare a Dio e non alla religione, all'estasi e non alla mistica.
    La differenza fra il teorico della fede e il credente è grande quanto quella fra lo psichiatra e il matto. (p. 117)
  • Che il rimpianto sia un segno d'invecchiamento precoce? Se è vero, io sono senile fin dalla nascita. (p. 90)
  • Chi non ha mai immaginato di uccidersi si deciderà a farlo più prontamente di chi non smette di pensarci. Poiché ogni atto cruciale è più facile da compiersi per assenza di riflessione che per esame, lo spirito vergine di suicidio, non appena vi si senta sospinto, sarà senza difesa contro la pulsione subitanea, sarà accecato e scosso dalla rivelazione di una via d'uscita definitiva, mai considerata fino a quel momento; l'altro, invece, potrà sempre ritardare un gesto indefinitamente pesato e soppesato, un gesto ch'egli conosce a fondo, al quale si deciderà senza passione – se mai si deciderà. (p. 78)
  • Chiunque non sia morto giovane merita di morire. (p. 151)
  • Ciò di cui avremmo bisogno è il dono d'immaginare la possibilità della preghiera, indispensabile a chiunque persegua la propria salvezza. L'inferno è la preghiera inconcepibile (pp. 23-24)
  • Con l'infliggere al dio ufficiale le funzioni di padre, di creatore e di gerente, lo si espose ad attacchi, cui doveva soccombere. Quale non sarebbe stata la sua longevità, se si fosse dato ascolto a un Marcione, di tutti gli eresiarchi colui che con maggior vigore si scagliò contro l'occultamento del male, e più d'ogni altro contribuì, grazie all'odio che gli tributava, alla gloria del dio cattivo! (p. 17)
  • Durante l'insonnia mi ripeto, a mo' di consolazione, che quelle ore di cui prendo coscienza le strappo al nulla, che se dormissi non mi sarebbero mai appartenute, anzi non sarebbero mai esistite. (p. 143)
  • È semplice chiacchiera ogni conversazione con chi non ha sofferto. (p. 138)
  • Forse la follia è soltanto un dispiacere che abbia smesso di evolversi. (p. 127)
  • [...] il male [...] possiede il duplice privilegio d'essere fascinatore e contagioso. (p. 18)
  • Il cristianesimo si è servito del rigore giuridico dei Romani e delle acrobazie filosofiche dei Greci, non per affrancare lo spirito ma per incatenarlo. (p. 36)
  • Il dramma della Germania è di non avere avuto un Montaigne. Che fortuna, per la Francia, aver cominciato con uno scettico! (p. 142)
  • Il politeismo corrisponde meglio alla diversità delle nostre tendenze e dei nostri impulsi, cui offre la possibilità di esercitarsi, di manifestarsi: libero ognuno di essi di propendere, secondo la propria natura, verso il dio che gli si confà in quel preciso momento. (pp. 34-35)
  • Il ruolo dell'insonnia nella storia: da Caligola a Hitler. L'impossibilità di dormire è causa o conseguenza della crudeltà? Il tiranno vigila – è ciò che propriamente lo definisce. (p. 125)
  • Il tormento è per certuni un bisogno, un appetito, e un compimento. (p. 138)
  • In coloro per i quali libertà e vertigine si equivalgono, una fede, da qualsiasi parte provenga, magari addirittura antireligiosa, è un impedimento salutare, una catena desiderata, sognata, che avrà la funzione di frenare la curiosità e la febbre, di sospendere l'angoscia dell'indefinito. Quando una fede simile ha la meglio e s'insedia, ciò che ne risulta immediatamente è una riduzione del numero dei problemi da considerare e, insieme, una diminuzione quasi tragica delle opzioni. Vi è sottratto il peso della scelta: si decide per voi. (pp. 46-47)
  • L'assoluto è inseguimento; il dubbio, una ritirata. Questa ritirata, inseguimento all'incontrario, urta, quando non sa fermarsi, contro estremità inaccessibili a ogni percorso razionale. All'inizio era soltanto un modo di procedere; eccolo vertigine, come tutto ciò che s'inoltra al di là di se stesso. Avanzare o retrocedere verso dei limiti, scandagliare il fondo di qualcosa, è andare incontro, necessariamente, alla tentazione di autodistruggersi. (p. 81)
  • L'ossessione del suicidio è propria di colui che non può né vivere né morire, e la cui attenzione non si allontana mai da questa duplice impossibilità. (p. 83)
  • L'uomo non fu creato per rimanere inchiodato a una sedia. Ma forse non meritava di meglio. (p. 143)
  • [...] la dolcezza di prima della nascita, la luce della pura anteriorità. (p. 114)
  • [...] la felicità spinge al suicidio quanto l'infelicità, anzi ancora di più perché amorfa, improbabile, esige uno sforzo di adattamento estenuante, mentre l'infelicità offre la sicurezza e il rigore di un rito. (p. 71)
  • La parola e il silenzio. Ci si sente più al sicuro vicino a un pazzo che parla, che a un pazzo incapace di aprire bocca. (p. 154)
  • La psicanalisi sarà un giorno totalmente screditata, su questo non c'è dubbio. Eppure, avrà distrutto i nostri ultimi resti d'ingenuità. Dopo la psicanalisi, non si potrà mai più essere innocenti. (p. 122)
  • La sola funzione della memoria è di aiutarci a rimpiangere. (p. 128)
  • La sorte di chi si è ribellato troppo è di non aver più energie se non per la delusione. (p. 118)
  • Ma proprio nella voluttà comprendiamo quanto illusorio sia il piacere. Per suo tramite il piacere raggiunge l'acme, il massimo di intensità; ed ecco che proprio nel momento del suo maggior successo, subitamente si apre alla irrealtà, e si accascia nel suo stesso niente. La voluttà è il disastro del piacere. [...]
    Quando si sa ciò che dispensi a ciascuno di noi il destino, si resta sconcertati di fronte alla sproporzione fra un momento d'oblio e la somma portentosa di disgrazie che ne risultano. Più si fruga in questo soggetto, più si scopre che i soli ad aver capito qualcosa sono coloro che hanno optato per l'orgia o per l'ascesi, i debosciati o i castrati. (p. 21)
  • Nella divinità è più importante ritrovare i nostri vizi che le nostre virtù. (p. 14)
  • Non esiste un mezzo per dimostrare che è preferibile essere piuttosto che non essere. (p. 121)
  • Non si chiede libertà, ma qualche apparenza di libertà. È per questi simulacri che l'uomo si agita tanto, da sempre. Del resto, se la libertà è, com'è stato detto, solo una sensazione, che differenza c'è tra essere e credersi libero? (p. 147)
  • Ogni inizio di idea corrisponde a un'impercettibile lesione della mente. (p. 129)
  • Precipitato fuori del sonno dalla domanda: «Dove va, questo attimo?». «Alla morte», fu la mia risposta. E subito tornai a dormire. (p. 149)
  • Proprio perché non riesce più a detestare le altre religioni, perché le comprende, il cristianesimo è finito: manca sempre più di quella vitalità da cui procede l'intolleranza. E l'intolleranza era la sua ragione d'essere. Per sua disgrazia ha cessato di essere mostruoso. (p. 45)
  • Quando si sa che ogni problema è soltanto un falso problema, si è pericolosamente vicini alla salvezza. (p. 146)
  • Se si eccettuano alcuni casi aberranti, l'uomo non è propenso al bene: quale dio ve lo spingerebbe? È costretto a vincersi, a farsi violenza, per poter compiere il sia pur minimo atto non inquinato dal male. (p. 11)
  • Secondo la Bhagavadgita, è perduto, per questo mondo e per l'altro, colui che è «preda del dubbio», quello stesso dubbio che il buddhismo da parte sua cita fra i cinque ostacoli alla salvezza. Perché il dubbio non è approfondimento, bensì ristagno, vertigine del ristagno... (p. 111)
  • Si crede veramente fino a quando non si sa chi implorare. Una religione è viva solo prima dell'elaborazione delle sue preghiere. (p. 122)
  • Si distrugge una civiltà soltanto quando si distruggono i suoi dèi. (p. 39)
  • Si può dare per certo che il XXI secolo, ben altrimenti progredito del nostro, guarderà a Hitler e a Stalin come a due chierichetti. (p. 132)
  • Siamo stati felici soltanto nelle epoche in cui, avidi di annientamento, con entusiasmo accettavamo il nostro niente. (p. 24)
  • Siamo tutti in fondo a un inferno, dove ogni attimo è un miracolo. (p. 161)
  • Soffrire è produrre conoscenza. (p. 131)
  • Tutto ha l'aria di esistere, e non c'è niente che esista. (p. 56)
  • Un giorno le donne incinte saranno lapidate, proscritto l'istinto materno, e acclamata la sterilità. A buon diritto, in quelle sette in cui la fecondità era fonte di diffidenza, i bogomili e i catari per esempio, veniva condannato il matrimonio, istituzione abominevole che tutte le società da sempre proteggono, per la disperazione di coloro che non cedono alla vertigine comune. Procreare significa amare il flagello, volerlo conservare e favorire. (p. 20)

L'inconveniente di essere nati

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  • A differenza di Giobbe non ho maledetto il giorno della mia nascita;[12] gli altri giorni, in compenso, li ho coperti tutti di anatemi.
  • Abbiamo perduto nascendo quanto perderemo morendo. Tutto.
  • Anche quando disertano l'inferno, gli uomini lo fanno solo per ricostituirlo altrove.
  • Aspirare, nel più profondo di sé, a essere tanto spossessati, tanto miserabili quanto lo è Dio.
  • Aver commesso tutti i crimini, tranne quello di essere padre.
  • Bisogno fisico di disonore. Mi sarebbe piaciuto essere figlio di boia.
  • C'è un dio al principio, se non alla fine, di ogni gioia.
  • Che misera cosa una sensazione! L'estasi stessa non è, forse, niente di più.
  • Ci ripugna, certo, considerare la nascita un flagello: non ci è stato forse inculcato che era il bene supremo, che il peggio era posto alla fine e non all'inizio della nostra traiettoria? Il male, il vero male, è però dietro, non davanti a noi. E quanto è sfuggito al Cristo, è quanto ha invece colto il Buddha: «Se tre cose non esistessero al mondo, o discepoli, il Perfetto non apparirebbe nel mondo...». E, alla vecchiezza e alla morte, antepone il fatto di nascere, fonte di tutte le infermità e di tutti i disastri.
  • Ciò di cui non possiamo più impietosirci non conta e non esiste più. Si capisce perché il nostro passato cessi così presto di appartenerci per prendere forma di storia: di qualcosa che non riguarda più nessuno.
  • Con che diritto vi mettete a pregare per me? Non ho bisogno di intercessori, me la caverò da solo. Da parte di un miserabile forse lo accetterei, ma da nessun altro, foss'anche un santo. Non posso tollerare che ci si preoccupi della mia salvezza. Poiché la pavento e la fuggo, che indiscrezione le vostre preghiere! Orientatele altrove; in ogni modo, non siamo al servizio degli stessi dèi. Se i miei sono impotenti, ho tutte le ragioni di credere che i vostri non lo siano meno. Anche supponendo che siano quali voi li immaginate, mancherebbe comunque loro il potere di guarirmi da un orrore più antico della mia memoria.
  • Conosco una sola visione della poesia che sia pienamente soddisfacente: quella di Emily Dickinson quando dice che in presenza di una vera poesia è colta da un tale freddo da avere la sensazione che nessun fuoco potrà scaldarla.[13]
  • Credo, come quel pazzo di Calvino, che siamo predestinati alla salvezza o alla dannazione nel ventre della madre. Ancor prima di nascere abbiamo già vissuto la nostra vita.
  • «Da quando sono al mondo» – quel da quando mi pare gravato di un significato così spaventoso da diventare insostenibile.
  • Di norma, gli uomini aspettano la delusione: sanno che non devono spazientirsi, che presto o tardi verrà, che accorderà loro la dilazione necessaria perché possano dedicarsi alle occupazioni del momento. Diverso è il caso del disingannato: per lui la delusione sopraggiunge contemporaneamente all'atto; non ha bisogno di spiarne l'arrivo, essa è presente. Affrancandosi dalla successione, egli ha divorato il possibile e reso superfluo il futuro. «Non posso incontrarvi nel vostro futuro» dice agli altri. «Non abbiamo un solo istante che ci sia comune». Perché per lui l'insieme del futuro è già qui.
  • Di solito sono così sicuro che tutto sia privo di consistenza, di fondamento, di giustificazione, che chi osasse contraddirmi, foss'anche l'uomo che stimo di più, mi apparirebbe come un ciarlatano o un rimbambito.
  • Dio: una malattia dalla quale ci si crede guariti perché non ne muore più nessuno.
  • Disfare, de-creare, è il solo compito che l'uomo possa assegnarsi, se aspira, come tutto lascia supporre, a distinguersi dal Creatore.
  • Due generi di spiriti: diurni e notturni. Non hanno né lo stesso metodo, né la stessa etica. In pieno giorno ci si sorveglia; al buio si dice tutto. Le conseguenze, salutari o nefaste, di ciò che pensa importano poco a chi si interroga nelle ore in cui gli altri sono in preda al sonno. Perciò rimugina sulla disdetta di essere nato senza preoccuparsi del male che può fare ad altri o a se stesso. Dopo mezzanotte comincia l'ubriacatura delle verità perniciose.
  • Esiste una conoscenza che toglie peso e portata a quello che si fa – e per la quale tutto è privo di fondamento tranne essa medesima. Pura al punto da aborrire perfino l'idea di oggetto, traduce quel sapere estremo secondo il quale fare o non fare un atto è la stessa cosa, e a cui si associa una soddisfazione altrettanto estrema: il poter ripetere, a ogni incontro, che nessuno dei gesti da noi compiuti merita la nostra adesione, che niente è avvalorato da una qualche traccia di sostanza, che la «realtà» è dell'ordine dell'insensato. Una tale conoscenza meriterebbe di essere definita postuma: opera infatti come se chi conosce fosse vivo e non vivo, essere e memoria di essere. «È già passato» dice costui di tutto ciò che compie, nell'istante stesso dell'atto, che viene così destituito per sempre di presente.
  • Essere in vita – improvvisamente sono colpito dalla stranezza di questa espressione, come se essa non si applicasse a nessuno.
  • Fin dall'infanzia percepivo lo scorrere delle ore indipendente da ogni riferimento, da ogni atto e da ogni evento, la disgiunzione del tempo da ciò che tempo non era, la sua esistenza autonoma, il suo statuto singolare, il suo imperio, la sua tirannia. Ricordo con estrema chiarezza quel pomeriggio in cui, per la prima volta, di fronte all'universo vacante, non ero più che fuga di istanti ribelli ad adempiere ancora la loro particolare funzione. Il tempo si separava dall'essere a mie spese.
  • Giorni miracolosamente colpiti da sterilità. Invece di rallegrarmene, di gridare vittoria, di convertire quell'aridità in festa, di vederli come un punto d'arrivo e come una prova della mia maturità, insomma del mio distacco, mi lascio pervadere dalla stizza e dal cattivo umore: tanto è tenace in noi il vecchio uomo, la canaglia smaniosa incapace di scomparire.
  • [Su Nietzsche] Gli rimprovero le sue infatuazioni e persino i suoi fervori. Non ha abbattuto idoli se non per sostituirli con altri. Un falso iconoclasta, con tratti da adolescente, e non so che verginità, che innocenza, inerenti alla sua carriera di solitario.
  • I dolori immaginari sono di gran lunga i più reali, dato che ne abbiamo un bisogno costante e li inventiamo perché non c'è modo di farne a meno.
  • Il Progresso è l'ingiustizia che ogni generazione commette nei confronti di quella che l'ha preceduta.
  • Il pensiero della precarietà mi accompagna in ogni circostanza: stamane, imbucando una lettera, mi dicevo che era indirizzata a un mortale.
  • Il vero contatto fra gli esseri si stabilisce solo con la presenza muta, con l'apparente non-comunicazione, con lo scambio misterioso e senza parole che assomiglia alla preghiera interiore.
  • In piedi, a notte fonda, giravo per la camera con la certezza di essere un eletto e uno scellerato, doppio privilegio, naturale per chi veglia, rivoltante o incomprensibile per i prigionieri della logica diurna.
  • Insorgere contro l'ereditarietà è insorgere contro miliardi di anni, contro la prima cellula.
  • L'Occidente, un marciume che sa di buono, un cadavere profumato.
  • L'uomo emana un odore speciale: fra tutti gli animali, soltanto lui puzza di cadavere.
  • La coscienza è molto più della scheggia, è il pugnale nella carne.
  • La lucidità non estirpa il desiderio di vivere, tutt'altro, rende solo inadatti alla vita.
  • La mia facoltà di essere deluso oltrepassa l'intendimento. Essa, che mi fa capire il Buddha, è la medesima che mi impedisce di seguirlo.
  • La passione per la musica è già da sola una confessione. Sappiamo di più su uno sconosciuto appassionato di musica che su qualcuno che alla musica è insensibile e che incontriamo ogni giorno.
  • La prova migliore di quanto l'umanità stia regredendo è l'impossibilità di trovare un solo popolo, una sola tribù, in cui la nascita provochi ancora lutto e lamenti.
  • La sofferenza apre gli occhi, aiuta a vedere le cose che non si sarebbero percepite altrimenti. Quindi non è utile che alla conoscenza, e, all'infuori di essa, serve solo ad avvelenare l'esistenza. Il che, sia detto di sfuggita, favorisce ancora la conoscenza. "Ha sofferto, dunque ha capito". È tutto quello che si può dire di una vittima della malattia, dell'ingiustizia, o di qualunque altra varietà di sventura. La sofferenza non migliora nessuno (tranne quelli che erano già buoni), e viene dimenticata come viene dimenticata ogni cosa, non entra nel "patrimonio dell'umanità", né si conserva in alcun modo, ma si perde come si perde ogni altra cosa. Ancora una volta, serve solo ad aprire gli occhi.
  • La vera, unica sfortuna: quella di venire alla luce. Risale all'aggressività, al principio di espansione e di rabbia annidato nelle origini, allo slancio verso il peggio che le squassò.
  • Le notti in cui abbiamo dormito è come se non fossero mai esistite. Restano nella memoria solo quelle in cui non abbiamo chiuso occhio: notte vuol dire notte insonne.
  • Le tre del mattino. Percepisco questo secondo, e poi quest'altro, faccio il bilancio di ogni minuto. Perché tutto questo? – Perché sono nato. È da un tipo speciale di veglia che deriva la messa in discussione della nascita.
  • L'unico modo di salvaguardare la propria solitudine è ferire tutti, a cominciare da quelli che amiamo.
  • Mentre agiamo abbiamo uno scopo; ma l'azione, una volta conclusa, non ha per noi maggiore realtà dello scopo che perseguivamo. Non c'era dunque nulla di veramente consistente in tutto ciò, era solo gioco. Ma ci sono alcuni che hanno coscienza di questo gioco durante l'azione stessa: vivono la conclusione nelle premesse, il realizzato nel virtuale, minano la serietà con il fatto stesso di esistere.
  • Mi piacerebbe essere libero, perdutamente libero. Libero come un nato morto.
  • Mi svincolo dalle apparenze e ciò nondimeno vi rimango impastoiato; o meglio: sono a mezza strada fra quelle apparenze e questa cosa che le infirma, questa cosa che non ha né nome né contenuto, questa cosa che è niente ed è tutto. Il passo decisivo fuori dalle apparenze non lo farò mai. La mia natura mi obbliga a ondeggiare, a perpetuarmi nell'equivoco, e se tentassi di decidere in un senso o nell'altro perirei della mia stessa salvezza.
  • Molto più vicino mi è Marco Aurelio. Nessuna esitazione da parte mia fra il lirismo della frenesia e la prosa dell'accentazione: trovo più conforto, e perfino più speranza, in un imperatore stanco che in un profeta folgorante.
  • Nel Dhammapada si raccomanda, per ottenere la liberazione, di scrollare la doppia catena del Bene e del Male. Che il Bene stesso sia un ostacolo, siamo troppo arretrati spiritualmente per poterlo ammettere. Perciò non siamo liberati.
  • Noi non corriamo, verso la morte, fuggiamo la catastrofe della nascita, ci affanniamo, superstiti che cercano di dimenticarla. La paura della morte è solo la proiezione nel futuro di una paura che risale al nostro primo istante.
  • Non bisogna costringersi a un'opera, bisogna solo dire qualcosa che si possa bisbigliare all'orecchio di un ubriaco o di un morente.
  • Non esiste una sofferenza limite.
  • Non faccio niente, d'accordo. Ma vedo passare le ore – e questo è meglio che cercare di riempirle.
  • Non sono mai a mio agio nell'immediato, mi seduce solo quello che mi precede, quello che mi allontana da qui, gli istanti innumerabili in cui non fui: il non-nato.
  • Occorre pure una visione di ricambio, quando quella del Giudizio non accontenta più nessuno.
  • Ogni pensiero deriva da una sensazione che abbiamo ostacolato.
  • Ogni volta che le cose non vanno e ho pietà del mio cervello, sono colto da una voglia irresistibile di proclamare. Proprio allora intuisco da quali baratri i meschini sorgano riformatori, profeti e salvatori.
  • Perché la Gītā pone in alto «la rinuncia al frutto delle azioni?»
    Perché quella rinuncia è rara, irrealizzabile, contraria alla nostra natura, e giungervi significa distruggere l'uomo che si è stati e che si è, uccidere in sé tutto il passato, l'opera di millenni – affrancarsi, in una parola, dalla Specie, da questa turpe e immemoriale marmaglia.
  • Permettendo l'uomo, la natura ha commesso molto più che un errore di calcolo: ha commesso un attentato contro se stessa.
  • Quando due persone si rivedono dopo molti anni dovrebbero sedersi l'una di fronte all'altra e non dirsi niente per ore ed ore, affinché con il favore del silenzio la costernazione possa assaporare se stessa.
  • Quando si scorge la fine nel principio si va più in fretta del tempo. L'illuminazione, delusione folgorante, dispensa una certezza che trasforma il disingannato in liberato.
  • Ero solo in quel cimitero che sovrasta il paese, quando entrò una donna incinta. Uscii subito, per non dover guardare da vicino quella portatrice di cadavere, né rimuginare sul contrasto tra un ventre aggressivo e quelle tombe sbiadite, tra una falsa promessa e la fine di ogni promessa.
  • Quello che so a sessant'anni lo sapevo altrettanto bene a venti. Quarant'anni di un lungo, superfluo lavoro di verifica...
  • Rari sono i giorni in cui, proiettato nella post-storia, io non assista all'ilarità degli dèi al termine dell'episodio umano.
  • Se la morte avesse solo lati negativi, morire sarebbe un atto impraticabile.
  • Se potessimo vederci con gli occhi degli altri, scompariremmo all'istante.
  • Se tanta ambiguità e tanto turbamento sono parte integrante della lucidità, è perché essa è il risultato del cattivo uso che abbiamo fatto delle nostre veglie.
  • Alberi massacrati. Sorgono case. Facce, facce dappertutto. L'uomo si estende. L'uomo è il cancro della terra.
  • Si può sopportare qualsiasi verità, per quanto distruttrice sia, purché surroghi tutto, e abbia la stessa vitalità della speranza alla quale si è sostituita.
  • So che la mia nascita è un caso, un incidente risibile, eppure, appena mi lascio andare, mi comporto come se fosse un evento capitale, indispensabile al funzionamento e all'equilibrio del mondo.
  • Sono attratto dalla filosofia indù, il cui proposito essenziale è il superamento dell'io; eppure tutto quello che faccio e tutto quello che penso è solo io e disgrazie dell'io.
  • Camminare in una foresta tra due siepi di felci trasfigurate dall'autunno, ecco un trionfo. Che cosa sono al confronto suffragi e ovazioni?
  • Su quella costa normanna, a un'ora così mattutina, non avevo bisogno di nessuno. La presenza dei gabbiani mi disturbava: li feci fuggire a sassate. E udendo i loro gridi, di uno stridore soprannaturale, capii che proprio quello mi occorreva, che solo il sinistro poteva calmarmi, e che proprio per incontrarlo mi ero alzato prima dell'alba.
  • Trasportandoci al di qua del nostro passato, l'ossessione della nascita ci fa perdere il gusto del futuro, del presente, e del passato stesso.
  • Tutto è; niente è. L'una e l'altra formula arrecano uguale serenità. L'ansioso, per sua disgrazia, rimane a mezza strada, tremebondo e perplesso, sempre alla mercé di una sfumatura, incapace di insediarsi nella sicurezza dell'essere o dell'assenza di essere.
  • Un'idea, un essere, qualsiasi cosa si incarni perde il suo volto, tende al grottesco. Frustrazione del compimento. Non evadere mai dal possibile, lasciarsi andare, da eterno velleitario, dimenticare di nascere.

La caduta nel tempo

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  • La vera vertigine è l'assenza della follia.
  • Nessuno si rimette dal male di nascere, piaga capitale se mai ve ne furono.
  • Non vi è che questo pullulare di moribondi affetti da longevità, tanto più detestabili in quanto sanno organizzare così bene la loro agonia.
  • Una civiltà esordisce col mito e termina nel dubbio; dubbio teorico che diventa dubbio pratico, quando lo rivolge contro se stessa. Essa non può cominciare col mettere in questione valori che non ha ancora creato; una volta che li ha prodotti, se ne stanca e se ne distacca, li esamina e li soppesa con un'obiettività devastante.
  • Infeudarsi, assoggettarsi, ecco l'occupazione principale di tutti. E proprio questo lo scettico rifiuta. Eppure sa che decidersi a servire equivale a salvarsi, perché significa aver fatto una scelta; e ogni scelta è una sfida al vago, alla maledizione, all'infinito. Gli uomini hanno bisogno di punti d'appoggio, vogliono la certezza a ogni costo, anche a spese della verità. Poiché essa è corroborante, e loro non possono farne a meno anche quando sanno che è menzognera, non ci sarà scrupolo capace di trattenerli dallo sforzo di procurarsela.
  • Niente di ciò che è fecondo e vero è interamente luminoso e interamente onorevole.
  • In apparenza, ognuno è contento di sé; in realtà, nessuno lo è. [...] A tal punto il dubbio su di sé travaglia gli esseri che questi, per porvi rimedio, hanno inventato l'amore, tacito patto fra due infelici per sopravvalutarsi, per incensarsi spudoratamente.
  • Il paradiso è assenza dell'uomo. Più ce ne rendiamo conto, meno giustifichiamo il gesto di Adamo: attorniato da animali, che cos'altro poteva desiderare? E come ha potuto misconoscere la fortuna di non dover affrontare, a ogni momento, quest'ignobile maledizione impressa nei nostri volti?
  • Ognuno di noi è il prodotto dei suoi mali passati e, se è ansioso, dei suoi mali futuri. Alla malattia vaga, indeterminata, di essere uomo, se ne aggiungono altre, molteplici e precise, che insorgono tutte per avvertirci che la vita è uno stato assoluto di insicurezza, che è provvisoria per definizione, che rappresenta un modo di esistenza accidentale.
  • [...] la vita, non appena si sia ossessionati dal significato che può avere, si disgrega, si sgretola: e questo getta luce su quello che essa è, su quello che vale, sulla sua sostanza gracile e improbabile.
  • C'è innegabilmente un elemento di felicità in ogni voltafaccia; vi si attinge perfino un supplemento di vigore: rinnegare ringiovanisce. Poiché la nostra forza si misura sulla quantità delle credenze che abbiamo abiurato, ognuno di noi dovrebbe concludere la propria carriera come disertore di tutte le cause.
  • Vi è qualcosa di sacro in ogni essere che non sa di esistere, in ogni forma di vita indenne da coscienza. Colui che non ha mai invidiato il vegetale ha solo sfiorato il dramma umano.
  • Sapere che si è mortali significa in realtà morire due volte, anzi, tutte le volte che si sa di dover morire.

La tentazione di esistere

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  • Per quasi tutte le nostre scoperte siamo debitori alle nostre violenze, all'esacerbarsi del nostro squilibrio. (1997, p. 11)
  • Non c'è opera che non si ritorca contro l'autore: il poema annienterà il poeta, il sistema il filosofo, l'avvenimento l'uomo d'azione. Colui che, rispondendo alla propria vocazione e portandola a compimento, si agita dentro la storia, è causa della propria rovina; l'unico a salvarsi è chi sacrifica talenti e doni per potere, sgombro della sua qualità di uomo, sprofondare nell'essere. Se aspiro a una carriera metafisica, a nessun costo posso conservare la mia identità: devo liquidarne il minimo residuo che mi rimanga; e se, al contrario, mi avventuro in un ruolo storico, il compito che mi spetta sarà quello di esasperare le mie facoltà fino a esplodere con esse. Si perisce sempre a causa dell'io che si assume: portare un nome è rivendicare un modo esatto di crollare. (pp. 11-12)
  • Maestri nell'arte del pensare contro se stessi, Nietzsche, Baudelaire e Dostoevskij ci hanno insegnato a puntare sui nostri pericoli, ad ampliare la sfera dei nostri mali, ad acquistare esistenza separandoci dal nostro essere. (1997, p. 13)
  • Io mi levo contro il propagarsi della menzogna, contro coloro che fanno sfoggio della loro pretesa «salvezza» e la puntellano con una dottrina che non proviene dal loro intimo. Smascherarli, farli scendere dal piedistallo dove si sono issati, metterli alla gogna, è questo un compito cui nessuno dovrebbe restare indifferente. Perché ad ogni costo va impedito di vivere e morire in pace a coloro che hanno troppo buona coscienza. (p. 15)
  • [...] vivere immediatamente l'eternità significa vivere giorno per giorno. (p. 15)
  • Poiché la sfera della coscienza si restringe nell'azione, chi agisce non può pretendere all'universale: l'agire è un aggrapparsi alle proprietà dell'essere a detrimento dell'essere, a una forma di realtà a scapito della realtà. (1997, p. 16)
  • Noi respiriamo troppo velocemente per poter cogliere le cose in se stesse o denunciarne la fragilità. (p. 17)
  • A quali tentazioni, a quali estremi ci conduce la lucidità! La diserteremo per rifugiarci nell'incoscienza. Chiunque si salva con il sonno, chiunque ha del genio mentre dorme: non c'è differenza tra i sogni di un macellaio e quelli di un poeta. (p. 19)
  • Un minimo d'incoscienza è necessaria se ci si vuole mantenere nella storia. Agire è una cosa; sapere di agire è un'altra. Quando la chiaroveggenza investe l'atto e vi si insinua, l'atto si disfa e con esso il pregiudizio, la cui funzione consiste appunto nel subordinare, nell'asservire la coscienza all'atto... Colui che smaschera le proprie finzioni, rinuncia alle proprie energie e quasi a se stesso. Ne accetterà quindi delle altre che lo negheranno, perché queste non saranno scaturite dal suo intimo. Nessun essere che abbia a cuore il proprio equilibrio dovrebbe oltrepassare un certo grado di lucidità e di analisi. Quanto ciò è più vero per una civiltà, la quale vacilla per poco che denunci gli errori che consentirono la sua crescita e il suo splendore, per poco che metta in dubbio le sue verità. (1997, pp. 34-35)
  • Non senza rischio si abusa della propria facoltà di dubitare. Lo scettico, quando non trae più alcun principio attivo dai suoi problemi e interrogativi si avvicina al proprio epilogo, anzi lo cerca, gli corre incontro: qualcun altro tronchi le sue incertezze, qualcun altro lo aiuti a soccombere! (p. 35)
  • Non si abdica da un giorno all'altro: è necessaria un'atmosfera di distacco accuratamente predisposta, una leggenda della disfatta. (p. 40)
  • Ce l'ho col nostro secolo per averci soggiogati fino al punto di ossessionarci anche quando ce ne distacchiamo.
  • «Come si può essere Rumeno»?, a questa domanda potevo rispondere soltanto con una incessante mortificazione. Odiando i miei, il mio paese, i suoi contadini fuori del tempo, irretiti dal loro torpore e come sprizzanti ebetudine, arrossivo d'esserne l'erede, li rinnegavo, mi ritraevo dalla loro sub-eternità, dalle loro certezze di larve pietrificate, dalle loro fantasticherie geologiche. (p. 52)
  • Per svilupparsi la prosa richiede un certo rigore, uno stato sociale differenziato e una tradizione: è premeditata, costruita; la poesia sgorga, è diretta, oppure totalmente artificiale; appannaggio dei trogloditi e dei raffinati, non fiorisce che ai margini della civiltà, la precede oppure la segue. Mentre la prosa esige un genio maturo e una lingua cristallizzata, la poesia è perfettamente compatibile con un genio primitivo e una lingua informe. Creare una letteratura significa creare una prosa. (p. 59)
  • Sottrarsi al mondo, quale sforzo di annullamento! Da parte sua, l'apolide vi giunge senza darsi un gran daffare, con il concorso – con l'ostilità – della storia. Niente tormenti né veglie per giungere a spogliarsi di tutto; vi è costretto dagli avvenimenti. In un certo senso, somiglia al malato, che come lui si installa senza merito personale nella metafisica o nella poesia, per forza di cose, grazie ai buoni uffici della malattia. Assoluto a buon mercato? Può darsi, quantunque resti da provare che i risultati acquisiti con sforzo valgono di più di quelli che derivano dal riposo nell'ineluttabile. (pp. 59-60)
  • Non esistono esseri meno anonimi. Senza di loro le città sarebbero irrespirabili; essi vi mantengono uno stato febbrile, senza il quale ogni centro urbano diventa provincia: una città morta è una città senza Ebrei. (pp. 78-79)
  • [...] Egli [Epicuro] fu per il suo tempo quello che lo psicanalista è per il nostro: a suo modo non denunciava anche lui «il disagio della civiltà»? (In tutte le epoche confuse e raffinate, un Freud tenta di alleggerire le anime). Più che con Socrate, è con Epicuro che la filosofia scivolò verso la terapeutica. Guarire e soprattutto guarirsi, questa era la sua ambizione: benché volesse liberare gli uomini dalla paura della morte e da quella degli dèi, provava egli stesso sia l'una che l'altra. L'atarassia di cui si fregiava non costituiva la sua esperienza ordinaria: la sua «sensibilità» era notoria. Quanto al disprezzo per le scienze, disprezzo che gli è stato in seguito rimproverato, sappiamo come sovente sia proprio dei «cuori feriti». Questo teorico della felicità era un malato: vomitava, a quanto pare, due volte al giorno. In mezzo a quali miserie doveva dibattersi per aver tanto odiato i «turbamenti dell'anima»! Quel poco di serenità che riuscì a conquistare, senza dubbio la riservò ai suoi discepoli, i quali, riconoscenti e ingenui, gli crearono una reputazione da saggio. Siccome le nostre illusioni sono ben più deboli di quelle dei suoi contemporanei, intravediamo agevolmente il rovescio del suo Giardino... (p. 159)
  • I Greci nacquero alla filosofia quando gli dèi parvero loro insufficienti; il concetto inizia dove l'Olimpo finisce. Pensare significa smettere di venerare, significa levarsi contri il mistero e proclamarne il fallimento. (1997, p. 161)
  • Più che un dato, la solitudine è una missione: elevarsi ad essa e assumerla significa rinunciare al contributo di quella bassezza che garantisce la riuscita di una qualsiasi impresa, religiosa o di altro genere. Ripercorrete la storia delle idee, dei gesti, degli atteggiamenti: vedrete che l'avvenire fu sempre complice della turba. Non si predica in nome di Marco Aurelio [...]. (p. 164)
  • La sessualità ci uniforma; meglio: ci priva del nostro mistero... Ben più che il resto dei nostri bisogni e delle nostre attività, è la sessualità a metterci sullo stesso piano dei nostri simili: più la pratichiamo, più diventiamo come tutti: è nel corso di un'operazione ritenuta bestiale che dimostriamo la nostra qualità di cittadini: nulla di più pubblico dell'atto sessuale. (p. 175)
  • Lo scetticismo: sorriso che sovrasta le parole... (p. 180)
  • Per quanto guardi alle cose con una smorfia di disgusto, il poeta non è mai un vero negatore. Voler rinvigorire le parole, infondere loro una nuova vita, presuppone un fanatismo, una obnubilazione fuori del comune: inventare – poeticamente – significa essere un complice e un appassionato del Verbo, un falso nichilista: ogni demiurgia verbale si sviluppa a spese della lucidità... [...] Che la poesia debba essere accessibile o ermetica, efficace o gratuita, è un problema secondario. Esercizio o rivelazione, che importa? Siamo noi che le domandiamo di liberarci dalla oppressione, dai tormenti del discorso. Se vi riesce, è la poesia a essere per un istante la nostra salvezza. (pp. 180-181)
  • Per alcuni la felicità è una sensazione così insolita che non appena la provano, si allarmano e s'interrogano su questo nuovo stato; nulla di simile nel loro passato: è la prima volta che si avventurano fuori della sicurezza del peggio. (p. 193)
  • La vita, lungi dall'essere, come pensava Bichat, l'insieme delle funzioni che resistono alla morte, è piuttosto l'insieme delle funzioni che ci trascinano ad essa. La nostra sostanza diminuisce a ogni passo; tuttavia tutti i nostri sforzi dovrebbero tendere a fare di questa diminuzione un eccitante, un principio d'efficacia. Coloro che non sanno trarre beneficio dalle loro possibilità di non-essere, restano estranei a se stessi: dei fantocci, degli oggetti provvisti di un io, assopiti in un tempo neutro, né durata né eternità. Esistere significa mettere a profitto la nostra parte d'irrealtà, significa vibrare al contatto del vuoto che è in noi. (pp. 202-203)
  • Tutto ciò che mira ad agire sull'uomo – comprese le religioni – è contaminato da un sentimento grossolano della morte. Ed è per cercarne uno più veritiero, più puro, che gli eremiti si rifugiavano in quella negazione della storia che è il deserto, che giustamente paragonavano all'angelo poiché, sostenevano, entrambi ignorano il peccato, la caduta nel tempo. [...] È lì che il solitario si ritira, non tanto per accrescere la sua solitudine e arricchirsi d'assenza, quanto per far salire dentro di sé la nota della morte. E per udire questa nota, dobbiamo collocare in noi un deserto... Se vi riusciamo, degli accordi ci attraversano il sangue, le vene si dilatano, i nostri segreti così come le nostre risorse appaiono alla nostra superficie dove il disgusto e il desiderio, l'orrore e il rapimento si confondono in una festa oscura e luminosa. (pp. 208-209)
  • Poiché la vitalità ci proviene dalle nostre risorse di insensato, non disponiamo, per opporci ai nostri sgomenti e ai nostri dubbi, che delle certezze e della terapeutica del delirio. A furia di sragionare, mutiamoci in sorgente, in origine, in punto iniziale, moltiplichiamo con ogni mezzo i nostri momenti cosmogonici. Esistiamo veramente solo quando irradiamo tempo, quando dei soli sorgono in noi e noi ne dispensiamo i raggi che illuminano gli istanti... (p. 211)

Lacrime e santi

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  • Al giudizio finale verranno pesate soltanto le lacrime. (p. 15)
  • Avere sempre amato le lacrime, l'innocenza e il nichilismo. Gli esseri che sanno tutto e quelli che non sanno niente. I falliti e i bambini. (2002, p. 76)
  • Disprezzo il cristiano perché è capace di amare i suoi simili da vicino. A me, per riscoprire l'uomo ci vorrebbe il Sahara. (2002, p. 45)
  • «La sofferenza è la causa unica e sola della coscienza» (Dostoevskij).[14] Gli uomini si dividono in due categorie: quelli che lo hanno capito, e gli altri. (2002, p. 78)
  • «Non posso fare distinzione tra la musica e le lacrime» (Nietzsche).[15]
    Chi non lo capisce istantaneamente non è mai vissuto nell'intimità della musica. Ogni vera musica è sgorgata dalle lacrime, nata com'è dal rimpianto del Paradiso. (2002, pp. 16-17)
  • Questo bisogno di profanare le tombe, di animare i cimiteri, in un'apocalisse primaverile! Solo la vita esiste, a dispetto dell'assoluto della morte! Lo sanno i contadini, che si accoppiano nei cimiteri, offendendo con i loro sospiri il silenzio aggressivo della morte. La voluttà sopra una pietra tombale, che trionfo! (2002, p. 69)
  • Soltanto il paradiso o il mare potrebbero farmi rinunciare alla musica. (2002, p. 21)
  • Ogni forma di estasi sostituisce la sessualità, che non avrebbe alcun significato senza la mediocrità delle creature. Ma dato che queste non hanno altro mezzo per uscire da sé, la sessualità provvisoriamente le salva. L'atto in questione va al di là del suo significato elementare – è un trionfo sull'animalità, perché a livello fisiologico la sessualità è l'unica porta aperta sul cielo. (pp. 20-21)
  • Signore, sei tu nient'altro che un errore del cuore, come il mondo è un errore della mente? (2002, p. 24)
  • Quando, dopo avere inghiottito il mondo, restiamo soli, fieri della nostra impresa, Dio, rivale del Niente, ci appare come un'ultima tentazione. (2002, p. 26)
  • Un filosofo sfugge alla mediocrità solo grazie allo scetticismo o alla mistica – le due forme della disperazione di fronte alla conoscenza. La mistica è un'evasione dalla conoscenza, lo scetticismo una conoscenza priva di speranza. Due modi per dire che il mondo non è una soluzione. (2002, p. 33)
  • Dio ha creato il mondo per paura della solitudine; è questa l'unica spiegazione possibile della Creazione. La sola ragion d'essere di noi creature è di distrarre il Creatore. Poveri buffoni, dimentichiamo che stiamo vivendo i nostri drammi per divertire uno spettatore di cui finora nessuno al mondo ha sentito gli applausi. E se Dio ha inventato i santi – come pretesti di dialogo – lo ha fatto per alleggerire un po' di più il peso del suo isolamento.
    Quanto a me, la mia dignità esige che io gli opponga altre solitudini, altrimenti non sarei che un giullare in più. (2002, p. 35)
  • Cominciamo a sapere che cosa sia la solitudine quando ascoltiamo il silenzio delle cose. Capiamo allora il segreto sepolto nella pietra e ridestato nella pianta, il ritmo celato o invisibile dell'intera natura. Il mistero della solitudine deriva dal fatto che per questa non esistono creature inanimate. Ogni oggetto ha un suo linguaggio, che ci è dato decifrare col favore di un silenzio senza eguali. (2002, pp. 36-37)
  • Dio si insedia nei vuoti dell'anima. Sbircia i deserti interiori, perché a somiglianza della malattia egli predilige occupare i punti di minor resistenza.
    Una creatura armoniosa non può credere in Lui. Sono stati i poveri e gli infermi a «lanciarlo», ad uso e consumo di chi si tormenta e dispera. (2002, p. 37)
  • Se la verità non fosse così tediosa, la scienza avrebbe fatto presto a mettere da canto Dio. Ma Dio, come i santi, è un'occasione per sfuggire all'opprimente banalità del vero. (2002, p. 39)
  • Che non ci sia abbastanza sofferenza, quaggiù? Così si direbbe, a giudicare dallo zelo dei santi, esperti nell'arte dell'autoflagellazione. Non vi è santità senza una voluttà della sofferenza e senza una raffinatezza sospetta. La santità è una perversione senza eguali, un vizio del cielo. (2002, p. 40)
  • Tutto è niente – questa la rivelazione iniziale dei conventi. Così comincia la mistica. Tra il niente e Dio c'è meno di un passo, perché Dio è l'espressione positiva del niente. (2002, p. 41)
  • Perché si pensa così di rado ai cinici? Non sarà perché hanno saputo tutto, e hanno tratto tutte le conseguenze di questa suprema indiscrezione?
    Forse è più comodo dimenticarli. Perché la loro mancanza di riguardi per l'illusione ne fa delle menti avide di insolubile. (2002, p. 48)
  • La religione è un sorriso che plana sopra un non-senso generale, un profumo residuo sopra un'onda di nulla. È per questo che, quando è a corto di argomenti, la religione ripiega sulle lacrime. Esse sole possono, a questo punto, assicurare, sia pure di poco, l'equilibrio dell'universo e l'esistenza di Dio. Una volta esaurite le lacrime, anche il desiderio di Dio scomparirà. (2002, pp. 52-53)
  • In fondo ci siamo soltanto Lui e io. Però il suo silenzio ci invalida entrambi. Può anche darsi che non sia mai esistito niente.
    Posso morire con la coscienza tranquilla, perché da Lui non mi aspetto più niente. Il nostro incontro ha aumentato il nostro isolamento. Ogni esistenza è una prova supplementare del nulla di Dio. (2002, p. 53)
  • Senza la colpa, nessuna coscienza dell'esistenza divina. Perciò è raro trovare Dio in una coscienza che ignori i tormenti del peccato. (2002, pp. 52-53)
  • L'ossessione divina espelle l'amore terrestre. Non si può amare appassionatamente una donna e Dio nello stesso tempo. La mescolanza di due erotiche irriducibili crea un'oscillazione interminabile. Una donna può salvarci da Dio, come Dio ci può liberare da tutte le donne. (2002, p. 57)
  • [...] tutto manca di sostanza, e la vita è soltanto una piroetta nel vuoto [...] (2002, p. 58)
  • Dopo aver letto i filosofi più profondi sentiamo il bisogno di ricominciare da zero. Soltanto la musica ci dà risposte definitive. (2002, p. 60)
  • Il dovere di un uomo solo è di essere ancora più solo. (2002, p. 66)
  • Impossibile amare Dio altrimenti che odiandolo! Se in un processo senza precedenti venisse provata e messa a verbale la sua inesistenza, nulla mai potrebbe sopprimere la rabbia – un miscuglio di lucidità e di demenza – di chi ha bisogno di Dio per estinguere la propria sete d'amore e più spesso di odio. Che cosa è Dio, se non un momento sul limitare della nostra distruzione? E che cosa importa se esiste o no, se per suo mezzo la nostra lucidità e la nostra follia si bilanciano e noi ci plachiamo avvinghiandoci a lui con passione assassina? (2002, p. 69)
  • Quel timore improvviso, venuto dal nulla, che cresce in noi a conferma del nostro sradicamento, non è «psicologico»; solo in ultima istanza appartiene a ciò che diciamo anima. In esso risuonano i tormenti della individuazione, la vecchia lotta del caos contro la forma. Non posso dimenticare gli istanti in cui la materia resisteva all'Onnipotente. (2002, p. 77)
  • Chi potrebbe sopportare la vita, se fosse reale? Sogno, essa è mescolanza di terrore e di incantamento alla quale si cede. (2002, p. 79)
  • Né abbastanza infelice per essere poeta, né abbastanza indifferente per essere filosofo, io sono soltanto lucido, abbastanza però per essere condannato.
    Come capisco Michelangelo quando dice: «Io vivo di ciò di cui muoiono gli altri»! Non c'è altro da aggiungere sulla solitudine... (2002, p. 81)
  • Credo di non avere mai perso un'occasione di essere triste. (La mia vocazione d'uomo). (2002, p. 82)
  • Gli asceti cristiani pensavano che solo il deserto fosse senza peccato, e lo paragonavano agli angeli. In altre parole, non c'è purezza se non là dove non nasce nulla. (2002, p. 83)
  • L'imbarazzo che proviamo davanti agli infelici è l'espressione della nostra certezza che la sofferenza costituisce il segno distintivo di un essere, la sua originalità. Non si diventa, infatti, uomo grazie alla scienza, all'arte o alla religione, ma grazie al rifiuto lucido della felicità, alla nostra fondamentale incapacità di essere felici. (2002, pp. 88-89)
  • Funzione del nostro disperare, Dio dovrebbe continuare a esistere anche davanti a prove irrefutabili della sua inesistenza. A dire la verità, tutto depone per lui e contro di lui al tempo stesso, perché tutto ciò che è lo smentisce e lo convalida. Anche la bestemmia e la preghiera si giustificano nello stesso istante. Quando le proferite insieme, vi avvicinate al rappresentante supremo dell'Equivoco. (2002, p. 89)

Mon cher ami. Lettere a Mario Andrea Rigoni (1977-1990)

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  • I veri lettori sono quelli che condividono con me inquietudini e perplessità, e in questo modo divengono miei complici. (dalla lettera da Parigi del 31 maggio 1977, p. 24)
  • Il genere dell'aforisma comporta delle difficoltà, poiché la parola ha maggiore importanza che in una poesia o in un contratto. In realtà è tutto. (dalla lettera da Parigi dell'8 settembre 1977, p. 25)
  • In fondo tutto ruota attorno alla finitudine e alla coscienza che se ne ha. Essere «maledetto» è questo e nient'altro. (dalla lettera da Dieppe, 6 settembre 1979, p. 36)
  • [...] non so l'italiano, lo sento, lo indovino soltanto, in parte grazie al romeno. La «latinità» è qualcosa di più che un mito. (dalla lettera da Dieppe del 6 settembre 1979)
  • Ingannarsi o perire.[16] Tutto ruota attorno a questa impossibile scelta, è vero. In confronto col dramma della lucidità, che miseria le ideologie! Siamo della nostra epoca e nel contempo le siamo contro. (dalla lettera da Parigi del 28 febbraio 1981, pp. 45-46)
  • Il vantaggio del pensiero frammentario è anche quello di costituire una sorta di diario pudico, impersonale, insieme intimo ed oggettivo, e che può essere continuato indefinitamente. (dalla lettera da Parigi del 19 giugno 1982)

Da Mania epistolare

  • Non è mai stato detto niente di più acuto sulla più devastatrice delle esperienze: quella della noia, privilegio, per l'appunto, di quelli che dispongono di tutto il loro tempo. Annoiarsi è molto più torturante che faticare, fosse pure in fondo a una miniera, annoiarsi significa registrare la nullità di ogni istante con la certezza che il seguente sarà ancora più nullo. (p. 107)
  • La lettera, conversazione con un assente, rappresenta un evento capitale della solitudine. Cercate la verità su un autore nella sua corrispondenza piuttosto che nella sua opera. L'opera è per lo più una maschera. (p. 107)

Quaderni 1957-1972

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26 giugno 1957
Letto un libro sulla caduta di Costantinopoli. Sono caduto insieme con la città.

Citazioni

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  • I due maggiori saggi dell'Antichità al tramonto: Epitteto e Marco Aurelio, uno schiavo e un imperatore. (p. 25)[17]
  • Devo fabbricarmi un sorriso, munirmene, mettermi sotto la sua protezione, frapporre qualcosa tra il mondo e me, camuffare le mie ferite, imparare, insomma, a usare la maschera. (p. 27)
  • Divoro un libro dopo l'altro, solo per eludere i problemi, per non pensarci più. In pieno smarrimento, la certezza assoluta della mia solitudine. (p. 33)
  • Un dio comincia a diventare falso nel momento in cui nessuno si degna di farsi ammazzare per lui. (p. 42)
  • La differenza fra il teorico della religione e il credente è grande come quella fra lo psichiatra e il pazzo. (p. 50)
  • Qualcuno ha detto giustamente che «esistere significa distinguersi». – Si cessa di esistere in ogni regime, religioso o politico, che sopprima l'eresia, la volontà di andare contro il dogma o il corso delle cose. (pp. 50-51)
  • Tutto quello che ho di buono viene dalla mia pigrizia; senza di essa chi mi avrebbe impedito di attuare i miei cattivi progetti? Per fortuna mi ha mantenuto nei limiti della «virtù». (p. 54)
  • Mi intendo pienamente soltanto con quelli che, senza essere credenti, hanno attraversato una crisi religiosa da cui sono rimasti segnati per sempre. La religione – come contrasto interiore – è la sola via per bucare, perforare lo strato delle apparenze che ci separa dall'essenziale. (p. 56)
  • Alcuni cercano la Gloria, altri la verità. Io mi permetto di schierarmi fra questi ultimi. Un compito irrealizzabile ha più fascino di una meta accessibile. Che umiliazione mirare all'approvazione degli uomini! (p. 60)
  • Trascinarsi pian piano come una lumaca e lasciare la scia, con modestia, applicazione e, in fondo con indifferenza... nella voluttà tranquilla e nell'anonimato. (p. 69)
  • Ho conosciuto fino alla nausea il dramma religioso del miscredente. La nullità del qui e l'inesistenza dell’altrove... schiacciato da due certezze. (p. 73)
  • Per dimenticare i dispiaceri e sottrarsi a ossessioni funeree non c'è niente di meglio del lavoro manuale. [...] Bisogna stancare il corpo, affinché la mente non sappia più da dove prendere energia per funzionare, vaneggiare o approfondire. (p. 74)
  • L'ansia, che tratta il possibile da cosa risaputa, non è una sorta di memoria dell'avvenire? (p. 81)
  • Non è parlando degli altri, ma guardando in se stessi che si può incontrare la Verità. Ogni cammino che non conduca alla solitudine o non inizi da essa è deviazione, errore, perdita di tempo. (p. 81)
  • Tutte le volte che non penso alla morte ho l'impressione di barare, di ingannare qualcuno in me. (p. 82)
  • Tutto il «mistero» della vita sta nell'attaccamento alla vita, in un'obnubilazione quasi miracolosa che ci impedisce di distinguere la nostra precarietà e le nostre illusioni. (p. 83)
  • C'è in me una nostalgia di qualcosa che non esiste nella vita e nemmeno nella morte, un desiderio che su questa terra niente appaga, fuorché, in certi momenti, la musica, quando evoca le lacerazioni di un altro mondo. (p. 84)
  • Tutta la nostra felicità deriva dagli affetti, e tutta la nostra infelicità pure. La Salvezza e la Perdizione vengono dagli esseri umani. Il distacco è auspicabile, e impossibile. (p. 94)
  • La vita mi è sempre parsa enigmatica e insignificante, profonda e irreale; un nulla che invita allo stupore. (p. 102)
  • Lo scettico è la disperazione del diavolo. Il fatto è che lo scettico, non essendo alleato con nessuno, non potrà giovare né al bene né soprattutto al male. Non coopera con niente, nemmeno con se stesso. (p. 108)
  • Più leggo – e leggo troppo, ahimè! – più trovo che «non ci siamo», che il «vero» sfugge a tutti questi libri che la mia pigrizia divora. Il «vero» bisogna trovarlo in se stessi, non altrove. Ma in me non incontro che dubbio e riflessione sul dubbio. (p. 117)
  • In ogni individuo si crea e si distrugge un mondo. Sarebbe più esatto dire: il mondo. (p. 118)
  • Finché si è scontenti di sé non tutto è perduto. (p. 119)
  • La rassegnazione è il fenomeno più raro nell'uomo, per natura incline ad aspettarsi il peggio piuttosto che ad accettare il male così com'è, il male naturale e mediocre, il male di sempre. (p. 119)
  • Arriva il momento in cui, dopo aver perduto le illusioni sugli altri, si perdono quelle su se stessi. (p. 122)
  • La confessione più vera è quella che facciamo indirettamente, parlando degli altri. (p. 135)
  • Rinnovarsi significa cambiare opinione, significa rinnegarsi.
    Per fortuna ogni volta che si rinnega si prova un segreto piacere, quanto mai ambiguo, di cui sarebbe assurdo privarsi. (p. 137)
  • I grandi lettori sono gente voluttuosa, pigra, abulica, gente che semplicemente fugge la responsabilità. (p. 140)
  • Esistono solo le cose che abbiamo scoperto da soli; sono anche le uniche che conosciamo. Le altre sono tutte chiacchiere. (p. 147)
  • Un libro è fecondo e durevole solo se è suscettibile di più interpretazioni diverse. Le opere che si possono definire sono essenzialmente effimere.
    Un'opera vive grazie ai malintesi che provoca. (p. 151)
  • Lo verifico ogni giorno: si può aver pietà degli uomini, ma amarli è impossibile. È qui, su questo punto cruciale, che il cristianesimo sbaglia. (p. 159)
  • Un monologo il cui contenuto si riduce a una sfilata di oggetti – questo è il romanzo contemporaneo. (p. 175)
  • In fatto di consolazione, abbiamo soltanto due libri fondamentali: i Pensieri dell'imperatore romano e l'Imitazione. È impossibile non preferire la desolazione del primo, nonostante le promesse del secondo. (p. 176)
  • Tutto ciò che in Marco Aurelio è mediocre ed effimero proviene dallo stoicismo; tutto ciò che è profondo e durevole dalla sua tristezza, ossia dall'oblio della dottrina. (Pascal rappresenta un caso simmetrico). (p. 178)
  • Per nostra grande fortuna gli altri ignorano il bene e il male che pensiamo di noi. (p. 187)
  • Apprezzo un libro soltanto per il turbamento, per il veleno che inocula in me. (p. 192)
  • Tutto il segreto della vita sta nel votarsi alle illusioni senza sapere che sono tali. Non appena le si conosce per quello che sono, l'incanto è rotto. (p. 194)
  • Niente rivela ciò che sono quanto la mia passione per Elisabetta d'Austria. (p. 205)
  • Montaigne, un saggio, non ha avuto posterità; Rousseau, un isterico odioso, continua ad avere discepoli. (p. 208)
  • Dieci di sera. Solo. Quest'anno ho letto tre o quattro libri su Elisabetta d'Austria. Ne ho appena finito un altro. La mia passione per lei risale alla primavera del 1935, quando lessi a Monaco Une impératrice de la solitude di Barrés. (24 dicembre, p. 224)
  • La scomparsa degli animali, in realtà, la loro liquidazione, è un'azione di una gravità senza precedenti. Il loro carnefice ha letteralmente invaso il paesaggio. Non c'è posto che per lui. Quale tristezza vedere un uomo dove prima si poteva contemplare un cavallo! (p. 236)
  • Una religione è viva soltanto prima che vengano elaborati i dogmi. Si crede davvero soltanto finché si ignora a che cosa esattamente si deve credere. (p. 236)
  • Il pessimismo è un segno di squilibrio mentale, come d'altronde l'ottimismo. (p. 242)
  • Più avanti vado, più trovo che la cosa più profonda nell'uomo è il desiderio di vendetta. Nessuno «digerisce» un insulto o un'umiliazione, per insignificante che sia. La Vendetta è il dato basilare dell'universo morale. (p. 262)
  • In un articolo pubblicato da un settimanale britannico un professore dice che porsi domande di metafisica non ha maggior senso che domandarsi: «What is the colour of Wednesday?». (p. 269)
  • Il vero lettore è quello che non scrive. Soltanto lui è capace di leggere ingenuamente – unico modo di sentire un libro. (p. 273)
  • Tutti sono condannati, eppure tutti vanno avanti. In questo paradosso sta tutta la bellezza, tutta la giustificazione del mondo. (p. 288)
  • Chiunque sia in possesso o sotto l'influenza di una dottrina è condannato a vivere nel falso e a operare il falso. Essere nel vero e operare il vero è pressoché impossibile. Il fatto è che l'uomo è stato irrevocabilmente corrotto dall'idea, ossia da simulacri. (p. 293)
  • Conta soltanto il libro che si pianta come un coltello nel cuore del lettore. (p. 294)
  • All'inizio della Rivoluzione si citava solo Rousseau, alla fine solo Tacito. (p. 296)
  • La felicità non è un rimedio alla malinconia, anzi l'aggrava, perché questa si nutre con la stessa avidità dei nostri piaceri e dei nostri dolori. Tutto le sta bene, a nostre spese. (p. 305)
  • Ci si accalca solo intorno ai venditori di illusioni, in filosofia come in ogni altra cosa. Intorno a chi non si abbassa a proporre si fa sempre il vuoto. (p. 305)
  • Il Destino è quanto di meglio si sia inventato per spiegare le vicissitudini umane. E che cos'è se non la Provvidenza decapitata? (p. 306)
  • La letteratura, la filosofia, la religione, tutto dà troppa importanza all'uomo. (p. 313)
  • Senza dubbio l'istituzione più oppressiva di tutti i tempi fu l'Inquisizione. Non potrò mai convertirmi al cattolicesimo, a una religione che ha potuto dar vita a qualcosa di così mostruoso. (p. 314)
  • Che cos'è religioso? È qualcosa che si approfondisce in noi a scapito del mondo, è il progredire verso un silenzio melodioso. (p. 316)
  • Mi piacerebbe dimenticare tutto e risvegliarmi un bel giorno davanti a una luce vergine, come all'indomani della Creazione. (p. 325)
  • Chi ha il gusto del dubbio ha il gusto della tortura. Nello scetticismo c'è innegabilmente una componente masochistica. (p. 327)
  • Quegli amici troppo solleciti che ci fanno favori che non abbiamo chiesto. La peggior forma di indiscrezione. Non ci si dovrebbe occupare di noi senza il nostro consenso. (p. 330)
  • Ogni verità è un fardello.
    Una verità nuova, un fardello in più. (p. 334)
  • A dire il vero, non è la morte, è la malattia quello che temo, l'immensa umiliazione legata al fatto di languire nei paraggi della morte. (pp. 340-341)
  • Io sono soltanto il luogo in cui vari mali lottano fra loro per la supremazia. (p. 345)
  • È l'arte, non la filosofia, a sentire i pericoli che incombono sulla nostra specie. (p. 355)
  • La massima stoica per la quale dobbiamo rassegnarci senza protestare alle cose che non dipendono da noi, e anzi esservi del tutto indifferenti, tiene conto solo delle disgrazie esterne, che arrivano indipendentemente dalla nostra volontà; ma come farsi una ragione di quelle che provengono da noi stessi? Se noi soltanto siamo la fonte dei nostri mali, con chi prendercela? Con noi stessi? Ma dimentichiamo presto di essere i veri colpevoli, e non aspettiamo altro che di scaricare su qualcuno o su qualcosa il peso della nostra responsabilità. (p. 377)
  • Con le cose posso facilmente riprendere contatto ogni giorno, ma non con gli esseri umani. Mi fanno paura, non so dove incontrarmi con loro, a che livello alzarmi o abbassarmi per trovarmi sul loro stesso piano. (pp. 357-358)
  • Gli uomini si dividono in due categorie: quelli che cercano il senso della vita senza trovarlo e quelli che l'hanno trovato senza cercarlo. (p. 385)
  • Ognuno di noi, per tutta la vita, non smette di stupirsi di essere proprio quello che è. Il dramma dell'unicità è inesauribile e insolubile. (p. 388)
  • Ciò che rende interessante un libro è la quantità di sofferenza che contiene. Non sono le idee, sono i tormenti dell'autore a catturarci; sono le sue grida, i suoi silenzi, il suo smarrimento, le sue contorsioni, le sue frasi cariche di insolubile. Di regola, è falso tutto ciò che non nasce dalla sofferenza. (p. 398)
  • Negli accessi di orgoglio, ricordarsi il modo in cui si è stati concepiti; non c'è niente che inviti di più alla modestia, nemmeno la morte. Se si vuole mantenere un briciolo di rispetto per se stessi non bisogna pensare troppo spesso al procedimento innominabile cui si deve il fatto di essere. (p. 409)
  • Spesso mi capita di pensare, durante una cena, in mezzo alla folla, a un concerto, in un giardino: «Tutta questa gente è condannata a morire, non ha scampo». E questa ovvietà, a seconda dell'umore del momento, mi dà sollievo o mi prostra. (p. 410)
  • Che alcuni vengano a cercare da me consolazione e appoggio è una delle cose che più mi sgomentano. Incapace di risolvere i miei problemi, mi vedo costretto a trovare una soluzione a quelli degli altri. (p. 411)
  • Mi ci vuole ogni giorno la mia razione di dubbio. Me ne nutro, letteralmente. Non c'è mai stato uno scetticismo più organico. [...] Datemi dubbi e ancora dubbi. Più che il mio cibo, sono la mia droga. Non posso farne a meno. Ne sono intossicato a vita. Perciò, quando ne trovo uno, uno qualsiasi, mi ci avvento sopra, lo divoro, lo incorporo nella mia sostanza. Perché la mia capacità di assimilare dubbi è sconfinata; li digerisco tutti, sono ciò che mi tiene in vita e la mia ragione d'essere. Non riesco a immaginarmi senza di loro. Datemi dubbi, ancora e sempre dubbi. (p. 420)
  • Quando si è soli, anche se non si fa niente, non si ha l'impressione di perdere tempo. In compagnia, invece, lo si sciupa quasi sempre. (p. 427)
  • Dall'esterno, ogni clan, ogni setta, ogni partito sembrano omogenei; dall'interno, la diversità è enorme. In un convento i conflitti sono reali e frequenti quanto in qualsiasi altra società. Perfino nella solitudine, gli uomini non si riuniscono che per sfuggire alla pace. (p. 431)
  • Vi è una certa bassezza d'animo a pretendere che, quando siamo infelici, gli altri si interessino delle nostre disgrazie. (p. 440)
  • Suonano alla porta [...] Queste visite inopinate mi fanno star male, equivalgono a una violazione di domicilio, a una profanazione della solitudine. (20 settembre, p. 445)
  • Il neofita è un guastafeste. Non appena uno si converte a qualcosa bisogna smettere di frequentarlo. La convinzione come fattore di rottura. (p. 461)
  • Il megalomane è uno che dice ad alta voce ciò che ognuno pensa di sé nel suo intimo. (p. 470)
  • Per quanto smaliziati si possa essere, si conserva qualche lato ingenuo, non si coincide con ciò che si sa. (p. 477)
  • Tutto è un'impresa quaggiù, perfino il piacere. (p. 482)
  • Sono un grande appassionato di biografie, come tutti quelli che non hanno una «vita». (p. 483)
  • Si desidera la morte soltanto quando si sta abbastanza bene; al minimo accenno di malattia la si teme. (p. 487)
  • Abbiamo un bisogno profondo che ci sia qualcuno molto al di sopra di noi, che abbia pietà di noi. È questa l'origine della religione, non bisogna cercarla altrove. (29 dicembre, p. 501)
  • Ogni essere emerge da non si sa dove, lancia il suo piccolo grido e scompare senza lasciare traccia. (p. 504)
  • La religione è un'arte di consolare. Quando il prete dice, a voi afflitti, che Dio si interessa al vostro sconforto, offre una consolazione che, in fatto di efficacia, non potrà mai trovare equivalenti in dottrine secolari. (20 gennaio, p. 514)
  • Tranne poche eccezioni, le persone che hanno molto sofferto finiscono col diventare arroganti, non umili. Vi gettano in faccia le loro disgrazie, e non hanno tregua finché non soffrite quanto loro. (p. 517)
  • Ci vuole uno sforzo quasi sovrumano per poter accusare soltanto noi stessi; ma se lo facciamo, abbiamo la netta sensazione di avvicinarci alla verità. Ahimè! non per questo diventiamo più modesti, semmai più orgogliosi. (p. 519)
  • Penso sempre di più alle sofferenze che non hanno alcun senso, che non servono a niente, e mi ribello all'illusione cristiana che conferisce a tutte loro un grande, immenso significato. (p. 526)
  • Si è sé stessi solo quando gli uomini ci voltano le spalle. (p. 524)
  • È grazie a lui [Bernard Frechtman] che ho letto Guerra e pace, libro che mi disgustava a priori. Con poche parole me ne aveva fatto una «descrizione» assai allettante. Diceva, mi ricordo, che era il romanzo che meglio faceva sentire il passaggio, l'avanzare del tempo, e che il tempo progrediva a blocchi. (8 marzo, p. 527)
  • Il francese è una lingua che non sopporta il candore, che rifugge dai sentimenti troppo sinceri, troppo veri. Si direbbe che sia stato segnato per sempre dalla sottile corruzione, dall'astrazione perversa del Settecento. (p. 543)
  • La lettura – il più grande piacere passivo. (p. 556)
  • Sveglio per ore e ore. Nel silenzio della notte è come se gli uomini non esistessero. Ci si crede – e in effetti si è – soli sulla terra. (29 maggio, p. 567)
  • L'altro: uno che mi impedisce di essere io.
    Quando si è soli, si è illimitati, si è come Dio. Appena c'è qualcuno, si cozza contro un limite, e presto non si è più niente, si è solo qualcosa. (p. 569)
  • Tutto va in malora negli esseri umani, tranne lo sguardo e la voce: senza di loro non si potrebbe riconoscere nessuno in capo a trent'anni. (p. 569)
  • Ci facciamo un'idea di noi stessi. Forti di quest'idea, andiamo da qualcuno che, ce ne accorgiamo subito, non la condivide affatto.
    L'umiliazione è sempre duplice: quella nei confronti degli altri e quella nei confronti di se stessi. È quest'ultima che spiega perché colpisce in profondità un essere. (p. 595)
  • Il segreto della vita sta tutto nel rifiuto della morte, e in nient'altro. Organicamente non possiamo rassegnarci a morire; è un fatto inconcepibile, che non possiamo ammettere, che non «realizziamo», che respingiamo con ogni cellula del nostro corpo. Ancora una volta, in questo rifiuto si esaurisce il segreto della vita. (p. 609)
  • Che modestia negli Antichi! Epitteto dice della Provvidenza: «Non ha potuto fare di meglio».
    Quale teologo cristiano avrebbe avuto l'onestà di dire la stessa cosa del suo dio? (p. 611)
  • Non si deve mai essere d'accordo con la massa, neanche quando ha ragione. (p. 611)
  • Qual è l'apporto di una sconfitta? Una visione più precisa di noi stessi. (p. 621)
  • Fino ai trent'anni, avevo in testa una sola idea: lo sterminio dei vecchi; ora che ho passato i cinquanta, quello dei giovani. (p. 628)
  • I figli si ribellano ai genitori; e i genitori se lo meritano. Tutto si ribella a tutto, ognuno genera il proprio nemico. Questa è la legge. (p. 633)
  • Niente è più denso di pericoli di una lunga felicità. Nessun individuo, nessuna società vi resiste. (p. 633)
  • La felicità di sapere che non si ha niente da proclamare. (p. 635)
  • Ogni convinzione deriva da un insufficiente esame delle cose, non è che un punto di vista fisso. (p. 636)
  • Bisognerebbe rinunciare a cercare l'essenza delle cose. È una brutta piega presa dalla nostra mente questo voler fissare in ogni occasione l'evanescente e scovarne la ragione durevole. Non c'è niente dietro a niente. Ma può esserci qualcosa in noi. È a questo che è necessario aggrapparsi. (p. 636)
  • Ogni volta che mi immergo in un trattato di teologia, ne esco in fretta, tanto mi è insopportabile l'importanza smisurata che viene data a Dio e all'uomo. (p. 649)
  • Spiegare qualsiasi cosa con Dio è cedere a una soluzione di comodo. Dio non spiega niente, questa è la sua forza. D'altronde si ricorre a lui solo quando non si osa affrontare una realtà e ci si rifugia in una scappatoia. Lui è questa scappatoia. (p. 678)
  • I libri di storia invitano al cinismo quanto quelli di biologia, e anche di più. (p. 689)
  • Gli uomini seguono soltanto chi regala loro illusioni. Non ci sono mai stati assembramenti intorno a un disilluso. (p. 713)
  • La lettura è nemica del pensiero.
    È meglio annoiarsi che leggere, perché la noia è pensiero in germe (o vizio o qualsiasi cosa) – mentre le idee degli altri sono soltanto ostacoli; nel migliore dei casi, rimorsi. (p. 713)
  • Si può credere in Dio se ci si mantiene a un livello molto alto e molto astratto. Ma appena ci si riporta agli accidenti quotidiani che dopo tutto compongono la vita, non vi si trova niente che conduca a Dio, e neppure a un dio. – La fede è una immaginazione che rifiuta il concreto, che non si preoccupa di ciò che la respinge. Non si può credere senza immaginazione. (p. 716)
  • L'ignoranza è una condizione perfetta. Ed è comprensibile che chi ne gode non voglia uscirne. (p. 719)
  • Forse non avrei capito niente della vita se non avessi sposato scioccamente, febbrilmente alcune cause che ora, quando ci penso, mi fanno arrossire. Ma devo anche a queste vergogne, a questi «rimorsi», quel po' di saggezza che ho acquisito. (p. 721)
  • Ogni lettore è un parassita che non sa di esserlo. (p. 731)
  • Niente mi sembra più assurdo che andare da qualche parte a cercare la saggezza. Se non la trovo nella mia stanzetta sotto il tetto, non la troverò certo sulle cime dell'Himalaya. (22 gennaio, p. 741)
  • Di certo la vita non ha alcun senso. Ma questo non ha la minima importanza quando si è giovani. Ben diverso è quando si ha una certa età. Allora si comincia a preoccuparsene. L'inquietudine diventa problema, e i vecchi, che non hanno più niente da fare, cercano di risolverlo, senza averne il tempo o le capacità. Il che spiega perché non si ammazzino in massa, come dovrebbero fare se fossero appena un po' meno assorbiti da questo pensiero. (p. 753)
  • Il mio compito è quello di strappare la gente al suo sonno di sempre, pur sapendo che commetto un crimine, e che sarebbe mille volte meglio lasciarla dormire, visto che, se pure si svegliasse, non avrei niente da proporle. (p. 753)
  • La vita è stupenda nel senso in cui è stupendo l'atto sessuale: durante, non dopo. Appena ci si mette al di fuori della vita e la si guarda dall'esterno tutto crolla, tutto sembra inganno, come dopo l'amplesso.
    Ogni piacere è stupendo e irreale, ed è così per ogni atto di vita. (p. 763)
  • La metafisica e, a maggior ragione, la teologia sono di un antropomorfismo scandaloso. Entrambe si riducono a una suprema civetteria dell'uomo, in estasi di fronte al proprio genio. Appena si dà uno sguardo ai suoi vaneggiamenti non ce n'è uno che sfugga al ridicolo. (p. 776)
  • Non credo che esista piacere più completo che calpestare ciò che si è idoleggiato. (p. 776)
  • L'orrore che provo a rivedere i miei vecchi amici viene dal fatto che mi ricordano in modo brutale che anch'io sono invecchiato: lo so in astratto; ma essi vengono a confermare e a illustrare questa certezza che, senza il loro fin troppo concreto esempio, conserverebbe un che di vago e di innocuo. (p. 778)
  • Ogni carne è una possibilità di piaga.
    «Carne» è una parola cristiana, visto che ne hanno fatto la sede del peccato.
    Il cristianesimo mi fa orrore, e tuttavia lo capisco proprio in ciò che ha di orribile. (p. 785)
  • Fare è difficile, disfare è facile. Senza questa facilità il male non esisterebbe. E neanche la morte. (p. 786)
  • Epitteto e Montaigne sono prolissi, soprattutto il primo. La forza di Pascal sta nella concisione. Aveva il genio della formula. (p. 789)
  • Il credente e il miscredente soffrono di una stessa forma di orgoglio: cambia solo il contenuto. Entrambi si credono detentori della verità; altrimenti non potrebbero vivere. Ma verità è una parola che non si dovrebbe usare. Ricorrervi è presunzione, anzi spudoratezza. (p. 790)
  • Non vorrei buscarmi la fede solo perché sono più infelice di quanto non sia mai stato. Bisogna essere forti, andare avanti senza appoggi, senza stampelle, senza l'assistenza di nessuno. Non voglio ricorrere a Dio solo perché sono alle strette. (p. 791)
  • L'origine di tutte le nostre schiavitù sta negli affetti. Più si vuole essere liberi, meno ci si lega agli esseri e alle cose. Ma una volta legati, svincolarsi è una tragedia. (28 aprile, p. 791)
  • È una idiozia totale pretendere di rinunciare all'io, all'amor proprio, alla vanità e all'orgoglio; è impossibile superarli, e quando si crede di averli vinti, si cade in una serie di menzogne senza fine. L'io è incurabile. Non parliamone più. Non si guarisce dall'io. (p. 796)
  • Che cos'è un martire? È un orgoglioso senza pari e un mostro di egoismo... intellettuale, perché non vuole e non può concepire le ragioni degli altri. E poiché non ci si inchina alla sua volontà, preferisce morire piuttosto che cedere. (5 giugno, p. 813)
  • Contro gli stoici.
    Se ci educhiamo a diventare indifferenti alle cose che non dipendono da noi e riusciamo a sopportarle senza affliggercene né rallegrarcene, che ci rimane da fare, da provare, visto che quasi ogni avvenimento è indipendente dalla nostra volontà?
    In teoria gli stoici hanno ragione. In pratica tutto gioca contro di loro. Dalla mattina alla sera non facciamo che prendere posizione pro o contro cose su cui non abbiamo alcun potere. La «vita» è questo, è un folle tentativo di uscire dalla nostra impotenza; la «vita» è una corsa allo stesso tempo voluta e inevitabile verso (... è squillato il telefono e ho dimenticato che cosa volevo dire). (p. 815)
  • Chi ha detto che «Dio non parla che di Sé stesso»?
    Siamo proprio fatti a sua somiglianza! (p. 823)
  • Il reale è ciò a cui si crede; un'opinione degenerata in certezza. (p. 829)
  • La malinconia è il languido desiderio di insolubile. (p. 839)
  • La mia missione è di non averne nessuna. (p. 840)
  • Se l'umanità ama tanto i salvatori, allucinati che pretendono di avere una missione, che credono fanaticamente in se stessi, è perché pensa che loro credano in lei. (18 novembre, pp. 840-841)
  • La noia è l'incontro con sé stessi – attraverso la percezione della propria nullità. (p. 849)
  • La verità, bisogna pur dirlo, è intollerabile, l'uomo non è fatto per sostenerla; così la evita come la peste. – Che cos'è la verità? Ciò che non aiuta a vivere. È esattamente il contrario di un aiuto. Quindi non serve a niente, se non a metterci in un equilibrio instabile, propizio a tutte le forme di vertigine. (p. 861)
  • La storia dell'uomo e di Dio è la storia di una delusione reciproca. (p. 861)
  • Ogni legame è sofferenza e causa di sofferenza. Finché non ci si emancipa dagli esseri, si vive nella pura vulnerabilità. (p. 872)
  • La prova che qualcuno è stato importante per voi è che vi sentite diminuiti quando muore. Si subisce una perdita di realtà – di colpo si esiste di meno. (p. 881)
  • Per tutta la vita ho pensato alla morte, e ora che mi ci avvicino constato che non mi è servito a niente averci pensato tanto, e che sarebbe stato assai più proficuo non curarsene affatto. Il pensiero della morte non aiuta a morire. (27 aprile, p. 887)
  • L'unica cosa profonda, straordinaria che l'uomo abbia scoperto è il silenzio, ed è anche l'unica cosa a cui non riesce ad attenersi. (p. 892)
  • Tutto ciò che riguarda la sessualità è illimitato, e deludente. È un falso infinito. Ma comunque un infinito. (p. 904)
  • Il desiderio somiglia a una malattia da cui non si vorrebbe guarire. (p. 904)
  • Il mezzo migliore per neutralizzare un nemico, per sbarazzarsene, è dirne bene. Glielo riferiranno, e lui non avrà più la forza di farvi del male: d'ora innanzi sarà incapace di nuocervi; avete spezzato la sua molla, e lui non funziona più. (p. 905)
  • [...] amo solo gli ingegni che sono vissuti nell'ombra, che non hanno avuto influenza sul loro tempo, che non sono stati né saranno mai importanti, i dimenticati che avranno sempre lettori discreti e appassionati – ma di una passione trattenuta –, che susciteranno sempre fervore, ma un fervore solitario, un vero fervore. (p. 909)
  • Dio, il grande Estraneo. (p. 914)
  • Ho sempre letto solo per cercare nelle esperienze altrui la spiegazione delle mie.
    Si deve leggere non per capire gli altri, ma per capire sé stessi. (p. 915)
  • Ciò che chiamiamo «pessimismo» non è altro che l'«arte di vivere», l'arte di assaporare l'amaro di tutto ciò che è. (p. 926)
  • I cinici sono stati i santi del paganesimo. (p. 956)
  • [...] ogni giorno vado verso il Dubbio come altri vanno in ufficio. (p. 973)
  • I silenzi inattesi che calano nel bel mezzo di una conversazione vi riportano subito all'essenziale, vi rivelano tutto ciò che l'uomo ha perduto inventando la parola. (p. 975)
  • Dio appare reale solo oltre un certo stadio di solitudine. Come stabilire questo stadio? Quando mi ci avvicino, lo so, lo avverto, ma non posso istituire un criterio. È come la voglia di piangere. Perché viene? Non si sa. Allo stesso modo viene Dio. (p. 981)
  • Per credere, bisogna essere tutti d'un pezzo, bisogna anche amare la stabilità, giacché Dio in primo luogo è questo. E poi bisogna poter scrivere verità con la maiuscola, che è quello a cui non mi rassegnerò mai. (p. 983)
  • Ogni fede è falsa – vista dall'esterno. Ma credere è importante quanto respirare.
    (Non parlo qui di fede religiosa, ma della capacità di adesione a qualcosa). (p. 985)
  • Bisogna aver cura del proprio disprezzo e non distribuirlo alla leggera. (p. 1027)
  • L'idea di Dio è durata un bel pezzo! E non si vede con che sostituirla. Perché allora l'uomo non dovrebbe fare di tutto per conservarla, per aggrapparvisi? In ogni caso non troverà niente di meglio. Perciò è sempre una cattiva azione scalzare una credenza, per quanto sciocca, per quanto astrusa sia. È con le credenze che ci si consola, non con i ragionamenti. (p. 1030)
  • Qualcuno ha detto molto giustamente: «Io sono quello che non ho fatto».
    Con questo si deve intendere che gli atti che non abbiamo compiuto, per il fatto stesso che vi pensiamo di continuo, sono il solo contenuto del nostro essere. In altri termini, io sono i miei rimpianti. (pp. 1031-1032)
  • Come tutti i grandi avvenimenti di quaggiù, la «fine del mondo» arriverà per opera di un «ottuso», di un folle... mediocre. (p. 1063)

Citazioni su Quaderni 1957-1972

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  • Ciò che entusiasma nei Quaderni è l'incessante mobilità del pensiero, il passaggio da un estremo all'altro, il gioco dei contrari, le associazioni improvvise, l'andirivieni, gli ondeggiamenti dell'acqua. Conosco un solo esempio simile: Montaigne. Ogni aforisma è in rapporto con tutti gli altri: ogni verità si nutre drammaticamente delle verità che la negano. Cioran mistico è scettico, lo scettico mistico, il limitato tentato dalla dismisura, lo sventurato è ilare, l'empio religioso, il rumeno francese, il francese rumeno: l'uomo furioso e disperato è un angelo devastato dallo humour. (Pietro Citati)

Sillogismi dell'amarezza

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  • Agli equatori del sangue non si medita più. (p. 122)
  • All'interno di ogni desiderio lottano un monaco e un macellaio. (p. 94)
  • Annoiarsi è masticare tempo. (p. 47)
  • Appena adolescente, la prospettiva della morte mi gettava nell'angoscia; per sfuggirvi mi precipitavo al bordello o invocavo gli angeli. Ma, con l'età, ci si abitua ai propri terrori, non si fa più niente per liberarsene, ci si imborghesisce nell'Abisso. – E se ci fu un tempo in cui invidiavo quei monaci egiziani che scavavano le loro tombe per versarvi lacrime, oggi scaverei la mia per non lasciarvi cadere altro che cicche. (pp. 124-125)
  • Approfondire un'idea è farle oltraggio: toglierle il fascino, anzi, la vita... (p. 34)
  • Che lo vogliamo o no, siamo tutti psicoanalisti, amanti dei misteri del cuore e della mutanda, palombari degli orrori. Guai allo spirito dagli abissi chiari! (p. 124)
  • Chi si consumerebbe nella sessualità se non sperasse di perdervi la ragione per un po' più che un secondo – per il resto dei suoi giorni? (p. 94)
  • Chi si uccide per una puttana fa un'esperienza più completa e più profonda dell'eroe che mette a soqquadro il mondo. (p. 94)
  • Dopo le metafore, la farmacia. Così si sgretolano i grandi sentimenti. (p. 95)
  • È facile essere «profondi»: basta lasciarsi sommergere dalle proprie tare. (p. 15)
  • Fallire la propria vita significa accedere alla poesia – senza il supporto del talento. (p. 14)
  • Gli zingari, popolo autenticamente eletto, non portano la responsabilità di alcun evento e di alcuna istituzione. Essi hanno trionfato sulla terra per la loro attenzione di non fondarvi niente. (p. 105)
  • Il Divenire: un'agonia senza epilogo. (p. 50)
  • Il pallore ci mostra fino a che punto il corpo può capire l'anima. (p. 43)
  • In questo universo provvisorio, i nostri assiomi hanno soltanto un valore di cronaca. (p. 32)
  • In un mondo senza malinconia gli usignoli si metterebbero a ruttare. (p. 46)
  • Invano l'Occidente cerca per sé una forma di agonia degna del proprio passato. (p. 53)
  • L'ora del crimine non suona nello stesso momento per tutti i popoli. Così si spiega il permanere della storia. (p. 103)
  • La libertà è il bene supremo solo per quelli che sono animati dalla volontà di essere eretici. (p. 104)
  • La noia è un'angoscia larvale; l'umor nero, un odio sognante. (p. 44)
  • La psicoanalisi, tecnica che pratichiamo a nostre spese, degrada i nostri rischi, i nostri pericoli, i nostri abissi; essa ci spoglia delle nostre impurità, di tutto ciò che ci faceva curiosi di noi stessi. (p. 34)
  • La carne è incompatibile con la carità: l'orgasmo trasformerebbe un santo in lupo. (p. 95)
  • La leucemia è il giardino in cui fiorisce Dio. (p. 44)
  • La tristezza: un appetito che nessun dolore sazia. (p. 51)
  • Lo spermatozoo è il bandito allo stato puro. (p. 123)
  • Migliaia di volte mi sono ritirato in quel ripostiglio che è il Cielo; migliaia di volte ho ceduto al bisogno di soffocare in Dio! (p. 46)
  • Mille anni di guerra hanno consolidato l'Occidente; un secolo di «psicologia» lo ha ridotto allo stremo. (p. 54)
  • Nella mia infanzia, ci divertivamo, i miei compagni ed io, a osservare il becchino al lavoro. A volte ci passava un cranio con cui giocavamo a pallone. Era per noi una gioia che nessun pensiero funereo veniva a offuscare
    Per molti anni ho vissuto in mezzo a preti che al loro attivo avevano migliaia e migliaia di estreme unzioni, eppure non ne ho conosciuto nessuno che fosse incuriosito dalla Morte. Più tardi avrei capito che l'unico cadavere da cui possiamo trarre qualche profitto è quello che in noi si prepara. (p. 66)
  • Nella ricerca del tormento, nell'accanimento alla sofferenza, solo il geloso può competere con il martire. Eppure, si canonizza l'uno e si ridicolizza l'altro. (p. 93)
  • Nelle prove cruciali la sigaretta è un aiuto più efficace dei Vangeli. (p. 82)
  • Niente inaridisce una mente quanto la ripugnanza a concepire idee oscure. (p. 23)
  • Noi amiamo sempre... malgrado tutto; e questo «malgrado tutto» copre un infinito. (p. 98)
  • Obiezione contro la scienza: questo mondo non merita di essere conosciuto. (p. 32)
  • Ogni occidentale tormentato fa pensare a un eroe dostoevskiano con un conto in banca. (p. 17)
  • Onan, Sade, Masoch – che fortunati! I loro nomi, al pari delle loro imprese, non tramonteranno mai. (pp. 93-94)
  • Per non aver saputo celebrare l'aborto o legalizzare il cannibalismo, le società moderne dovranno risolvere le loro difficoltà con procedimenti ben più sbrigativi. (p. 120)
  • Perché frequentare Platone, quando un sassofono può farci intravedere altrettanto bene un altro mondo? (p. 100)
  • Più uno spirito corre dei pericoli, più sente il bisogno di apparire superficiale, di darsi un'aria frivola e di moltiplicare i malintesi sul proprio conto. (p. 75)
  • Prendo una risoluzione in piedi; mi sdraio – e l'annullo. (p. 47)
  • Quando la feccia sposa un mito, preparatevi a un massacro o, peggio ancora, a una nuova religione. (p. 109)
  • Quant'è colpevole il cristianesimo di aver corrotto lo scetticismo! Un greco non avrebbe mai associato il lamento al dubbio. Arretrerebbe pieno di orrore davanti a Pascal e, ancor più, davanti a quell'inflazione dell'anima che, a partire dalla Croce, deprezza lo spirito. (p. 84)
  • Se c'è qualcuno che deve tutto a Bach, questi è proprio Dio. (p. 99)
  • Se Noè avesse avuto il dono di leggere il futuro, non c'è alcun dubbio che si sarebbe fatto colare a picco. (p. 103)
  • Se una sola volta fosti triste senza motivo, lo sei stato tutta la vita senza saperlo. (p. 49)
  • Signore, abbi pietà del mio sangue, della mia anemia in fiamme! (p. 114)
  • Solo le nature erotiche sacrificano alla noia, deluse in anticipo dall'amore. (p. 93)
  • Soltanto le passioni simulate, i deliri finti hanno qualcosa a che fare con lo spirito, e con il rispetto di noi stessi; i sentimenti sinceri presuppongono una mancanza di riguardo verso di sé. (p. 95)
  • Sperare significa smentire l'avvenire. (p. 74)
  • Tante volte mi ha fatto morire la mia avidità di agonie che mi sembra indecente abusare ancora di un cadavere dal quale non posso ricavare più niente. (p. 115)
  • Vago attraverso i giorni come una puttana in un mondo senza marciapiedi. (p. 49)
  • Via via che liquidiamo le nostre ignominie, gettiamo anche le nostre maschere. Viene il giorno in cui il gioco finisce: niente più ignominie, niente più maschere. E niente più pubblico. – Abbiamo presunto troppo dei nostri segreti, della vitalità delle nostre miserie. (p. 49)
  • Vivo solo perché è in mio potere morire quando meglio mi sembrerà: senza l'idea del suicidio, mi sarei ucciso subito. (p. 63)

Sommario di decomposizione

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  • Il fanatico [...] è incorruttibile: se per un'idea è capace di uccidere, allo stesso modo può farsi uccidere per essa; in entrambi i casi, sia egli tiranno o martire, è un mostro. Non esistono esseri più pericolosi di quelli che hanno sofferto per una convinzione: i grandi persecutori si reclutano tra i martiri ai quali non è stata tagliata la testa. (p. 16)
  • L'origine dei nostri atti sta nella propensione inconscia a ritenerci il centro, la ragione e l'esito del tempo. I nostri riflessi e il nostro orgoglio trasformano in pianeta la briciola di carne e di coscienza che noi siamo. Se avessimo il giusto senso della nostra posizione nel mondo, se confrontare fosse inseparabile dal vivere, la rivelazione della nostra infima presenza ci schiaccerebbe. Ma vivere significa ingannarsi sulle proprie dimensioni... (p. 17)
  • L'amore – un incontro di due salive... Tutti i sentimenti attingono il loro assoluto dalla miseria delle ghiandole. (p. 18)
  • Noi moriamo in proporzione alle parole che spargiamo intorno a noi... (p. 30)
  • In un mondo di sofferenze, ciascuna di esse è solipsistica rispetto a tutte le altre. (p. 34)
  • La forza che abbiamo ci viene dai nostri oblii e dalla nostra incapacità di rappresentarci la pluralità dei destini simultanei. Nessuno potrebbe sopravvivere alla comprensione istantanea del dolore universale, dato che ogni cuore è fatto solo per una certa quantità di sofferenze. (p. 42)
  • Si è «civilizzati» nella misura in cui non si esibisce la propria lebbra e si porta rispetto all'elegante falsità costruita dai secoli. (p. 60)
  • Non si può eludere l'esistenza con delle spiegazioni, si può solo subirla, amarla o detestarla, adorarla o temerla, in quell'alternanza di felicità e di orrore che esprime il ritmo stesso dell'essere, le sue oscillazioni e le sue dissonanze, le sue veemenze amare o allegre. (p. 68)
  • Non cominciamo a vivere realmente se non una volta giunti in fondo alla filosofia, sulla sua rovina, quando abbiamo capito sia la sua terribile insignificanza sia l'inutilità del farvi ricorso, in quanto non è di alcun aiuto. (p. 69)
  • Se tutti coloro che abbiamo ucciso col pensiero scomparissero davvero, la terra non avrebbe più abitanti. (p. 76)
  • Possiamo vivere come vivono gli altri e tuttavia nascondere un no più grande del mondo: è l'infinito della malinconia... (p. 83)
  • Il fatto è che tutti gli uomini che gettano uno sguardo sulle loro rovine passate credono – per evitare le rovine future – che sia in loro potere ricominciare qualche cosa di radicalmente nuovo. Fanno a se stessi una promessa solenne e attendono un miracolo che li tiri fuori dal baratro mediocre in cui il destino li ha sprofondati. Ma non accade nulla. Tutti continuano a essere gli stessi, modificati soltanto dall'accentuarsi di quella tendenza a decadere che è il loro marchio. (p. 93)
  • Colui che propone una fede nuova è perseguitato, in attesa di diventare a sua volta persecutore: le verità cominciano da un conflitto con la polizia e finiscono col farsi sostenere da essa [...] (p. 100)
  • Sacrificherei l'impero del mondo per un solo istante in cui le mie mani giunte implorassero il grande Responsabile dei nostri enigmi e delle nostre banalità. (p. 115)
  • Ogni civiltà configura una risposta alle domande che l'universo suscita; ma il mistero rimane intatto: altre civiltà, con nuove curiosità, vi si cimenteranno, altrettanto vanamente, dato che ciascuna è soltanto un sistema di errori... (p. 148)
  • [...] se cerco la data più mortificante per l'orgoglio dello spirito, se scorro l'inventario delle intolleranze, non trovo niente di paragonabile a quell'anno 529 in cui, per ordine di Giustiniano, fu chiusa la Scuola di Atene. Soppresso ufficialmente il diritto alla decadenza, credere diventa un obbligo... È il momento più doloroso nella Storia del Dubbio. (p. 149)
  • L'idea che ho potuto – come tutti – essere sinceramente cristiano, fosse anche per un solo secondo, mi getta nello smarrimento. Il Salvatore mi annoia. Sogno un universo immune da intossicazioni celesti, un universo senza croce né fede. (p. 173)
  • La teologia, la morale, la storia e l'esperienza di tutti i giorni insegnano che, per raggiungere l'equilibrio, non c'è un'infinità di segreti – ce n'è uno solo: sottomettersi. «Accettate un giogo» esse ci ripetono «e sarete felici; siate qualche cosa e verrete liberati dalle vostre pene». (p. 195)

Squartamento

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  • All'Inferno, il cerchio meno affollato ma più duro di tutti, deve essere quello in cui non si può dimenticare il Tempo un solo istante. (2012, p. 146)
  • Allo zoo. – Tutte queste bestie hanno un contegno decente, all'infuori delle scimmie. Si sente che l'uomo non è lontano. (2012, p. 98)
  • Ci si intrattiene con profitto soltanto con gli entusiasti che hanno cessato di esserlo, con gli ex ingenui... Finalmente calati, essi hanno fatto, per amore o per forza, il passo decisivo verso la Conoscenza – questa versione impersonale della delusione. (p. 131)
  • Chi non ha sofferto non è un essere: tutt'al più un individuo. (p. 143)
  • Ci si addormenta sempre con una contentezza che non si può descrivere, si scivola nel sonno e si è felici di sprofondarvisi. Se ci si risveglia malvolentieri, è perché non si abbandona senza pena l'incoscienza, vero e unico paradiso. Quanto dire che l'uomo non è appagato se non quando cessa di essere uomo. (p. 162)
  • Dopo una malattia grave, in certi Paesi asiatici, nel Laos ad esempio, succede che si cambia nome. Che visione all'origine di un tale costume! In realtà, si dovrebbe cambiare nome dopo ogni esperienza importante. (2012, p. 113)
  • È necessariamente volgare tutto ciò che non ha un qualcosa di funebre. (p. 127)
  • Essere vuol dire essere incastrati. (p. 107)
  • Guai al libro che si può leggere senza interrogarsi per tutto il tempo sull'autore! (p. 157)
  • In un settimanale inglese, un attacco contro Marco Aurelio, che l'autore accusa d'ipocrisia, di filisteismo e di affettazione. Furente, mi apprestavo a rispondere quando, pensando all'imperatore, mi sono in fretta ripreso. Era giusto che non mi indignassi in nome di chi mi ha insegnato a non indignarmi mai. (p. 95)
  • L'apparizione della vita? Una follia passeggera, un tiro mancino, una fantasia degli elementi, un ghiribizzo della materia. I soli che abbiano qualche ragione di mugugnare sono gli esseri individuali, vittime pietose di un capriccio. (pp. 132-133)
  • La base della società, di ogni società, è un certo orgoglio d'obbedire. Quando questo orgoglio non esiste più, la società crolla. (p. 113)
  • La conversazione è feconda soltanto tra spiriti dediti a consolidare le loro perplessità. (2012, p. 162)
  • La morte è ciò che fino a ora la vita ha inventato di più solido. (2012, p. 172)
  • La speranza è la forma normale del delirio. (2012, p. 164)
  • La timidezza, fonte inesauribile di disgrazie nella vita pratica, è la causa diretta, anzi unica, di ogni ricchezza interiore. (p. 171)
  • La vecchiaia, in definitiva, non è che la punizione di essere vissuti. (p. 164)
  • La vera eleganza morale consiste nell'arte di travestire le proprie vittorie da sconfitte. (p. 94)
  • Mentre veniva preparata la cicuta, Socrate stava imparando un'aria sul flauto. «A che cosa ti servirà?» gli fu chiesto. «A sapere quest'aria prima di morire».
    Se oso ricordare questa risposta trivializzata dai manuali, è perché mi sembra l'unica giustificazione seria di ogni volontà di conoscere, che essa si eserciti sulla soglia stessa della morte o in qualsiasi altro momento. (p. 99)
  • Morire a sessanta o a ottant'anni è più duro che a dieci o a trenta. L'assuefazione alla vita, ecco la difficoltà. Perché la vita è un vizio. Il più grande che ci sia. Il che spiega perché si faccia tanta fatica a sbarazzarsene. (p. 144)
  • «Né questo mondo, né l'altro, né la felicità sono per l'essere abbandonato al dubbio».
    Questo luogo della Gita è la mia sentenza di morte. (p. 108)
  • Niente rende modesti, neppure la vista di un cadavere. (p. 102)
  • Non si scrive perché si ha qualcosa da dire ma perché si ha voglia di dire qualcosa. (p. 92)
  • Passo il tempo a consigliare il suicidio con gli scritti e a sconsigliarlo con la parola. Il fatto è che nel primo caso si tratta di un esito filosofico; nel secondo, di un essere, di una voce, di un lamento... (p. 127)
  • Pensano profondamente soltanto coloro che non hanno la sventura di essere dotati del senso del ridicolo. (p. 137)
  • Piante e bestie recano i segni della salvezza, come l'uomo quelli della perdizione. Questo è vero per ciascuno di noi, per l'intera Specie, accecata e vinta dall'esplosione dell'Incurabile. (p. 74)
  • Più ancora che nella poesia, è nell'aforisma che la parola è dio. (p. 163)
  • Proverbio cinese: «Quando un solo cane si mette ad abbaiare a un'ombra, diecimila cani ne fanno una realtà».
    Da mettere in epigrafe a ogni commento sulle ideologie. (pp. 173-174)
  • [Un neonato] Quest'ometto cieco, dell'età di qualche giorno, che volge la testa da tutte le parti cercando non si sa cosa, questo cranio nudo, questa calvizie originaria, questa scimmia infima che ha soggiornato per mesi in una latrina e che tra poco, dimenticando le sue origini, sputerà sulle galassie... (p. 106)
  • Se la morte non fosse una forma di soluzione, i viventi avrebbero trovato un modo qualsiasi di aggirarla.
  • Si è e si resta schiavi finché non si è guariti dalla mania di sperare. (p. 114)
  • Si vive nel falso fino a che non si è sofferto. Ma quando si comincia a soffrire, si entra nel vero soltanto per rimpiangere il falso. (p. 168)
  • Solo un fiore che cade è un fiore completo, ha detto un giapponese.
    Si è tentati di dire altrettanto di una civiltà. (p. 113)
  • Un libro deve frugare nelle ferite, anzi deve provocarle. Un libro deve essere un pericolo. (p. 87)
  • Un poeta spagnolo mi invia un biglietto augurale che raffigura un ratto, simbolo, scrive, di tutto quello che noi possiamo «sperare» dall'anno. Da tutti gli anni, avrebbe potuto aggiungere. (p. 90)
  • Un uomo che si rispetti non ha patria. Una patria è una colla. (p. 104)

Storia e utopia

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  • Si diventa tolleranti soltanto nella misura in cui si perde di vigore, si cade amabilmente nell'infanzia, e si è troppo stanchi per tormentare gli altri con l'amore o con l'odio. (Su due tipi di società. Lettera a un amico lontano)
  • Come vedi, ho «larghe» vedute su ogni cosa. Esse lo sono tanto che ignoro a che punto io sia rispetto a qualunque problema. (Su due tipi di società. Lettera a un amico lontano)
  • Tutte le società sono cattive; vi sono dei gradi, lo riconosco, e se ho scelto questa in cui vivo è perché so distinguere fra le sfumature del peggio. (Su due tipi di società. Lettera a un amico lontano)
  • Tutto si può soffocare nell'uomo, salvo il bisogno di assoluto, che sopravviverebbe alla distruzione dei templi e perfino alla scomparsa della religione sulla terra. (La Russia e il virus della libertà)
  • L'ambizione è una droga che fa di colui che vi si dedica un demente in potenza. Chi non ha osservato in sé o negli altri queste stigmate, quest'aria di animale smarrito, questi tratti inquieti e come accesi da un'estasi sordida, rimarrà estraneo ai malefici e ai benefici del Potere, inferno tonificante, sintesi di veleno e di panacea. (Alla scuola dei tiranni)
  • Siamo nati per esistere, non per conoscere: per essere, non per affermarci. Il sapere, avendo irritato e stimolato il nostro appetito di potenza, ci condurrà inesorabilmente alla rovina. La Genesi ha colto la nostra condizione meglio di quanto non l'abbiano fatto i nostri sogni e i nostri sistemi. (Alla scuola dei tiranni)
  • La conoscenza rovina l'amore: nella misura in cui penetriamo nei nostri propri segreti, detestiamo i nostri simili, appunto perché ci somigliano. Quando non si hanno più illusioni su di sé, non se ne conservano sugli altri; l'innominabile che si scopre attraverso l'introspezione lo si estende, con legittima generalizzazione, al resto dei mortali; depravati nella loro essenza, non si sbaglia attribuendo loro tutti i vizi. (Odissea del rancore)
  • Diffidiamo di coloro che aderiscono a una filosofia rassicurante, che credono nel Bene e lo erigono volentieri a idolo; non vi sarebbero pervenuti se, ripiegati onestamente su se stessi, avessero sondato le proprie profondità o i propri miasmi; ma coloro – quei rari, è vero – che hanno avuto l'indiscrezione o la sventura di immergersi fino all'intimità del loro essere, sono informati sul conto dell'uomo: non potranno più amarlo, perché non amano più se stessi, pur restando (e sarà il loro castigo) incatenati al loro io più di prima... (Odissea del rancore)
  • Perché possiamo conservare la fede in noi e negli altri, senza accorgerci del carattere illusorio, della nullità di ogni atto, quale che sia, la natura ci ha resi opachi a noi stessi, soggetti a un accecamento che genera e governa il mondo. Se intraprendessimo un'inchiesta esauriente su noi stessi, il disgusto ci paralizzerebbe e ci condannerebbe a un'esistenza sterile. (Odissea del rancore)
  • Conoscere noi stessi significa identificare il movente sordido dei nostri gesti, l'inconfessabile iscritto nella nostra essenza, la somma di miserie patenti o clandestine da cui dipende il nostro rendimento. Tutto ciò che emana dalle zone inferiori della nostra natura è investito di forza, tutto ciò che viene dal basso stimola: si produce e si lotta sempre meglio per invidia e rapacità che non per nobiltà e disinteresse. (Odissea del rancore)
  • Nulla è più sospetto della fecondità. Se cercate la purezza, se aspirate a qualche trasparenza interiore, abdicate senza indugio al vostro ingegno, uscite dal circuito degli atti, mettetevi fuori dall'umano, rinunciate, per adoperare il gergo della pietà, alla «compagnia delle creature...» (Odissea del rancore)
  • Agiamo soltanto sotto il fascino dell'impossibile: quanto dire che una società incapace di generare un'utopia e di votarvisi è minacciata di sclerosi e di rovina. La saggezza, che nulla affascina, raccomanda la felicità data, esistente; l'uomo la rifiuta, e soltanto questo rifiuto ne fa un animale storico, voglio dire un amatore di felicità immaginata. (Meccanismo dell'utopia)
  • Il delirio dei miserabili è generatore di avvenimenti, fonte di storia: una folla di esagitati che vogliono un altro mondo, quaggiù e subito. Sono loro che ispirano le utopie, è per loro che si scrivono. Ma utopia, ricordiamocelo, significa da nessuna parte. (Meccanismo dell'utopia)
  • L'uomo attenderà sempre l'avvento della giustizia; e, affinché trionfi, rinuncerà alla libertà, per poi rimpiangerla. (Meccanismo dell'utopia)
  • Per quanto spietati siano i nostri rifiuti, non distruggiamo completamente gli oggetti della nostra nostalgia: i nostri sogni sopravvivono ai nostri risvegli e alle nostre analisi. (L'età dell'oro)
  • Niente paradiso, se non nel profondo del nostro essere, e come nell'io dell'io; e inoltre, per ritrovarvelo, bisogna aver fatto il giro di tutti i paradisi, trascorsi e possibili, averli amati e odiati con la goffaggine del fanatismo, scrutati e respinti poi con la competenza della delusione. (L'età dell'oro)

Taccuino di Talamanca

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  • Redenzione: attraverso la conoscenza, attraverso il superamento della conoscenza. (p. 17)
  • Ascoltare il vento dispensa dalla poesia, è poesia. (p. 26)
  • È l'Antico degli Antichi — questa espressione dello Zohar è quanto di meglio sia stato detto su Dio. (p. 29)
  • La funzione della Parola nelle cosmogonie. Dio parla e le cose avvengono. È una visione letteraria dell'universo, che solo l'uomo poteva concepire. Sarebbe interessante conoscere le divagazioni cosmogoniche di una creatura muta. (p. 34)
  • Parole di una bambina inglese di otto anni, nel vedere una stella cadente: «Non mi piacerebbe aggrapparmi a una stella cadente». (p. 39)
  • Le persone di destra mi fanno disgustare della destra, quelle di sinistra della sinistra. Di fatto, con un uomo di destra sono di sinistra, con un uomo di sinistra, di destra. (p. 43)

Un apolide metafisico: conversazioni

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  • Ci sarà sempre un conflitto tra quello che so e quello che sento. (Intervista con François Bondy)
  • Vi è qualcosa di indecente nell'esibirsi, ma nel momento in cui scrivi non ti esibisci. Sei solo con te stesso. E non pensi che quello che stai scrivendo un giorno sarà pubblicato. [...] Secondo me l'atto di scrivere è proprio questo, dico sul serio: un atto di immensa solitudine. Lo scrittore non ha senso se non in queste condizioni. Quello che fai dopo è prostituzione. Ma non appena accetti di esistere, devi accettare la prostituzione. (Intervista con Jean-François Duval)
  • Si oscilla fra l'estasi e l'orrore della vita... (Intervista con Jean-François Duval)
  • [Su Lucile de Chateaubriand] Ho letto tutto su di lei, avrei potuto persino scriverci un libro. A mio parere è la più bella figura del romanticismo francese. Ha lasciato solo piccole cose; ma questo non vuol dire niente. (Intervista con Jean-François Duval)
  • Che cos'è l'ideologia, in fondo? La congiunzione dell'idea con la passione. Da qui deriva l'intolleranza. Ma non appena vi si aggiunge un po' d'isteria è la fine. (Intervista con Léo Gillet)
  • Si tira un aforisma come si tira uno schiaffo. (Intervista con Léo Gillet)
  • ... questa contraddizione fra il proprio sapere e le proprie azioni dona alla vita una dimensione misteriosa e in un certo senso la riscatta. [...] questo è il mistero: che si possa fare qualcosa che è in contraddizione con tutto ciò che si sa. Una sorta di avventura, e quindi di follia. (Intervista con Léo Gillet)
  • Ha un senso la vita? Quando si assiste al funerale di qualcuno non si può dire che morire sia stato il senso di quella vita. E non esiste obiettivo in sé. Il grande motore è l'illusione dell'obiettivo. Solo che chi ne ha uno non sa che è una pura illusione. E la conoscenza consiste nel sapere che lo è, tutto il resto è vita (non necessariamente con la V maiuscola)... (Intervista con Esther Seligson)
  • Io sono un dubitatore incurabile. (Intervista con Sylvie Jaudeau)
  • Sul piano spirituale, chi è in buona salute è condannato. La profondità è monopolio di coloro che hanno sofferto. (Intervista con Sylvie Jaudeau)
  • [...] ogni conoscenza spinta sino in fondo è pericolosa e malsana, dato che – parlo della vita stessa e non delle conoscenze cosiddette filosofiche – la vita è sopportabile esclusivamente perché non si va sino in fondo. Una impresa è possibile soltanto quando si abbia un minimo di illusioni, altrimenti non è possibile [...] La lucidità totale equivale al nulla. (Intervista con Michael Jacob)
  • In ogni nostro atto c'è un retroscena, e proprio questo è psicologicamente interessante, noi non conosciamo che la superficie, il lato superficiale. Si accede a ciò che è detto, ma l'importante è ciò che non è detto, ciò che è implicito, il segreto di un atteggiamento o di una frase. Per questo tutti i nostri giudizi sugli altri, ma anche quelli su noi stessi, sono parzialmente sbagliati. Il lato meschino è camuffato, ma il lato meschino è profondo, e direi quasi che è quanto di più profondo ci sia negli esseri umani, e di più inaccessibile per noi. (Intervista con Michael Jacob)
  • Quando vedo amici, ma anche sconosciuti che stanno passando momenti di angoscia, il mio consiglio è uno solo: «Andate venti minuti in un cimitero, e vedrete che le vostre pene certo non svaniranno del tutto, ma in larga parte sì». [...] È molto meglio che andare dal medico; non ci sono medici per questo tipo di dolori, ma una passaggiata al cimitero è una lezione di saggezza, quasi automatica. [...] Che cosa vuol dire a uno che è in preda alla disperazione profonda? Niente o quasi niente. In cimitero, invece, si capiscono le cose. [...] Il solo modo di sopportare davvero questo genere di vuoto è avere coscienza del nulla, altrimenti la vita non è tollerabile. Ma se hai la coscienza del nulla, tutto quello che ti capita conserva le sue proporzioni normali e non assume le proporzioni folli che caratterizzano l'esagerazione del dolore. (Intervista con Michael Jacob)

Intervista con Fernando Savater

Escribir para despertar, El Pais, 23 ottobre 1977

  • Lo scrivere, per poco che valga, mi ha aiutato a passare da un anno all'altro, perché le ossessioni espresse si attenuano e in parte vengono superate. Sono certo che se non fossi stato un imbrattacarte mi sarei ucciso da un pezzo. Scrivere è un enorme sollievo. E pubblicare anche.
  • Ciò che ho amato innanzitutto della Romania è stato il suo lato estremamente primitivo. Non mancavano, certo, persone civilizzate, ma io preferivo gli illetterati, gli analfabeti...
  • La musica ungherese, tzigana, mi commuove profondamente. Io sono un miscuglio di ungherese e di rumeno. Il popolo rumeno, curiosamente, è il popolo più fatalista del mondo.
  • Io credo che un libro debba essere davvero una ferita, che debba cambiare in qualche modo la vita del lettore. Il mio intento, quando scrivo un libro, è di svegliare qualcuno, di fustigarlo. Poiché i libri che ho scritto sono nati dai miei malesseri, per non dire dalle mie sofferenze, è proprio questo che devono trasmettere in qualche maniera al lettore. No, non mi piacciono i libri che si leggono come si legge un giornale: un libro deve sconvolgere tutto, rimettere tutto in discussione.
  • Credo che la filosofia non sia più possibile se non come frammento. Sotto forma di esplosione. Ormai non è più possibile mettersi a elaborare un capitolo dopo l'altro in forma di trattato.
  • Simmel era uno scrittore meraviglioso, un magnifico filosofo-saggista.
  • La ricerca dell'utopia è una ricerca religiosa, un desiderio di assoluto. L'utopia è la grande fragilità della storia, ma anche la sua grande forza. In un certo senso, è l'utopia a riscattare la storia.
  • La noia è una vertigine, ma una vertigine tranquilla, monotona; è la rivelazione della futilità universale, è la certezza, spinta fino allo stupore o fino alla chiaroveggenza suprema, che non si può, non si deve fare niente né in questo mondo né in quell'altro, non esiste al mondo niente che possa servirci o soddisfarci.
  • Non dimentichi di dire che io sono soltanto un marginale, uno che scrive per svegliare. Lo riferisca: i miei libri aspirano a svegliare.
  • Un libro che lascia il lettore uguale a com'era prima di leggerlo è un libro fallito.

Citazioni su Emil Cioran

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  • Buon Esculapio del Sesto Arrondissement, ruga di tronco solitario, occhio veggente al cannocchiale del mondo da una minuscola mansarda che naviga sopra l'umano e il disumano della città alchemica e sillogizzante. (Guido Ceronetti)
  • Il suo modo di pensare si nutre appunto di infatuazioni, di piccoli dogmi personali e di quelle continue alzate di spalle con cui il parvenu dello Spirito deve sempre dimostrare di essere "il più fine". (Alfonso Berardinelli)
  • Lo squartatore misericordioso. (Guido Ceronetti)
  • La parola chiave qui è "facile". In tutte le geremiadi di Cioran c'è una minacciosa faciloneria. Non c'è bisogno di nessun pensiero analitico profondo, di nessuna particolare familiarità con l'argomento, né di lucidità, per pontificare sul "marciume", sulla "cancrena" dell'uomo e sul cancro terminale della storia. Non solo sono facili da scrivere, ma gratificano lo scrittore con il tenebroso incenso dell'oracolarità. Basta volgersi all'opera di Tocqueville, di Henry Adams o di Schopenhauer per constatarne la drastica diversità. Sono maestri di una chiaroveggente tristezza non meno totalizzante di quella di Cioran. La loro interpretazione della storia non è più rosea. Ma le ragioni che adducono sono scrupolosamente argomentate, non declamate; sono pervasi, a ogni nodo e articolazione delle idee proposte, da una percezione esatta della natura complessa e contraddittoria delle testimonianze storiche. I dubbi espressi da questi pensatori, le riserve che accompagnano le loro stesse convinzioni, rendono onore al lettore. Non pretendono un'ottusa acquiescenza o un'eco compiacente, ma un ripensamento e una critica. (George Steiner)
  1. Dalla lettera a Bucur Țincu da Sibiu del 23 dicembre 1932, in Lettere al culmine della disperazione. 1930-1934, p. 56.
  2. Dalla lettera di Emil M. Cioran a Constantin Noica da Parigi, 1957, in Emil M. Cioran e Constantin Noica, L'amico lontano, pp. 33-34.
  3. Da una lettera a Wolfgang Kraus, Parigi, 18 dicembre 1978, ne L'agonia dell'occidente. Lettere a Wolfgang Kraus (1971-1990), a cura di George Guțu e Gertrude Kothanek, edizione italiana a cura di Massimo Carloni, traduzione di Pierpaolo Trillini e Corneliu Cicortas, Bietti, Milano, 2014. ISBN 978-88-8248-314-2
  4. Dall'intervista di Luigi Bàccolo, Viaggetto letterario a Parigi, L'Approdo Letterario, n. 32, anno IX, ottobre-dicembre 1965, pp. 63-64, approdoletterario.teche.rai.it.
  5. Dalla lettera a Constantin Noica da Parigi, 1957, in Emil M. Cioran, Constantin Noica, L'amico lontano, p. 28.
  6. Da Saggio sul pensiero reazionario. A proposito di Joseph de Maistre, Medusa Edizioni, Milano, 2018, p. 116
  7. 12 giugno 1968, in Antologia del ritratto, 1996.
  8. Dalla lettera a Bucur Țincu del 4 marzo 1932, in Lettere al culmine della disperazione. 1930-1934, p. 48.
  9. Seconda lettera a Carl Schmitt.
  10. Traduzione di Mario Andrea Rigoni; citato in Quaderni dell'Atlante lessicale toscano, volumi 5-8, Leo S. Olschki Editore, 1987, p. 205.
  11. Testo pubblicato nel Corriere della Sera del 15-6-1989. Il titolo è Rencontres avec Paul Celan. Paul Celan ed Emil Cioran si conobbero a Parigi nel 1952. Cfr. Fascinazione della cenere, p. 72. Di Emil Cioran Celan tradusse i Précis de décomposition, (Sommario di decomposizione), uscito presso Gallimard nel 1949. Cfr. Fascinazione della cenere, pp. 45-46.
  12. Cfr. Libro di Giobbe: «Perisca il giorno che io nacqui | e la notte in cui si disse: "È stato concepito un maschio!"».
  13. Cfr. Emily Dickinson: «Se leggo un libro che mi gela tutto il corpo tanto che nessun fuoco potrebbe mai scaldarmi so che quella è poesia. Se avverto concretamente come se il culmine della testa mi fosse strappato via, so che quella è poesia. Sono questi i soli modi che conosco. Non ce ne sono altri.»
  14. In Memorie dal sottosuolo.
  15. In Ecce homo
  16. La citazione è tratta da: Mario Andrea Rigoni, Il funambolo dell'intollerabile, titolo della nota di accompagnamento alla pubblicazione di una Piccola antologia di scritti di Cioran, apparsa in Nuovi Argomenti 65-66, nuova serie, gennaio-giugno 1980 (cfr. nota 14 a pag. 113 di Mon cher ami).
  17. Frase riportata di nuovo nel 1963, con in aggiunta: «Non mi stanco mai di sottolineare questa simmetria.» (p. 177)

Bibliografia

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  • Emil Cioran, Al culmine della disperazione, traduzione di Fulvio Del Fabbro e Cristina Fantechi, Adelphi, Milano, 1998. ISBN 88-459-1414-3
  • Emil Cioran, Confessioni e anatemi, traduzione di Mario Bortolotto, Adelphi, 2007. ISBN 9788845922121
  • E. M. Cioran, Esercizi di ammirazione – Saggi e ritratti, traduzioni di Mario Andrea Rigoni e Luigia Zilli, Adelphi, 2005. ISBN 8845903109
  • E. M. Cioran, Finestra sul nulla, a cura di Nicolas Cavaillès, traduzione di Cristina Fantechi, Adelphi, Milano, 2022. ISBN 978-88-459-8578-2
  • E. M. Cioran, Il funesto demiurgo, traduzione di Diana Grange Fiori, Adelphi, Milano, 20119. ISBN 978-88-459-0645-9
  • Emil Cioran, Fascinazione della cenere. Scritti sparsi (1954-1991), a cura di Mario Andrea Rigoni, Il Notes Magico, Padova, 2005. ISBN 8888341110
  • Emil M. Cioran, Constantin Noica, L'amico lontano, introduzione di Lorenzo Renzi, traduzione di Roberta Ferrara, il Mulino, Bologna, 1993. ISBN 8815038566
  • Emil Cioran, L'inconveniente di essere nati, traduzione di L. Zilli, Adelphi, Milano, 1991. ISBN 8845908704
  • Emil Cioran, La caduta nel tempo, traduzione di Tea Turolla, Adelphi, 1995. ISBN 9788845911538
  • Emil Cioran, La tentazione di esistere, traduzione di Lauro Colasanti e Carlo Laurenti, Adelphi, Milano, 19977. ISBN 88-459-0550-0
  • Emil Cioran, Lacrime e santi, a cura di Sanda Stolojan, traduzione di Diana Grange Fiori, Adelphi, 1990. ISBN 8845907511
  • E. M. Cioran, Lacrime e santi, a cura di Sanda Stolojan, traduzione di Diana Grange Fiori, Adelphi, 2002. ISBN 88-459-0751-1
  • Emil Cioran, Lettere al culmine della disperazione. 1930-1934, a cura di Giovanni Rotiroti, traduzione di Marisa Salzillo, postfazione di Antonio Di Gennaro, Mimesis, Milano – Udine, 2013. ISBN 9788857516417
  • E. M. Cioran, Mania epistolare, traduzione di Raoul Bruni, in Mon cher ami. Lettere a Mario Andrea Rigoni (1977-1990), introduzione e note di Raoul Bruni, traduzione di Mattia Venturato, Il Notes Magico, Padova, 2007, pp. 107-110. ISBN 9788888341156
  • E. M. Cioran, Mon cher ami. Lettere a Mario Andrea Rigoni (1977-1990), introduzione e note di Raoul Bruni, traduzione di Mattia Venturato, Il Notes Magico, Padova, 2007. ISBN 9788888341156
  • Emil Cioran, Quaderni 1957-1972, traduzione di Tea Turolla, Adelphi, 2007. ISBN 88-459-1615-4
  • E. M. Cioran, Sillogismi dell'amarezza, traduzione di Cristina Rognoni, Adelphi, Milano, 20076. ISBN 88-459-0976-X
  • E. M. Cioran, Sommario di decomposizione, traduzione di Mario Andrea Rigoni e Tea Turolla, con una Nota di Mario Andrea Rigoni, Adelphi, Milano, 20053. ISBN 88-459-1247-7
  • E. M. Cioran, Squartamento, con una nota introduttiva di Guido Ceronetti, traduzione di Mario Andrea Rigoni, Adelphi Edizioni, Milano, 2012. ISBN 978-88-459-0459-2
  • Emil Cioran, Storia e utopia, a cura di Mario Andrea Rigoni, Adelphi, 1982. ISBN 9788845905186
  • E. M. Cioran, Taccuino di Talamanca, Ibiza (31 Luglio – 25 agosto 1966), a cura di Verena von der Heyden-Rynsch, traduzione di Cristina Fantechi, Adelphi, 2011. ISBN 9788845925788
  • E. M. Cioran, Un apolide metafisico. Conversazioni, traduzione di Tea Turolla, Adelphi, 2004. ISBN 8845919331

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