Gesualdo Bufalino

scrittore italiano (1920-1996)
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Gesualdo Bufalino (1920 – 1996), scrittore e aforista italiano.

Gesualdo Bufalino

Citazioni di Gesualdo Bufalino

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  • [Su Lillo Gullo] Caro Gullo, è una lieta sorpresa saperLa poeta. E di umorosa bravura, con una propria e ben intonata voce (al di là dei fugaci e veniali imprestiti) fra passione e disincanto. Mi sono piaciute "La scalea della Matrice", "Lo svegliatore monastico", "Sette profumi", ecc. ma tutta la raccoltina è percorsa da un brio che merita un incoraggiamento e un augurio. Con un cordiale saluto, Gesualdo Bufalino. Comiso, dicembre 1995[1]
  • [Su Piero Guccione] Chissà quale raziocinio o istinto, dottrina o presagio spinge un pittore a ritagliarsi questa o quella porzione nella totalità del visibile, per farne il proprio idolo iconico e quasi l'interprete privilegiato nel suo rapporto con l'infelicità della storia. Gli è sufficiente, talvolta, un elemento anche minimo – un manichino, una bottiglia, un muro – ed ecco, in virtù d'un miracolo che non finisce di meravigliarci, vivere in quella presenza, e splendere, il corpo intero dell'universo. Così per Piero Guccione l'albero: la vita, la morte e la passione dell'albero, sotto la specie doppia e contemporanea di creatura vegetale, inscritta all'anagrafe della nomenclatura botanica, e di carrubo-Cristo, emblema e testimonio incarnato del mondo offeso. [...] In Guccione, la pena è moltiplicata: a dargli patimento non è il semplice spettacolo di un'aiola en souffrance, ma quello, più crudo, della terra in pericolo, spogliata, saharizzata, ridotta da verde selva a deserto di dune gialle.[2]
  • Comiso è un paese nell'estremo lembo della Sicilia orientale, cresciuto secolo dopo secolo ai piedi degli Iblei, nel punto in cui il monte perde vigore e s'arrende ai vigneti e ai seminati della pianura. Le case – nane, tozze, ma le rallegra agli stipiti un'improvvisa pergola di gelsomino – in parte salgono verso i primi carrubi della costa; in parte si sporgono sul greto dell'Ippari, ridotto ormai da pozzari e ladri d'acqua a una ruga sottile e secca; in parte fanno ressa e cicaleccio intorno a un'antica fontana. Qui la gente è (ma bisogna forse già dire era) d'indole operosa, di sangue tiepido e savio, non senza qualche goccia di calcolo, di avarizia: disposta perciò a far festa piena, indigestioni comprese, non più di due volte l'anno, in occasione delle solennità rivali dell'Annunziata e dell'Addolorata, e anche allora solo per non sfigurare, nella propria ironia e misura ionica, al paragone con le baldanze della vicina Vittoria.[3]
  • Conviene, a chi nasce, molta oculatezza nella scelta del luogo, dell'anno, dei genitori.[4][5]
  • [Su Leonardo Sciascia] È come se avessi subito un'amputazione e mi svegliassi senza una gamba, senza un braccio, oggi perdo non solo un amico, ma anche un padre, un fratello, un figlio. In tanti anni di amicizia questa è la prima scortesia che mi fa, morire.[6]
  • [Su Fabrizio Clerici] Ecco: davanti a quel brulicante, proteiforme poema che è l'opera di Clerici, gremito di teste-uovo, scatole di sardine simili a bare, cavoli imparruccati come Nobili di Spagna, violoncelli dalle viscere umane, spille da balia e mollette da bucato promosse a fossili, a dolmen... davanti alle tante razze d'uccelli, dei quali nessuno sa dire se siano corpi o larve, uomini o dèi... in presenza, soprattutto, del Minotauro che al centro d'un fatiscente areopago recrimina muggendo la sua sorte d'uomo a metà... ecco, il primo nome che viene alle labbra è Ovidio: un nome , se non erroneo, evasivo. Poiché il poeta latino, nell'esibire le mirabilia del camgiamento, indulgeva volentieri a un'artefatta sorpresa, subito soccorsa, del resto, e rassicurata dal morbido "ron ron" dell'esametro; mentre in Clerici ogni squilibrio, ghiribizzo, spaesamento si tinge a tal punto dei più intriganti allarmi morali da risultarne alla fine un risultato iniziatico, non solo attraverso le biblioteche e i musei, ma giù negl'inferi, dove abitano le Madri; di conseguenza, un'avventura della cultura che fa tutt'uno con un tirocinio della coscienza.[7]
  • Ippari vecchio, bianchissimo greto | a te ho consegnato la mia infanzia, | l'empia novella t'ho raccontato. | Come serpi nelle tue crepe | stanno tutti i miei giorni ad aspettarmi, | sotterrata nell'acque tue | c'è la pietra del mio cuore. || Ippari vecchio, fiume di vento, | voglio un'estate venirti a trovare. || Quanta rena di tempo è volata | fra le tue sponde di luce veloce, | quante tacquero trecce scellerate | ai davanzali che non scordo più | Ah moscacieca d'occhi e di scialli, | ah vaso mio di basilico scuro, | bocca murata dell'amor mio! || Ippari vecchio, fiume ferito, | fammi sentire la tua voce ancora. || Per strade rosse me ne sono andato, | per strade nere ritornerò; | col guizzo estremo d'aria fra le labbra | da lontano il tuo nome griderò. | Arrivare potessi alla tua foce | di crete pigre, di canne dolenti, | dove ti cerca sterminato il mare. || Ippari vecchio, zingaro fiume, | dove tu muori voglio anch'io morire.[8]
  • La mafia sarà vinta da un esercito di maestre elementari.[9]
  • La pittura di Battiato, qualora pretendessimo di canalizzarla in un comodo alveo di neoprimitivismo, dimenticando la ricchezza operativa e intellettuale che la sorregge, rischierebbe di apparirci l'hobby d'un artista episodico e dimezzato; mentre, viceversa, osservandola con tutti due gli occhi, della natura e della cultura, ne vedremo i colori sposarsi affettuosamente alle note, alle parole, alle meditazioni dell'autore e in quest'alleanza, per non dire connivenza, spiegarci la cifra inconfondibile di un'anima.[10]
  • [Su Trapani] La terra del sole e del sale.[11]
  • La vita: uno squarcio di luce che la morte, come una chiusura lampo, fulmineamente richiude.[4][12]
  • [Su Ramón Gómez de la Serna] Le volte (le parecchie volte) che mi succede di star male e di chiedere a un libro non un ennesimo contagio di complice desolazione ma l'inganno di un'euforia, la mano cerca negli scaffali pagine liete: il grande Feydeau, il grande Wodehouse... Se danno poco profitto e il sollievo ritarda, la risorsa suprema è tradurre qualcuna fra le innumerevoli (dodici mila? quindici mila?) greguerías di Ramón Gómez de la Serna. Magro il mio spagnolo, scolastico il vocabolario di cui mi servo, ma bastevoli a fare emergere, parola dopo parola, con lo stesso sfizio che se ne fossi io l'autore, da quei brevi o minimi testi un'acutezza bizzarra, un'analogia strabiliante, uno scatto di elettrico umore, come di fronte a un funambolo che guizzi da un trapezio all'altro, prima di scomparire a rompersi il collo dentro un buco del telone. Poiché questo sono le greguerías: piroette e volteggi mentali, matrimoni morganatici fra creature di sangue diverso, combinati da un mezzano illusionista, dietro i cui passi penetriamo nel più mercuriale degli universi, un luogo ubiquo che è tutti i luoghi e nessuno, e dove fiori, pietre, animali, tavole pitagoriche e abbecedari, meteore e wagons-lits s'intrecciano con allegria, come in una quadriglia di lancieri o in una tela di Mirò. Giochi di prestigio adorabilmente datati, che domandano orecchie e occhi bambini.[13]
  • Non un'Arcadia era certo allora la vita a Comiso, per i tanti che il bisogno sparpagliava nel pulviscolo dei minuti mestieri: il lampiunaru che all'imbrunire, appoggiata la scala al fanale, saliva a suscitarvi con uno zolfanello le solenni meraviglie della luce; per la fimmina r'e sanquetti, pronta ad accorrere al capezzale del pletorico col suo boccale pieno di domestici mostri; per lo scucciarinu che, dopo aver consumato fuorivia su rozze e cani randagi i suoi riti sinistri, tornava in paese portando sulle spalle un sacco di pelli sanguinolente – e lo seguiva, roteando lenta, una nuvola di corvi; per la pilucchera che andava di casa in casa a pettinare e a sciogliere capigliature inestricabili e ferine come criniere; per l' ammola fuoffici e cutedda, aspettato alla finestra con impazienza dalla solerte sartina e dal pensoso assassino... Quanti modi di campare, allora, uno più fantasioso dell'altro: 'u luppinaru, 'u vastasi, 'u gnuri, 'u tincituri... Più in basso, naturalmente, nel girone più nero, c'era il contadino.[14]
  • Se tanto ti turba dover abbandonare una vita minuziosamente infelice, vorrà dire che il bilancio ne è stato, contro ogni apparenza, in attivo; e che il semplice respirare e guardare la luce ti compensò d'ogni strazio. Convinciti dunque, finché respiri e guardi, che sei beato e perfetto: un irripetibile dio.[12]
  • Si moriva facilmente a Comiso, allora. Si moriva quando la piena invernale tramutava i declivi delle strade in alvei di fiumi senza freno, che scalzavano talvolta i muri di tufo e se li portavano via. Si moriva d'inedia e di stenti, come durante la carestia del '95, quando la popolazione si ridusse a nutrirsi quasi esclusivamente di carrube.[15]
  • Si scrive per guarire sé stessi, per sfogarsi, per lavarsi il cuore. Si scrive per dialogare anche con un lettore sconosciuto. Ritengo che nessuno senza memoria possa scrivere un libro, che l'uomo sia nessuno senza memoria. Io credo di essere un collezionista di ricordi, un seduttore di spettri. La realtà e la finzione sono due facce intercambiabili della vita e della letteratura. Ogni sguardo dello scrittore diventa visione, e viceversa: ogni visione diventa uno sguardo. In sostanza è la vita che si trasforma in sogno e il sogno che si trasforma in vita, così come avviene per la memoria. La realtà è così sfuggente ed effimera... Non esiste l'attimo in sé, ma esiste l'attimo nel momento in cui è già passato. Piuttosto che vagheggiare un futuro vaporoso ed elusivo, preferisco curvarmi sui fantasmi di ieri senza che però mi impediscano di vivere l'oggi nella sua pienezza.[16]
  • Sono un sobrio, uno spartano. Tuttavia alla mensa di Leonardo Sciascia posso dire di avere gustato certe delizie paradisiache che mi inducono a tradire i miei principi di vegetariano e di francescano della cucina. Trovo prudente qui constatare un rapporto inverso tra la prurigine, la ricchezza, la succulenza di cibi e la qualità della prosa. Tanto è asciutta e rigorosa la prosa di Sciascia, tanto è invece barocca e ricca la sua cucina. Viceversa io che amo in letteratura le parole preziose, forse per una rivincita dei miei gusti di spartano, mi trovo a gustare alla tavola di Sciascia pietanze che somigliano alla mia scrittura.[17]
  • Tanto più vale un libro quanto più è capace di farsi libro profetico, da interrogare ad apertura di pagina come un mazzo di tarocchi. È un gioco che mi lusingo d'avere inventato e che ho battezzato bibliomanzia. M'ha tradito una sola volta.[18]

Argo il cieco

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Fui giovane e felice un'estate, nel cinquantuno. Né prima né dopo: quell'estate. E forse fu grazia del luogo dove abitavo, un paese in figura di melagrana spaccata; vicino al mare ma campagnolo; metà ristretto su uno sprone di roccia, metà sparpagliato ai suoi piedi; con tante scale fra le due metà, a far da pacieri, e nuvole in cielo da un campanile all'altro, trafelate come staffette dei Cavalleggeri del Re... che sventolare, a quel tempo, di percalli da corredo e lenzuola di tela di lino per tutti i vicoli delle due Modiche, la Bassa e la Alta; e che angele ragazze si spenzolavano dai davanzali, tutte brune. Quella che amavo io era la più bruna.

Citazioni

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  • Un teatro era il paese, un proscenio di pietre rosa, una festa di mirabilia. E come odorava di gelsomino sul far della sera. Non finirei mai di parlarne, di ritornare a specchiarmi in un così tenero miraggio di lontananze... (p. 12)
  • [...] volle venire con noi a Ispica, a visitare la Cava, una valle lunga e magra, bucherellata di grotte antiche e sacelli. [...] Noi ci spingemmo avanti, catecumeni di un felice e verde Al di là. [...] Mentre qui, lungo le diserbate muraglie, un intreccio si svolgeva di tunnel e oblò offerti alle allegrie della luce; né c'era veduta o figura che non persuadesse quietamente di vivere. [...] dentro la necropoli più capace il lezzo era opaco come in un'antica cantina, rabbrividimmo nelle nostre membra sudate. Ci muovevamo a piccoli balzi, scansando i loculi vuoti. Uno la sedusse, minore, accanto a un altro maggiore. "Una bambina e suo padre" supposi io. "La sposa bambina di un re" mi corresse. (p. 104)

Bluff di parole

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  • C'è chi viaggia per perdersi, c'è chi viaggia per trovarsi. (p. 9)
  • Sono (presumo d'essere) onesto. Si rischia qualcosa, di questi tempi. Oggi l'onestà è una dote losca, più assai dell'intelligenza. Abituarsi a nascondere entrambe. (p. 9)
  • Fascino binario del gioco, fra il piacere del vincere e l'estasi del perdere, sfogo d'aggressione amorosa e pulsione infrenabile di morte. (p. 10)
  • Oggetti di tenerezza: le comparse nei film americani degli anni Trenta, i dischi a 78 giri, i calendari degli anni passati... (p. 10)
  • Se una lezione ho imparato riguardo a questa cosa strana che è la vita, è che conviene viverla come se... Come se fossero reali tutte le larve che ci siamo inventate (amore, amicizia, famiglia, gloria, Dio...), di cui si maschera il niente. (p. 10)
  • La luna è cattolica, il sole è mussulmano. (p. 11)
  • Scrivere: contravveleno o veleno? (p. 11)
  • Peccato che i delitti meglio eseguiti, i delitti perfetti, insomma, siano rimasti privi di firma; e che gli autori in cambio d'una banale impunità abbiano perso la gloria. (p. 11)
  • Mi è impossibile amare una donna che non mi ami. Potrei esserle amico, ma niente di più. Ogni donna che non mi ama è un uomo. (p. 12)
  • La poesia fu nell'infanzia una pratica furtiva, mi nascondevo nel cesso, mi sentivo colpevole. Scrivere da allora significò vergogna, infrazione, empietà: un vizio solitario che, come l’altro, aveva per confuso traguardo la morte. (p. 16)
  • Sirene: Vissero feroci e stupende. Una laringite le vinse. (p. 16)
  • Indovinello: Un servo sciocco, infedele, bugiardo, che alla fine ci abbandona, nudi vermi di niente, senza un saluto... Il corpo. (p. 16)
  • Irresponsabile della mia nascita, ho un alibi di ferro: non c'ero. (p. 16)
  • Simile a un colombo viaggiatore, il poeta porta sotto l'ala un messaggio che ignora. (p. 20)
  • La speranza: ricorrente febbre di Malta di cui non sapremo mai guarire del tutto. (p. 20)
  • Insufficienza dei trattati d'amore. Ciascun sapiente, senza accorgersene, discetta del solo amore che conosce: il proprio. (p. 22)
  • Chi si leva dal letto perché soffre d'insonnia, non merita quel privilegio. I nottambuli sono dei disertori. (p. 23)
  • Inquilini della terra, non è carino che ci diamo tante arie di proprietari. (p. 23)
  • Chissà dove vanno i sogni che sogniamo e dimentichiamo: Atlantidi sommerse e perse che non visiteremo mai più. (p. 23)
  • Una trappola in cui i siciliani cadono volentieri: pretendere di capire la Sicilia prima di capire sé stessi. (p. 23)
  • Il creato è un'antologia di figure retoriche. Esso per primo è, insieme, un usteron proteron e un ossimoro. (p. 23)
  • Morire è facile, prima o poi ci riescono tutti. (p. 23)
  • Le Pasque, i Ferragosti, i Natali... I Natali, le Pasque, i Ferragosti... Così se ne va la nostra vita. (p. 24)
  • Gli orgasmi senili, per rari e difficoltosi che siano, sono di specie migliore che non le rapide effusioni di gioventù. Sismi ondulatorii più che sussultorii, prodighi d'una protratta, quasi femminea, voluttà. (p. 24)
  • Chiunque pronunzi la parola "imbecille" è certissimo di non esserlo. (p. 25)
  • Quando sono in compagnia parlo e straparlo a dirotto. Non è che mi piaccia, ma non conosco altro modo per impedire agli altri di parlare. (p. 25)
  • Autoritratti: Quel pittore non è poi così brutto come si dipinge. (p. 25)
  • Colma di troppi ricordi, rimorsi, libri, viste, visioni, ormai la mia vita è una valigia che non si chiude. Qualcuno mi dà una mano? (p. 26)
  • Elezioni: Il sonno è di destra, il sogno è di sinistra... Votare per una lucida insonnia. (p. 26)
  • Non maledire il gradino dove inciampi col piede. Non ha altro torto se non d'essere lì. (p. 27)
  • Essere non comporta necessariamente l'esistere: Dio non esiste ma è. (p. 27)
  • La vita non mi ha licenziato; m'ha solo messo in cassa integrazione. (p. 27)
  • Le sale d'attesa degli ospedali non indicano prudentemente che cosa dobbiamo attenderci. (p. 28)
  • Se gli uomini impiegassero per il possibile la metà delle forze che sprecano per l'impossibile... (p. 29)
  • Battaglie: La ragione vince tutte le scaramucce. Vincesse una battaglia ch'è una! (p. 29)
  • La poesia, venerando ma sfacciato commercio di sé... (p. 32)
  • Un ucciso, sepolto sulla sponda di un fiume, aspetta da secoli di veder passare la spoglia del suo assassino. (p. 32)
  • Conversando, sforzatevi di dire di tanto in tanto una banalità. L'amor proprio di chi vi ascolta ve ne sarà riconoscente. (p. 33)
  • Una donna dev'essere molto bella per permettersi la verginità. (p. 34)
  • E dire che io e lui abbiamo un nemico in comune: lui me, io pure. (p. 34)
  • Più m'incaponisco a capirle, più vita e letteratura mi paiono le due facce d'un medesimo abrakadabra. (p. 34)
  • Uno dei miei pochi piaceri: dispiacere a chi non mi piace. (p. 35)
  • Metamorfosi del critico: fu un tempo giudice areopagita; quindi patrono; quindi complice e sodale dello scrittore. Oggi, novanta volte su cento, mezzano e giullare del re. (p. 35)
  • Non è l'affievolirsi della vista, dell'udito, della memoria, della libido che segna l'avvento della vecchiaia e annunzia la prossima fine; ma è, dall'oggi al domani, la caduta della curiosità. (p. 37)
  • Controfavola: "Il re è nudo!", gridò il bambino. Non era vero, ma nessuno della folla ebbe cuore di contraddire un bambino cieco.[19] (p. 37)
  • È colpa nostra se Dio non esiste. (p. 38)
  • Sono gli uomini che hanno dissuaso Dio dall'esistere. (p. 38)
  • L'abito non fa il monaco. Il clergyman meno che mai. (p. 40)
  • [...] l'odio differisce dall'amore in questo: che, pur pascendosi in ugual misura di finzioni e visioni, non suscita veglie affannose ma un salutare sopore, dove trionfano lietamente i fantasmi della vendetta. (p. 40)
  • L'amore: a guardarlo da fuori un teatro di larve comicoliriche, di batticuori inventati, tutta un'orchestra di trombe e violini, col basso tuba dell'eros che accompagna da lontano. (p. 42)
  • I sogni: spazzatura della ragione. (p. 42)
  • In alternativa al suicidio, che esige qualche virtù manuale e morale di difficile uso, ammutinarsi contro la vita. (p. 42)
  • Tiro ogni giorno contro me stesso cento calci di rigore. Grazia o disgrazia, prendo sempre il palo. (p. 42)
  • L'essere più spregevole, se lo penso mentre rincasa solo alle tre di notte e si guarda il viso disfatto nello specchio dell'ascensore, come lo sento fratello e socio in miseria, innocenza, desolazione, pietà! (p. 42)
  • Biografia: Nacque, omissis, morì. (p. 43)
  • Un aforisma benfatto sta tutto in otto parole.

Calende greche

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  • I vincitori non sanno quello che perdono. (p. 178)
  • La vita: un menabo della morte? (p. 181)
  • Vivere: uno spiraglio di luce intrusa, che la morte, come una chiusura lampo, fulmineamente richiude. (p. 181)

Cere perse

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  • Leggere non servì soltanto da risorsa conoscitiva, utile a esplorare, dal fondo del mio pozzo buio, il più che potessi del lontanissimo cielo: significò soprattutto mangiare, saziare una mia fame degli altri e delle loro vite veridiche o immaginarie: dunque fu, in qualche modo, una pratica cannibalesca. (Leggere, vizio punito, p. 25)
  • Forse in questo momento in un'aula d'asilo si stanno rifiutando di imparare le aste i futuri incendiari di biblioteche. (Leggere, vizio punito, p. 26)
  • «Refuso» recita il Tommaseo «dicesi della stampa andata a male, onde tutte le lettere sono in confuso». In parole spicce il refuso sarebbe un puro incidente tipografico al quale chi scrive è meglio che si rassegni in anticipo, senza conferirgli nessuno stemma di persecuzione o di sgarro metafisico. Qui sta il mio debole, invece. Nel sospettare in ogni insurrezione dell'alfabeto un complotto contro di me, diretto da un innominato in camice da lavoro, un tizio dalle mezze maniche, comunque si chiami, proto o linotipista: in realtà un nebbioso tiranno che ha preso a malvolermi sin dal principio. (L'inchiostro del diavolo, pp. 33-34)
  • Non erano popolari, i tedeschi, a Comiso, nel '42. Non che facessero o dicessero nulla di troppo sbagliato, da meritare un Vespro (salvo che chiamare Komìso, il paese). Ma il modo come guardavano diritto davanti a sé, la calcolata arroganza del passo quando fendevano i crocchi di scuri, piccoli contadini raccolti attorno alle dodici cannelle della fontana, tutto certificava che non ci amavano e che sentivano di non essere amati. (Notizie da Cruisetown, p. 71)
  • Un libro non è soltanto, o non è sempre, un tempio delle idee o un'officina di musica e luce, è anche un luogo oscuro di sfoghi e di rimozioni, dove si combatte un duello senza pietà, con la sola scelta di guarire o morire. (Ostaggio dello spavento, p. 95)
  • Il fatto è che nell'ingegneria narrativa conta specialmente la virtù che taluno vantò nel Borromini: dell'ornato che sappia farsi funzione, al punto che, se mancasse l'edificio crollerebbe. È il caso dell'Orca [a proposito di Horcynus Orca di Stefano D'Arrigo], mi sembra, e il libro ritorna oggi per la necessaria verifica. Vogliamo riaprirlo senza pregiudizi, vincere una buona volta le resistenze della cattiva coscienza? Vogliamo provare a dedicargli, infine, lo stesso allarme e rispetto che se fosse tradotto dall'inglese? (Codicillo a D'Arrigo, p. 890, 2001)

Diceria dell'untore

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O quando tutte le notti – per pigrizia, per avarizia – ritornavo a sognare lo stesso sogno: una strada color cenere, piatta, che scorre con andamento di fiume fra due muri più alti della statura di un uomo; poi si rompe, strapiomba sul vuoto. Qui sporgendomi da una balconata di tufo, non trapela rumore o barlume, ma mi sorprende un ribrezzo di pozzo, e con esso l'estasi che solo un irrisorio pedaggio rimanga a separarmi... Da che? Non mi stancavo di domandarmelo, senza però che bastasse l'impazienza a svegliarmi; bensì in uno stato di sdoppiata vitalità, sempre più retratto entro le materne mucose delle lenzuola, e non per questo meno slegato ed elastico, cominciavo a calarmi di grotta in grotta, avendo per appiglio nient'altro che viluppi di malerba e schegge, fino al fondo dell'imbuto, dove, fra macerie di latomia, confusamente crescevano alberi (degli alberi non riuscivo a sognare che i nomi, ho imparato solo più tardi a incorporare nei nomi le forme).

Citazioni

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  • Non mancava molto ormai: già erano scomparse l'incredulità e la vergogna dei primi tempi, quando ogni fibra è persuasa ancora d'essere immortale e si rifiuta di disimpararlo (p. 15)
  • Bene, il falso o vero nobiluomo Gran Magro era il solo fra i medici della Rocca, all'infuori di quell'altro a cui toccava il turno di guardia, che restasse a dormire ogni notte con noi (della moglie s'era diviso anni prima; una siracusana di spaventosa bellezza, sulla cui foto sputava, dicevano, tutte le mattine, prima di lavarsi), (p. 19)
  • Oh sì, furono giorni infelici, i più felici della mia vita. (p. 26)
  • Andare fra la gente, giù in città, portarsi addosso il cencio del corpo, questa somma insufficiente di lena e di sangue, in mezzo ai sani della strada, atletici, puliti, immortali... (p. 39)
  • Qualunque cosa faccia, dovunque vada, un pensiero mi conforta: sono un uomo involontario, dunque sono un uomo innocente. (p. 47)
  • Il peccato: inventato dagli uomini per meritare la pena di vivere, per non essere castigati senza perché. (p. 47)
  • Come s'affonda in un legno un chiodo, a piccoli colpi, la morte... (p. 47)
  • Il vino della messa è nero, un vino forte di Salaparuta che mi danno in cucina. Vino denso, dalle vene di un Dio saraceno, e che opera all'istante. Me n'accorgo in sacrestia, quando lo rivomito, dopo un colpo di tosse, fra le cocche del fazzoletto. (p. 49)
  • Solo l'infelicità è degli uomini, la disperazione è di Dio. (p. 49)
  • Dio, gigantesco eufemismo. (p. 49)
  • E se fossimo solo il Suo peccato originale, l'infrazione, la mela che non doveva mangiare? (p. 50)
  • La morte naturale non esiste: ogni morte è un assassinio. E se non si urla, vuol dire che si acconsente. (p. 50)
  • Giunse così mezzogiorno, e cercammo una trattoria, dove, sospesa su una portata, e squadrando il cucchiaio che teneva in mano, Marta ricominciò a parlare, adagio, fra due puntate di tosse:
    «Sì, l'analisi mi rassicura, dicono che fanno uscire solo i puliti. Eppure io sento, io so, che ogni mio fiuto è un veleno, che tutto quanto tocco o mi tocca s'infetta. Anche quello stipite del Politeama, poc'anzi. Anche questa posata. E sento, so, di spargere e ungere dappertutto la morte, su intonaci, tovaglioli, orli di piatto. A volte mi viene un'idea: di usare di proposito un tale onnipotente potere d'incubazione e di semina: mi vedo entrare in una casa; e sia una casa felice; mi vedo sputare con diligenza ai quattro canti di ciascuna stanza, su una federa, su un biberon... Chissà, un'idea così, col suo intreccio di bambinaggine e nefandezza, che semi l'hanno nutrita in me fino a farla salire alla luce; da quali catacombe e sconosciuti Piombi è fuggita... M'incuriosisco di me sempre di più». (pp. 119-120)
  • O disgraziato Giufà, rinsavisci ormai,
    e se una cosa è perduta, non stare a sperare che torni.
    Giorni belli ne avesti, e, si suppone, anche notti.
    Ora lei più non vuole. Tu fa' lo stesso, Giufà;
    sta sulle tue, non vivere infelice.
    Lesbia peggiora, ma tu non stai meglio,
    né fra i vivi sei altro che solamente un ostaggio.
    Bada: il ludo d'amore alle flussioni di petto non giova, né ti scherma dall'omicida lombrico,
    m'intendi?, l'omicida lillipuziano girovago
    (Cfr. re orso, passim, Universale Caddeo).
    Basta, lasciala in pace. Ché, se mi spazientisco,
    pedicabo atque inrumabo. (p. 149)

Mi sarebbe rimasta poi sempre negli occhi così, la vecchia arca in disamro, senza una luce a bordo né un rumore, se non quello di una tosatrice invisibile che radeva l'erba dietro il garage; così l'avrei sempre rivisto nei miei sogni futuri: un livido colombario di pietra, una carena di bastimento, incagliata per l'eternità fra le radici dei rampicanti, col suo carico d'annegati. Io ne ero evaso, per chissà quale disguido o colpo felice di dadi, ma, anche se salvo, più derelitto e più triste. Simile a un vetro ragnato, a un parabrezza scheggiato da un sasso; ricco, ma d'una ricchezza furtiva e inusabile, moneta di mala zecca; giovane solo a metà, e vecchissimo l'altra metà, sarei ora disceso fra gli uomini. M'aspettava una vita nuda, uno zero di giorni previsti, senza una brace né un grido. Uscire mi toccava dalla cruna dell'individuo per essere uno dei tanti della strada, che amministrano umanamente la loro piccina saviezza d'alito e d'anni. Ma, allo stesso modo dell'istrione in ritiro che ripone nel guardaroba i corredi sanguinosi di un Riccardo o di un Cesare, io avrei serbato i miei coturni, e le tirate al proscenio dell'eroe che avevo presunto di essere, in un angolo della memoria. Per questo forse m'era stato concesso l'esonero; per questo io solo m'ero salvato, e nessun altro, dalla falcidia: per rendere testimonianza, se non delazione, d'una retorica e d'una pietà. Benché sapessi già allora che avrei preferito starmene zitto e portarmi lungo gli anni la mia diceria al sicuro sotto la lingua, come un obolo di riserva, con cui pagare il barcaiolo il giorno in cui mi fossi sentito, in séguito ad altra e meno remissibile scelta o chiamata, sulle soglie della notte.

Dizionario dei personaggi di romanzo

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Citazioni

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  • Don Chisciotte. Uno dei massimi emblemi letterari d'ogni epoca. Templare e romeo dell'ideale, indeciso fra realtà e visione, dissennatezza e senno, lacrime e umore; lirica marionetta che rimette ogni volta a posto i suoi pezzi bastonati e malconci dopo l'ennesima testarda collisione coi giganti a vento e le nuvole... Questo e mille altre cose ancora: metafora di libertà, battista e cristo di hispanidad, ossuto spettatore-attore di un universale teatrino di Maese Pedro; l'unico, insomma, per cui si possa dire, contro Goya, che il sonno della ragione genera angeli. (p. 35)
  • Sancio Panza. Santificazione del servo di commedia di spalla buffa ad accolito e apostolo del suo signore, Sancio fa più che accompagnarne col suo controcanto in prosa le vertiginose sublimità; bensì lui stesso, com'è stato detto, si «chisciottizza» tanto quanto l'altro si «sancifica», generando in sua complice compagnia quell'esemplare ircocervo errante che solo scioglierà la morte. (p. 38)
  • Bertoldo. Un Sancio nostrano, sprovvisto, però, di quella fonda tristezza campesina, Bertoldo impersona tutta l'antica sapienza e grammatica del vissuto popolare, come se l'eran costruita lungo i secoli, a costo di lividure e guidaleschi, i pazienti analfabeti del Quarto Stato. Esule alla corte dei potenti, sottratto alla sua dieta di rape e di ventosi fagioli, Bertoldo non può che morire. (p. 41)
  • Gulliver. L'uomo sulla terra, e la sua fisima pazza di credersi la misura di tutte le cose... il suo risibile smaniare dietro nuvole e ombre di nuvole... Sballottato dalla splendida atrabile del Decano irlandese a visitare, 150 anni prima di Alice, un mondo di meraviglie, Lemuel Gulliver esperisce non senza qualche britannico understatement la sconcertante relatività delle sue membra. Presto però il suo viaggio si fa viaggio all'Inferno, diventa parabola e travestimento di una disperazione senza sorriso. (p. 62)
  • Don Abbondio. Personaggio di tragico umore, povera animula prigioniera nella cruna di un secolo di ferro. O còmpiti, passeggiando, il breviario; o conti berlinghe; o legga di misteriosi Carneadi; o bruci, «stoppino umido», alla vampa d'una grande torcia; sempre Don Abbondio offre l'immagine di una quiete in bilico, d'un idillio timido dei nervi su cui sta per schioccare l'imprevisto colpo di frusta della paura: paziente e martire d'un vangelo del mondo che l'autore, mentre lo rifiuta, accompagna con un sorriso serio. Come chi (c'è bisogno di aggiungerlo?), in un angolo buio di sé, almeno una volta, se n'è sentito tentare. (p. 138)
  • Gertrude. Gran viso ovale e pallido fra le bende allentate ad arte, la sventurata Gertrude sconta le viltà degli altri, del suo tempo, e sue, secondo una traiettoria prevedibile e ferma. Gl'impulsi del troppo debole sangue, i contegni imposti, le cerimonie della storia, tutto congiura a chiuderla nella trappola del suo delitto. Esempio – che il Manzoni reinventa, e su cui si china con angoscia, stupore e misericordia – della cesura minima che separa, l'una dall'altra, le responsabilità di ciascuno. (p. 142)
  • L'Innominato. Montuoso e solitario, come il suo castello, il brigante innominato. Senza un amico né una donna. Con mani e sogni sporchi di sangue ma, nel cuore, un'«uggia» misteriosa, e insieme un barlume di bene e una nostalgia, come «la rimembranza della luce in un vecchione accecato da bambino» (detto per altri, ma vale per lui). Da qui la sua interminabile notte di passione, la sua doglia impervia e dolorosa, finché, in un'alba di cenere, l'uomo nuovo venga alla luce. Splendida rivitalizzazione d'un usato stereotipo gotico, nel segno di una coscienza religiosa che fra fede e ragione non esita a scegliere entrambe. (p. 145)
  • Prestate a Julien Sorel un aiutante di campo come Vautrin e uno scacchiere di battaglia più ricco che non sia la Franca Contea; non gli manchi la prestanza, il gusto del conversare, un guizzo d'ironia come maschera d'una avidità animale («bramò... il potere dell'aquila, che strappa dalle pianure sino al suo nido la capretta bianca ancora dalla sua poppa»), gli si conceda (non guasta) qualche scrupolo di tanto in tanto, a salvaguardia d'un protagonismo dove il lettore si riconosca; abbia (paga una donna ricca, non è magnifico?) un alloggio, una carrozza, qualche vestito di gran sartoria... Cosa manca perché, lanciata la sfida, Eugenio de Rastignac inizi la sua Campagna d'Italia? (p. 159)
  • Mesmeriche Ligeie, cavalli a galoppo nella tempesta, specchi abitati da ombre, Morti Rosse e Pesti truccate da re... Ma l'iconografia gotica, più che un'eredità di spaventi scolastici è in Poe il suo stesso cardiogramma, mentre soccombe al mal di mare dell'invisibile. Lui che pretendeva di mettere le briglie al caos, di costruire ua poesia come si costruisce, con regolo e filo a piombo, un casa... E allora si veste da Auguste Dupin, e con l'aiuto dell'ultimo pezzetto di cervello che l'alcool gli ha risparmiato, traccia su una lavagna la grande superstite sezione aurea di una verità di ragione. (p. 175)
  • La tracotanza allegra di D'Artagnan, la sua povertà, i suoi pennacchi... Quante adolescenze ci si sono impennacchiate allo specchio! Convinte che, il torto e il diritto, basti un colpo di spada a spartirli; e che la via sia una festa e giostra di creste, sproni e chicchirichì. E tuttavia il guascone non è un innocente: il suo liscio coraggio, la sua bravura professionale di ammazzasette, la lealtà melodrammatica ai riti dell'onore e dell'amicizia, non sono senza qualche spirito e controcanto ironico, tragico addirittura: come quando dalla sponda del fiume vede levarsi sotto la luna la mannaia del carnefice sulla gola pallida di Milady. (p. 186)
  • «A Novel without a Hero»: il sottotitolo di Vanity Fair parrebbe volerci tagliare le gambe. Ma vuol solo dire che qui, nella fiera, non sono in vendita i soliti eroi tutti d'un pezzo, le adamantine o nefande anime romantiche, ma si esibisce la guerra tutta, il cinema inesauribile dei sentimenti, così come pulsa e brulica in uno, due, cento esseri vivi. In Amelia e Becky, per esempio: l'una docile, fedele, abbandonata ai propri moti dell'animo; l'altra spregiudicata, combattiva, sinuosa, una forza della natura nel suo vitalismo da piccola belva. (p. 193)
  • «Tutti gli oggetti visibili, amico, sono solo maschere di cartone» ci avvisa Achab. E noi chiediamo: chi è Achab, chi è Moby Dick? Un demone e un dio, certo, ma come si scambiano le parti? O non sono forse demoni entrambi, entrambi dii? A meno che non recitino solo l'avventurosa fiaba d'una balena e d'un pescatore di Nantucket, un vendicativo scorridore d'oceani, sul cui capo turbinano le bibliche ossessioni di chi ha vegliato troppo sul Libro di Giona. Non importa: a noi lettori di quindici o sessant'anni basta solo il picchio sul cassero di quella gamba d'avorio in osso di capodoglio; e il subitaneo sparire e ricomparire, fra due spume bianche, d'una groppa bianca, irta di ramponi spezzati, dannata a non poterne morire. (p. 205)
  • Coi «Miserabili» la società, e sia pure secondo scenogrammi di esorbitante teatro, si processa allo specchio, e si vede brutta. Jean disegna così, con le sue spalle di scaricatore e la sua sostanziale malinconia, una parabola-tipo di ingiustizia, sofferenza e redenzione, da Valjean a Madeleine a Fauchelevent a Leblanc. Vittima della macchina civile, ma forse è più giusto dire bullone spanato nell'ingranaggio, egli porta in una Parigi di palazzi e di fogne la sua solitudine di malfattore braccato e martire, a cui alla fine non mancherà una morte edificante per essere santo. (p. 224)
  • [Su Gavroche, personaggio de I Miserabili] Statuetta del monello parigino, cencioso miscuglio di bambino e di adulto, insegna di arroganza festosa e di causticità meloeroica. Di lui è giocoforza ricordare il pittoresco abitacolo in Piazza della Bastiglia, nel ventre dell'elefante; e il suo morire, come se provasse un giocattolo nuovo, e sfiorando con grazia l'enfasi del sublime, davanti alla barricata di Via Chauvrière. (p. 228)
  • L'adolescenza amorosa di Natascia, e i baci rubati, le corse in slitta, i giochi con la neve, gli abiti di raso, il caro babillage con le amiche... Natascia al ballo 1810, come la ricorda, nella sua tenda di ferito, Andrea a Borodino: «col suo collo sottile, il volto felice e spaventato, pronto all'entusiasmo»... (p. 237)
  • Alice è volta a volta gigantessa e nana, nell'al di là, pozzo o specchio, dove un sonno-sesamo l'ha precipitata. Le presenze adorabili e inverosimili che le tocca riconoscere, come si sfogliano le immagini di un bestiario a colori o le reliquie d'un incantesimo, non servono che a far da platea al suo duello pacifico con l'insensatezza speculare del vocabolario e del mondo. Sicché è senza paura che la vediamo, sotto l'occhio fotografico del reverendo, incamminarsi a prendere in una radura il tè del cappellaio matto. (p. 242)
  • Raskolnikov rivede in sogno la stanza dell'usuraia e vi sente una mosca ronzare. È lui la mosca fra quattro mura, che la tarantola Porfirio, gran poliziotto d'anime, aspetta nella sua tela. Ma il giovane egolatra, erede di Sorel e Rastignac nel teorizzare il napoleonico diritto al delitto, finirà pubblico penitente sulla piazza Sennaja ed ergastolano redento fra i reietti più reietti della terra. (p. 246)
  • Svegliarsi una mattina cambiati in un sozzo insetto, e a chi non è successo una volta? Gregorio Samsa, dunque, se ne stupisce meno che non ne soffra. Gli toccherà assuefarsi a convivere con questa infezione nascosta, esiliarsi nella vergogna delle sue inette e striscianti zampine, finché la morte non lo consoli: metafora di uno stato di alienità e solitudine senza speranza, da cui si leva, fra macchie di escrementi e bave, pietosamente un'implorazione. (p. 371)
  • La famiglia, la chiesa, la patria: triplice odiosamato Minotauro a guardia del labirinto dove il giovane artista, guardando il cielo, prova in segreto le sue ali di cera. Né saprà mai cancellarsi appieno dallo spirito, anche quando avrà rifiutato di pregare al capezzale della madre morente, quelle stimmate aquinati e cattoliche, o il ricordo della folla in preghiera ai funerali di Parnell. Per intanto egli cresce fra sozzure ed estasi, nere pozze di vita e ineffabili epifanie, ignaro ancora se il suo destino avrà nome dal martirio di Stephen o dall'evasione di Dedalo. O se l'aspetta in fondo alla via una lapide con su scritto: Stefano Icaro. (p. 393)
  • Il 16 giugno 1904 Ulisse-Bloom esce di casa per affrontare, come ogni giorno, i lestrìgoni e le nausiche della sua vita. È un ebreo, un segnato: che s'è convertito, ed è dunque segnato due volte. Aveva un figlio, e l'ha perduto; ha una moglie, ma ne è tradito. Eppure non è un uomo infelice. Ma, spontaneo o ipocrita, cavalleresco o sordido, porta a spasso per una Dublino ch'è la stessa città dell'universo, con purgatori, inferni e paradisi senza numero, il suo tondo famelico occhio, i suoi sensi in allarme, la sua coscienza brulicante e inesausta, la forza cordiale di cangiare la sua meschina giornata in una leggenda tragicomicoeroica. Come vorrebbe, e non sa, ciascuno di noi. (p. 406)
  • I personaggi dell'Ulysses, parola di Svevo, camminano «col teschio scoperchiato». Diversamente lui, Zeno Cosini, uomo cosa, uomo di troppo, quanto più sembra frugarsi e svelarsi, tanto più si nasconde dietro malefedi e schermi d'umore, coltivando – in guerra col medico che potrebbe, magari, guarirla – la sua nevrosi come un privato vizio da camera. Eroe rovesciato di un'esistenza d'atti mancati e disguidi, al quale rimane un sogno soltanto, di giudizio e salvezza universale: la terra che galleggi, esplosa e vacante d'uomini, nel silenzio degli spazi purificati. (p. 419)
  • [Sul Commissario Maigret] Un poliziotto che ha famiglia, dopo tanti implacabili celibi. Con la sua pipa, i grandi fazzoletti, le scarpe campagnuole, da veterinario o curato, con cui batte il pavè color ferro di una Parigi di piogge e soli, da un bistrò a una portineria, per scale che stillano confessioni da tribunale, fra mura che nascondono grida e grovigli di vipere quiete. Senza abboccare mai alle esche inique dell'immaginazione, alle lusinghe a volte fallibili della ragione: ma lasciandosi impregnare naso e cappotto dagli odori decisivi del delitto. E allora, con tristezza, con dura pietà, lo colpisce. (p. 448)

Il malpensante

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Gennaio

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  • Exercitum in hiberna deduxit, condusse le truppe nei quartieri d'inverno... Così Cesare termina ciascuno dei commentari gallici. È probabile che aspettasse quei giorni d'ozio e quella luce di neve per dettare le sue gesta a uno scriba. Altrettanto dovrebbe ciascuno di noi, serbando all'azione le rimanenti stagioni. (p. 9)
  • Solo negli empi sopravvive oggigiorno la passione per il divino. Nessun altro si salverà. (p. 9)
  • L'immaginazione è "la pazza di casa"[20], m'insegnarono al liceo. La realtà è peggio, risposi: è la scema del villaggio. (p. 9)
  • La morte è uno sverginamento. Portasse anche a una gravidanza! (p. 10)
  • Morire. Non fosse che per fregare l'insonnia. (p. 10)
  • Nascere è umano, perseverare è diabolico. (p. 10)
  • "Mi spaventa possedere chi amo, mi spaventa amare chi possiedo." Così disse Adamo e spartì eros e amore. Ma Eva non era contenta. (p. 10)
  • Bisogna che abbiamo un'idea molto primitiva dell'eternità se facciamo tanto caso del morire a trenta o a cent'anni. (p. 11)
  • Il sonno è amore di morte, l'insonnia paura di morte. (p. 11)
  • Metà di me non sopporta l'altra e cerca alleati. (p. 12)
  • E se Dio avesse inventato la morte per farsi perdonare la vita? (p. 13)
  • L'amore, come ogni buon rigorista, prima di tirare non piglia troppa rincorsa. (p. 13)
  • Metri, metronomi, meridiane... L'uomo presume, misurando lo spazio e il tempo, di vincerli, mentre sono essi che misurano lui. (p. 13)
  • Morire sarà, su per giù, come quando su una vetrina una saracinesca s'abbassa. (p. 14)
  • Un'idea innaffiata dal sangue dei martiri non è detto che sia meno stupida di un'altra. (p. 15)
  • Dev'esserci un motivo se fu scelto il cavolo a fingere il sito della generazione. (p. 15)
  • Vi sono due razze di stupidi: quelli che credono a tutto e quelli che non credono a niente. Purtroppo io appartengo a entrambe. (p. 16)
  • La parola è una chiave, ma il silenzio è un grimaldello. (p. 17)
  • Fra imbecilli che vogliono cambiare tutto e mascalzoni che non vogliono cambiare niente, com'è difficile scegliere! (p. 17)

Febbraio

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  • I pregiudizi han più sugo, talvolta, dei giudizi. (p. 19)
  • Hic: lo spazio; Nunc: il tempo. Due tappeti volanti, due scale mobili su cui immobile avanzo. E Zenone non mi aiuta. (p. 19)
  • Se Dio esiste, chi è? Se non esiste, chi siamo? (p. 19)
  • Le dissi che l'amavo. Incassò la notizia come uno chèque. (p. 19)
  • Siamo i ricordi di Dio? Siamo le sue traveggole? (p. 20)
  • Lodato sia don Chisciotte! Che seppe con tanto anticipo di secoli riconoscere un furibondo gigante sotto la maschera di un innocente mulino. (p. 20)
  • Non sono complicato, ma contengo una dozzina di anime semplici insieme. (p. 20)
  • So di anime che ai ricordi si consegnano come una fortezza di vigliacchi apre le porte al nemico. (p. 21)
  • Non c'è scrittore che non somigli al serpente dell'Eden. Solo che spesso la mela è marcia. (p. 21)
  • I ricordi ci uccidono. Senza memoria, saremmo immortali. (p. 21)
  • È un bluff? Non è un bluff? Fra poco muoio e lo vedo. (p. 22)
  • Scrivere è continuare, inseguire al di là della tenebra quel fanalino fuggente che è l'uomo. (p. 22)
  • Com'è che, esente da segreti vergognosi, tutta la mia vita mi pare un segreto vergognoso? (p. 23)
  • Molte donne si vestono bene, ma tutte si spogliano male. (p. 24)
  • È più facile amare gli altri che . Degli altri si conosce il meglio, l'antologia... (p. 24)
  • I giovani hanno mangiato i vecchi. Quanto a digerirli... (p. 24)
  • Per distrarsi dalla morte l'uomo inventò la storia, questo happening da un soldo. (p. 25)
  • In ogni buongustaio sonnecchia uno sciocco. Svegliatelo se volete che il pranzo passi in fretta. (p. 26)
  • Scrivo poesie che si capiscono, devo sembrare un cavernicolo. (p. 26)
  • Resta dubbio, dopo tanto discorrere, se le donne preferiscano essere prese, comprese o sorprese. (p. 26)
  • Innamorarsi è un lusso, chi non può permetterselo finge. (p. 27)
  • La guerra, una doppia violenza: non solo ci sforza a morire, ma addirittura a uccidere. (p. 27)
  • In un mondo d'arrivisti buona regola è non partire. (p. 28)
  • L'ossimoro non è una ridondanza ma una contrazione, non uno scialo ma un'economia. (p. 30)
  • "Una biblioteca", dice Ralph Waldo Emerson, "è un harem".[21] E se fosse una polveriera? (p. 30)
  • Il pacifismo è guercio ma il bellicismo è cieco. (p. 30)
  • Molte morti sono suicidii truccati. (p. 30)
  • Chissà perché quando mi rado nel bagno, se provo a canticchiare un motivetto moderno, mi taglio. (p. 30)
  • Questo luttuoso lusso d'essere siciliani. (p. 31)
  • Essendo stato molto vecchio da giovane, mi sia concesso da vecchio qualche lume di gioventù. (p. 31)
  • Irresistibile attrazione che esercita su certi spiriti pii l'empietà. (p. 31)
  • Sarò forse presuntuoso ma il mio specchio mi calunnia. (p. 32)
  • Un pene innamorato è spesso balbuziente. (p. 32)
  • Il Colosseo, questo teschio di Roma, sotterratelo! (p. 33)
  • "La morte è un boscaiolo" declamai una volta, "ma la foresta è immortale." Sì, vallo a raccontare a un albero sradicato. (p. 33)
  • Quanto poco mi piace piacere agli altri. Come si permettono, che è questa confidenza? (p. 34)
  • Gira, rigira, da Talete in poi la filosofia pesta l'acqua nel mortaio. (p. 35)
  • Rimuginare il male senza osare mai compierlo... È così che si formano le vocazioni poetiche. (p. 36)
  • Insomma, sarà che siamo ottusi e il Suo riserbo ci frastorna, ma, insomma, qualche chiarezza in più, da parte di Dio, sarebbe stata augurabile. (p. 36)
  • Costa una fatica del diavolo conservare una buona opinione di sé. Chissà come fanno, certuni. (p. 36)
  • Senza note a piè di pagina, certe donne non si capiscono. (p. 36)
  • Se volete saperne di più su di voi, origliate dietro le porte. (p. 36)
  • Eppure un guizzo solo di primavera basta a rendere allegra l'anima vedova, a mutare in piani di esaltata Arlecchina queste ostinate gramaglie. (p. 39)
  • "Conosci te stesso," dice il filosofo. Fossi matto! (p. 40)
  • Ognuno sogna i sogni che si merita. (p. 40)
  • Dio è migliore di quel che sembra, la Creazione non gli rende giustizia. (p. 41)
  • Dopo la pioggia la terra, come una ragazza un cappello di paglia azzurro, s'è messo il cielo sul capo. (p. 41)
  • Vi sono suicidi invisibili. Si rimane in vita per pura diplomazia, si beve, si mangia, si cammina. Gli altri ci cascano sempre, ma noi sappiamo, con un riso interno, che si sbagliano, che siamo morti. (p. 42)
  • Quel colpo di pistola ci ha risparmiato, quanto meno, i dolori del vecchio Werther.[22] (p. 42)
  • Non conosco voluttà più pungente del leggere, non già un libro da cima a fondo, ma, pescando a caso, qui una pagina lì un rigo, ritti in piedi, dinanzi alle cascate prodigiose d'una biblioteca. (p. 43)
  • Perché non si deve credere che uno specchio trattenga le immagini che ha riflesso, se d'una stella estinta ci giunge tuttora la luce? (p. 43)
  • Siamo ostaggi di uno che ogni giorno alza il prezzo del riscatto. (p. 44)
  • Veglia a due, in silenzio, nel buio. Finché uno si decide e mormora all'altro: "Dormi?" (p. 44)
  • Finisco sempre con lo sbadigliare quando mi parlo da solo. (p. 44)
  • Comunque vada la nostra partita con la vita finirà zero a zero. (p. 45)
  • La storia: impressione di assistere a una partita di calcio truccata, con spettatori ignari che si sbracciano e urlano e si menano... (p. 45)
  • Morire è un'inciviltà di cui, se potesse, il defunto arrossirebbe. (p. 46)
  • Mai saprò decidermi, riguardo all'umanità, se considerarla, come diceva Melville, «un'accozzaglia di duplicati» oppure un sempre nuovo caleidoscopio di prodigi inconfrontabili. (p. 46)
  • L'amore, nella maggior parte dei casi, è soltanto un prestito con cauzione. (p. 46)
  • La vecchiaia comincia il giorno in cui, invece di scrivere a una donna, le telefoniamo. (p. 47)
  • Ci vogliono virtù a iosa per fare un vizio. (p. 47)
  • Ogni uomo si cangia nel viso con gli anni, ma solo l'ultimo dei suoi ritratti, su un cuscino, gli rassomiglia. (p. 47)
  • Il dubbio è una passerella che trema tra l'errore e la verità. (p. 47)
  • Un tepore mediocre è la temperatura ideale per sopravvivere. (p. 48)
  • La parola ha preceduto la luce e non viceversa: Fiat lux e la luce fu. (p. 49)
  • Non il sonno ma l'insonnia della ragione genera mostri.[23] (p. 49)
  • Proust, più che umido, è viscoso. (p. 51)
  • Se la vita è un refuso, la morte è l'errata corrige. (p. 51)
  • I miei sbagli erano calcoli, dunque! (p. 51)
  • Le stelle sono varianti rifiutate della terra. (p. 52)
  • La verità è plurale, è la menzogna che è singola. (p. 52)
  • L'unica cosa asciutta: la sterilità. (p. 52)
  • I suicidi sono solo degli impazienti. (p. 52)
  • Biblioteche, musei, cineteche... Non amo che camposanti. (p. 53)
  • I sogni: "lavoro nero", ma non pagato, della ragione. (p. 53)
  • Che sostanziale indifferenza, ormai, quando muore qualcuno che conosciamo. Come se riservassimo ogni nostra superstite forza di strazio ai due o tre che ci vivono accanto. (p. 54)
  • Il traduttore è l'unico autentico lettore d'un testo. Non dico i critici, che non hanno voglia né tempo di cimentarsi in un corpo a corpo altrettanto carnale, ma nemmeno l'autore ne sa, su ciò che ha scritto, più di quanto un traduttore innamorato indovini. (p. 55)
  • Quando si è zuppi di ricordi e stufi di ricordare, allora si comincia a morire. (p. 57)
  • L'unica forma di felicità che conosco è la noia. (p. 58)
  • Dovetti scegliere fra morte e stupidità. Sopravvissi. (p. 58)
  • Straordinari dolcissimi inferni della timidezza. (p. 60)
  • Che odore di disperazione si leva da ogni minimo oggetto d'uso appartenuto ad un morto! (p. 60)
  • Un tempo posavo ad apparire migliore di quel che ero. Poi, senza fortuna, ho posato a calunniarmi. Oggi, con fortuna ancora minore, mi sforzo di somigliarmi. (p. 61)
  • Foglio bianco: un attimo di terrore mentre sospendo sul tasto dell'Olivetti il mio perplesso polpastrello di Damocle. (p. 62)
  • In me più mi rintano più scappo. (p. 63)
  • Le bandiere: pannolini per popoli infantili che bagnano il letto. Visto che qualcuno muore ancora credendoci, si dovrebbe farle ruotare ogni giorno, prestare, che so io, il tricolore al Madagascar, la mezzaluna all'Italia. (p. 65)
  • Riconosco per mio solo ciò che ho scritto con inchiostro simpatico. (p. 67)
  • Certi amori sono soltanto sudori che si somigliano. (p. 68)
  • L'universo: un acrostico dove cerco di leggere Dio. (p. 68)
  • I giovani credono naturalmente d'essere immortali. Con le dovute cautele, avvertirli che si sbagliano. (p. 70)
  • Il miglior maestro non ha discepoli, insegna soltanto ipotesi. (p. 70)
  • Come ogni brutto sono sempre stato oggetto di passioni disinteressate. (p. 71)
  • Come invecchiano oggi gli oggetti. Una Balilla è già come una colonna dorica. (p. 71)
  • Si può anche dannare la propria vita, se si ha genio. Se si ha solo talento, è da stupidi. (p. 71)
  • Tale è la forza dell'abitudine che ci si abitua perfino a vivere. (p. 75)
  • Raramente fu dato un bacio che non fosse bacio di Giuda. (p. 75)
  • I fatti sono cocciuti, la morte è il più cocciuto dei fatti. (p. 76)
  • C'è chi beve per dimenticare: lui beve per ricordare. (p. 77)
  • Quando non è una lanterna magica, la memoria è un film dell'orrore. (p. 78)
  • Pericoloso entrare senza frustino nella gabbia dei ricordi. Mordono. (p. 78)
  • Con le donne accade due volte di non saper cosa dire: all'inizio e alla fine d'un amore. (p. 78)
  • Mangiare, abitudine obbligatoria ma stupida. (p. 78)
  • Il silenzio è stato in fondo una inevitabile profilassi. (p. 79)
  • Fra traduttore ed autore il rapporto che s'intreccia (insidie, invidie, ripicche, lusinghe) adombra una sfida carnale. (p. 80)
  • Musil: una piramide che si regge sulla punta. (p. 80)
  • Il traduttore è con evidenza l'unico autentico lettore di un testo. Certo più d'ogni critico, forse più dello stesso autore. Poiché d'un testo il critico è solamente il corteggiatore volante, l'autore il padre e marito, mentre il traduttore è l'amante. (p. 81)
  • Quante croci, il traduttore, in cambio di qualche estasi vicaria! (p. 81)
  • Meno credo in Dio più ne parlo. (p. 83)
  • In un mondo di inerzie contraddirsi rimane l'unico movimento. (p. 86)
  • Marinetti: più un orologio a cucù che una bomba a orologeria. (p. 86)
  • Non ho certezze, la certezza è nemica invidiosa della verità. (p. 86)
  • Interviste: saprò mai dare risposte valorose a domande stupide? (p. 87)
  • Uno sciocco che tace è la creatura più adorabile del mondo. (p. 87)
  • La mia logorrea: simile all'annaspare di braccia d'un naufrago che inghiotte acqua. (p. 87)
  • Gli uomini: forse i vermi solitari della terra. (p. 88)
  • I piaceri della vanità non durano in genere più di un orgasmo maschile. (p. 90)
  • Invecchiare, sentire il corpo da complice farsi nemico: un servo che ruba alla spesa, che si finge o è sordomuto. (p. 90)
  • Signore, abbi pietà dei suicidi, risparmia loro l'immortalità. (p. 91)
  • "Buco nero", che metafora giusta per chi volle essere stella e non è più che un rimasuglio di luce, incapace di sortire e di propagarsi, sigillata per sempre a consumarsi di sé! (p. 91)
  • Due infelicità, sommate, possono fare una felicità. (p. 92)
  • Vivo dentro di me come un ospite. (p. 92)
  • Il passato come fata morgana. Trasformare i ricordi in miraggi, favole, sogni di favole. (p. 92)
  • "Se esistesse si saprebbe in giro," disse il filosofo,[24] parlando di non so chi... [Dio] (p. 92)
  • Sociologo è colui che va alla partita di calcio per guardare gli spettatori. (p. 93)
  • Gli assenti hanno una volta torto ma novantanove volte ragione. (p. 93)
  • Dio è morto creandoci, noi siamo un'opera postuma. (p. 93)
  • Chi abusa del proprio ingegno non merita misericordia. (p. 94)
  • Credo che in due occasioni di compleanno ci si senta improvvisamente decrepiti: a diciannove anni e a cinquanta. (p. 94)

Settembre

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  • L'assoluto: ecco un concetto che assolutamente mi sfugge. (p. 95)
  • Dio non è morto, come dicono. Dio ci è stato amputato. (p. 95)
  • Curioso che ogni nostro coetaneo ci sembri, quando lo incontriamo, molto più vecchio di noi. (p. 95)
  • Ci vuole una certa dose di bestialità per essere un grande attore. (p. 95)
  • Uno dei trucchi dell'assurdo è di vestirsi da verosimile... Non c'è ora della nostra giornata in cui non ci sfilino davanti siffatte maschere di carnevale. (p. 96)
  • Ricambio più facilmente il male col bene, anziché il bene col bene. Tanto mi ripugna rendere colpo per colpo. (p. 96)
  • Chi scrive per il suo tempo, disperi di sopravvivergli. (p. 96)
  • Un grande scrittore è di solito meno intelligente di molti scrittori minori. (p. 96)
  • Quanti assassini sarebbero rimasti cittadini dabbene se non avessero avuto una domenica libera. (p. 96)
  • Una passione è il totale di due malintesi. (p. 97)
  • Il primo segno d'amore consiste nel trasformare un essere che ci era domestico in un demone sconosciuto. (p. 97)
  • Non vedo perché sia legittimo amare insieme Cimarosa, Bach e Stravinskij e sia da fedifraghi amare a un tempo Carolina, Claudia e Maria. (p. 97)
  • Vivere al di sopra dei propri mezzi, lo fanno in tanti. Morire, nessuno. (p. 97)
  • Spesso in amico cerchiamo niente più che un orecchio. (p. 98)
  • La calunnia disinteressata è, in chi la propala, indizio certo di virtù letteraria. (p. 98)
  • Una carezza non lascia su un viso più impronte che una musica nell'aria. (p. 99)
  • Fiduciose formiche! Che vanno e vengono, e trascinano pesi enormi, e scavano tane profonde. Senza vedere la mia scarpa che incombe. (p. 99)
  • Pochi si rendono conto che la loro morte coinciderà con la fine dell'universo. (p. 99)
  • Qualunque cosa si dica, la vita è più antica e più forte della morte: nulla è morto che non fosse prima nato. (p. 99)
  • Dio violentò l'Eternità: nacque un frutto della colpa e fu il Tempo. (p. 103)
  • È per noia che l'Infinito ha inventato limiti e spazi. Per noia li distruggerà. (p. 103)
  • Nessuna ingratitudine è pari a quella di ciascuna generazione nei riguardi della precedente. (p. 103)
  • Quanto male è nato dal pregiudizio che il biasimo sia intelligente e l'elogio stupido. (p. 104)
  • Strano che un presuntuoso possa essere anche un invidioso. (p. 104)
  • Una verità è pericolosa quando non somiglia a un errore. (p. 104)
  • La speranza è una specie di scarlattina infantile che ci portiamo dietro tutta la vita. (p. 104)
  • Questo atroce privilegio di vedere in ogni vivente un morto in incubazione... (p. 105)
  • Capita a volte di sentirsi per un minuto felici. Non fatevi cogliere dal panico: è questione di un attimo e passa. (p. 105)
  • Ci sono due cose che, per farle, esigono buona salute: l'amore e la rivoluzione. (p. 105)
  • Il libro per l'isola? Un vocabolario. (p. 106)

Ottobre

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  • Autunno, stagione sleale. (p. 109)
  • Si firmerebbero poche dichiarazioni di guerra se chi le dichiara dovesse per legge firmarle col proprio sangue. (p. 109)
  • Per fortuna gli eroi muoiono di morte violenta. (p. 109)
  • Che ci vuole a scrivere un libro? Leggerlo è la fatica. (p. 110)
  • La felicità esiste, ne ho sentito parlare. (p. 111)
  • Vergini da espugnare come un bunker, rocciose roccaforti del sesso. (p. 112)
  • Certi poeti odierni fanno pensare a ragni ubriacati con LSD. (p. 113)
  • Diffidate degli ottimisti, sono la claque di Dio. (p. 114)
  • L'amore: un sentimento inventato. Ciò che conta è il gioco della seduzione, il rituale di piacere a qualcuno. (p. 115)
  • Ricordo male le donne belle: un viso che abbaglia impedisce l'osservazione tranquilla. (p. 115)
  • Un bel trucco per sedurre il lettore consiste nel dargli quel senso di superiorità che deriva dal saperne più dei personaggi che si vede agire davanti. Come quando sullo schermo un uomo avanza e noi vediamo il sicario che lo aspetta dietro l'angolo. Superbi di dominarne la sorte dalla nostra oscura poltrona, ma ignari che il regista ci sta scaltramente manovrando a sua volta. (p. 118)
  • Vivere in incognito, come Dio. (p. 119)
  • Dicono che l'uomo di Neanderthal morì perché non sapeva parlare. Noi periremo per non aver saputo tacere. (p. 119)
  • La prosodia come architettura salvifica e simbolica dell'universo. (p. 119)

Novembre

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  • Il poeta: dulcamara, sciamano, fanciullino? (p. 121)
  • Io: un paesaggio che m'è venuto a noia. (p. 122)
  • Si asciugano presto le lacrime per una pena che non ci riguarda (p. 122)
  • Perdere è un dovere civico, la residua dignità di chi vive. (p. 125)
  • Di sonnambuli e sonnambule sono piene le carte. Non ne ho mai conosciuti. Sarebbe bello se si trattasse di un male inventato, delle strologherie di un poeta. (p. 126)
  • Come si fa ad amarsi vivendo con se stessi 24 ore su 24? (p. 127)
  • Dubbio. Se l'uomo sia una macchina fatta per vivere ovvero per morire. (p. 128)

Dicembre

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  • Una stroncatura è la base più solida di un'amicizia. (p. 132)
  • L'amore e l'amicizia, quanto se n'è parlato. Sull'ammirazione si è reticenti, deve esserci un motivo. (p. 133)
  • In provincia conosco ammirazioni intransigenti e irriflessive quanto un amore. (p. 133)
  • L'ammirazione si cristallizza con l'amore. (p. 133)
  • Com'è facile oggi essere intelligenti, che scialo d'intelligenza si fa! E com'è poco rispettabile, ormai, l'intelligenza, com'è noiosa! (p. 134)
  • L'ironia di Dio. Solo un Dio ironico saprei pregare. (p. 135)
  • Tutti al mondo sono poeti, perfino i poeti. (p. 135)
  • Detesto le utopie: non chi le consuma ma chi le spaccia. (p. 136)
  • La fama è la gloria venduta a saldo, con gli sconti di fine stagione. (p. 138)
  • A frenarmi dall'ammazzare qualcuno sarebbe, prima d'ogni remora morale, l'inettitudine. Quanto a me, volessi anche ammazzarmi, mi servirebbe un liberto. (p. 138)
  • Grido, è vero, ma a fior di labbro. (p. 139)
  • Insomma: vivere per dimenticare o vivere per ricordare? (p. 140)

L'uomo invaso

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  • [...] "Dimmi, quali libri pensi che Crusoe porterà sulla spiaggia dell'isola la prossima volta? O piuttosto, poiché i suoi bagagli saranno presumibilmente tascabili, quale unico libro?" Stavo per aprir bocca, mi fermò con la mano: "La Bibbia, il Mahābhārata, il Capitale spiegato al popolo? Mai più, bensì la più aggiornata edizione d'un Dizionario di citazioni: Dispar et unum, La Mela d'Eva, L'abbecedario supremo, o come diavolo si chiamerà..." (da L'ingegnere di Babele, p. 67)
  • Non c'è nessuno fra i tropi della retorica che valga la sineddoche, la particola in cambio del tutto. Nessuno che possegga altrettanto potere di allusione e di illusione. Non per nulla se ne usa promiscuamente così nelle sublimità dell'Eucaristia come nelle prosaiche ricette della medicina omeopatica... Senza dimenticare il costume pio degli antichi di chiudere accanto al sepolto, per viatico funerario e riassunto della sua vita, granelli di frumento, pettini d'osso e monili... (da L'ingegnere di Babele, p. 67.)
  • Ammira il veliero dentro la boccia. Un trealberi in miniatura, dipinto di rosso carminio, con l'anagrafe Maris Stella pennellata in nero sulla fiancata; completo di velame in entrambi i quartieri di poppa e di prua; buono ancora a orzare e a poggiare, se solo non fosse costretto in secca entro questo tranello di vetro, dopo tanta guerra di turbini... Il bambino misura col dito l'angustia dell'orifizio, la confronta attonito con la mole del bastimento e si sente il pensiero fuggire fra le dita come una sabbia. (da Felicità del bambino punito, pp. 131-132)
  • O cielo! [...] Sei bello. Arcibello. Tu e le tue nuvole, le quali non si capisce che simulacri siano, e di che. Se cifre geroglifiche e pedagogiche; o crolli d'alti castelli; o rassegne di flotte regali; o processioni di sogni... Fino a quando un mattino, oggi per esempio, un vento le disfa, una calura le squaglia, e tu ridivieni di colpo questo schietto cristallo di rocca, questo duro orbe di blu, la pupilla d'un guercio, onniveggente dio... [...] Come vorrei, insondabile cielo, starmene a guardia di te, per il tempo che m'avanza! Da una garitta di torre, con la sola compagnia d'un bicchiere d'acqua e d'un pane. Per capire se sei smeraldo senza peccato o perla scaramazza, viscere del tutto o fauce del niente... Di cui si dice che non hai confini, ma altri dice che t'incurvi e avvolgi a morderti la fiammeggiante coda... E inanelli lune con soli, e intrecci albe e tramonti, saetti zig zag di fulmini entro il fogliame delle galassie... Serpente cielo. Albero cielo. Giusto, arcano, bellissimo, arcibellissimo cielo! (da La bellezza dell'universo, p. 136)
  • Tu, mare, innumerevole lingua. Che ti conformi a lambire le più piccole rientranze di scoglio non meno che i golfi amplissimi dei continenti. E ora fiotti, lusinghevole e blando, ora ruggisci con tutte le buccine e le cornette del finimondo. Cupolone di umida tenebra sulla fronte dell'affogato; compiacente grembo all'ingresso del cimentoso bagnante... Mare, che devo dirti, se non che selvaggio m'affascini e tenero m'innamori? E che ogni volta mi sembra, mirandoti, che niente, meglio del tuo essere e non essere e riessere, somigli alla natura di Dio? (da La bellezza dell'universo, p. 138)

La luce e il lutto

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  • Vi è una Sicilia «babba», cioè mite, fino a sembrare stupida; una Sicilia «sperta», cioè furba, dedita alle più utilitarie pratiche della violenza e della frode. Vi è una Sicilia pigra, una frenetica; una che si estenua nell'angoscia della roba, una che recita la vita come un copione di carnevale; una, infine, che si sporge da un crinale di vento in un accesso di abbagliato delirio... (da L'isola plurale, p. 18[25])
  • Tante Sicilie, perché? Perché la Sicilia ha avuto la sorte di ritrovarsi a far da cerniera nei secoli fra la grande cultura occidentale e le tentazioni del deserto e del sole, tra la ragione e la magia, le temperie del sentimento e le canicole della passione. Soffre, la Sicilia, di un eccesso d'identità, né so se sia un bene o sia un male. Certo per chi ci è nato dura poco l'allegria di sentirsi seduto sull'ombelico del mondo, subentra presto la sofferenza di non sapere districare fra mille curve e intrecci di sangue il filo del proprio destino. (da L'isola plurale, p. 18[26])
  • Capire la Sicilia significa dunque per un siciliano capire se stesso, assolversi o condannarsi. Ma significa, insieme, definire il dissidio fondamentale che ci travaglia, l'oscillazione fra claustrofobia e claustrofilia, fra odio e amor di clausura, secondo che ci tenti l'espatrio o ci lusinghi l'intimità di una tana, la seduzione di vivere la vita con un vizio solitario. L'insularità, voglio dire, non è una segregazione solo geografica, ma se ne porta dietro altre: della provincia, della famiglia, della stanza, del proprio cuore. Da qui il nostro orgoglio, la diffidenza, il pudore; e il senso di essere diversi. (da L'isola plurale, pp. 18-19[27])
  • Ogni siciliano è, difatti, una irripetibile ambiguità psicologica e morale. Così come l'isola tutta è una mischia di lutto e di luce. Dove è più nero il lutto, ivi è più flagrante la luce, e fa sembrare incredibile, inaccettabile la morte. Altrove la morte può forse giustificarsi come l'esito naturale d'ogni processo biologico; qui appare come uno scandalo, un'invidia degli dei.
    Da questa soperchieria del morire prende corpo il pessimismo isolano, e con esso il fasto funebre dei riti e delle parole; da qui nascono perfino i sapori cupi di tossico che lascia in bocca l'amore. Si tratta di un pessimismo della ragione, al quale quasi sempre s'accompagna un pessimismo della volontà. [...]
    Il risultato di tutto questo, quando dall'isola non si riesca o non si voglia fuggire, è un'enfatica solitudine. Si ha un bel dire – io per primo lo dico – che la Sicilia si avvia a diventare Italia (se non è più vero, come qualche savio sostiene, il contrario). Per ora l'isola continua ad arricciarsi sul mare come un'istrice, coi suoi vini truci, le confetture soavi, i gelsomini d'Arabia, i coltelli, le lupare. Inventandosi i giorni come momenti di perpetuo teatro, farsa, tragedia o Grand-Guignol. Ogni occasione è buona, dal comizio alla partita di calcio, dalla guerra di santi alla briscola in un caffè. (da L'isola plurale, p. 19[28])
  • Fino a quella variante perversa della liturgia scenica che è la mafia, la quale, fra le sue mille maschere, possiede anche questa: di alleanza simbolica e fraternità rituale, nutrita di tenebra e nello stesso tempo inetta a sopravvivere senza le luci del palcoscenico. [...] Non è tutto, vi sono altre Sicilie, non finirò di contarle. (da L'isola plurale, pp. 19-20[29])
  • Viaggiare, voglio dire, s'apparenta alle due più esclusive ed esaltanti esperienze dell'uomo: amare e creare. Saper viaggiare è cosa creativa quanto una seduzione d'amore, una bella pittura, una frase musicale assoluta. Ove poi il luogo da visitare sia l'isola che dico io, ombrosa e lucente, gremita di vita e di morte, crogiolo di razze e crocevia di secoli, l'impresa risulterà più che mai portatrice di turbamento e di rischio: se ogni viaggio significa una scommessa di conoscenza e felicità, il viaggio in Sicilia è un esame senza confronto, è l'Esame. (da Peyrefitte e Sicilia o del viaggiare all'antica, 1997, p. 56)
  • Bisogna essere intelligenti per venire a Ibla. E convengo ch'è una discriminazione maleducata, non so quanto abbia da guadagnarne il turismo locale. Fatto sta che ci vuole una certa qualità d'anima, il gusto per i tufi silenziosi e ardenti, i vicoli ciechi, le giravolte inutili, le persiane sigillate su uno sguardo nero che spia; ma anche si pretende la passione per le macchinazioni architettoniche, dove la foga delle forme in volo nasconde fino all'ultimo il colpo di scena della prospettiva bugiarda. Ibla è città che recita con due voci, insomma. Talvolta da un podio eloquente, più spesso a fior di labbra, in sordina, come conviene a una terra che indossa il suo barocco col ritegno d'una dama antica. (da Ibla, 1997, p. 60)
  • «Horloge, dieu sinistre, effrayant, impassible[30]»... Ma quando mai, l'orologio del Duomo di Messina è un marchingegno per caroselli e parate da palcoscenico, a Baudelaire non avrebbe messo paura. Tanto argutamente sembra volere addomesticare le scansioni truci del tempo attraverso una sfilata di amabili golem, i quali son sempre lì lì per eludere l'ingranaggio delle coincidenze meccaniche e sbrigliarsi in tarantella. [...]
    Il visitatore che già sul traghetto abbia prestato udienza alle spiritosaggini delle Sirene e si sia doverosamente scosso dai panni l'attaccaticcio delle brume cisalpine, non abbocca alla lusinga neogotica dell'apparato, ma rimane, col naso in aria e gli occhi buoni buoni, a godersi la passerella, un'ora dopo l'altra, come davanti a un giocattolo imbandito, di quelli che il centauro faceva trovare a Ercole bambino nella calza della Befana. (da Messina, 1997, pp. 62-63)
  • Andate a Noto, datemi retta. Vi arriverete in mezz'ora da Siracusa, con gli occhi ormai sazi di viste e visioni, ma vi baserà oltrepassare l'arco della borbonica Porta Ferdinandea, e già dovrete stropicciarveli ancora dinanzi al più glorioso trofeo di pietre che sia possibile immaginare. [...] tutto, in verità, qui commuove e sorprende: entrate in una chiesa e vi scoprite un Laurana; imboccate a caso una via ed ecco sul capo vi sporgono balconi in ferro battuto, gonfi come seni, nelle cui mensole si arriccia e brulica un popolo di grifi, meduse, ghigni ridenti, chimere. Ne viene all'animo una letizia, la stessa che si prova a godersi da un palco reale un visibilio di artifizi e di luminarie. Solo che qui lo spettacolo non cessa mai [...]. (da Noto, 1997, pp. 70-71)
  • [...] per quel che ne so io dalla mia infanzia, la U è vocale dannata, sacra a Belzebù e alla sua tribù. Guai a pronunziarla troppe volte di seguito, le parole che la contengono sono indiziate di morbo e micidiali quanto mai. Basta che la lingua s'impigli fra i denti, basta che scocchi un corto circuito di sillabe, l'accavallarsi di due fiati contigui, ed ecco che, senza intenzione, potremmo lasciarci scappare dalle labbra uno dei centomila nomi del Maledetto e, come niente, vedercelo comparire ai piedi del letto. (da L'orma del diavolo, p. 81)
  • [...] non si vuol dire che un semplice dagherrotipo valga a surrogare o a correggere o ad usurpare il giudizio storico: sappiamo tutti che una faccia, per quanto s'inzuppi del quotidiano che la circonda, non saprà mai esprimere che se stessa, vale a dire un granello di vita pietrificata. E tuttavia resta vero ch'essa, quel granello di vita, lo esprime nella sua integrità originaria, coi connotati irripetibili del vissuto: un hic et nunc di cui nessun archeologo del moderno dovrebbe dimenticarsi.
    Siamo qui, se non sbaglio, nel cuore di quello che volentieri chiamerei l'eroico paradosso della fotografia. Poiché essa è di tal plurima e misteriosa natura da costringere gli estremi più risoluti a toccarsi. Rappresenta un certificato di morte ma, nello stesso tempo, una promessa di resurrezione; è un documento impassibile, ma, nello stesso tempo, una fontana di lacrime esistenziali. Più ancora: obbedisce al tempo e lo fulmina; sanziona una perdita e vi sostituisce un simulacro immortale... (da Il clic impuro, 1997, pp. 111-112)

Le menzogne della notte

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  • Se è vero quel che un filosofo dice, che viaggiare significa aggiungere vita alla vita, mia madre e i miei zii di vita se ne crebbero tanta. (p. 632)
  • Non esitai a ubbidire, peraltro. Come tuttora non esito, persuaso che qualunque insuccesso è utile ad innaffiare il successo; e che nutre la nostra Causa forse più il morire che il vivere. Del resto, previdenza e follia in me han fatto sempre tutt'uno, né ho mai rinunziato all'impossibile con la debole scusa che era, appunto, impossibile. (p. 662)
  • Poiché in due modi opposti vi ho usato: ora dirigendo vigile i vostri fili, ora sedendomi quietamente a godermi le vostre sceniche esibizioni; ora avversario, ora connivente; senza mai mostrare quello che ero veramente: il puparo di tutti voi [...]. Ma sempre furioso nell'intimo,di udirvi mescere, sul davanzale del buio, le domande grandi: Dio, il male, la morte, con le piccine, di spicciola umanità; il re, la Costituzione, la felicità, la salvezza, il decoro. (p. 674)

Museo d'ombre

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Citazioni

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  • Con mani odorose di lino e colla di pesce dipingeva tutto il giorno sugli intonaci delle case patrizie feste galanti e tempietti, laghi di naiadi e cirri di nuvole in cielo. Che meraviglia se a notte, stringendosi nel sonno alla moglie (Tresa, Turidda, Milina…), avvertisse in confuso al suo fianco, sotto la coltre, un tranquillo respiro di dea? (p. 33)
  • Reali di Francia, chi vi può scordare? All'aperto, sulle spallette dei carri, Mastro Peppino Samperi governava la vostra sorte, lavorando di spolvero e pennello sotto i nostri occhi abbagliati. Con due assi messe in croce ci foggiammo una durlindana; in sonno colpimmo al cuore mille orche e mille dragoni, liberammo Angeliche dai lunghi capelli, patimmo la frode di Gano, morimmo circondati a Roncisvalle. Al risveglio, dietro l'uscio, l'Ippogrifo non c'era più. (p. 41)
  • Giochi di m'ama non m'ama, occhi contrabbandieri in agguato dietro uno spiraglio d'imposta, biglietti da crepacuore, avvolti in un ciottolo e scagliati per errore funesto in grembo a una madre dal fiato di drago... Infine, poiché l'unica scelta rimasta è fra la morte e la fuga, una scala s'appoggia al balcone, la carrozza di Turi Tabbaccu ingoia la coppia e con ruote felpate s'invola verso l'irreparabile. Ne seguiranno, domani all'alba, parapiglia e minacce e anatemi da mettere i brividi; e fra meno di otto giorni, fra lacrime e risa, un'urlata assoluzione, e un abbraccio di tutti con tutti, e un banchetto che pare la fine del mondo... (p. 88)

Citazioni su Museo d'ombre

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  • Quel libro che ho intitolato Museo d'ombre che cerca di recuperare dall'abisso della memoria perduta atteggiamenti, gesti, visi, mestieri scomparsi della nostra recente storia, potrebbe essere considerato una sorta di galleria di mimi, di bozzetti lanziani. Vero è che Francesco Lanza è riusciuto a ritagliarsi all'interno della letteratura siciliana un suo piccolo spazio, da petit-maître come dicono i francesi, ed è riuscito altresì a costruirsi come una specie di cellula gnomico-narrativa con venature di comico. All'interno di questa cellula si muove con una maestria e con un'agevolezza straordinarie. È veramente un peccato che in Italia, dove spesso si resuscitano libri che forse meriterebbero di restare cadaveri, non si sia pensato di rileggerlo, come merita di essere letto, come un piccolo classico.[17] (Gesualdo Bufalino)

Incipit di alcune opere

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La panchina

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Catania, una giornata d'inverno.
Sulla scena appare il viale cosiddetto «dei grandi», sparso di busti illustri, scheggiati dalle sassate, e di panchine deserte, salvo una a sinistra, su cui siede un vecchio di settant'anni.[31]

Qui pro quo

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L'idea che il corso della storia, come credeva Pascal, possa dipendere dalle proporzioni d'un naso fa di solito storcere il naso agli storici.[32]

Citazioni su Gesualdo Bufalino

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  • Anarchico e irregolare. Affabulatore incontenibile e laconico melanconico. Erudito e sbrigativo. Razionale ed esoterico. Un unicum tanto contraddittorio quanto irripetibile che si è potuto conservare grazie all'isolamento. Come alcune tribù amazzoniche o africane, o i maori australiani, Gesualdo Bufalino, autorecluso nell'assolata Comiso, ha scansato le contaminazione della modernità e l'effimero delle mode. Le sue orecchie, come quelle di Ulisse, sono rimaste sorde alle lusinghe delle avanguardie e delle retroguardie, dell' impegno e del disimpegno. Non a caso ha coniato il termine "isolitudine", cioè la solitudine doppia nell'Isola. Un siciliano schivo, felicemente errante nella giungla della letteratura, dove si è potuto ingozzare a sazietà delle bacche di quegli alberi rigogliosi inseminati dai Verga e dai Pirandello. Poi, da Baudelaire, Proust, Mann, Joyce, Conrad. E prima di loro dai classici greci e latini. Lo scrittore comisano si può considerare il frutto migliore di quella cultura di provincia sostanziata da una schiera di professori – «intellettuali della Magna Grecia» di tenace concetto e sottile ragionamento – destinata a non mettere mai fuori la testa dalla riserva paesana. Lui stesso ha raggiunto la notorietà a 61 anni. (Tano Gullo)
  • Quanto poi a infastidirsi, l'unico che ne avrebbe un buon motivo è lo stesso Bufalino, se la contemplazione simultanea di tutti i suoi romanzi, racconti, saggi, elzeviri e poesie rende ancora più lampante la discrepanza fra le pretese di portentosità della sua scrittura e la timorata, inoffensiva ovvietà della sua immaginazione e del suo pensiero. Alla luce di quanto l'ha seguita, anche la Diceria dell'untore si rivela sempre più nitidamente per quello che è, un trucco, una sorta di montaggio fotografico: Serenus Zeitblom travestito da Adrian Leverkuhn, un professore di liceo alla Francesco Chiesa (o, volendo largheggiare, alla Panzini) che si atteggia a grande decadente e fa, per impressionarci, ferocissime smorfie d'agonia. (Giovanni Raboni)
  1. Citato in Lillo Gullo, Cerimonie della calura, Prefazione di Salvatore Silvano Nigro, Nicolodi, Rovereto (TN), 2007, p. 7. ISBN 978-88-8447-300-4
  2. Da Piero Guccione. Alberi, citato in Saldi d'autunno, Bompiani, Milano, 1990, p. 191. ISBN 88-452-1538-5
  3. Dall'introduzione a Gioacchino Iacono, Francesco Meli, Comiso ieri. Immagini di vita signorile e rurale, Sellerio, Palermo, 1978, p 3.
  4. a b Da Pensieri a perdere.
  5. Citato in Dizionario delle citazioni, a cura di Ettore Barelli e Sergio Pennacchietti, BUR, 2013, n. 4081. ISBN 9788858654644
  6. Citato in Attilio Bolzoni, L'addio a Sciascia, la Repubblica, 23 novembre 1989.
  7. Da Latitudine Clerici, in Saldi d'autunno, Bompiani, Milano, 1990, pp. 166-167. ISBN 88-452-1538-5
  8. Al fiume, in L'amaro miele, Einaudi, Torino. Citato in Maria Rita A. Schembari, Gesualdo Bufalino e Comiso, parchiletterari.com, 8 luglio 2021.
  9. Citato in Strage di Capaci, Napolitano ricorda Falcone e Borsellino, Affaritaliani.it, 23 maggio 2009.
  10. Citato in Stefano Bucci, Battiato: lo so bene, non so dipingere. Ma anche Van Gogh, Corriere.it.
  11. Citato in Volume di Bufalino sulle saline di Sicilia, Agi.it, 12 marzo 1988.
  12. a b Citato in Dizionario delle citazioni, a cura di Italo Sordi, BUR, 1992. ISBN 88-17-14603-X
  13. Da Nota; in Ramón Gómez de la Serna, Sghiribizzi, Bompiani, 1997, p. 5. ISBN 88-452-2967-3
  14. Dall'introduzione a Gioacchino Iacono, Francesco Meli, Comiso ieri. Immagini di vita signorile e rurale, Sellerio, Palermo, 1978, p 8.
  15. Dall'introduzione a Gioacchino Iacono, Francesco Meli, Comiso ieri. Immagini di vita signorile e rurale, Sellerio, Palermo, 1978, p 4.
  16. Da Bufalino: io, collezionista di ricordi, seduttore di spettri, Il Messaggero, 21 febbraio 2002.
  17. a b Da Un vertice letterario di Aldo Scimè, per Rai Teche; video disponibile in Un vertice letterario, Regionesicilia.rai.it, 1983.
  18. Da Il malpensante, in Opere: 1981-1988, introduzione di Maria Corti, Bompiani, Milano, p. 1045. ISBN 8845257827
  19. Cfr. la voce I vestiti nuovi dell'imperatore su Wikipedia.
  20. Definizione della fantasia data da Teresa d'Ávila.
  21. In Società e solitudine, 1870.
  22. Il riferimento è al romanzo I dolori del giovane Werther di Johann Wolfgang von Goethe. Werther, alla fine dell'opera, si uccide con un colpo di pistola alla tempia.
  23. Cfr. Francisco Goya: «Il sonno della ragione genera mostri.»
  24. Citazione ripresa nel libro Argo il cieco, pronunciata dal filosofo Pietro Iaccarino.
  25. 1997, p. 14.
  26. 1997, pp. 14-15.
  27. 1997, p. 15.
  28. 1997, pp. 15-16.
  29. 1997, p. 16.
  30. Orologio, dio sinistro, spaventoso, impassibile.
  31. Citato in Fruttero & Lucentini, Íncipit, Mondadori, 1993.
  32. Citato in Giacomo Papi, Federica Presutto, Riccardo Renzi, Antonio Stella, Incipit, Skira, 2018. ISBN 9788857238937

Bibliografia

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  • Gesualdo Bufalino, Argo il cieco, Bompiani, 1994. ISBN 8845222829
  • Gesualdo Bufalino, Bluff di parole, Giunti, 2013 (1994). ISBN 8858761669
  • Gesualdo Bufalino, Calende greche: ricordi d'una vita immaginaria, Bompiani, 1992.
  • Gesualdo Bufalino, Cere perse, Sellerio, Palermo, 1985.
  • Gesualdo Bufalino, Diceria dell'untore, Sellerio, Palermo, 1982.
  • Gesualdo Bufalino, Dizionario dei personaggi di romanzo, Oscar Mondadori, Milano, 1989. ISBN 88-04-31997-6
  • Gesualdo Bufalino, Il malpensante. Lunario dell'anno che fu, Bompiani, Milano, 1987. ISBN 884520118X
  • Gesualdo Bufalino, L'uomo invaso e altre invenzioni, Bompiani, Milano, 1990. ISBN 88-452-1341-2</ref>
  • Gesualdo Bufalino, La luce e il lutto, Sellerio, Palermo, 1988.
  • Gesualdo Bufalino, La luce e il lutto, Sellerio, Palermo, 1997. ISBN 88-359-4202-0
  • Gesualdo Bufalino, Le menzogne della notte in Opere: 1981-1988, a cura di Maria Corti e Francesca Caputo, Bompiani, 2006, pp. 577-679. ISBN 8845257827
  • Gesualdo Bufalino, Museo d'ombre, Sellerio, Palermo, 1982.
  • Gesualdo Bufalino, Opere 1981-1988, Bompiani, 2001. ISBN 88-452-4767-8

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