Lillo Gullo

poeta, aforista, giornalista, scrittore e saggista italiano

Lillo Gullo, all'anagrafe Calogero Giovanni Gullo (1952 – vivente), poeta, aforista, giornalista e saggista italiano.

Lillo Gullo

Citazioni di Lillo Gullo

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  • [Su Maradona, idolo di Napoli già nel 1985] A Napoli abbiamo avuto conferma di questo binomio tifo-business. Sono tante le iniziative più o meno legali (il famoso "sommerso") collegati al Pibe de Oro: dalle magliette ai quaderni, dai pupazzetti ai posters, e così via. Chi non commercia "in Maradona", non per questo lascia in pace l'argentino, la cui presenza viene continuamente evocata con scritte sui muri, fotografie, dediche autografe e qualche striscione sopravvissuto agli eccessi del Maradona day. In altre parole, a noi è sembrato che il Pibe de Oro non solo sia lo sponsor forzato di buona parte dell'economia sommersa partenopea, ma anche il taumaturgo dell'intera città. E per il popolino, sempre alla ricerca di santi protettori, la febbre di Maradona – che ormai fa concorrenza perfino a San Gennaro – ha veramente qualcosa di religioso. Non a caso, come i santi, lo hanno messo recentemente nel presepe. Non a caso, sempre come si fa con i santi, hanno battezzato tanti bambini con il suo nome.[1]
  • Affari di cuore: non inganni il titolo dimesso del canzoniere amoroso di Paolo Ruffilli. È fine astuzia: quel titolo è la cenere con cui il poeta-affabulatore ricopre la brace che arde sulle pagine, ossia l'esplorazione impetuosa e impietosa di una scoperta sconvolgente: la smania che hanno gli amanti di divorarsi a vicenda: Può darsi | sia un retaggio | cannibalesco, | questo di mangiarsi | con gli occhi | con le mani | con la bocca e | tutto il resto. La materia è scabrosa. Di più: uno scandalo! E non può essere che così per l'uomo di oggi ormai disavvezzo a concepire la congiunzione di due carni estranee come una dimensione del sacro. Con tutta evidenza, è lo stesso uomo che non sa più chiedersi perché Cristo, nell'offrire ai discepoli il pane spezzato e benedetto, abbia detto "Prendete e mangiate, questo è il mio corpo" e non "Prendete e mangiate, questo è il mio spirito". Da lì, dunque, bisogna ripartire: dalla lezione evangelica. Che non smette di essere vera, e perciò scandalosa, laddove venga applicata al pasto amoroso.[2]
  • Albert, nell'introduzione del suo "trattato"[3], contesta ai sostenitori degli indirizzi analitici (positivismo) ed ermeneutici (esistenzialismo) l'inconciliabilità di razionalità e impegno, per contro critica ai fautori degli indirizzi dialettici (marxismo) l'asserita semplicità e inscindibilità di nessi, che tuttavia riconosce, tra razionalità e impegno. Per superare l'angustia di questi indirizzi, Albert propone il "razionalismo critico" della Filosofia di Karl Popper, suo riconosciuto maestro, che consentirebbe di conciliare razionalità e impegno. La via dovrebbe essere quella di "un impegno critico per un pensiero razionale".[4]
  • Bocca che taci, ascolta: | altra è oggi la tua missione: | dischiudere le labbra | e rispondere al violetto | invito di un bacio primaverile.[5]
  • Cantava qualche anno fa Pino Daniele: "Napule è mille culure...". Da quando la squadra di Marchesi ha ripreso a vincere e Maradona a segnare, la città partenopea non ha più "mille colori", ma solo due: il bianco e il celeste, cioè quelli della formazione di casa.[1]
  • Come chiocciole catafratte dal guscio | teste occhieggiano da scuri socchiusi | per indovinare recondite passioni | di imbacuccate figure frettolose. || Piove dall'alba sui tetti e sull'uscio | e su questa grasta negletta di latta | dove smorenti petali color arancio zucca | feriscono e illudono come pugnali di luce.[6]
  • E pure a qualcosa dovrò rinunciare: | a un'arancia da sbucciare | all'avvistamento di un nibbio | o all'imperativo di un'alba chiara. || Oppure: a una luna piena | alla bugia d'una amorosa chimera | all'apertura delle imposte alle otto | o chissà: a un'intera primavera. || E magari: a un sobbalzo del cuore | a un tuo sorriso di seta | al dono di un verso d'oro | o al transito di una cometa. || E ancora: a una stretta di mano | o alla fioritura di una rosa: | non so a cosa ma al momento dell'addio | so già che dovrò rinunciare a qualcosa.[7]
  • Eppure, | da qualche parte | c'è una rosa | appena fiorita.[8]
  • Era un uomo mite, Aurelio Galleppini, eppure il destino ha voluto che fosse proprio lui, 50 anni fa, il creatore grafico di Tex Willer, il più manesco degli eroi italiani di carta. Altra singolarità: Galleppini non conosceva l'America, eppure dobbiamo a lui la più torrenziale ricostruzione a fumetti del vecchio West. Vero è che i disegnatori di talento – e Galep lo era in misura superlativa – possiedono una prodigiosa memoria fotografica che consente loro di "riprodurre" tutte le immagini intraviste anche per un solo istante: il fotogramma di un film, un quadro, un paesaggio, ecc. Ma certo sarebbe stata una risorsa di corto respiro e, comunque, del tutto inadeguata per una saga, come quella di Tex, destinata a macinare ininterrottamente centinaia di albi. Nell'Italia postbellica, tutto è da ricostruire: non solo le case ma pure l'immaginario. E se le ruspe animano i cantieri, i fumetti vivacizzano le edicole. [...] In questa fase di interesse quasi maniacale per la documentazione degli ambienti western Galep approda, per caso, in Trentino: un'autentica rivelazione per il disegnatore del West, una terra promessa, l'America – una certa America – a portata di mano e di pennello.[9]
  • È stato sottolineato come le opere del Popper "critico della società" in Italia abbiano avuto più fortuna di quelle del Popper "critico della scienza" – anche se i due livelli non sono facilmente separabili. Basti pensare a Miseria dello storicismo: pubblicato per la prima volta in Italia presso l'editrice l'Industria e ristampato nel '73 da Mazzotta e recentemente da Feltrinelli. Probabilmente questo interessamento è dovuto al fatto che la critica alla società in Popper è critica allo storicismo e, segnatamente, alla sua variante politicamente più significativa: la teoria marxista della storia, che nel dibattito politico italiano occupa una posizione centrale.[10]
  • [Sulla tripletta di Maradona allo stadio San Paolo il 24 febbraio 1985] Erano contro due squadre. Uno dei 22 calciatori ha segnato tre goal da antologia al povero portiere Orsi: il primo agganciando di destro e calciando al volo di sinistro, il secondo con pallonetto, il terzo dalla bandierina del corner. Infine, lo stesso giocatore, con un assist impeccabile, ha fatto realizzare un quarto goal ad un suo compagno. Le due squadre, come tutti sanno, erano Napoli e Lazio. Il fuoriclasse, balzato nella classifica cannonieri al secondo posto dopo Platini non poteva che essere lui: Diego Armando Maradona che, come l'attore-regista Massimo Troisi, può davvero ricominciare da tre.[11]
  • Il cielo | si dà molte arie, | ma il mare | ha pensieri | più profondi.[12]
  • Il fumetto centrale, d'importazione estera, è Vampirella, presentata nel 1970 come un'eroina approdata per puro caso sulla terra dopo essere scampata alla distruzione del mondo felice e non-violento di Drakulon, dove l'acqua era equivalente al sangue dei terrestri.[13]
  • Il pennello come una sgorbia. La pittura è per Remo Wolf la prosecuzione della xilografia. Elemento unificante per le due pratiche creative è il legno: matrici in pero per l'inchiostro, fogli di compensato per i colori ad olio. Artista per così dire "muscolare", Wolf, anche in pittura, avverte il richiamo del legno. È una materia che, non avendo "la pancia molliccia" come la tela, resiste alla manipolazione dell'uomo: ed è questa, la premessa, il necessario antefatto per una pittura "virile", una pittura si direbbe quasi affine alla scultura: e, a ben guardare, le figure wolfiane si offrono sovente con contorni netti e masse che sembrano sbozzate con lo scalpello. [...] Sfogliamo Il calzolaio di Messina, plaquette tirata in pochi esemplari da Franco Sciardelli nel 1989. Il racconto è firmato da Sciascia (sarà, questa, la sua ultima opera), le xilografie da Wolf. Nell'esemplare custodito dal Maestro leggiamo una dedica autografa: "A Remo Wolf, che ha così quel che ha donato, con animo grato e con cordiali saluti. Leonardo Sciascia." Da aggiungere che Sciascia, raffinato cultore e collezionista di stampe, apprezza Wolf fin dal 1957, quando, nella collana che dirige per Salvatore Sciascia, editore di Caltanissetta, ospita la monografia del Maestro scritta da Giorgio Trentin.[14]
  • La terra che ha accolto Vampirella è popolata da dèmoni mostruosi e vendicativi e da uomini ributtanti e ambiziosi, «poteristi» che, pur di prolungare la vita sono disposti alle abiezioni più impensabili.[13]
  • Ma la vera "trovata" cartellonistica di Lenhart consiste nell'assegnare alla donna il ruolo di testimonial degli svaghi montani. E che donna: bella, elegante e "nuova", cioè fortemente rinnovata nelle sue classiche proporzioni grazie a un buon numero di centimetri in più distribuiti lungo le gambe (prefigurazione della top model di oggi?). Ed ecco il manifesto tipo: sullo sfondo le guglie dolomitiche, in primo piano una bellezza femminile che mette tutto il suo fascino al servizio dell'appeal del bozzetto, espressamente finalizzato – mai scordarlo – a "sedurre" lo "spettatore" e ad accendere in lui il desiderio di trascorrere una vacanza in montagna. Certo, è il gusto personale che fa iscrivere Lenhart al partito del rinnovamento, ma è anche vero che il suo passo modernista e l'impulso a tratteggiare donne slanciate trovano un naturale incoraggiamento nel supporto cartaceo: 70 centimetri di base per 100 centimetri di altezza il manifesto più diffuso, il cosiddetto "elefante". Ossia, le "misure" giuste per contenere donne con misure "superbe". [...] D'altronde, perché stupirsi: non ci aveva insegnato Marshall McLuhan che il medium è il messaggio?[15]
  • Nel 1988 Trento ha ospitato la rimpatriata dei sessantottini, i ribelli in eskimo e barba lunga che vent'anni prima avevano portato un seme, per quanto scorbutico, di fantasia e modernizzazione. [...] Dunque, a Trento vent'anni dopo. Logo della kermesse: i pinguini. Location: il palazzo di Sociologia con un tocco vintage: la facciata pavesata con gli striscioni rossi delle occupazioni. Uno dei pinguini più attesi era Mauro Rostagno. A Trento tornava un uomo di 46 anni, dall'allegria ancora contagiosa ma profondamente segnato dalle sue tante vite vissute nel frattempo. Era stato a Milano animatore della controcultura con il centro sociale Macondo, era stato arancione con il nome di Sanatano e ora viveva in Sicilia, con la compagna Chicca Roveri e la figlia Maddalena, assorbito dall'impegno nella comunità Saman che aveva fondato per il recupero di tossicodipendenti.[16]
  • Nel secondo dopoguerra, Lenhart volta le spalle al Pacifico e affronta l'oceano Atlantico: la "scoperta" dell'America è datata 1950. Grazie al suo multiforme talento, “il biondo pittore delle Dolomiti” non fatica a trovare estimatori che parlino inglese e portoghese: vive così una bohème di lusso tra i grattacieli di New York e la baia di Rio de Janeiro. Padrone indiscusso di generi e tecniche, è in Brasile, in particolare, che il vulcanico Lenhart si sbizzarrisce a fissare su carnets ciò che più lo colpisce: ponti e passanti, palazzi e favelas, camerieri in livrea e ballerine in costume (poco costume). A proposito di ballerine, un aneddoto: abituate ad essere molestate dai maschi, alcune ballerine di San Paolo rimasero così colpite dal comportamento del "biondo pittore" che decisero di soprannominarlo "O Pintor Santo", il pittore santo.[17]
  • Per un'estate colma sui campi | basterà la giusta pioggia | di nuvole tascabili || mentre pozzi da pochi secchi | disseteranno rospi superstiti e la lucertola | che dimora nei quadrati dell'orto.[18]
  • Per Vampirella – come per i Beatles nella loro famosa canzone Black bird – il giorno non è «il giorno», ma «la morte della notte». Nonostante sia una creatura che agisce di preferenza nel freddo della notte (che però non le vieta di andare in giro sempre svestita), la nostra eroina, tiene a sottolineare la sua natura non terrificante e anzi tendenzialmente buona, a cui non si attiene solo quando è costretta, per sopravvivere, a succhiare sangue umano.[13]
  • Quando ci chiederanno | di salvare gli oggetti | secondo il suono | che li designa, | sappiate che il mio voto | andrà all'imbuto.[19]
  • Quanto alla scena: sarà un'attesa | ma senza che si sappia di cosa: | potrà essere la fucilata di un bacio | come pure il cappio di una resa.[20]
  • Sul ramo che è un trono barcolla | la foglia vieppiù zavorrata dal giallo | e solo non crolla per un filamento | smorente eppure non domo dal vento. || Accadrà in una notte d'autunno | e più non sarà aquilone in catene | ma rondine di un unico volo | e di un morire per terra.[21]
  • Vampe e lampi: | in cielo saette, | fuochi nei campi. || Scrofe sui marciapiedi. | Estate in leasing. | Sconosciuti con il cappuccio. || Sessi presi a sassate. | Ramarri impassibili. | Caldare con calce che bolle. || Pane raffermo | e coltello che non taglia. | Olio rancido e padella sfondata. || Tutti a rimpiangere: | i mandorli in fiore | e l'amore (se fu vero amore).[22]
  • Un tavolinetto, un lettino, una sedia, pennelli e barattoli di colore, una cuccuma, un putto di gesso, una cornice e una spina elettrica. Questo scarno elenco di oggetti è tutto quello di cui Gianfranco Ferroni – pittore, incisore, ma soprattutto disegnatore – ha bisogno per rappresentare il mistero dell'esistenza umana. Per trovare un altro artista restio a varcare la soglia del proprio studio, bisogna andare indietro nel tempo fino al Seicento e bussare alla porta di Vermeer, il pittore olandese che ha saputo immortalare la vita silenziosa delle cose. Risulta più agevole trovare sodali di Ferroni tra i letterati, forse in ossequio all'etimologia comune, dal greco "graphein", di scrivere e disegnare. Vengono in mente almeno tre nomi: l'austriaco Adalbert Stifter, che fu anche pittore, e i francesi Georges Perec e Robbe-Grillet.[23]

Gianni Rodari, «Grammatica della fantasia»

L'Ora, 1 gennaio 1975.

  • Gianni Rodari, vincitore del Premio Andersen nel 1970, autore di numerosi libri di favole e di filastrocche tradotti in tutto il mondo, è convinto che il processo dell'invenzione fantastica sia insito nella natura umana; con questa Grammatica – intaccando il culto e il mistero creatogli dal Romanticismo cerca di spiegare i meccanismi del processo creativo che nel bambino «anticipa quelli del pensiero logico e li rafforzano».
  • Secondo Rodari, la scintilla di una storia è data dall'accostamento insolito di due parole (ad esempio: cane, armadio), che «liberate dalle catene verbali di cui fanno parte quotidianamente», estraniate, danno luogo a un binomio fantastico: «Il cane dell'armadio»; e così via, con tutti i possibili e immaginabili accostamenti. Poi viene l'ipotesi fantastica, con la tecnica del «che cosa succederebbe se la Sicilia perdesse i bottoni, se la città di Reggio Emilia (a cui è dedicato il libro, ndr) si mettesse a volare, se un coccodrillo di presentasse a Rischiatutto?», eccetera. Un'altra operazione proficua è l'utilizzo del prefisso arbitrario, con cui si trasformano le parole: ad esempio, un attaccapanni può diventare uno «staccapanni», che, «in un paese di vetrine senza vetri, negozi senza cassa e guardaroba senza scontrino, serve per staccare gli abiti quando se ne ha bisogno». Si avranno così: lo «scannone» per disfare la guerra, la «bispipa» per fumatori accaniti, la «bispenna» per scolari gemelli, il «trinocolo», la «trimucca», eccetera.
  • Le favole, per Rodari possono anche essere messe al servizio della matematica. Ad esempio, la storia del Brutto anatroccolo di Andersen – cioè del cigno capitato per errore in un branco di anatre – ha un struttura insiemistica, e può diventare «l'avventura di un elemento A capitato per errore nell'insieme degli elementi B, che non trova pace fino a quando non rientra nel suo insieme naturale, quello degli elementi A...».

La conversione di Diabolik

l'Unità, 27 novembre 1975.

  • L'appellativo «nero» nell'espressione «cronaca nera» è stato usato dai quotidiani per riferire i delitti e gli episodi di violenza. Lo stesso attributo dato ai fumetti serve ad etichettare il genere in cui nella tradizionale lotta tra «bene» e «male» – volendo usare due categorie schematiche e dai lineamenti ideologici molto incerti – si è verificata una radicale inversione di tendenza: il «male» che trionfa sul «bene». Diabolik, nella storia del fumetto italiano, è stato il primo ad attuare questo rovesciamento.
  • Diabolik andrebbe distinto dagli altri eroi «neri» e dai protagonisti delle pornofavole. E questo è ancor più vero oggi che le sue imprese «criminose» sono sempre più spesso rivolte contro speculatori, strozzini, ricettatori, dirigenti di multinazionali, golpisti, spacciatori di droga e carogne di ogni risma (un tempo invece ammazzava per un nonnulla anche il semplice poliziotto o il modesto impiegato). Ma più che di un antifascista o di un giustiziere sui generis (l'ispettore Ginko, eterno avversario di Diabolik, ne parla come di uno che contesta il mondo), è ancora il caso di parlare di un criminale con scrupoli, poiché la molla che lo fa agire è sempre il lucro personale.
  • Ancor più di Diabolik è cambiata la sua fedele compagna Eva Kant, inizialmente complice sottomessa, figura sbiadita, e adesso sempre più una protagonista degli enigmi che la coppia deve risolvere. Per questo Eva Kant, rivendicando giustamente il riconoscimento dei suoi meriti, attacca Diabolik con decisi toni femministi e lo apre a inaspettate riflessioni politiche (non va dimenticato che sono due donne, le sorelle Angela e Luciana Giussani, le creatrici di questo fumetto). Nell'albo n. 24 del 1974, è lei a far capire a Diabolik che in un certo Paese dell'Asia, dove il popolo cerca di vivere in modo diverso «nell'uguaglianza» (chiaramente, la Cina), il furto è solo «un'inutile provocazione», poiché tutto appartiene a tutti. «Là, – alla fine ammette Diabolik – io non avrei ragione di esistere».

Un detective contro l'ordine

La Città Futura, 6 luglio 1977.

  • New York, uno dei tanti slums: alcuni camionisti inseguono un uomo che stava pisciando sulle ruote di un loro autocarro. Si tratta dell'investigatore Alack Sinner, romantico, uomo solo del nostro tempo, ultimo grande acquisto del fumetto poliziesco, genere nato in Usa nel 1931 con Dick Tracy di Chester Gould. Ne sono autori due argentini giramondo, il disegnatore José Muñoz e il soggettista Carlos Sampayo, che hanno il vezzo di raffigurarsi nelle loro strips.
  • Alack Sinner (continuatore ideale di Marlowe, l'eroe letterario di Chandler) compare per la prima volta nel 1975 su AlterLinus e subito gli viene decretato un meritato successo, dovuto anche all'insorgente domanda di intreccio e avventura.
  • Il nostro investigatore, profondamente democratico e impegnato in un'appassionata ricerca di rapporti umani diversi, si discosta nettamente da tutti gli altri detectives law and order che abbiamo conosciuto, uomini perfetti e senza contraddizioni, convinti che la giustizia coincida sempre con la legge, che il bene sia sempre dalla parte del Palazzo, che la criminalità e la violenza altro non siano che inguaribile cattiveria ed egoismo umano (in una tavola Muñoz rappresenta ironicamente Dick Tracy, antesignano di questa concezione).
  • Alack Sinner, mani in tasca, sigaretta pendula in un faccione somigliante a Kerouac adulto (ma gli autori lo vogliono «un incrocio tra Richard Burton e un bulldog»), ha abbandonato la polizia nauseato dai suoi metodi poco democratici e da allora fa il detective privato, travagliato da una profonda crisi interiore, che lo porta talvolta ad entrare in conflitto con il suo ruolo professionale (per un periodo va a fare l'autista di taxi.
  • L'esistenza quotidiana di Alack Sinner, riflesso di questa generale anomia, è comunissima: cucina in casa, va al cesso, scopa con partners occasionali, tiene un acquario, frequenta il Trane's della 52ª strada dove suonano i jazzisti d'avanguardia come Gato Barbieri, si ubriaca e racconta la sua vita al barista del Joe's cab ascoltando Cheryl blues di Charlie Parker. Le sue indagini si snodano nella New York della CIA, della droga, dei cortei con le majorettes a favore di Reagan, del Vietnam; una metropoli popolata da businessmen senza scrupoli e ormai nevrotici o schizofrenici, pugili corrotti, prostitute, bambini tra i bidoni della spazzatura, neri e portoricani perduti per le strade, immigrati non integrati, hoboes.
  • Il primissimo Sinner sembrava uscito dalla matita un po' tremolante di Hugo Pratt, quello attuale dal feroce pennino di George Grosz. Tra questi due poli, Muñoz è riuscito in pochissimo tempo a raggiungere un originalissimo ed eccellente segno che, ancora in progress, va sempre più accentuando la carica espressionista orientata verso una forte deformazione satirica.

Alla Fiat passando per palazzo Chigi

La Città Futura, 4 gennaio 1978.

  • Inquadrato a mezzo busto sta parlando da dietro un tavolo con dei microfoni (è alla Tv?). Ha i capelli a forma di bernoccolo frastagliato, il viso pieno di rughe, l'espressione repellente, la lingua penzolante, il naso, oblungo e terminante a virgola, rattrappito. Con le dita sottili (per essere più pronto alla presa?) esorta gli elettori: «Sono corrotto, incapace? C'è un solo modo di scoprirlo: rieleggetemi». È una fulminante tavola del secondo libro di Altan, Animo, Cipputi – significativamente proposto in una collana di saggi – volta a sintetizzare una figura politica divenuta in questi ultimi anni fin troppo familiare agli italiani: il ministro manovriero, cadreghino e busterallaro.
  • I personaggi e le tematiche delle vignette di Altan si susseguono a zompi, in modo non troppo dissimile dalle conversazioni di tutti i giorni; si possono pertanto leggere ricombinando in altro modo il loro ordine. Dal politico al militare. Da dietro una scrivania, un generale superdecorato, curiosamente alle prese con l'aborto e le ristrettezze economiche, ci fa sapere: «L'aborto è antieconomico: è meglio abbatterli quando raggiungono i sessanta chili».
  • In questo corrosivo spaccato della società italiana vengono largamente rappresentati gli operai, che poi sono i veri protagonisti dei fumetti di Altan. Non si tratta beninteso di fantomatici «operai sociali» di non meglio precisate «fabbriche diffuse», ma di operai che hanno ancora il vezzo di lavorare in tuta quaranta-ore-quaranta. Vengono sorpresi, prosaicamente e senza concessioni alla retorica di sinistra, a due a due nel luogo di lavoro o in casa a mangiare enormi pastasciutte sproloquiando con mogli e figli. È in questi posti che l'operaio, non negandosi argomenti «a scassare», dibatte con amarezza i grandi temi della politica. Ed è lì che Altan mette a punto uno straordinario linguaggio frutto di una felice commistione del parlato quotidiano con le categorie e il lessico politico, giornalistico e sindacale: «Non c'è cazzi, Cipputi. Al governo non ci vogliono mica.» «C'è il numero programmato, Lollis. Se no, è un caos».

Come Wenders scoprì Bosisio

Alto Adige, 23 febbraio 1999.

  • Una pittura pura, lontana dal chiasso, quella di Robert Bosisio, 36enne altoatesino di Trodena ma con la personalità in buona parte scolpita nelle prolungate tappe a Vienna, cinque anni, a Berlino, cinque anni, New York e Londra, un anno. È nel soggiorno a Berlino, a partire dal 1989 (l'ultimo anno del muro, che Bosisio vive le esperienze artistiche più significative. Ed è lì che matura l'amicizia con il cineasta Wim Wenders.
  • Wenders rimane colpito dagli spazi angusti dell'atelier dell'artista. Non ci pensa due volte e gli mette a disposizione un suo appartamento-studio, più ampio e luminoso, ubicato proprio sotto l'attico al settimo piano dove vive, quello con la terrazza che gli ha ispirato Il cielo sopra Berlino. Qualche volta Wim bussa da Robert e poi si ferma a parlare di pittura, soprattutto della luce protagonista delle opere dell'artista di Trodena. Di tanto in tanto Wenders si presenta in compagnia di amici e una volta arriva con un signore garbato, timido, che farfuglia appena il suo nome: Krzysztof Kieślowski.
  • Bosisio trae ispirazione da una manciata di soggetti: interni (spesso il suo studio), nature morte, rari paesaggi e oggetti comuni. Il più "coccolato" è una teiera dipinta con il sorprendente dinamismo di una figura egizia di profilo. [...] Grande protagonista di questi interni, come avevano intuito Wenders e Kieślowski, è la luce, spesso un solo fascio di raggi rincorsi in tutti rimbalzi possibili tra pavimenti, pareti e monacali arredi. Sono interni raffigurati con una grande sapienza compositiva che tradisce la predilizione di Bosisio per Piero della Francesca e per i grandi fiamminghi, Vermeer su tutti. Se aggiungiamo altri due nomi che risuonano nell'atelier di Trodena – Morandi e Balthus – si capirà meglio come Bosisio sia immerso in una ricerca appartata che poco ha da spartire con le onde effimere di certa arte contemporanea.
  • Osservando i quadri di Bosisio si avverte una strana sensazione: è come se lo sguardo fosse imprigionato. Vero è che questo succede sempre quando si è di fronte a opere di eccelsa qualità, ma nelle tele di Bosisio c'è qualcos'altro: un ingegnoso artificio, una specie di cornice tonale che "chiude" la composizione e in un certo qual modo ne protegge la fruizione "ostacolando" la fuga dell'occhio. Alla fine, dunque, ci si sofferma – e a lungo – su ciò che Robert Bosisio vuol farci vedere: una "bolla" di creato dipinta con francescano stupore e con una inquietudine moderna eppure priva dei fumi del malanno corrente.

Intervista di Giovanni Franco, ansa.it, 10 febbraio 2016.

  • Fui invitato ad andare da Trento a Palermo per curare la regia del maxi processo alla mafia, di cui oggi ricorre il trentennale della prima udienza, alternandomi ad altri mie colleghi per alcuni periodi tempo. Fui chiamato sia per la mia origine siciliana, sono nato ad Aliminusa nel Palermitano, che per avere diretto altri programmi nazionali, come L'Orecchiocchio. Andai con la consapevolezza che vi potessero essere dei rischi, ma non potevo certo esimermi da questa prova anche perché militante di sinistra. Arrivato a Palermo appena ho visto il carro armato di fronte al bunker ho avuto conferma che i miei timori non fossero del tutto campati in aria.
  • Dal primo giorno dietro i monitor nella sala regia allestita all'interno della struttura dove si celebrava il processo ai boss ho trovato che non vi era né preoccupazione né tensione fra i tecnici e gli operatori in quanto l'evento era stato metabolizzata perdendo il pathos della dimensione politica e civile: la routine aveva preso il sopravvento.
  • Mentre in aula si combatteva una battaglia dello Stato contro Cosa nostra dai toni epocali, nella sala regia i problemi erano legati a vicende squisitamente di carattere sindacale e di rispetto degli orari. E durante le deposizioni dei capimafia o dei testimoni c'era anche chi trovava il tempo di vedere altri film per ingannare il tempo. [...] Alla fine, ho come la sensazione che sia stata un'occasione sprecata. Aver vissuto un'esperienza storica ed irripetibile senza avvertirla come tale. 

Il disertore

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  • Ed eccola, l'estate: | avvampa fichi d'India | il sole e viola stanze | protette da vane persiane. || Abbondano caraffe d'acqua | e nell'odorosa penombra limoni | curiosi come occhi forestieri | offrono il loro giallo guardare. || Frutti con spacchi che mostrano polpa | traboccano da panieri di canne | e sono come vergogne | coperti da foglie di fico. || C'è qualcosa di cortese | oggi nei suoni e nelle pose | incedere è l'andare | ma oscuro è il conversare. || E allora fermo le parole | pronte a salpare per l'immenso: | fatevi capire - le supplico – | aspettate, aspettatemi un momento. (Odorosa penombra, p. 70)
  • Essenziale è che abbia un bel giardino | e che confini con un buon vicino. | S'oda appena il fischio del treno | ma il suono delle campane sia pieno. || Non lontano ci siano: un ruscello | un'altura battuta dal vento | un campo coltivato a grano | un castagno gigante e un convento. || Abbia l'orto un pozzo e un albero almeno | da frutto già adulto: magari, un melograno. | Non manchino la menta e il rosmarino | e se avanza una zolla: una pianta di lino. || Poi: una siepe da cui sgusci una serpe, | fiori ovunque per il vanto di maggio | e in aggiunta: lo stagno e la fontana | e una cisterna per l'acqua piovana. || La soffitta: sia bianca e sia ampia | e dimora di due topi e una gatta | e per quattro mobili rotti, | ma sia lieve il rumore del legno che muore. (da La casa ideale, p. 77)
  • Le labbra, ad esempio, sono una rima. | E sono rime anche le canne al vento, | due cotogne poggiate sulla credenza, | il miracolo dei pani e dei pesci. || Sono rime: i camini e le mani, | il topless esibito sulla sabbia, | i frutti che ruscellano dal pesco, | i balconi che sia affacciano sul Corso. || Rimano le viole sul davanzale, | le lettere d'amore che il laccio stringe, | le angurie nella cesta dell'ambulante, | due bassotti che si annusano per strada. || E sono rime: i campanili delle città, | le ossidate croci dei camposanti, | il nero fiocco degli anarchici al caffè, | i baci insaziabili degli amanti. (Rimario, p. 78)
  • È un guerriero la mano | e riposa sui fianchi: | è un bel seno la preda | o una mela che pende? || Spalmata di calce a far muri | o contro un bersaglio scagliata: | se la pietra ha un destino | lo risolve al momento una mano. || Sfoglia la mano un atlante | e non sbuccia patate: | mandante è la mente | e lo stomaco attende. || La mano benedice e predice | scrive lettere d'amore | conta i giorni dell'attesa | saluta chi parte per sempre. || Di troppe carezze esausta | se è mano di amante. | E punta da spine | di rose e di ortiche. (La mano, p. 79)

Pensieri di legno

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  • Con il legno | l'uomo fa le porte, | Dio gli alberi. (Il legno, p. 15)
  • Risuona nel ramo fiorito | l'urlo primordiale dell'universo: | il big bang di grazia e spavento | che moltiplica gli atomi | e incista vita dove c'era vento. (Rami fioriti, p. 23)
  • Certi pomeriggi | è troppo il blu del cielo | per una persona sola. (Troppo blu, p. 31)
  • Lascio la mia terra, | dice chi parte per sempre. | Io lasciai il mio cielo. (Il mio cielo, p. 55)

Paolo Vallorz: profumi di donne, ritratti di alberi

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  • Ventiquattro mesi senza toccare pennelli e colori: un time-out necessario a smaltire quattro anni di sbornia astratto-informale. Poi, d'improvviso, un pomeriggio del 1958 – la città è Parigi, la stagione è l'inverno – al pittore, unico inquilino di rue Jean Zay, a Montparnasse, torna la voglia di dipingere. A propiziare il miracolo è l'opulenta nudità di una giovane amica esaltata dalla luce che filtra dalle vetrate alte sette metri dello studio appartenuto a uno scultore di successo: Poisson, allievo di Rodin.

Citazioni

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  • L'atmosfera si fa sciamanica: il pennello, un tutt'uno con la mano del pittore, insegue con segni veloci e sicuri la danza degli occhi, un vertiginoso ping-pong tra la modella e la tela. Un quarto d'ora ed è tutto finito: Juliette può rivestirsi e allontanarsi dall'atelier. Quanto al pittore, interiormente esausto, rimane ancora un po' davanti al cavalletto a guardare in silenzio il suo Nudo in piedi, una piccola tela dove sono rimasti impigliati per sempre il profumo, la seduzione, la gioia di vivere della bella parigina: una tela piccola, ma capace di contenere un grande urlo liberatorio: se ancorata alla realtà, la pittura figurativa è ancora possibile! Riconsacrato alla tavolozza (per il momento monopolizzata dai neri e dai bianchi), Paolo Vallorz può riprendere il cammino interrotto nel 1956. Manca solo un rito purificatorio e lo esegue: ricompra le sue poche tele astratte e vi ridipinge sopra: un gesto da leggenda! (p. 31)
  • Giova partire dal 1949, dall'approdo a Parigi del diciottenne pittore sans papier reduce dalla parentesi all'Accademia di Venezia con Guido Cadorin: per sei mesi Vallorz, affiliato ai blusons noirs, vive di espedienti tra Montmartre e il Quartiere Latino. Quanto alla pittura, ben presto diventa un alfiere della dissoluzione della figura: condivide i suoi "astratti furori" con pochissimi sodali (un lustro più tardi gli anti-figurativi diventeranno legioni): Tinguely, Riopelle, Klein, César, Burri, Fontana. Il viaggio comune nella terra dell'ignoto prosegue per qualche anno, poi, nel 1956, proprio in coincidenza con i primi riconoscimenti internazionali, Vallorz fa un brusco dietrofront: quell'arte, così lontana da ogni riferimento con le cose che per lui contano, non lo soddisfa più. Con un taglio netto decide di lasciare agli altri la torta delle trovate, dei bluff e delle provocazioni. Se proprio deve essere "astrazione", ecco la sua ironica ricetta al fiele, bisogna celebrare l'astrazione perfetta: e smette di dipingere. (pp. 31-32)
  • Con l'aiuto iniziale di Jean Tinguely, progetta un'auto da corsa: degno figlio di suo padre (Amadio el feràr, il fabbro di Caldès, il borgo della Val di Sole dove è nato), fabbrica con le sue stesse mani una carrozzeria avveniristica con stampi ultraleggeri in poliestere. Quanto al motore, ne rimedia uno stagionato da un bolide Renault d'occasione. Il risultato finale sarà eccellente e Vallorz nel 1958 potrà sfrecciare alla 24 ore di Le Mans. Mentre lavora al prototipo, un giorno riceve la visita di Pierre Restany, il critico che nel 1954 aveva benedetto la sua prima mostra astratto-informale. Vuol vedere a che punto è con la "scultura cinetica". Ormai abissalmente distante da quella temperie culturale in cui tutto si può spacciare per arte, Vallorz, col suo consueto pacato e sommesso parlare, chiarisce l'equivoco: "Non è una scultura, ma una vettura". (p. 32)
  • Altra visita cruciale nel febbraio del 1958: è Yves Klein che va a trovarlo per un consiglio su come indurire le spugne a cui sta lavorando. Vallorz suggerisce di provare con l'immersione nel plastificante che utilizza per la carrozzeria. Valutato come ottimale il durcissiment ottenuto, Klein consegna a Vallorz duecentocinquanta spugne per il bagno nella resina già "accelerata" riservando per sé l'ultimo tocco: una spruzzata di puro pigmento blu oltremare da lui brevettato sul finire del 1956 con l'acronimo IKB: International Klein Blue. E voilà: la spugna non è più un dozzinale oggetto d'uso comune ma un'opera d'arte, S-E: Sculpture Éponge, pronta a svettare come nuovo feticcio delle aste: diventerà, manco a dirlo, uno dei pezzi più contesi dai collezionisti fino agli anni Ottanta, quando scoppierà la "bolla" speculativa dell'arte contemporanea. (pp. 32-33)
  • Mettere a nudo: un'espressione corrente che indica nella nudità l'assenza di infingimenti e di corazze. E dunque: per Vallorz, la via dell'autenticità non può che ripartire da lì. Anche perché lui sa bene che il corpo altro non è che il prolungamento della testa. Di qui, una scelta conseguente: le modelle non possono essere professioniste ma vanno cercate nella vita. E così sarà sempre: sulla tela del pittore finiranno solo donne incontrate nella vita, spesso ai margini della vita, come Jeanne la prostituta. Donne colte nel fiore degli anni, come pure nella stagione del declino, donne belle e donne non belle (meglio però se in carne). Data 1962 il nudo di Donna incinta allo specchio: a posare è la moglie di allora, Mathilde, un'armena che in famiglia chiamano Seda: nascerà Nicola e sarà l'unico figlio di Vallorz: a lui andrà quella tela. Dopo la bellissima Eva incinta nuda immortalata nel Quattrocento da Jan van Eyck nel Polittico di Gand in Belgio, la pittura intona un nuovo canto alla gonfia maternità senza veli. Nel 1964 è la volta di Violette Leduc, 59 anni, scrittrice "maledetta", intima amica di Simone de Beauvoir. Il suo nudo è un vero capolavoro: un essere rattrappito in piedi su un fondo scuro, il capo reclinato e le mani sul grembo: una figura dolente da Cristo in croce: se ne ricorderà Jean Clair nel 1989 al momento di selezionare le opere per la Biennale di Venezia del centenario. (pp. 33-34)
  • Cento le donne che hanno posato per Vallorz, cento meno una: la ragazza fuggita dal suo atelier perché aveva scambiato il cavalletto per una ghigliottina. A distanza di anni, Vallorz l'assolve: "Forse – sorride – non aveva tutti i torti". (p. 35)
  • Dapprima i nudi, poi gli alberi e gli artigiani della Val di Sole sono i soggetti che riconducono Vallorz alla pittura, il cui baricentro, intanto, si va progressivamente spostando da Parigi a Caldès: dal chiuso delle stanze al plein air, dallo smog della metropoli all'aria pura dei boschi, dal sofisticato spleen intellettuale a una rude festosità montanara. In questa nuova stagione creativa, un ruolo chiave tocca a un sontuoso maggiociondolo del monte Grum, in Val di Sole. (p. 36)
  • Torniamo al maggiociondolo: Vallorz lo ritrae nel giugno del 1985 e vorrebbe tornare a dipingerlo anche l'estate successiva ma lo aspetta un'amara sorpresa: la maestosa pianta è stata abbattuta: quando arriva lui è già legna, è sopravvissuto solo il ceppo e pare una testa mozzata da una ghigliottina. Per Vallorz, una fitta al cuore che lo induce a fare qualcosa di concreto per salvare gli alberi a lui più cari: i "nonni" della Vezzena, tre abeti con il fusto alto oltre quaranta metri che da un rialzo dominano la grande abetaia. Solo comprandoli, Vallorz può essere sicuro della loro incolumità. E così in cambio di un suo quadro donato al comune di Malè, proprietario dell'area interessata, Vallorz porta a casa un solenne impegno firmato dal sindaco: lui in vita, nessuno molesterà i giganti vegetali. La storia è bella ma non ha un lieto fine. Nella primavera del 2003, appena giunto da Parigi, il pittore va a salutare i tre abeti: li trova schiantati, radici all'insù: una tromba d'aria si è accanita su di loro. Tre amici persi per sempre. A Vallorz non rimane che celebrare quel trapasso con la sua arte: lo farà con due olii e un'ispirata serie di disegni. (pp. 37-38)

Torniamo all'arboreto pittorico di Vallorz e diciamo subito che parlare di dipinti di alberi è nel suo caso riduttivo: è più che pertinente parlare di ritratti di alberi. Altra notazione significativa: gli alberi ritratti non annegano mai in una definizione generica: accanto al nome della specie, nel titolo figura sempre, quasi fosse un paronimico, anche il nome del luogo in cui esse vivono: Grum, Caldesa, Vezzena, malga Selva, pozze delle Ass, Frate, Mezòl, prà del Conz, lago delle Salate, Mas del Tolameott, Rocca, Cortinga alta, Samocleva. Anche i pittori unb tempo erano conosciuti con il loro nome associato al paese natale: Antonello da Messina, Leonardo da Vinci, Cima da Conegliano. Pure Vallorz, al pari dei suoi amati alberi, ha le sue radici in Val di Sole. Già, le radici: non si riflette mai abbastanza sul fatto che questa nozione fondamentale per l'evoluzione dell'umanità è un calco dal regno vegetale. ma questo Paolo da Caldès lo ha sempre saputo.

Sfarzo d'inesistenza

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  • Estate, molle stagione | di cocomeri e baci | e di pomeriggi felici | che non giungono a tradimento. || Eppure non mancano | afflizioni e mestizie, ma si vive | con una certezza: sempre al pianto | seguirà la dimenticanza del pianto. (da La dimenticanza del pianto, p. 13)
  • L'inerzia: uno sfarzo | d'inesistenza che va oltre | l'ozio e rallegra le ore | – che non sono più tali. || Estromesso dall'oggi | e incurioso del poi: | era aceto e ora vino si mesce. || Esulta il cuore | per lo sgoverno dell'io | e incredulo ribalbetta | il suo canto più vero. || E le mani: lucertole | appagate da un sasso | ma tosto guizzanti | se vaghezza | s'insinua d'un seno. (L'inerzia, p. 17)
  • Estate, stagione pagana | dai piaceri roventi | e con i rovelli che svaporano | sull'arenile di un mare non più lontano. (da Estate pagana, p. 21)
  • Pure oggi che invano il ticchettìo | abbiamo atteso della pioggia | non è mancato il ristoro | di ricordanze di scatarosci. || Dividiamo abusati pennacchi d'ombra | con formiche: eserciti di formiche | armate di faccia tosta a presidio | di tre acini purulenti di zibibbo. || Più tardi – all'imbrunire – ammireremo | l'esatta scienza di rospi-rabdomanti | diretti senza dissipazione di salti | verso stagni e freschi anfratti. (Ferragosto, p. 29)
  • Onde come ventagli | (che sventolio di libeccio). || Nuvole come lenzuoli | (che calmeria di ozi). || Occhi come oceani | (che largheria di vedute). || Conchiglie come oceani | (che zampillio di baci). (Salinelle (on the beach), p. 31)
  • Un racimolo di cirri | in un cantuccio di cielo, | in lontananza un mare | solcato da lievi canizie: | e il mio allegro andare | da me a te. || In testa un chiaro cappello | e pensieri audaci | come primi baci: | e tra me e te | solo una porta senza casa | agghindata con fiori lillà. (La porta lillà, p. 35)
  • Notte che difetta di luna | ma che non difetta di rena e di te. || Ci sono occhi: li sfioro. | Ci sono mani: le allontano | (sono manette le mani nelle mani). | Ci sono capelli: lunghi capelli e tanti. | Ci sono parole: parole contate | per l'alleanza tra il silenzio e i baci. || Notte che difetta di luna | ma che non difetta di rena e di te. (Notte che difetta di luna, p. 39)
  • Cavaliere errante | in un podere lillipuziano | cinto da fortificazioni | inesistenti eppure invalicabili. || Challenger catafratto | da un coppola appena | nella singolar tenzone | mezzogiorniera con Febo. || Pensatore per millimetri | e dicitore di cunti | affinati per anni | nella botte della ruminazione. || Vorrei esserti garzone | nell'arte stizzosa delle giostre | e perciò l'orecchio tendo: ma | annitrio di Brigliadoro più non sento. (Cavaliere dei campi, p. 43)
  • Marinaio dei campi, | cedi la tua lieve impronta | alle zolle della vigna | e tra l'intrico dei tralci | della dolcissima inzolia | con l'arte delle tue dita sosta | e con lo spago dell'ampelodesmo. || Esegui per i sarmenti la danza | alchemica dei legacci e dei nodi, | plasma l'antefatto | del grappolo e del palmento | e del brindisi degli amanti: | fosforo avranno negli occhi | e il sangue sarà un mosto che bolle. (La danza dei nodi, p. 45)
  • Meglio ancora un andare da foglia: | aquilone al guinzaglio | annodato a una zolla | per un andare e tornare col vento. || E pure avanzo pretese sul rancio | e comando che abbondi di zagara e sale. | E dunque: l'albero sia un arancio | e piantato al cospetto di un mare. (Da La foglia d'arancio, p. 53)
  • Ed ecco – ed è un botto – il risveglio | per somma di luce e di voci: | imboscata inaudita che introna | le larve che a frotte e con ridde | inverano il sogno: | fiorita impostura | – un bacio proibito | o una rosa sull'onda – | per l'uomo angariato! da una soma che suda e che pesa: | il proprio corpo di muscoli e tarli. || Pure è norma | esser uno e sgomento! e rattoppare la vita | con lo spago del tempo: più corroso ogni giorno | ogni giorno più corto. (La morienza dei giorni, p. 55)
  • Imperiosa opulenza | di porpore e zafferani, | transiti impettiti | di nuvole aranciate. || E che oltranza di aromi | nelle serpaie occhiute di sassi | dove il grecale arpeggia | la cetra del rosmarino. || Ed ecco uno squinternato rabbuffo: | la ferula del pecoraio | percuote il ghigno del mascherone | che imbriglia e conclude la polla. || È vero: scarseggia il verde | ma se impasti il cobalto del cielo | con l'oro dei campi di grano | colma ne avrai la tavolozza degli occhi. (La tavolozza degli occhi, p. 49)
  • Datemi un andare | che non sia un ruscello | e neppure un uccello | e nemmeno un vascello. || Voglio un andare | che sia un appena andare, | un andare da zoppa lumaca | che abbia nell'indugio il suo ballo. || Meglio ancora un andare da foglia: | aquilone al guinzaglio | annodato a una zolla | per un andare e tornare col vento. || E pure avanzo pretese sul rancio | e comando che abbondi di zagara e sale. | E dunque: l'albero sia un arancio | e piantato al cospetto di un mare. (La foglia d'arancio, p. 53)

Il centro del sempre

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  • Ed ecco all'aurora | un cricchiar di stivali | nella pervia giogaia: | un fondiglio sonoro | che è per le blatte | come il moto d'un tuono.
  • Ammutinamento in cielo: | una torma di nubi | fa schermo all'azzurro | ed esige l'esistere | di un tempo lungo: | l'infinito di un giorno.
  • Indifferenti al portamento | regale dell'errante | leoni di pietra | a guardia di bivieri | certificano il sacrificio | di moltitudini di mete.
  • La pasticceria vegetale | di un giardino rutilante | di loti e di arance | dà profumato conto | dell'oltranza di una pasciona | più munifica dello scialo.
  • La fata Morgana | è un'imboscata cortese: | torneamenti cerimoniosi | di catafratti cavalieri | per algide damigelle | tra la polvere e le stelle.
  • E sembrano fantasime | raccozzate dal farnetico | per imbrogliar la mente: | pure non rallenta il piede | perché è come un aratro l'arto che non vede.
  • Angeli musicanti | intonano stornelli | in un siciliano omerico | per foglie cipolline | in caduta libera | da onesti patiboli.
  • Il tinnire di campanacci | induce a indovinare | pasture di mucche | e silenti abitatori | di erbosi rialzi | con vista mare.
  • Transita la querimonia | di un asinaio orbo: | trasporta giare badiali | che il mastro conciabricche | ha acconciato sugli arcioni | con groppi da marinaio.
  • Ciclopico varco | e ostiario nano: | inservibile oltre | se il centro del sempre | è un cuore di seta | colmo d'attesa.

Labbreggiature

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Il mio fu un viaggiare | solo per sostare. (Elogio della sosta, p. 19)

  • Dopo i manicaretti | sempre si torna al pane. (Il pane, p. 23)
  • Imbrattare un foglio candido: | scrivere, in fondo, | è il gesto di un vandalo. (Scrivere, p. 31)
  • Deleghiamo agli altri | ciò che non sappiamo più fare: | i lavori sporchi e il pensare. (La delega, p. 33)
  • Irrita a volte | lo strepito della pioggia: | che impari dalla neve! (Lo strepito, p. 45)
  • Per una pugnalata alla schiena, | come per un bacio, | bisogna essere in due. (La pugnalata, p. 51)
  • Fiato, fiato mio: | presto, baciami | e diventa mio fiato! (Fiato mio, p. 61)
  • Come credere | alle parole dette | se anche "ghiaccio" | è caldo di fiato. (Le parole dette, p. 69)
  • Ogni tanto l'orizzonte | spalanca la bocca | e inghiotte gli sguardi | troppo indiscreti. (L'orizzonte, p. 75)
  • Per gustare appieno | quest'ora che vola, | dovrò aspettare | che diventi memoria? (L'ora che vola, p. 83)

Cerimonie della calura

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  • Lo skyline è quello prediletto: | il monte che sembra | un leone accucciato. | Poi: mandorli strinati | ulivi tarchiati | sassi strampalati | e incredibili case basse: | confortevoli containers | privi di copyright. || Basta un riverbero: | s'accendono le tegole | e nugoli di mosche | improvvisano danze | sui muri di calce e di gesso. | Si smorza la scorza dei volti | mentre si brinda con vino rosso | versato da ziri di terracotta. (da Tramonto di luglio, p. 11)
  • Nardo tra i capelli | keora sul collo | champak sul seno | gelsomino sulle mani | patchouli sui polsi | sandalo sulle ginocchia | croco sulle caviglie. || Fummo dirimpettai del mare: | le sabbie per cuscino | e per lume un limone.|| Si è sfarinato ormai | il nostro bordeggiare: | sette profumi svaniti | e sette piaceri seppelliti. (da Sette profumi, p. 20)
  • Quarantatré strade | dove le stagioni | arrivano a dorso di mulo | in figura di frutti di campo. || Bracieri che avvampano | sotto tetti di canne | per contadini orbi invitati | a declamare poemi omerici. || Ingramignati poderi | da tutti chiamati chiuse | sebbene le pietre del limite | siano ormai fili di seta. || Mandorli in fiore | punteggiano a Natale | una terra non marina | ma che il mare vede. (Terrae Harminusae, p. 25)
  • Varcano d'imperio la soglia di casa | le stradalinghe di Aliminusa | cariche di ceste ricolme di bucato. || Con canne aguzze percuotono in coro | anelli e tiranti in usurato metallo | e issano indomite i loro umidi vessilli. || All'improvviso il clangore si spegne | e la strada sassosa è un rigonfio veliero | ove s'ode appena il fileggiare dei lini. (Le stradalinghe di Aliminusa, p. 26)
  • Dipinta a mano campeggia solitaria | l'insegna della rinomata barbieria | di mastro Epifanio Lanza fu Gioacchino | in via delle Rimembranze, | vicino alla Matrice. || Dentro: quattro paesani in oziosa chiacchiera | e uno insaponato, un vassoio con sei caffè, | un ingrommato pendaglio moschicida | e un calendario consumato da occhi sbottonati. || Con polso sicuro il barbiere maneggia il rasoio | mentre con la mano libera accende sgraziati gesti | a significare passionali assensi o dissensi | che un vecchio specchio faticosamente raddoppia. || Non assolve e non guarisce mastro Lanza: | ad altri di uffici così estremi la spettanza. | Scipiti entrano i fatti nella bottega delle dicerie | e insaporiti escono con il pepe delle vanterie. (Le spezie della barbieria, p. 27)
  • E mentre due ridestati felini scuotono | dal torpore il pasciuto giardino | tu innaffi le trentasette rose | che in agosto io coglierò per te. (da Trentasette rose, p. 32)
  • Con il suo lesto compasso di gambe, | completa il compratore il perimetro del campo | e poi spara il suo prezzo al ribasso. || Non vedo il pozzo, incalza il compratore | – e pare san Tommaso agrimensore – | e non vedo la gebbia per l'acqua piovana | e nemmeno la vena d'una sorgiva di Soprana[24]: | e se vedo tre piedi di fichi, non vedo gli ulivi. || Non c'è terra in Sicilia più massara di questa | – godiamoci ora la recita del venditore – | qui il frumento è da mietere a maggio, | c'è un gelso già alto e dovizia di fave e foraggio | e se piove o c'è un sole che cuoce, ecco il noce. || Si sa già la stoccata finale – l'ha decisa il sensale – | ma il duello è rituale e s'infiamma di sputi e di vanti | tra frantumi di zolle e contanti con facce importanti. | Alla sera, la resa: e tra i due, ormai stanchi, una stretta di mano e le teste distanti. (Il negozio del campo, p. 39)

Beati. On the road in the room. Aforismi e fotopastelli

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Non bastano il letto e i comodini: | diventerà stanza del sonno | solo con un enigma e due angeli.

Citazioni

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  • Nelle camere colme di cieli | dove l'indovino sgomitola sogni | il labbro morde musi di nuvola. (Morsi pindarici, p. 18)
  • Tra i quadrupedi sottomessi | dall'uomo, è lecito includere | anche il popolo delle sedie? (Quadrupedi, p. 22)
  • L'erranza in una stanza | senza draghi con fiati di fiamma | è l'impresa che al paladino manca. (Erranza, p. 26)
  • L'occhio ciclopico della pentola | non si lascia accecare | dalle zucchine della vivandiera. (Occhio di pentola, p. 30)
  • Già calce che cuoce | nel muro ancora ribolle | un fiato di vulcano. (Fiato di vulcano, p. 34)
  • Che sia la conta delle ore | o il conto dell'oste poco importa: | vince il numero e perde la parola. (Numero uno, p. 50)
  • Sguaina dalla tasca | la mano che fu una spada | e tra le dita lievita un pane. (Pane di spada, p. 54)
  • Sulla soglia irrompe il dilemma: | sfidare la fucileria della strada | o sventolare un petalo per resa? (Sulla soglia, p. 58)

Lo scialo dei fatti

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  • Eccomi a mani alzate: | e non è l'usato tic di chi vince | bensì il limato gesto di altra razza: | di chi da tempo si allena alla resa. (A mani alzate, p. 19)
  • Si assottiglia l'attesa: | era un mare ed è ora | la distanza di seta | di uno sguardo d'intesa. (L'attesa, p. 20)
  • Non fu per ira | se quella notte | il vento spiccò dall'albero | cento mandarini e li lanciò in aria | senza la grazia del giocoliere. (Non fu per ira, p. 21)
  • In attesa di essere altro, | vaga svagata nel sommo | una nuvola color zafferano: | sarà il muso di un vento | o una pioggia sul giallo del grano. (Muso di vento, p. 23)
  • Il giogo non è più del genere canaglia: | catene al piede e un giaciglio di lurida paglia. | È piuttosto un indefinito senso di fodero, | un chiuso senza sbarre da cui non si evade | con la lima di un panettiere libertario. (Il giogo, p. 25)
  • Luogo di frodi è il dizionario alfabetico, | dove l'incorrotto abita a fianco dell' iniquo. | Ci vorrebbero almeno due distinti volumi: | uno ad aprirsi con le trombe dell' arcangelo, | l'altro a chiudersi con lo zolfo di Belzebù. (Dizionario di frodi, p. 26)
  • Posto che l'affanno è solo quello | – non farci sorprendere dal morire – | in fondo, per vivere basta poco: | osservare una tavola di comandamenti | o infoltire il catalogo di un Leporello. (Ricettario, p. 27)
  • Gli scuri spalanco | e sveglio all'aurora | la luce bambina | che un poco ancora | come un'arancia | vorrebbe dormire. (La luce bambina, p. 32)
  • Poi, all'imbrunire, la grande magia: | una luce stremata | si arrampicava sui muri di calce | e dal tetto più alto | cantava la sua ultima rosa. (L'ultima rosa, p. 33)
  • Si sta sul chi va là | come marinai in vedetta | posseduti dalla smania | di additare per primi | la terra promessa di un germoglio. (Primavera, p. 34)
  • Con gli orli rinnovellati | da una copiosa canizie | sembrano i monti migranti: | in pacioso bivacco | in attesa di un prossimo | e più propizio partire. (Monti migranti, p. 36)
  • Bocca che a maggio | cerchi la bocca | per dire l'amore | che non sa dire parola. || Bocca un po' in colpa | per le cose mai dette: | bacia e continua a tacere. (Bocca di maggio, p. 38)
  • Il morso e il sorso, | il bacio e il sorriso. | E poi: le parole | morso, sorso, | bacio, sorriso. || Ah, la bocca! | (la bocca e la parola bocca). (La parola bocca, p. 39)
  • Nel tuo cielo di pancia | ignaro di nuvole | fabbrichi il sole | e i giorni che verranno. || Busserai col pianto | e ti aprirà un angelo | e avrà per te un po' di mondo | che prima era del vento. (Cielo di pancia, p. 40)
  • E, d'estate, che ore d'incanto: | con l'arsura domata dal pozzo | casti baci tra spighe bollenti | e ghirlande di silenzi appassionati. (da Le case di Granza, p. 41)
  • Brezze di menta pizzicano | platani in figura di polene | mentre carote come triglie | abboccano all'amo delle mani. || Nel campo di mare | onde rapprese in solchi | a luglio schiumeranno | pennacchi di spighe d'oro. (Campo di mare, p. 45)
  • Plateale è l'impresa: | torcere disorientate nubi | in figura di lenzuola | incagliate tra pance di balconi. || E non manca chi guarda: | per lo più femmine | e un carrettiere che ubriaca | col vino del suo canto. (Femmine, p. 47)
  • Una mosca, la tosse, | una nube, un rumore: | basta un nonnulla | e son guaste le ore. || Un canto, un ruscello | un'arancia, un rossore: | basta un nonnulla e son belle le ore. (Le belle ore, p. 49)
  • Rima, non ti svelare, | resta non detta | o nel bianco nascosta, | dove il verso si concede una sosta. || Dalle ore sia bandito il dolore | e, dovendo fabbricare una croce, | non si vada alla catasta del noce. || Il conforto stia lontano dal torto | e l'amore... l'amore | si annunci pure a chi vuole | ma lo faccia senza più il garbo di un fiore. (Amore senza fiore, p. 52)
  • Porta briglie d'oro | e mani di mestolo: ho mari da riempire | (con cavallucci e coralli). || Porta mollette | e un canestro di vento: | ho cieli da stendere | (con rondini e con stelle). || Porta labbra di rose | e un pugnello di farina: | è la provvista degli amanti | (pani pochi, baci tanti). (Mani e rose, p. 53)
  • Mani che fasciarono seni | mani che dissero l'addio | mani che scalarono gambe | mani che che solcarono cieli | mani che colsero rose. || Rose diacce di mistral | rose fustigate dal pampero | rose sabbiate dallo scirocco | rose scarmigliate dal libeccio. || Mani innamorate eppure devote | a San Tommaso: perciò per amare | pretendono prima di toccare l'amore. (Mani e rose, p. 54)
  • C'è chi allinea parole | come c'è chi affetta il pane | chi conta le ore o le stelle | e chi conta sempre balle. || C'è chi vuole eternare un cipiglio | chi il ribrezzo per lo sconcio di un colle | chi l'ostento del canto di un grillo | chi il traballo sul ramo di un merlo. || Quanto a me: non so domani | ma oggi scrivo solo per somigliare | a una brezza di mare quando s'impiglia | tra le forche di un mandorlo in fiore. (Brezza di mare, p. 58)
  • Vento con l'occhio lungo | e il fiato di zagara | e una coda inaudita | vento quassabondo | che grazi le vele | e rabbuffi le rose | vento mai sazio | di foglie cricchianti | e di ombrelli e cappelli | vento libertario | che beffi confini | e ingarbugli bandiere: | presto, entra a casa mia | e, se trovi un fosco cuore, | insuffla due grani di allegria. (La coda del vento, p. 60)
  • È d'un tratto sovrano tra i suoni | il gorgoglìo d'un fugace ruscello: | un equoreo fulmineo serpente | che percuote la strada in pendìo. || In fretta accendo il camino | e stappo una bottiglia di vino: | poi resto in silenzio e assaporo | dell'acqua che scorre il rumore. || Pure il fischio dei tordi | al riparo nei nidi tra i coppi | adesso si fa rado e sommesso: | e più non s'ode quel raglio lontano. || Altri ceppi non reclama la vampa | e più rosso che chiaro è il bicchiere: | è stata munta la nube in un niente. | Piove ancora ma ora piove più piano. (Il rumore dell'acqua, p. 68)
  • Moriremo senza capire. | Ma non è grave: | pure non capiscono | l'arancia che stringo in pugno | la serpe che si struscia sul sasso | il noce che mi ripara dal sole. || Capire: tarlo divino | cilicio di una folle ragione | mistura di arsenico e mile. || E allora: lasciarsi cullare | dall'indicibile. || Con misurate illusioni: | ché ha casa nell'uomo | il capire e mai rinuncerà | al suo mazzo di chiavi. || Sarà allora utile apparecchiare | un duplice piano di conforto: | il libro delle orazioni | e una cassa di Armagnac. (Tarlo divino, p. 70)

Citazioni su Lillo Gullo

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  • Abbreviature di realtà, certo. Di paesaggi e di storie. Nella sistole delle rime. E nell'abbrivo delle vicende. Una rimalmezzo, che alle "formiche" associa le "molliche", basta a evocare, e a far crescere attorno, la fiaba vegetale e profumata del giardino della memoria. Nel quale il paesaggio è una cantilena: Alba non è ancora, / buio fondo non è più: / è l'ora blu... Le voci e i suoni, certo. Ma perduti ed evocati. Amorevolmente e disperatamente evocati. [...] Sotto la calura, incalzata dall'arsura, l'isola-giardino di Lillo Gullo è il recinto magico di incantevoli metamorfosi. Saviniane. Se chi zappa "tre tumuli di sodaglie" è Nicàsio Dolcemascolo. Se l'assenza è un sogno goloso, un sollievo di parole. La memoria è pittorica. Più vicina a Rembrandt che a Guttuso. E parla un lessico, che ha l'aroma arcano di un dialetto omerico, e non disdegna la rimemorazione più recente. Da Quasimodo a Brancati. Lillo Gullo è un miniaturista affabile. E la sua, è un'isola portatile. Quella che ogni isolano si porta nella memoria. E fa rivivere per magia e cerimonia di linguaggio. Come giardino dell'infanzia. Animato. Stupendamente animato. (Salvatore Silvano Nigro)
  • Accompagnato da una prefazione di Giorgio Barberi Squarotti, esce da Nicolodi (Rovereto) il secondo libro poetico del siculo-trentino Lillo Gullo, Sfarzo d'inesistenza. Diario minimo di due estati in una («Estate, molle stagione / di cocomeri e baci»), le poesie di Gullo si traducono in una sorta di elogio della stasi e della lentezza, dell'inerzia e del torpore. Un io negato (o meglio «sgovernato») che muove passi di lumaca catturando «calmeria di ozi» e «largheria di vedute». Ma soprattutto una cifra ironica e lieve. Giochi di lettera e di parola, rime argute, lessico estroso, musicalità metastasiana per un canto che «scarroccia» tra dolcezza e volubilità. (Giovanni Tesio)
  • È, Gullo, un poeta raffinatissimo, suasivo, giocoso e ironico, avventuroso e amoroso, ma, in fondo, con il ritmo agile, e profondo al tempo stesso, della "divina malinconia" del cuore. Sfarzo d'inesistenza, nella vicenda di due anni, narra ed evoca due estati di mare, di luce, di presenze rapide e argute di corpi amorosi, con l'aggiunta, a tratti, di memoria e di racconto di luoghi paesani, non tuttavia proposti come descrizioni realistiche, ma piuttosto come fulminee e gioiose esperienze d'infanzia o come visioni un poco fantastiche, in quanto partono dal nome per giungere fino alla sicura musica del sogno preziosissimo della parola. Tutta la raccolta di Gullo si svolge in tanto fervore di immagini, di segni di vita, di piacere della descrizione della stagione della piena creatività dell'anima, sempre. Mare, estate, baci sono le allegorie supreme del valore e della persistenza del tempo, per il tramite di una poesia essenziale e sicura. Così il trascorrere delle ansie del cuore viene superato dalla musicalità e dalla giocosità della parola. È un risultato poetico davvero raro di trionfale conquista della poesia. (Giorgio Barberi Squarotti)
  • Ha molto talento: sia verbale che ritmico. (Pietro Citati)
  • Il demone aforistico ha fatto scoprire a Gullo quanta volontà definitoria riposasse dentro di lui e, messosi a servizio della sua vena lirica, gli ha consentito di dare forma di poesia ai tratti e ai contorni solitamente sfuggenti di cose, di atmosfere, di idee, di sensazioni... Gullo ha tutte le qualità del poeta di aforisma: prontezza puntuale e senso della situazione, incisività e gusto espressivo, misura verbale e musica efficace, riconducendo così all'unità della visione ogni oggetto mentale della sua capacità di definizione. (Paolo Ruffilli)
  • Il suo lirismo si stempera spesso in ironia e l'ironia si addolcisce di malinconia. (Giuseppe Conte)
  • La concisione è una virtù naturale della poesia: diciamo pure che senza concisione, senza economia del dire, difficilmente si arriva a trasformare la parola in poesia. Eppure esistono poemi epici e poemi fluviali, testi in cui l'essenzialità della parola può coincidere anche con un fiato ampio, con un dire narrativo. Non è questo, sicuramente, il caso di Lillo Gullo, che predilige le forme brevissime, e che le pratica con sicurezza e abilità: Quando ci chiederanno | di salvare gli oggetti | secondo il suono | che li designa, | sappiate che il mio voto | andrà all'imbuto. Nell'introduzione a questi Pensieri di legno, Paolo Ruffilli, uno dei poeti d'oggi più validi e attenti alle altrui esperienze, ci parla di una dimensione aforistica, e dunque di una tendenza alla definizione, che costituirebbe l'aspetto più chiaro e vivo della poesia di Gullo. In effetti è impossibile dargli torto. Se non ché, per paradosso, il tipo di definizione che pratica Gullo è quello di una definizione aperta, e dunque capace di ulteriori significati oltre quelli che pure enuncia senza timore. E infatti, oltre all'aforisma, quanto meno inteso secondo un'accezione occidentale del termine, risalta nelle poesie di Gullo una vicinanza spontanea con certi ben noti generi tradizionali di una poesia orientale, giapponese soprattutto, come l'haiku e il tanka. Eccone un esempio, delicato e semplice nella sua realizzazione, che tutti ci può coinvolgere o ritrarre di sorpresa: Senza i portoni, | il commiato | degli innamorati | sarebbe ugualmente | prodigo di baci?. O, su un piano più alto: Risuona nel ramo fiorito | l'urlo primordiale dell'universo: | il big bang di grazia e spavento | che moltiplica gli atomi | e incista vita dove c'era vento. (Maurizio Cucchi)
  • La poesia di Lillo Gullo è, al tempo stesso, elegantissima e ingegnosa, giocosa e sapiente, con l'eco sempre di divina malinconia e di saggezza che dà un sapore antico di vita di ricapitolata esperienza. I testi, per lo più, sono brevi, essenziali, nettissimi nel fissare il punto decisivo di un evento del tempo e del luogo, di una reazione dei sensi e dell'anima, di una lezione incisiva, di una fulminea comprensione di un'occasione da non perdere perché si offre come una prova per un istante e, se non è colta, allora subito prevarica nel senso della perdita, con il rimpianto che ne consegue. La parola poetica è data proprio per non perdere il momento decisivo della verità che si ha, d'improvviso, per dono divino. Come rapido è il testo, così il metro è breve, sempre sorretto da una suasosa musica che alacre suona e dice attesa, gioia, avventura, riflessione, soprattutto emozioni d'amore. (Giorgio Barberi Squarotti)
  • Un fresco naturalismo di quadrelle vivacemente colorate, talvolta, come in Odorosa penombra, di amabile rilievo cavaraggesco. Dopo tante poesie che negli ultimi anni hanno privilegiato il negativo, l'oscuro, il minimalismo o il rassegnato, ecco un giovane che "canta" la gioia della convivenza umana tra il fraterno e l'erotico sullo sfondo di una natura decisamente amica. Una metrica leggera di eccezionale grazia e musicalità convoglia sentite e comunicative visioni di "piaceri terrestri" eppure "celesti". Mi piace segnalare l'ariosa ironia di Rimario meno (Le labbra, ad esempio, sono una rima). (Maria Luisa Spaziani)
  1. a b Da I mariti con Maradona e le 80.000 mogli? Napoli e il suo idolo / Grazie al Pibe de Oro si rivitalizza l'economia sommersa - L'asso argentino, ormai «santificato», fa concorrenza a S. Gennaro – Così la domenica partenopea, L'Ora, Palermo, 23 gennaio 1985.
  2. Da L'amor cannibale di Paolo Ruffilli, literary.it, su literary.it.
  3. Hans Albert, Per un razionalismo critico, Il Mulino, Bologna, 1974.
  4. Da Conoscenza e impegno: le proposte del razionalismo critico, Verifiche, Anno III, Numero 2, Giugno 1974, p. 213.
  5. Bocca che taci, Resine, Quaderni Liguri di Cultura, (Nuova serie), Anno XXIV, n. 94, Ottobre-Dicembre 2002, p. 58.
  6. Pugnali di luce, citato in Centro Internazionale Eugenio Montale, Vent'anni di poesia. Antologia dei poeti premiati 1982-2002, presentazione di Maria Luisa Spaziani e con un intervento di Mario Luzi, Passigli Editori, 2002, p. 121.
  7. La rinuncia, citato in Maurizio Cucchi, Scuola di Poesia, Specchio della Stampa, n. 383, 26 luglio 2003.
  8. Eppure, con un disegno di Giuseppe Maraniello inciso su legno di bosso da Adriano Porazzi, Edizioni Pulcinoelefante, edizione 6209 in 30 copie, Osnano (MI), Settembre 2005.
  9. Da Profumi trentini nell'America di Galep; in AA. VV. Tex. I cinquant'anni di Tex. Omaggio a Aurelio Galleppini. L'evoluzione di un mito, Comune di Trento, con la collaborazione di Sergio Bonelli Editore, pp. 29-41, 1998.
  10. Da Popper e lo storicismo, Verifiche, Novembre 1975, Numero 3/4, Anno IV, pp. 328-343.
  11. Da Una volta tanto la sfortuna gioca in casa Una domenica positiva per quasi tutte le squadre ospiti – L'eccezione di Maradona, L'Ora, Palermo, 26 febbraio 1985.
  12. Cielo e mare, pastello di Flora Graiff, Edizioni Pulcinoelefante, Osnago (LC), 1998.
  13. a b c Da Vampira è bello, La Città Futura, Roma, 2 novembre 1977.
  14. Da Remo Wolf. La luce e l'ombra, in Remo Wolf, catalogo della mostra a cura di Giovanna Nicoletti, Comune di Arco, Assessorato alla Cultura, Palazzo dei Panni, Atelier Segantini, Arco (TN), 7 agosto - 18 dicembre 2005, pp. 17 e 19-20.
  15. Da Quei beati anni dell'affiche, in Roberto Festi, Lillo Gullo, Franz J. Lenhart, Edizioni Banca di Trento e Bolzano, Trento, 2000, pp. 22 e 24.
  16. Da Quando il «Pinguino» ritornò a Sociologia vestito da pacificatore, Trentino, Trento, 26 settembre 2013.
  17. Da Quei beati anni dell'affiche, in Roberto Festi, Lillo Gullo, Franz J. Lenhart, Edizioni Banca di Trento e Bolzano, 2000, Trento, p. 28.
  18. Da Rospi superstiti, citato in Astolfo, Anno VI, Numero 2, 1999, p. 71
  19. L'imbuto, citato in Corriere della Sera, 11 aprile 2002.
  20. Da Il palco, citato come epigrafe in Alessandro Dell'Aira, Ogni donna è una stella: Jane Wolfe & Aleister Crowley a Cefalù, Torri del Vento Edizioni, giugno 2016. ISBN 978-88-99896-00-3
  21. La foglia-rondine, Citato in Il bosco dei poeti, Dolcè (VR).
  22. Cavatina dell'orbo, citato in Colophon, n. 18, gennaio 2005, p. 53.
  23. Da Nei nostri poveri oggetti c'è il mistero dell'uomo. Intervista a Gianfranco Ferroni, uno dei maestri della pittura contemporanea, al quale è dedicata un'ampia retrospettiva a Conegliano Veneto, L'Ora, Palermo, 16 gennaio 1991.
  24. Soprana, detto anche Roccelito, è il monte che sovrasta il paese di Aliminusa. Cfr. voce su Wikipedia.

Bibliografia

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Note alla bibliografia

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  1. Questo libro documenta la mostra ospitata dal 26 luglio al 3 agosto 2008 nella cappella di Sant'Antonio di Padova a Castel Toblino, in Trentino, quale evento collaterale di Manifesta 7, Biennale Europea di Arte Contemporanea.
  2. Per scelta dell'editore il poemetto è privo del codice ISBN e della numerazione delle pagine.

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