Bernardo Valli

giornalista e scrittore italiano (1930-)

Bernardo Valli (1930 – vivente), giornalista e scrittore italiano.

Citazioni di Bernardo Valli

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  Citazioni in ordine temporale.

  • Acclamato nei comizi al grido di "Arik, re d'Israele", Sharon pensa probabilmente a se stesso come a un Churchill o a un De Gaulle destinato a salvare il paese dal disastro e dal disonore. Ma alla sua indubbia popolarità non corrisponde un eguale peso politico.[1]
  • Sharon è un uomo politico che suscita applausi, approvazioni, ma che ottiene per fortuna, almeno per ora, pochi voti. E questo atteggiamento è forse rivelatore di quel che si agita negli animi di molti israeliani: da un lato l'intransigenza che spinge a rifiutare la minima concessione ai palestinesi, a non abbandonare un solo brandello della Cisgiordania occupata, dall'altro una certa esitazione ad affidare la gestione di quella intransigenza a uomini come Sharon, che la sbandierano con tracotanza e domani l'amministrerebbero pericolosamente.[1]
  • Il clero sciita, che ha promosso e guida la rivoluzione islamica di Teheran, non è composto di vermi che si agitano nella sporcizia e nel fango, come diceva il defunto scià di Persia. Gli ayatollah, che lo hanno travolto quando sembrava all'apice della potenza, difendono l'umiliato orgoglio di un'antica nazione, la Persia, e una religione a lungo frustrata, che i loro predecessori non hanno saputo preservare e rispettare. Li difendono col fanatismo, con l'odio, con una crudeltà d'altri secoli, e con un pessimo gusto che arriva al punto di costruire nel cuore di Teheran una fontana da cui sgorga acqua tinta di rosso, per ricordare il sangue versato dai martiri della rivoluzione. Ma li difendono dopo i numerosi fallimenti dei laici, degli innovatori. La loro rivoluzione è contro il mondo moderno, contro le società occidentali, contro i pagani, dai quali per secoli sono stati presi a calci. È un orgoglio ferito che esplode irrazionalmente, con il conforto di una religione che ha conservato una carica, un'intensità che noi definiamo medievale. Senza tener conto di questo, non si può capire il fenomeno iraniano.[2]
  • Come molte rivoluzioni, anche quella iraniana segue un percorso schizofrenico. Moderati e radicali, girondini e giacobini, si inseguono, si distruggono a vicenda, e nelle fasi più intense si tuffano nel massimalismo, per non essere travolti dai concorrenti. Così in queste ore gli ayatollah abitualmente cauti, inclini al compromesso, per saggezza o per calcolo, pronunciano i discorsi più intransigenti, predicano la guerra totale, contro tutti e contro tutto.[2]
  • Per gli sciiti il potere temporale è inevitabilmente imperfetto fino a che non sarà assunto dal dodicesimo Imam, per ora nascosto. Il clero lo esercita provvisoriamente nell'attesa di quell'avvento, vale a dire dell'uscita allo scoperto del per ora irreperibile inviato di Allah. Le monarchie sunnite come del resto un tempo quella dell'aborrito scià usurpatore sono tutte illegittime, come lo sono tutti gli altri regimi nei paesi musulmani. Una prova della loro illegittimità è la complicità con gli americani e i loro lacchè. Questi principi stravaganti per la nostra epoca, ma non tanto per una religione ibernata secoli or sono, vengono adesso espressi politicamente, non si sa con quali conseguenze.[2]
  • Secondo la tradizione militare, e fatte le debite proporzioni, l'umiliazione indocinese fu molto più dignitosa di quella subita dieci anni prima, quando i tedeschi sfondarono la vera linea Maginot, al confine nord-orientale della Francia. Ma la severa lezione ricevuta dall'Armée in quest'angolo dell'Asia, tra queste sgradevoli alture, fu l'avvio della lunga, interminabile guerra, prima francese poi americana, conclusasi un quarto di secolo dopo a Saigon, nella lontana pianura del Mekong. Qui un esercito classico, occidentale, fu battuto da guerriglieri appena diventati soldati. Ed è sempre qui che è affiorato il mito dell'invincibilità vietnamita, più tardi diventato un catastrofico dogma, quando è infine arrivata la pace.[3]
  • [Sulla guerra sino-vietnamita] Con toni falsamente dimessi i vietnamiti dicono che i cinesi sono stati prudenti. Ritenendosi invincibili pensano che avrebbero potuto tener testa alla Cina abitata da un miliardo di esseri umani. È l'orgoglio affiorato dai successi sulla strada numero 4 e poi maturato, cresciuto a dismisura, via via, con le vittorie sul corpo di spedizione della super potenza americana, fino a diventare insensatezza con l'avvento della pace. La convinzione di poter sfidare il mondo intero. Un' arroganza adesso ridimensionata dalla inevitabile constatazione che il Viet Nam è ritornato ad essere un angolo del continente asiatico, un piccolo paese un tempo capace di fare la guerra e ora incapace di sfamare i propri abitanti.[3]
  • Il mausoleo di Ho Chi Minh, che sorge al centro di Hanoi, è imponente come deve essere la tomba del liberatore e unificatore della nazione. È simile a quello di Mosca, ma rivela soprattutto una retorica un po' goffa, pesante, che lo stesso zio Ho non avrebbe approvato o gradito. Nessuno osa ovviamente criticare quel monumento, neppure i giovani disincantati, saturi di racconti delle passate epopee e strozzati dalle difficoltà di oggi.[4]

la Repubblica, 3 settembre 1988

 
Teschi delle vittime dei Khmer Rossi
  • Il 90 per cento dei vecchi abitanti di Phnom Penh, quella che ho conosciuto, sono morti o sono rimasti nelle campagne dove li avevano dispersi i khmeri rossi. I nuovi abitanti, per lo più contadini, cominciano ad abituarsi alla vita urbana. La capitale respira ancora con fatica, ma i negozi si moltiplicano, i mercati sono meno poveri, e nei viali alberati, dove appena piove si riversano le fognature e si scatenano i topi che non vogliono affogare, il traffico è più intenso.
  • Non c'è famiglia che non abbia avuto qualcuno ucciso dai khmeri rossi o morto in seguito agli stenti imposti dai khmeri rossi. I khmeri rossi sopravvivono come un incubo incancellabile. E costituiscono ancora una minaccia concreta. Sono indistruttibili.
  • I cambogiani sono un popolo di filosofi. Ne sono convinto da tempo.
  • [...] quando pensano ai khmeri rossi che come i gnomi malefici insidiano ancora la pace precaria, ho l'impressione che i cambogiani li considerino come la parte selvaggia di se stessi. Come l'altra metà della loro anima, quella cattiva, rifugiatasi sulle montagne e pronta a scendere per seminare terrore, e per insidiare la metà buona rimasta a valle.
  • L'intervento vietnamita, condannato come un'invasione dalla maggioranza della società internazionale, ha in verità liberato la Cambogia da Pol Pot. E per quanto detestati, e arroganti, e talvolta anche predatori, i vietnamiti costituiscono una barriera al ritorno dei khmeri rossi. Ci si può intendere anche col diavolo, pur di evitare una nuova esperienza con loro. Lo si capisce. Hanno ammazzato un cambogiano su sette, hanno proibito la convivenza familiare. Hanno abolito il denaro e la vita urbana niente più città perché centri di corruzione e hanno cercato di eliminare gli intellettuali, nel senso più esteso del termine.
  • Non si sa dove sia. Forse è a Pechino, capitale protettrice dei khmeri rossi. Forse è in qualche valle sperduta ai confini con la Thailandia. Ma i suoi discepoli e amici guidano ancora la guerriglia. E qui a Phnom Penh si teme che dalla trattativa in corso tra le grandi potenze, tra la Cina e l'Unione Sovietica, scaturisca un compromesso, un accordo favorevole se non proprio a Pol Pot perlomeno ai suoi discepoli che seminano le mine invisibili. E chi garantisce che lo stesso Pol Pot non ritorni, nascosto nei loro ranghi? È l'interrogativo che si pongono gli intellettuali superstiti.
  • Lon Nol credeva negli indovini. Gli astri erano la sua passione. Ma gli astrologi non gli avevano mai annunciato la spietatezza di Pol Pot.
  • Pol Pot, infatti, voleva ricreare le antiche glorie, voleva far risorgere la decaduta razza khmer. Ricordo questi fatti ormai lontani perché quando un cambogiano viene a trovarmi e mi esprime i suoi timori, le sue allucinazioni (Pol Pot potrebbe ritornare; Pol Pot è pronto a scendere dalle montagne) questo posto incantato, fatto per un riposo esotico, diventa subito sinistro.
  • Un tempo il sorriso khmer era celebre. Si diceva che la Cambogia fosse il paese del sorriso. Ed è vero che i suoi abitanti sorridono spesso. Io stesso ne sono stato a lungo affascinato. Ma è ormai da tempo che ho qualche sospetto sulla loro autenticità, o meglio ancora sulla lettura che si deve fare di quei sorrisi. Tutte le favole, i racconti che sono alla base della cultura popolare cambogiana cominciano con dettagli ironici, a volte allegri, con episodi carichi di sensualità, sono ricchi di personaggi pittoreschi, re onnipotenti e bizzarri, conigli furbi, coccodrilli avidi, contadini sempliciotti, ma finiscono tutti tragicamente, si concludono precipitosamente con fatti irrazionali, con esplosioni di crudeltà che restano impunite. In When the War Was Over Elizabeth Baker, dice che quel gusto per il macabro sotto certi aspetti assomiglia a quello dei fratelli Grimm. Ma la morale non è la stessa. Le fiabe cambogiane cominciano col sorriso e terminano nella violenza. Una violenza che cresce a valanga, e che è fine a se stessa. Anche la storia dei khmeri rossi è cominciata con grandi sorrisi ed enormi speranze. Come si chiuderà l'ultimo atto della tragedia?

la Repubblica, 7 settembre 1989

 
Mu'ammar Gheddafi
  • Sui fianchi delle mongolfiere offertisi d'improvviso ai nostri sguardi ci sono due grandi facce di Gheddafi. Due volti scarni, ascetici, con occhi socchiusi che si proteggono dai bagliori spietati del cielo e della terra. Stupiti, estasiati i libici assistono all'ascensione del Qaid, il capo, la guida, il leader. C'è molto Fellini in questa Tripoli che celebra i vent'anni del regime. Nel cielo non ci sono soltanto le mongolfiere. C'è anche un dirigibile che sorvola il lungomare scarrozzando in su e in giù un altro ritratto dell'autore della Terza teoria universale contenuta nel Libro Verde. Ed anche in quel ritratto Gheddafi ha la faccia affilata e gli occhi misteriosi. Lui si vede forse ancora così, giovane e incontaminato ufficiale beduino, e comunque così si fa spesso ritrarre, senza le borse sotto gli occhi, senza le guance un po' sfatte, senza lo sguardo annegato nelle nevrosi di un ormai lungo potere ricco di emozioni, tragicommedie, delusioni. Uno sguardo non più perduto romanticamente nel deserto natale come scrivevano i primi agiografi.
  • Non era Reagan che voleva distruggere Tripoli e uccidere Gheddafi? Ebbene, lui, Reagan non è più presidente degli Stati Uniti, è andato in pensione, mentre Tripoli è smagliante e Gheddafi trionfa nel film dei festeggiamenti. Si tratta infatti di un film, non della realtà: un film di cui Gheddafi è regista e primo attore e in cui appaiono tutti i suoi deliri. Non potendo sconfiggere gli americani, annientare l'imperialismo, cancellare il sionismo, assorbire il Ciad, punire Arafat il rinunciatario, non potendo assumere la guida del Terzo mondo e punire l'Europa ancora colpevole del colonialismo, non potendo insomma essere il Gheddafi onnipotente che vorrebbe essere, egli se la cava con un film.
  • Nella conquista africana Gheddafi ha sperperato anche dollari e prestigio. Ha rivendicato il Ciad, ha aiutato l'Etiopia e l'Uganda, quando questi due paesi erano in preda a convulsioni rivoluzionarie o semplicemente alla violenza, ha inquietato il pacifico Niger, ha cercato di trescare con il Benin, la Repubblica Centrafricana e il Burkina Faso, ha molestato un po' tutti. Prima ha incuriosito per le sue idee e i suoi petrodollari, poi ha inquietato e spaventato, adesso non viene più preso sul serio, se non da coloro che sperano di spillargli qualche soldo. Ma lui continua imperterrito a parlare senza tener conto della mutata situazione internazionale, anche se nei fatti vi si è rapidamente adeguato.
  • Il bombardamento americano dell'86 ha avuto l'effetto di un elettrochoc: più ancora delle bombe ha traumatizzato Gheddafi l'isolamento subito dal paese in quei momenti difficili. I fratelli arabi e gli amici africani gli hanno girato le spalle, l'Unione Sovietica e le altre nazioni socialiste l'hanno tenuto a debita distanza. La Libia aveva tutte le porte sbarrate: ai suoi fianchi i confini con la Tunisia e l'Egitto erano chiusi, a Sud era ancora in corso la guerra col Ciad e dal Mediterraneo erano appena arrivati i fulmini di Reagan. Cosi è cominciata la svolta pragmatica di Gheddafi. Anzitutto egli ha ammorbidito la situazione interna: ha liberato gran parte dei prigionieri politici, più quelli detenuti per delitti d'opinione che i veri oppositori del regime, ha soppresso la giustizia sommaria esercitata dai comitati rivoluzionari, ha avviato la liberalizzazione del commercio e autorizzato l'importazione di beni di consumo. Vuotando o sfoltendo le prigioni, riempiendo i negozi e aprendo le frontiere Gheddafi ha dato un po' di respiro ai libici. Ne avevano bisogno. Essi avevano rivelato di essere giunti ai limiti della sopportazione quando avevano espresso con molta parsimonia la loro solidarietà al regime dopo i bombardamenti americani. Ma è veramente cambiato Gheddafi? È rinsavito sul serio? Una cosa è certa: lo stacco tra quel che dice e quel che fa si è notevolmente allargato.
  • I due uomini si detestano. Arafat chiama Gheddafi principe delle chiacchiere. Gheddafi accusa Arafat di svendere a Israele la terra araba. La Palestina non è soltanto tua, è di tutti noi arabi, gli ha detto in faccia durante un banchetto ufficiale, a Tunisi, davanti agli ambasciatori occidentali, nel dicembre scorso, dopo che il capo dell'Olp aveva accettato a Ginevra l'esistenza dello Stato ebraico.
  • Gli scettici sostengono che l'autore della Terza teoria universale non è cambiato. È cambiato il quadro internazionale. Lui si adegua per sopravvivere.
  • A lui non piace il Magreb. Ha sempre teso a spazi più ampi: all'Africa subsahariana e ancor più all'unità araba preconizzata, tentata da Nasser, suo padre spirituale. Lui ha cercato più volte di fondersi con questo o quel paese dell'Africa Settentrionale, con la speranza di estendere la sua influenza, di esportare la sua rivoluzione. Tutti i tentativi sono falliti.
  • Non che quest'ultimo ispirasse eccessiva fiducia, ma come dittatore classico era senz'altro preferibile a una rivoluzione islamica che avrebbe potuto sconvolgere ampie e decisive regioni del pianeta. Tanto preferibile che nel settembre '80 la tentata invasione irachena dell'Iran, da cui scaturì la guerra del Golfo, non suscitò uno scandalo adeguato alla gravità dell'aggressione. Quella complice indulgenza, allora comprensibile se non proprio inevitabile, ha partorito un monster, secondo la brutale espressione di un senatore americano, o un nuovo voleur de Bagdad, secondo quella più poetica di un quotidiano francese. Un mostro o un ladro di Bagdad che dispone della forza militare più importante del Golfo e del mondo arabo, tra l'altro dotata di gas nervini come ben sanno le popolazioni civili curde, e in possesso di un arsenale atomico per fortuna ancora incompleto, ma non tanto lontano dall'esserlo. Una potenza costruita grazie agli aiuti paralleli se non congiunti o concertati di Mosca e di Washington, di Parigi e di Londra, e di tante altre capitali ansiose di vendere armi, tra le quali Roma, Varsavia, Praga, Il Cairo... Nella lista non manca il Kuwait che, per proteggersi da Khomeini, finanziò lautamente Saddam Hussein, sapendo benissimo che sotto le spoglie del protettore si nascondeva un lupo ansioso di fare dell'emirato un solo boccone. Ma tra lui e Khomeini non c'erano scelte.[5]
  • L'invasione del regno degli emiri Sabah è il più recente capitolo del sanguinoso romanzo del Golfo, che dal ritiro britannico al di qua del Canale di Suez non ha ancora trovato una potenza militare capace di imporsi. Lo scià Reza Pahlevi c'era quasi riuscito. Con l'avvento di Khomeini e l'indebolimento dell'Iran rivoluzionario l'Iraq si è preso la rivincita. Adesso Saddam Hussein gioca tutte le sue carte, che non sono poche.[5]
  • Egli è formalmente ancora un esponente del partito Baas (Rinascita), un tempo il più importante movimento laico e progressista del Medio Oriente arabo, nato durante la seconda guerra mondiale, emozionalmente anche dall'ammirazione suscitata a Beirut, a Damasco, a Bagdad, dalle notizie sulla difesa di Stalingrado. Era quindi bizzarro, se non addirittura scandaloso, che il rais iracheno esortasse all'improvviso da quel pulpito tutti i credenti musulmani a impugnare le armi per liberare La Mecca e la tomba del Profeta a Medina occupate dagli stranieri. Tanto più che per otto anni, durante la guerra del Golfo, egli è stato il cavaliere degli arabi in lotta contro il fanatismo religioso del persiano Khomeini.[6]
  • C'è tra la Siria e l'Iraq un vecchio contenzioso, nel quadro della Mezzaluna Fertile, la valle tra il Tigri e l'Eufrate, che ha deliziato a lungo e ancora delizia gli studiosi mediorientali. E poi c'è l'odio tra i capi delle due correnti rivali del partito Baas: una definita militare ed è quella di Assad, e una definita in borghese ed è quella di Saddam Hussein.[6]

la Repubblica, 12 settembre 1990

 
Saddam Hussein
  • Ci fu un tempo, non tanto lontano, in Occidente, in cui il carattere laico e moderno del presidente iracheno era apprezzato, se non proprio esaltato. Il confronto con Khomeini concedeva un notevole vantaggio a Saddam Hussein. Di fronte alla rivoluzione islamica di Teheran, esportatrice di un oscurantismo inquietante, la classica dittatura di Bagdad, senza propositi missionari, sembrava un argine non solo accettabile ma provvidenziale. È capitato a molti di noi di scrivere o di pensare qualcosa del genere durante la guerra Iran-Iraq. L'Iraq non era proprio una diga democratica, questo no, questo nessuno ha osato dirlo: ma un utile sbarramento laico e moderno, ossia efficiente, sì: un argine, appunto, in grado di contenere un fanatismo come quello iraniano ansioso di ricondurre le società musulmane ai secoli più bui della loro storia, e di aggredire attraverso il terrorismo gli infedeli dell'Occidente europeo e americano. Al contrario degli ayatollah iraniani, i dirigenti del partito Baas iracheno non erano considerati una minaccia alla stabilità del Golfo, vale a dire del mercato del petrolio. Khomeini costruiva moschee, Saddam Hussein scuole e ospedali e caserme. Egli dedicava, è vero, una particolare attenzione a quest'ultime ed anche alle prigioni, come del resto faceva Khomeini, ma, al contrario di Khomeini, era al tempo stesso favorevole all'emancipazione delle donne, alle quali a Bagdad non veniva imposto il ciador. Quando negli acquitrini della Mesopotamia meridionale, dove si incontrano il Tigri e l'Eufrate, furono scoperti nel 1984 migliaia di giovani iraniani uccisi dai gas iracheni, la nostra morale non fu affatto scossa. L'utilità di Saddam Hussein, in quanto diga del fondamentalismo musulmano, placava le nostre coscienze. Soltanto quattro anni dopo, quando i gas furono usati per mattare la città curda di Halabja, ci furono alcune reazioni.
  • È vero che il regime iracheno è laico e moderno rispetto a molti altri della regione. A Bagdad non si discute come a Ryad se la terra è quadrata o rotonda. Né si lapidano le adultere. Né sono obbligatorie le preghiere quotidiane dell'Islam. Né esiste la segregazione sociale tra uomini e donne. Né sono soltanto le antiche qualità di un despota orientale che hanno consentito a Saddam Hussein di restare per ventidue anni filati il dittatore dell'Iraq. Sino al 1979 come vice presidente ma in realtà come il vero uomo forte; e da allora come l'indiscusso capo dello stato.
  • Saddam non ha simpatie o antipatie, ma rapporti strumentali, pragmatici. Non ha amici, ma uomini al suo servizio e nemici. Questo gli consente di agire rapidamente, di eliminare senza esitazione coloro che gli sembrano infidi. Un errore per eccesso di velocità nella repressione è meglio di un ritardo per accertare una colpa, che potrebbe essere fatale al rais.
  • Aflak era un siriano di religione cristiana, un greco-ortodosso, ed era celebre anche per le sue lunghissime immersioni nell'acqua bollente. Mi aspettavo dunque di trovarlo in una vasca da bagno, come Marat: era invece seduto accanto alla finestra e guardava il fiume gonfio delle piogge invernali. Lo scorrere dell'acqua gli suggeriva molte idee: così era anche il corso impetuoso del nazionalismo arabo guidato dal Baas (Rinascimento) verso un'inevitabile unità araba dal Cairo alle sponde del Tigri sulle quali noi ci trovavamo. I vari fiumi non si versano in un unico mare? Aflak era incerto sul dove costruire la capitale del mondo arabo unito. Per evitare un conflitto tra il Cairo, Damasco e Bagdad in concorrenza tra di loro, bisognava crearne una nuova. Ma in quale deserto? Ricordo quell'incontro come uno degli episodi più surrealisti della mia vita professionale.
  • Aflak non riuscì mai ad esercitare il potere perché il suo clan era isolato, insignificante nel grande mosaico tribale siriano o iracheno.
  • Si sa che l'Iraq è un paese mosaico assai complicato. I Curdi sono di origine indo-europea come i vicini Iraniani, ma mentre quest'ultimi sono sciiti loro sono sunniti. Ci sono pure dei Curdi cristiani. Gli Arabi, semiti, sono in maggioranza sciiti, ma sono i sunniti che sono tradizionalmente al potere. Saddam è uno di loro. Poi ci sono i cristiani, ortodossi e cattolici, che sono semiti se Caldei o Assiriani, oppure indo-europei se Armeni. Da non dimenticare i Turcomanni e gli Yezidi che si dice adorino il diavolo. La lista è senz'altro incompleta.
  • Anche Assad è laico e moderno, è un esponente del partito Baas, una volta interarabo ma da tempo frantumato in correnti nazionali, e anche Assad ha i riflessi pronti nell'eliminare gli avversari virtuali prima che diventino reali. Assad è simile a Saddam perché la Siria è come l'Iraq un mosaico di clan. Nel grande Egitto o nella piccola Tunisia i rais sono o sono stati di un altro stampo perché quei due paesi sono più omogenei. E attorno alle monarchie più note (in particolare la marocchina e la saudita) si sono creati consensi abbastanza ampi. Nonostante abbia ormai vent'anni, per il regime di Assad il consenso è invece spesso sulle punte delle spade o meglio sulle bocche dei cannoni dei suoi carri armati. Il clan di Assad è la setta alauita, scisma dell'Islam con vaghi elementi cristiani e alcuni dogmi segreti, considerata la maggioranza sunnita siriana un'eresia o un intollerabile groviglio di laici. Gli alauiti rappresentano poco più di un decimo della popolazione, sono all'incirca un milione e mezzo. Per imporsi Assad ha sparso molto sangue, in particolare a Hama, dove i suoi mezzi blindati hanno schiacciato nell'82 il movimento dei Fratelli Musulmani che in nome dell'Islam sunnita avevano aperto le ostilità contro il regime laico e moderno del Baas siriano, guidato da Assad, come quello iracheno è guidato da Saddam.
  • Hafez Assad non è Anwar Sadat. È un capo arabo di un'altra pasta ed è l'esponente di una minoranza religiosa (alauita) alla quale verrebbe difficilmente perdonata quell'eresia. Non verrebbe perdonata soprattutto dalla maggioranza sunnita, in particolare dai fratelli musulmani. I quali hanno subìto persecuzioni e massacri da quando Assad è al potere.[7]
  • Come creare o semplicemente immaginare un tribunale ideale in un mondo che non è affatto ideale e che forse non è neppure fatto per esserlo? Non è tuttavia con lo scetticismo che lo si può migliorare.[8]
  • [...] il presidente Assad era a fianco degli americani durante la guerra del Golfo, era un'importante pedina araba nel fronte anti-Saddam.[8]
  • L'ex Jugoslavia è un laboratorio nel quale si sperimentano idee, progetti, morali, filosofie, linee di condotta. Una cavia. È crudele dirlo. Perché ciò sembra implicare che non si pensi tanto a salvarla quanto a sfruttare le esperienze di un "caso esemplare". Ma non è proprio cosi. L'obiettivo resta, infatti, senz'altro, quello di evitare una guerra balcanica, estesa al Kosovo e alla Macedonia, e quindi di fermare al più presto il massacro in Bosnia, di arrestare la marcia micidiale della Serbia. Tuttavia questa volontà occidentale è impregnata di scetticismo circa la possibilità di ricucire le ferite dell'ex Jugoslavia nel futuro scrutabile. Le stesse iniziative degli Stati Uniti sembrano più tese a mettere in risalto l'inconcludenza dell'Europa comunitaria, con la quale sono ormai in concorrenza, che a imporre una conclusione del conflitto.[9]
  • Per ferire dolorosamente l'avversario, per colpirlo nei suoi simboli più sacri, nelle sue tradizioni più profonde, per suscitare un'indignazione in grado di superare la monotonia dell'orrore quotidiano televisivo, insomma per attirare l'attenzione del mondo e suscitare disordine, un disordine vero, non c'è nulla di meglio che uccidere nel tempio, quando si prega il venerdì o si celebra la messa la domenica.[10]
  • Quante sono le chiese cristiane e le sette musulmane e le ramificazioni ebraiche nelle contrade di Levante? Contrade assai complicate anche per questo. Troppo complicate e quindi da affrontare con idee semplici. La religione là conta. Pesa. Appassiona. Suscita odio e fraternità. Una miscela esplosiva. L'attuale protettore del Libano, il presidente siriano Hafez el-Assad, è un alauita, appartiene a una setta musulmana assai minoritaria nel suo paese. Negli ultimi decenni nessuno più di lui ha distrutto moschee e ammazzato musulmani. Musulmani per lo più sunniti, della corrente maggioritaria dell'Islam, in gran parte considerati fratelli musulmani, vale a dire i padri o i nonni dei fondamentalisti d'oggi. In Iraq Saddam Hussein non ha risparmiato le moschee dei musulmani sciiti ed è stato generoso nel cospargere gas tossici sugli esponenti di quella comunità che Khomeini ha risvegliato con la rivoluzione iraniana. La fine del socialismo arabo e i mediocri risultati del liberismo in tutto il Vicino e Medio Oriente hanno alimentato le schiere dei fedeli attorno alle moschee, rifugi mistici in cui affogare le frustrazioni e covare nuove esaltazioni.[10]
  • Centinaia di moschee sono state distrutte non nel Levante ma in Bosnia-Erzegovina, terra europea al di là dell'Adriatico, dai serbi ortodossi. E quando i soldati russi col casco blu delle Nazioni Unite sono arrivati nei giorni scorsi sulle alture di Sarajevo, città simbolo della tolleranza religiosa, hanno salutato i serbi che li applaudivano col segno ortodosso. Come Kutusov, generale dello zar, hanno salutato alzando le dita con cui ci si fa il segno della croce.[10]
  • È come se, insieme al Ruanda, l'Africa intera stesse agonizzando nella regione dei Grandi Laghi. In un paese di sette milioni di abitanti, prima, per tre anni, ha imperversato la guerra civile; poi, per tre mesi, vi è stato compiuto un genocidio da affiancare ai più tremendi (la Shoa e la Cambogia); poi, ancora, c'è stato l'esodo in massa, l'espatrio disperato di milioni di esseri umani affamati; e adesso è il colera a mietere altre vite, all'ombra di un vulcano, il Nyiragongo, che potrebbe vomitare lava da un momento all'altro sui profughi rantolanti abbattutisi sulla città di Goma, nel vicino Zaire. In una cornice naturale tra le più preziose del pianeta, pregiata quanto un nostro centro storico di palazzi e cattedrali, anche perché il contadino africano l'ha coltivata con arte per secoli, sembra che stia proprio morendo un continente svalutato.[11]
  • Dopo essere stata una colonia tedesca, il Ruanda è diventato nel 1918, in seguito alla sconfitta della Germania nella prima guerra mondiale, una colonia belga, vale a dire un paese francofono. Qualità che più tardi, ottenuta l'indipendenza, gli ha consentito di entrare nel privilegiato club dei paesi africani protetti dalla Francia. In quel club conta senz'altro il fascino per la cultura francese. Conta altresì la preferenza per i prodotti e la tecnica francesi ben inteso, anche se gli scambi con l'Africa francofona rappresentano soltanto il 3 per cento del commercio con l'estero di Parigi. In compenso i vari regimi hanno la garanzia di essere assistiti dall'Armée. Così quello ruandese, dominato dalla maggioranza hutu (85 per cento della popolazione) ha avuto un appoggio militare quando è cominciato il conflitto con la minoranza tutsi. La quale aveva tra l'altro un difetto, quello di essere per lo più anglofona, per via degli stretti rapporti con la vicina Uganda, ex colonia britannica. È dunque con armi e istruttori forniti dai francesi, che è cominciato il genocidio dei tutsi compiuto dalle milizie hutu. Ed ora che i primi, i tutsi, hanno vinto, e che gli hutu fuggono per timore di essere a loro volta massacrati, i francesi intervenuti per ragioni umanitarie sono costretti a proteggerli, e con loro proteggono gli autori del genocidio.[11]

la Repubblica, 31 agosto 1995

  • Sulla soglia del quarto inverno d'assedio, quella città, simbolo insanguinato del nostro secolo, comincia a intravedere uno spiraglio. Non ci si può stupire e ancor meno ci si può indignare se la breccia viene aperta, scavata con il ferro e il fuoco. Per spegnere la violenza insensata degli assedianti era ed è indispensabile la violenza della ragione. La coscienza l'invocava da un pezzo, ma c'è voluto un bel po' di tempo perché si creassero le condizioni per un impiego razionale, giusto della forza vera. L'Europa incerta, divisa, non ne aveva i mezzi. L'America li aveva ma non era disposta a correre rischi. Sarajevo ha pagato duramente il prezzo della lunga esitazione dell'Occidente, sorpreso dalla crisi nell'ex Jugoslavia mentre era nel mezzo del guado tra la guerra fredda e il postcomunismo. Sarebbe meglio, sarebbe più nobile poter dire che il sangue delle vittime del mercato coperto di Sarajevo, schizzato sui nostri teleschermi lunedì, ha fatto traboccare il vaso del sopportabile, e che per questo sono decollati i bombardieri della Nato.
  • Sarajevo era il principale ostaggio dei Serbi. La città era demoralizzata, sfiancata, angosciata dall'idea di affrontare un nuovo inverno senza luce, senza nafta, sotto il tiro dei cecchini e degli artiglieri serbi, appostati sulle montagne come sulle scalinate di un anfiteatro.
  • Per loro le incursioni della Nato sono la mano tesa dell'Occidente a lungo disperatamente aspettata. Sono la promessa di una vita normale, anche se le bombe serbe continuano a piovere sulla città. Ma al di là della tragedia umana, Sarajevo ha assunto negli ultimi tre anni e mezzo un grande valore. È stata il simbolo concreto di una società in cui convivevano musulmani, cattolici (croati) e ortodossi (serbi). Nella tempesta alimentata dai due grandi nazionalismi balcanici, i cui epicentri sono Zagabria e Belgrado, la città assediata ha saputo restare sostanzialmente fedele ai suoi principi, malgrado le passioni e gli imperativi militari. Il presidente Alija Izetbegovic, che ha spesso nobilmente incarnato la resistenza, non sfugge del tutto alle tentazioni autoritarie di un nazionalismo musulmano (da non confondere con l'integralismo religioso, che praticamente non esiste).

la Repubblica, 2 novembre 1996

 
Teschi umani al Nyamata Genocide Memorial, Ruanda
  • Strage o genocidio? La morte di ottocentomila uomini e donne di tutte le età merita un nome. Se scavi in questo paesaggio oleografico, smaltato dalle piogge, colorato e lucido come una pubblicità di safari per turisti ricchi, rischi di trovare teschi traforati dai mitra o sfondati a colpi di martello e di scure. Anche grazie al concime umano, tante piante sono rigogliose, spavalde, sui crinali delle morbide colline di quella che un tempo fu, forse, un'Africa Felix.
  • Gli hutu, che, nel '94, furono in gran parte gli assassini (e che ora rischiano di essere le vittime), sono, in generale, di statura più bassa. Più tozzi. Si dice che fossero invidiosi, al punto da segare talvolta le gambe di quei compatrioti tanto più alti di loro. Ma ci sono anche hutu più grandi e affilati dei tutsi. Dipende dalle regioni. Le diversità etniche possono essere un'invenzione. Un incubo. Sono tuttora un'ossessione. Un'eredità, si dice, lasciata dai colonizzatori bianchi, antropologi da strapazzo, ispirati da quell'antenato dei razzisti del nostro secolo che fu l'ottocentesco conte di Gobineau; e quindi inclini come lui a dissertare sulla "disuguglianza delle razze umane" fondata su una base fisica. E furono loro, coloni e missionari, a supporre e poi a raccontare, fino a costruirci attorno la "storia" del Ruanda, che i tutsi arrivavano dalle valli del Nilo e discendevano dai bianchi, dunque erano di origine straniera, dei conquistatori, insomma usurpatori, e di una razza superiore agli hutu, volgari bantù africani. Nel bailamme continentale delle tribù la fantasia europea poteva scatenarsi a piacere.
  • La posta in gioco sono centinaia di migliaia di profughi hutu, fuggiti dal Ruanda nel timore di una rappresaglia, dopo il genocidio dei '94. Una massa umana in bilico sul confine, respinta dai tutsi: e di cui si servono invece, come di un ariete, i superstiti dell'ex regime di Kigali, autore del massacro, ora alla ricerca di una rivincita, con l'aiuto dello Zaire. Là il dramma ruandese può essere il detonatore che fa saltare quell'autentica polveriera tribale che è l'ex Congo belga. Un paese disegnato sulle frontiere coloniali, senza tener conto della storia – non scritta – di quelle regioni: e che adesso rischia, come già accadde al momento dell'indipendenza, di andare in frantumi e di destabilizzare l'intera Africa centrale. È al tempo stesso allucinante ed esemplare. A conclusione di un secolo che ha conosciuto la morte del colonialismo, e che ora, arrivato alla fine, assiste alla non tanto lenta rovina del continente nero, questo dramma ruandese è in definitiva il risultato di quello che gli scrittori africani riuniti a Roma, nella primavera del '59, denunciarono come uno dei più gravi peccati occidentali: l'avere accettato, senza discutere, e diffuso, la nozione di un popolo, quello africano, "senza cultura". Ed anche "senza storia", perché, appunto, la si tramandava per via orale. Partendo da questo principio, coloni e (spesso) missionari hanno creato una storia africana con un calco occidentale e hanno imposto la loro cultura come se prima ci fosse stato il vuoto. Ne sono uscite delle mostruosità.
  • Ogni volta che, in Ruanda, si varca la soglia di una chiesa, si cercano sul pavimento e sulle pareti le tracce di sangue dei cristiani, per lo più tutsi, ma anche hutu amici dei tutsi, che vi sono stati macellati.
  • Il genocidio ruandese viene spesso accostato a quello degli ebrei. Il meccanismo africano è stato, ben inteso, diverso; le vittime designate si sono riversate spontaneamente là dove i carnefici le avrebbero ammazzate; speravano di trovare un rifugio sicuro nelle chiese; e invece si sono rivelate dei mattatoi.
  • Un pellegrinaggio nelle chiese ruandesi non manca di emozioni. Crea un profondo malessere. Se aggiungi le migliaia di croci appuntate sulle colline, e le fosse comuni, hai l'impressione di essere capitato in un cimitero sterminato, dove per i becchini, senz'altro un po' pigri, viste tutte quelle ossa ancora in mostra, c'è un lavoro di anni. Per i giudici e gli storici c'è invece un lavoro di decenni. Forse più. Ci vorrà del tempo prima di far giustizia, anche perché esiste una Norimberga africana, ma spesso i giudici non hanno neppure i soldi per pagare la bolletta del telefono, che gli viene puntualmente tagliato. La giustizia internazionale non ha fretta di conoscere la verità. Ci vorrà ancora più tempo per scrivere la vera storia di questa parte dell'Africa. Larga parte della classe dirigente è stata creata dall'educazione coloniale. Disprezza la cultura africana ed è imbevuta di quella occidentale. Quest'ultima è adeguata all'economia, alla tecnica, a tutto ciò che regola il mondo moderno, ma non alla società africana. Gran parte dell'élite africana è dunque alienata.

la Repubblica, 5 novembre 1996

  • Era il frutto della manipolazione genetica compiuta in quel continente con l'innesto della storia occidentale sulla società africana. Nel momento di maggior gloria, Bokassa chiamava papà il generale de Gaulle, fratello il presidente Giscard d'Estaing, e cugino Amin Dada, allora sanguinario dittatore in Uganda. Questa era la composita, eterogenea famiglia cui sentiva di appartenere.
  • Lumumba era di gran lunga superiore a Mobutu. Mobutu era un uomo di clan. La sua forza iniziale fu la sua tribù. Lumumba trascendeva i clan e le tribù. Per questo era vulnerabile. Ma era un visionario. Come lo erano i suoi alleati, il guineiano Seku Touré e il ghanaiano Nkrumah.
  • Seku Touré si è anche reso colpevole di crimini che possono essere affiancati a quelli di Bokassa. Lumumba sarebbe sfuggito alla regola? L'interrogativo non serve per Mobutu. Egli ha rovinato il Congo. L'ha depredato e ha decimato i nemici. Oggi lo Zaire rischia di disintegrarsi, trascinando con sé parte del Continente, come un ghiacciaio che si scioglie. Mentre riusciva in questa ardua impresa, Mobutu era lusingato, incoraggiato e protetto come Bokassa.
  • Senghor è sfuggito a quella che sembra una dura regola del continente. Prodotto al tempo stesso della società africana e della cultura francese, occidentale, Senghor non è il mostruoso risultato di una manipolazione genetica: al contrario è stato un saggio, democratico presidente del Senegal.

la Repubblica, 10 novembre 1996

  • [Sull'Aids in Uganda] Qui, la guerra civile ha fatto mezzo milione di morti; i due dittatori succedutisi a Kampala, Idi Amin Dada e Obote, e la tubercolosi e la malaria e le varie dissenterie bacillari hanno ucciso e uccidono più dell' Aids; la quale è chiamata slim (magro, in inglese), perché è una malattia che, prima di ucciderti, ti fa dimagrire. Ti spolpa. Quando non si sapeva ancora di che malattia si trattasse, quando non si conosceva ancora il virus Hiv, se uno perdeva peso, al punto che la pelle gli cadeva di dosso come una camicia troppo larga, si diceva che avesse il "morbo di Rakai"; perché in quel distretto a Ovest del Lago Vittoria, ai confini con la Tanzania, la gente dimagriva sino a morirne, senza che nessuno riuscisse a capire perché. Adesso si sa che cos'è l'Aids, ma a Rakai si continua a morire, dimagrendo, tanto che in quella provincia ci sono dei villaggi quasi disabitati. Villaggi fantasma. I quali costituiscono un problema economico, sociale, oltre che umano: perché l'epidemia falcia perlopiù uomini e donne tra i venti e i quarant'anni, nel pieno della vita lavorativa. Senza contare gli orfani, che sono già un milione e mezzo. La vita media, in Uganda, è scesa da 51 a 47 anni.
  • Chi vuole relativizzare gli effetti dell'epidemia, insiste sul fatto che si muore più di polmonite e di tbc: ma altri replicano che, distruggendo appunto il sistema immunitario, l'Aids favorisce quelle malattie. Benché le cure siano migliorate anche qui, e quindi il decorso non sia più precipitoso come un tempo, è impensabile che si possa prolungare una vita come in Occidente.
  • L'Uganda risulta il paese più investito dall'Aids. Il paese più colpito nel continente più ferito dall'epidemia. Il virus aggredisce, sul piano nazionale, un abitante su cinque, secondo fonti realistiche. Nelle campagne la percentuale è più bassa, ma non vi si notano i recenti miglioramenti rilevati nelle città, dove la percentuale dei malati resta tuttavia più alta.
  • Gli africani, secondo una formula retorica, hanno preso in mano il loro destino, non sono più oggetti trascurati dalla storia, sono diventati soggetti, perlomeno lo sono diventati i loro capi, non sempre gli individui: e il continente sembra sgretolarsi: traballano, si decompongono gli Stati nati dalla decolonizzazione; Zaire, Nigeria, Somalia...: come se il modello occidentale sul quale sono stati ricalcati non corrispondesse alla realtà africana. C'è l'incapacità di adeguarsi alla "civiltà" ereditata dal colonialismo, l'incapacità di riesumarne una africana, per poi adattarla ai tempi; e c'è, al tempo stesso, un rifiuto totale, indiscriminato, più o meno inconscio, che si esprime attraverso lo sciupio, la distruzione, il saccheggio, il massacro. L'Uganda è un'eccezione. Il paese è stato prima dilaniato da una lunga, estenuante guerra civile, dominata nelle sue varie fasi da due uomini - Amin Dada e Obote - che incarnavano sia l'incapacità, sia il rifiuto di cui si è parlato. Poi è stato investito dall'epidemia di fine secolo. Nonostante queste sciagure esso dimostra adesso un equilibrio e una capacità inventiva straordinari.
  • All'inizio il presidente Yoweri Museveni ha esitato a riconoscere l'estensione dell'Aids. Lo tratteneva, come capita per gli individui, un senso di vergogna; poi ha capito la necessità di affrontare a viso aperto la prova con una campagna nazionale. La quale comincia a dare i suoi frutti, poiché l'epidemia si estende meno rapidamente d' un tempo. Oggi l'Uganda non è un paese africano come gli altri. Conosce una crescita economica costante, il Fondo monetario internazionale lo considera uno dei suoi migliori allievi, e vive un esperimento democratico di notevole interesse. Esso è stato elaborato durante la guerra civile dal Movimento Nazionale della Resistenza, di cui l'attuale presidente, Museveni, era ed è il capo. Il pluripartitismo occidentale, essendo stati i partiti nel passato all'origine di tante sciagure nazionali, è per ora escluso o, per meglio dire, sotto esame; ma le elezioni si sono svolte, come promesso, e in un modo giudicato regolare; e le libertà di parola, di stampa e di associazione sono rispettate; mentre dei "consigli rivoluzionari" a vari livelli, dal villaggio alla capitale, garantiscono una partecipazione e un controllo popolari che non sembrano del tutto fittizi. Gli Stati del continente sono stati spesso ritagliati secondo gli interessi o le fantasie dei colonizzatori, e le nazioni appaiono artificiali: l'Uganda è invece un grappolo di monarchie tradizionali, federate con la forza; e, nell'insieme, quelle monarchie tendono a formare, non senza difficoltà, è vero, una nazione. Una nazione compatta? Sarebbe eccessivo sostenerlo. Ma senz'altro una nazione temprata dalle severe prove vissute dalla indipendenza in poi.
  • L'India indipendente ha santificato Gandhi, l'ha dichiarato padre della patria, e poi l'ha subito rimosso. La sua personalità e il suo pensiero sono stati più volte smontati e rimontati, come orologi, da storici e sociologi. Dopo le prime esaltazioni, c'è stato chi ha sostenuto che, in realtà, nonostante il radicalismo contadino, la sua dottrina favoriva le classi privilegiate cittadine. Insomma, secondo questa tesi, Gandhi sarebbe stato un falso rivoluzionario, un abile politico, la cui azione ha condotto all'indipendenza dell'India, salvando i grandi proprietari. Per alcuni studiosi della "scuola di Cambridge" sarebbe stato addirittura un fantoccio nelle mani di gruppi e clientele. E c'è stato, al contrario, chi ha parlato di un comunismo primitivo gandhiano. Paradossalmente, è invece in senso opposto che talvolta si richiamano a lui gli autori della svolta economica liberista in corso a Nuova Delhi dall'inizio degli anni Novanta. Altri ancora si limitano a sottolineare, con saggezza, la preminenza in Gandhi di un'esigenza di elevazione morale e spirituale delle masse e dell'individuo, anche nell'azione politica. È in fondo quest'ultimo aspetto del Mahatma che ci sta a cuore.[12]
  • Morto il Mahatma Gandhi (assassinato nel '48) nei mesi successivi all'indipendenza, di cui si celebrerà in agosto il cinquantesimo anniversario, Jahawarlal rappresentò per il mondo il volto nobile dell'India. Un volto elegante, leggermente ironico, distaccato, nei lineamenti e nelle espressioni. Il solo atteggiamento esterno possibile, in un uomo interiormente passionale, che doveva governare con mano di ferro un paese come l'India. Egli rimane una delle rare figure di politico intellettuale riuscito. Amico devoto di Gandhi, non ne seguì ovviamente i princìpi una volta arrivato al potere. Non poteva certo governare il subcontinente secondo la dottrina della non violenza, né puntare sulla sola agricoltura nel secolo dell'industrializzazione. Ma seppe anzitutto dare e conservare la democrazia, sia pure imperfetta, in una terra che oggi conta un miliardo di esseri umani.[13]
  • La figlia Indira non aveva distacco. Affrontava l'India di petto. Nelle campagne elettorali usava lo slogan 'l'India è Indira e Indira è l' India' . Il padre non avrebbe mai detto una cosa simile. Ed è forse con lei, nei suoi ultimi anni di governo, che la famiglia Nehru ha perduto l'aureola.[13]

la Repubblica, 6 maggio 1997

 
Mobutu Sese Seko
  • Fu Mobutu a consegnare Lumumba ai suoi assassini (nel 1960); e ora Kabila si dichiara fedele alla memoria di Lumumba. È come se trentasette anni dopo spuntasse dalla foresta "il vendicatore".
  • Lumumba fu una meteora. Non restò abbastanza a lungo al potere per sporcarsi la coscienza. Gli dettero soltanto il tempo di essere vittima.
  • Dietro indicazione dei belgi, gli americani (la Cia) puntarono su Mobutu. Mobutu non si sarebbe mai rivolto a Mosca. Avrebbe fatto del Congo, diventato Zaire, una roccaforte antisovietica al centro dell'Africa. In questo senso fu un investimento proficuo per l'Occidente. Non lo fu altrettanto per il paese. Mobutu l'ha infatti saccheggiato, spogliato, rovinato.
  • Mi è capitato da giovane reporter di frequentare i principali personaggi di quella lunga tragedia africana – Lumumba Tschombé, Kasavubu, Mobutu...- e francamente non so se l'avvenire del Congo-Zaire sarebbe stato diverso, migliore, se invece di Mobutu fosse rimasto in sella uno dei perdenti. Ma il ricordo che ho di Lumumba è quello di un uomo che non ebbe il tempo – come ho detto – di corrompersi. Era un ambiziosissimo sognatore. Mobutu era un uomo d'azione. Un uomo di mano.
  • Gli uomini di Parigi – diplomatici, militari, consiglieri – sono dietro molti troni dell'Africa Occidentale. Non era raro, nel passato, che i partiti francesi venissero finanziati dagli amici africani, con i fondi ricevuti dalla Francia. I più ricchi usavano le loro risorse per dimostrare riconoscenza ai protettori parigini. Le società francesi, in particolare le compagnie petrolifere, usufruiscono di privilegi eccezionali. In cambio l'esercito francese offre il suo aiuto ai regimi in pericolo.
  • Il Congo-Zaire del maresciallo-presidente Mobutu Sese Seko è diventato col tempo un terreno di forte competizione tra Parigi e Washington. E lo scontro politico si è accentuato quando Washington ha cominciato a sostenere Kabila e Parigi ha continuato a sostenere Mobutu. Fino all'ultimo, o quasi. Al punto che la sua fine appare adesso una sconfitta francese. E, bizzarria della storia, gli Stati Uniti che sostennero Mobutu, e indirettamente contribuirono all'assassinio di Lumumba, ora accompagnano al potere Kabila, l'uomo che esalta, o addirittura "vendica" Lumumba.

la Repubblica, 14 agosto 1997

 
Nehru, Mountbatten e Jinnah pianificando la partizione dell'India
  • Almeno dodici milioni di persone abbandonarono, nel '47, città e villaggi in cui erano nati: musulmani e indù e sikhs si incrociarono, i primi diretti nel Pakistan, gli altri in India: e si massacrarono con fucili, sciabole e coltelli, facendo tanti morti che nessuno è mai riuscito a contarli. Si dice un milione. Nel Punjab e nel Bengala ci si imbatte tuttora in tombe senza nome; e nei pozzi d'acqua si sono scoperti per decenni scheletri di donne suicidatesi, dopo avere assistito all'uccisione dei mariti ed essere state violentate. Proprio nel momento in cui si festeggiava una libertà conquistata con la non violenza, la violenza battezzò col sangue la libertà.
  • Si parla molto di più del cinquantenario dell'indipendenza indiana a Londra che a Nuova Delhi o a Bombay. Là si ricorda l'inizio della ritirata imperiale, cominciata nell'agosto del '47 a Nuova Delhi e conclusasi neppure due mesi fa, il 1 luglio del '97, mezzo secolo dopo, a Hong Kong. Una lunga cavalcata nostalgica a ritroso. La Gran Bretagna ha la rievocazione facile. Non deve fare bilanci. Li ha già fatti. Se qualcuno, a Londra, vuol proprio tirare le somme, non gli riesce certo difficile sottolineare i risultati negativi di questi cinquant'anni postcoloniali dell'India. Così facendo, si può implicitamente rivalutare il tempo del Britsh Raj. È però un esercizio rischioso: è ridicolo giocare con la storia. La storia consente invece qualche considerazione su ciò che accadde realmente nell'estate del '47. Si può ricordare che l'impero britannico, seguendo un'abitudine (non solo) coloniale consolidata, si prodigò nell'accentuare l'ostilità tra indù e musulmani. Divise per governare. Si può altresì rammentare che gli inglesi se ne andarono (in anticipo sulla data prevista) come da una nave che affonda. Fu esemplare la decisione di decolonizzare, ma non certo il calendario precipitoso, dopo due secoli di dominio. Il 15 agosto '47 resta una data importante non solo perché ha visto nascere la 'più grande democrazia del mondo', ma perché ha dato il via al processo di decolonizzazione, che ha cambiato la faccia del mondo. Winston Churchill detestava l'India e gli indiani, e non lo nascondeva.
  • Il rispetto di varie culture, tradizioni e religioni (l'India conta più musulmani del Pakistan, nato come paese islamico) è stata la principale virtù del governo laico di Jahawarlal Nehru e dei suoi successori.

la Repubblica, 16 maggio 1998

  • La vicenda del generale Suharto è un classico della tradizione asiatica, ormai respinta a Singapore, a Bangkok, a Taipei, a Seul. Il suo potere affonda le radici nell'esercito, e ha assunto, via via, dimensioni familiari tali da diventare un sistema caricaturale di nepotismo.
  • Suharto è un sopravvissuto della "strategia di contenimento" degli anni Sessanta, promossa in Estremo Oriente per arginare l'espansione comunista, ai tempi della rivoluzione culturale cinese e della guerra vietnamita. L' avvento del suo regime coincise con un bagno di sangue che non solo cancellò il pc indonesiano, ma non risparmiò intellettuali e insegnanti ritenuti troppo "laici" dall' ondata islamica, provocata per l'occasione, in un paese musulmano fino allora tra i più tolleranti.
  • Il naufragio di Suharto è insomma dovuto sia alla natura del suo potere familiar-affaristico, sia alla crisi asiatica. Sopravvissuto alla guerra fredda, di cui è stato uno dei massimi protagonisti in Asia, egli rischia in queste ore di affondare "vittima", dicono i suoi sempre numerosi fedeli, dell'austerità imposta dal Fondo Monetario Internazionale.
  • Milosevic è una vistosa reliquia del nazionalismo primitivo, quello che, su scala assai più grande, con le sue degenerazioni ideologiche, ha provocato le tragedie del '900 europeo. È a questo nazionalismo, ricreatosi a pochi minuti di volo dalla nostra costa adriatica, che la Nato ha dichiarato di fatto la guerra. Quasi volesse distruggerlo prima di entrare nel nuovo millennio. È roba da lasciare al secolo che se ne va. Fallito il comunismo, anche nella sua eccentrica versione jugoslava, Milosevic si è gettato in quel nazionalismo: e nel giugno '89 ha dato solennità alla conversione recandosi nella pianura di Kosovo Polje, ai piedi del monumento alla battaglia del 1389 (da cui cominciò il dominio ottomano, durato quasi mezzo millennio), per annunciare che "mai più i serbi si sarebbero lasciati maltrattare". Con quel gesto e quelle parole Milosevic ha spazzato via tutto quel che Tito aveva fatto per contenere i nazionalismi balcanici. E ha dato il via, in modo più o meno diretto, a una serie di massacri in cui i serbi sono stati carnefici ma anche vittime, e da cui sono sempre usciti sconfitti. Sono stati ripudiati dagli sloveni e dai croati, e molti loro insediamenti secolari sono stati scalzati dalle province di confine bosniache e croate. E adesso il Kosovo. Il nazionalismo serbo assume a tratti una colorazione religiosa e messianica, ereditata dal ruolo nazionale che la Chiesa ortodossa ha avuto nei secoli. Nell'Europa occidentale il territorio della nazione si è sostanzialmente delineato prima che si creassero una lingua e una cultura comune. Al contrario la nazione serba non ha un quadro territoriale di riferimento. Le comunità, non sempre maggioritarie tra cattolici, ebrei e musulmani, si identificavano in rapporto alla Chiesa serba. Era serbo chi era ortodosso. Si sono così creati spazi mistici. Sono nate rivendicazioni territoriali stravaganti, dettate dagli avvenimenti politici del momento e dalle leggende. I poemi nazionali hanno cantato per secoli il Kosovo come "culla del popolo serbo", e così lo è diventato di fatto, e tale è rimasto benché abitato al novanta per cento da albanesi. Crollato il comunismo, Milosevic ha sfruttato quel sentimento, attorno al quale, nei momenti di tensione, si raccolgono anche tanti serbi di solito estranei ad ogni tipo di estremismo. La letteratura serba è generosa in opere in cui si piangono le terre perdute e in cui la nostalgia diventa passione violenta.[14]
  • [Sulla caduta di Saigon] La prima sconfitta militare nella storia degli Stati Uniti era lampante; e lo spettacolo dei loro disperati alleati, in larga parte inevitabilmente abbandonati a se stessi, non aggiungeva dignità alla sconfitta. La guerra era tuttavia finita e il Vietnam era riunificato e (per la prima volta, 117 anni dopo l'arrivo dei francesi) senza stranieri sul suo suolo. Il prezzo dell'unità non era però del tutto saldato. Restava da installare il regime comunista nel Sud poco incline alla disciplina e al collettivismo del Nord.[15]

la Repubblica, 24 marzo 2000

  • Il Kosovo è ancora formalmente una provincia serba, sotto il protettorato dell'Onu, ma con un destino incerto. Un ritorno dell'autorità serba, sia pure nell'ambito di una vasta autonomia, è oggi impensabile. Ma l'indipendenza non è prevista. Anche Slobodan Milosevic, come l'odio tra serbi e albanesi, esisteva prima della guerra. E non era affatto scontato che scomparisse, insieme al regime, in seguito alla sconfitta militare.
  • Il rapporto di forze tra i due schieramenti era simile a quello tra elefanti e formiche. Queste ultime sono state sovrastate ma non schiacciate. Slobodan Milosevic si è ritrovato con un esercito quasi intatto, per non parlare della polizia, che è in realtà un altro esercito, più malleabile per il regime, che può usarlo per controbilanciare il primo in caso di necessità.
  • La sopravvivenza politica di Milosevic è un grave ostacolo ad ogni soluzione. Egli controlla la Serbia, paese chiave dei Balcani, ma non può essere un interlocutore. Non si frequenta un ricercato. Del resto, anche quando era al centro dei negoziati, nell'ormai decennale agonia jugoslava, è sempre stato più un fautore di crisi che di pace. E tale rimane. La normalità sarebbe la sua fine. Soltanto altri drammi, altre mischie, altre disgrazie possono restituirgli il vecchio ruolo di interlocutore obbligato. Non ha altre vie di scampo.

la Repubblica, 7 ottobre 2000

 
Slobodan Milošević
  • Capita ai serbi di confondere storia e leggenda e di vivere la storia come se fosse attualità. L'epica popolare, che racconta ed esalta la storia - leggenda, fa parte dell'immaginario collettivo e della cultura nazionale. I romantici tedeschi la consideravano una grande poesia, pari o addirittura più alta di quella di Omero: era la riabilitazione della tragedia, l'esaltazione delle sconfitte. Spuntato dalle rovine del comunismo Slobodan Milosevic ha sfruttato quella tendenza per conquistare il potere e per arroccarvisi. Il suo stile ieratico (forse ereditato dal padre: un prete ortodosso scomunicato e suicida) e al tempo stesso senza carisma, ebbe un effetto straordinario nel vuoto di idee e di potere lasciato dalla fine del titoismo. Di fronte al liberalismo politico ed economico che avrebbe distrutto il sistema di cui si era impadronito, Milosevic ha usato il nazionalismo più esasperato. Prima per calcolo, con evidente cinismo, poi probabilmente credendoci.
  • La sua nevrosi familiare sarebbe rimasta tale in tempi normali. Ma come capita spesso con gli autocrati che irrompono sulla scena nelle grandi crisi, essa ha assunto le dimensioni di una tragedia storica. Una tragedia insanguinata non da battaglie epiche ma da massacri, spesso di civili inermi.
  • La consegna di Milosevic a una giustizia affidata ai vincitori della guerra del Kosovo equivarrebbe a un'altra sconfitta serba. E il nuovo nazionalismo, moderato e democratico, non la vuole subire.
  • C'è in Vojislav Kostunica un insieme di abilità e di dirittura eccezionale in un uomo che, almeno per ora, sembra dominare una situazione tanto complessa ed esplosiva.
  • Non è il trionfo, ma è certamente un successo della "giustizia internazionale" il fatto che il governo di Belgrado abbia consegnato Slobodan Milosevic al Tribunale Penale dell'Aja. Mai, prima d'ora, un ex capo di Stato era stato affidato dal governo del proprio Paese a una giurisdizione sopranazionale. Il processo all'ex presidente jugoslavo per crimini (di guerra e contro l'umanità) sarà dunque una prima assoluta nella storia moderna. Ed è senz'altro un avvenimento che segna una svolta nella storia dei Balcani, poiché affidandosi alla giustizia dell'Occidente il governo neodemocratico serbo ne ha sposato ancor più i principi, abbandonando una tradizione nazionalista, fondata su un orgoglio con forti connotati tribali.[16]
  • La scoperta delle fosse comuni alle porte di Belgrado ha cambiato la situazione. Per la prima volta, dopo dieci anni, i serbi hanno constatato con i loro occhi, e quindi hanno dovuto ammettere, che i crimini attribuiti a Milosevic non erano un'invenzione dei nemici della Serbia. Lo stesso governo ha fatto trasmettere alla televisione la riesumazione dei resti di kosovari trasportati e sepolti a Batajnica, un sobborgo della capitale: teschi, tibie, femori, vertebre....; scheletri frantumati di donne, bambini, vecchi; cadaveri con evidenti tracce di sevizie. Durante e dopo la guerra varie organizzazioni umanitarie avevano parlato di convogli colmi di cadaveri arrivati in Serbia. Ma la gente non ci credeva. Tutta propaganda. In quanto alle fosse comuni scoperte in Kosovo non erano poi tanto numerose. Non comunque tali da provare i massacri denunciati dalla Nato. Le nuove immagini, mostrate alla televisione mentre si discuteva dell'estradizione di Milosevic, hanno dissipato i dubbi. Soltanto gli stretti partigiani di Milosevic hanno continuato a negare.[16]
  • I Taliban, adesso allo sbando, si sentivano i difensori della Umma, della comunità dei credenti musulmani, ferita da una forza materialista, atea, da un Occidente che ha decretato la morte di Dio. Se lo sono sentito ripetere nelle "dini madras", le scuole teologiche, come una litania, che l'Occidente è imperialista e coloniale, e che l'Islam fu potente prima di essere umiliato e sottomesso. La prova della sua decadenza, e di quanto fosse necessario rilanciarlo e purificarlo, era lì sotto gli occhi: stava nel fatto che dei musulmani rinnegati osavano minacciare, inseguire, uccidere i combattenti di Dio con l' aiuto determinante degli infedeli, presenti con l'aviazione della loro odiata superpotenza. La disfatta, già scritta in tutte le cancellerie e gli stati maggiore del mondo prima ancora che la guerra cominciasse, si è abbattuta sulle teste dei Taliban come un fulmine. Per loro era impensabile. Come potevano essere contraddette mille sante verità? Col tempo quelle verità riemergeranno. Non sono certo le bombe degli infedeli e dei musulmani rinnegati che possono cancellarle per sempre. Adesso pero' è un mondo che crolla.[17]
  • I combattenti allo sbando in Afghanistan sono cresciuti in un clima di nazionalismo religioso (nel senso di una religione confiscata da un potere politicoteocratico) esasperato a tal punto da stampare nella loro mente convinzioni indelebili anche nel momento della resa dei conti, quando la realtà può presentarsi insieme alla morte. Nell'esercito in decomposizione non mancherebbero i suicidi. I quali possono essere un modo di sfuggire a una disfatta che equivale alla dissacrazione della guerra ritenuta santa. La delusione per essere stati abbandonati, sia pure temporaneamente, da Dio non può avere che la morte come conseguenza: anche se l'Islam è deciso, senza equivoci, netto, nel proibire il suicidio: la vita è infatti data in prestito da Dio; se ne deve dunque fare un uso accorto; non deve essere sciupata o distrutta, ma al contrario conservata fino al momento in cui chi l'ha data non decide di riprendersela.[17]

la Repubblica, 29 ottobre 2001

  • La vera differenza tra noi e i terroristi è che noi non consideriamo una guerra santa quella provocata dagli attentati di Washington e di Manhattan. Questa è la nostra sostanziale superiorità. La quale in questo momento va condivisa con tutti i Paesi che, con più o meno slancio, partecipano, nei vari continenti, alla coalizione antiterroristica, indipendentemente dalle maggioranze religiose o dalle leggi, anch'esse religiose, che vi sono in vigore. Chi nelle nostre democrazie, nei momenti di indignazione, mette la propria civiltà sull'altare che gli altri riservano a Dio, diventa un obiettivo alleato dei terroristi, la cui strategia tende appunto a scatenare un conflitto tra civiltà o religioni. Il culto cui ci dobbiamo dedicare, anche quando l'emozione è intensa, consiste nell'applicare i nostri princìpi, e nell'analizzare criticamente, con rigore, la realtà. Senza insultare e sputare in faccia a nessuno.
  • Dove è in vigore la sharia, ossia la legge coranica, le libertà religiose sono seriamente compromesse, poiché essa condanna a morte l'apostasia. Per cui una conversione (o un'abiura) può essere pagata con la vita. Oggi la sharia viene interpretata in modo variabile nei paesi in cui viene applicata. Essa pesa sui musulmani e riduce lo spazio dei non musulmani. Nel Sudan, i «liberali» sostengono che l'accusa di apostasia non deve costituire un casus belli tra musulmani e cristiani. La minaccia della pena di morte sarebbe soltanto virtuale, poiché un convertito non può essere perseguito nel nome di una legge religiosa che riguarda soltanto i musulmani.
  • In Nigeria i convertiti al cristianesimo sono invitati a trasferirisi nelle regioni del Sud dove non è in vigore la sharia.
  • Su tutto il territorio dell'Arabia Saudita, fatta eccezione delle ambasciate, non vi è un metro quadro in cui un ministro del culto cristiano, ebreo, buddista o induista possa celebrare un rito, benché nel Paese vi siano circa sei milioni di immigrati non musulmani. E i cattolici siano più di mezzo milione.
  • La cornice politicogiuridica in cui vivono i non musulmani in molti paesi musulmani non è certo rassicurante. La forte discriminazione favorisce le angherie, e indica i bersagli quando il fanatismo supera il livello di guardia.

la Repubblica, 14 novembre 2001

  • La neve conferisce a Kabul una certa nobiltà. Se ci arrivi d'inverno ne apprezzi i rilievi senza vedere il tessuto urbano sbrindellato. La corona di montagne appuntite, di cime di varie forme e altezze, tutte eleganti, attorno all'ampia pianura, è imponente. Coperto di bianco, anche quello che hanno fatto gli uomini, ossia la città, diventa accettabile. Basta non vedere nel dettaglio l'agglomerato di bazar e di villaggi desolanti, di solito definiti medievali ma soltanto poveri; basta ignorare anzitutto le zone residenziali moderne.
  • Nei primi giorni di gennaio del 1980 fui fortunato. Kabul era invisibile. I carri armati sovietici appena arrivati, nei giorni di Natale, dall'Uzbekistan e dal Tagikistan sembravano elefanti galleggianti su un oceano immacolato, con le proboscidi, i cannoni, puntati contro il nulla. Perché la capitale era deserta. Le principali tribù a confronto in quelle ore, perlomeno a Kabul, erano comuniste. Da un lato i comunisti Khalq (popolo) e dall'altro i comunisti Parsham (bandiera). Ma lo schieramento non era cosi netto. La tragedia delle ultime settimane si era svolta con una mischia in cui era difficile distinguere le fazioni. Breznev aveva deciso di far intervenire l'Armata Rossa proprio per far cessare quella rissa tra compagni. Il segretario generale del partito sovietico era stato colpito dall'assassinio di Nuhr Mohammad Taraqi, suo amico personale. Taraqi era stato strangolato dagli uomini di Hafizullah Amin. Il quale sarebbe stato a sua volta fucilato dai sovietici, sostenitori di Babrak Karmal. Erano al tempo stesso faide personali e convulsioni rivoluzionarie, sulle quali pesavano le interferenze di Mosca.
  • I Khalq, i comunisti del popolo, erano in gran parte Pashtun, ma erano anche in larga parte gente della campagna; mentre i Parsham, i comunisti della bandiera, erano spesso Tagiki e gente di città. C'erano anche i comunisti maoisti, poco numerosi e nascosti: ed erano per lo più giovani musulmani sciiti (come l'ayatollah Khomeini, da poco al potere nel vicino Iran). Le adesioni politiche erano avvenute all'inizio secondo criteri universali, sul piano ideologico, con preferenze nazionali o prosovietiche o procinesi. Col tempo erano però emersi i clan regionali e comunitari.
  • [Su Nur Mohammad Taraki] Lui e Amin erano entrambi Khalq. Ma Taraqi era più moderato e non tollerava l' estremismo di Amin. I sovietici avevano acconsentito. L'assassinio doveva avvenire all'aeroporto di Kabul, dove non mancavano gli agenti del Kgb, sovietici e afgani. Ma Amin aveva sventato il complotto. E dopo giorni di trattative, l'ambasciatore sovietico, Puzanov, era riuscito a convincere i due nemici a incontrarsi. Se non era possibile la pace, bisognava almeno tentare una tregua. C'era invece stata una sparatoria, prima ancora che i due si potessero rivolgere la parola.
  • [Su Babrak Karmal] Molti Khalq e non pochi Parsham non gli perdonarono mai di essere l'uomo degli invasori.
  • C'era un vero sentimento nazionale, patriottico, nei confronti dell'invasore? La rivolta nelle campagne contro il regime, dopo il colpo di Stato del '78, era una reazione all'invadenza del potere centrale, che interferiva più del solito nella vita dei villaggi e delle comunità. Poi, dopo l'invasione, si formò una resistenza di fronte a un nemico comune. Ma già dall'inizio di quella resistenza il Paese si frantumò in mille pezzi. Regioni, comunità, clan si organizzarono separatamente, e dove non c'era un capo carismatico, le divisioni si approfondivano e moltiplicavano. Si aveva spesso l'impressione che i russi fossero considerati più intrusi che invasori. Violavano i villaggi, turbavano gli equilibri regionali. E poi, via via, con la repressione sistematica, alimentarono la resistenza armata.

la Repubblica, 4 dicembre 2001

  • È sul metro e ottanta ma non di corporatura robusta. Ti viene incontro con passi incerti, come se l'andatura dovesse esprimere la sua modestia. La testa protesa in avanti e lo sguardo fisso di sotto in su dell'unico occhio, il sinistro (l'altro l'ha perduto in guerra), fanno pensare a un toro sul punto di caricare. Un toro guercio. Timido e taciturno. Questo è il sommario ritratto del mullah Omar che anima la resistenza nella città di Kandahar, ultimo bastione dei Taliban.
  • È iconoclasta, coraggioso, fanatico, umile, intransigente, generoso, oscurantista. Può essere indulgente e spietato. Non come una monarca giusto o bizzoso. Ad ispirarlo sono spesso i sogni che gli fanno da ponte con l'aldilà. Non ha carisma ed è un cattivo predicatore, non è neppure un bravo teologo, un acuto interprete del Corano, ma è stato a lungo un capo ascoltato e una guida religiosa rispettata e temuta. Ha rischiato la vita per salvare due adolescenti rapite e violentate; e un'altra volta ha strappato un ragazzo dalle mani di due uomini che se lo contendevano per sodomizzarlo; ma non si contano le stragi compiute dai Taliban ai suoi ordini; ed è lui che ha fatto distruggere i Buddha giganti di Bamiyan. Non è certo un opportunista. Lui è a Kandahar, in mezzo ai suoi uomini, mentre Osama Bin Laden è nascosto in chissà quale caverna millenaria, nel cuore delle montagne afgane. (Oppure segue la propria vicenda guardando la Cnn in uno chalet svizzero, in prossimità di Zurigo, come dice con sarcasmo un intellettuale di Islamabad). Se avesse preso le distanze da Osama, se l'avesse abbandonato a se stesso o avesse contribuito alla sua cattura, adesso Omar sarebbe ricoperto di onori e di dollari.
  • Il mullah Omar vive in un'altra epoca, un imprecisato numero di secoli fa.
  • Il mullah Omar non è mai stato tenero con Kabul. C'è venuto soltanto due volte, nascosto dietro i vetri blu di una colonna di automobili nere tutte uguali e scortate da uno squadrone di motociclisti. Nessuno poteva capire in quale automobile fosse annidato il mullah. Non regnava la fiducia tra lui e Kabul. Se non la teneva in grande considerazione, dopo la resa ha constatato che il suo disprezzo era fondato. La sua città è Kandahar. E là, almeno per ora, si resiste.

la Repubblica, 26 luglio 2002

 
Gamal Abd el-Nasser
  • [Su Fārūq I d'Egitto] Era intelligente ed era considerato un uomo colto. Indugiava volentieri nei piaceri della vita e tendeva ad evitare i problemi. Non li risolveva, li aggirava. Erano troppi. Sentiva che l'avrebbero travolto. Era tollerante. Non mancava di generosità. Si diceva che fosse spendaccione. C'era chi lo chiamava il "re di cuori", alludendo al suo amore per le carte da gioco. Il soprannome, tra lo scherzoso e il malevolo, gli restò per tutta la vita, anche quando non era più re di niente. (Io lo ricordo quando, molto più tardi, durante il suo lungo esilio italiano, raggiungeva nella notte, di soppiatto, i circoli romani in cui poteva sedersi a un tavolo di poker). Era senz'altro un po' pigro. Ma non certo ignaro dei pericoli che pesavano sulla monarchia.
  • Nasser era un personaggio passionale e romantico, irruento e tenace. Fu amato e odiato con grande intensità nei diciotto anni in cui governò l'Egitto e influenzò con alterna fortuna tutti gli arabi e larga parte dei paesi emergenti del Terzo Mondo. Amore e odio si confusero spesso. Nasser era un leader che sapeva commuovere anche molte sue vittime. A tratti era un rais, il capo che comanda, che si impone con la forza e la volontà; a tratti uno zaim, il capo che interpreta i sentimenti del momento della sua gente.
  • Nasser costruì la sua piramide, che, crollando, aprì una voragine. Un'altra immagine è quella della diga nasseriana che cede, si sbriciola, lasciando dilagare il fondamentalismo islamico: come accadrebbe con l'acqua del Nilo se si spalancasse la diga di Assuan. L'Egitto è un paese semplice, saggio, reticente ma non immune dagli eccessi, tanto antico da amare le idee grandiose come la sua storia e i suoi monumenti.
  • La nazionalizzazione del Canale di Suez, nel 1956, annunciata all'improvviso da Nasser, costituì una svolta nei rapporti tra l'Occidente e il Terzo Mondo. Espropriando senza preavviso la compagnia internazionale che controllava la più importante via marittima tra Est e Ovest, l'Egitto non colpiva soltanto gli interessi finanziari dei paesi industrializzati, ma lanciava una sfida senza precedenti. Si assumeva la responsabilità di far funzionare, su un piano tecnico, un meccanismo sofisticato, con i suoi ingegneri, giudicati non all'altezza del compito da Londra e da Parigi. Da un punto di vista militare appariva inconcepibile che una via di comunicazione tanto importante cadesse sotto il controllo di un regime come quello di Nasser.

la Repubblica, 28 ottobre 2002

  • [Sulla Seconda guerra cecena] Ma cosa poteva fare d'altro Putin, visto il suo profilo politico e la natura del suo successo? Trattare con i ceceni sarebbe stata un' umiliazione troppo forte. Non avrebbe mai potuto soddisfare, in tutti i casi, le loro rivendicazioni. Un ritiro delle truppe russe dalla Cecenia? Neanche parlarne. Né il presidente della Federazione Russa, eletto sull' onda della promessa di mettere fine alla rivolta cecena, poteva offrire lo spettacolo di un negoziato, sia pure fittizio, avviato con la sola intenzione di prendere tempo.
  • L'ex ufficiale del Kgb ha agito con strumenti a lui familiari. Una soluzione rapida avrebbe avuto un prezzo. L'uso dei gas avrebbe provocato una strage. Ma le conseguenze sarebbero state meno gravi, politicamente, di un cedimento, o anche di una lunga attesa, al fine di preparare un' operazione più mirata. Meglio dunque colpire subito, con un' arma non certo da paese in cui vige lo stato di diritto, diciamo pure con uno strumento vile, quale è il gas iniettato nel teatro sulla via Dubrovska. Un gas rivelatosi letale per amici e nemici, per terroristi e ostaggi, per carnefici e vittime. Un gas che ha risparmiato soltanto coloro che l'hanno usato.
  • Non si deve trattare con il terrorismo, ma neppure cercare di estirparlo col terrore. Il rischio è di arrivare a qualcosa che assomiglia a un suicidio, come è appunto avvenuto nella Mosca di Putin. Meglio dedicarsi a cercarne le cause e tentare di eliminarle. In Cecenia, in Palestina e altrove.
  • La sua figura è popolare. Aflaq fu il fondatore del partito Baath (Rinascita), al quale appartengono i miliziani armati, adesso dispersi nelle case della capitale. Fu anche l'ispiratore di Saddam Hussein. Il mausoleo. Sarebbe un ottimo bastione.[18]
  • Aflaq (un siriano di religione cristiana ortodossa) voleva strappare gli arabi dall'asservimento alla religione, a suo avviso retrogrado, e sognava una grande nazione panaraba.[18]
  • Mi sembrò un uomo mite. Pigro nei movimenti e nell'eloquio. Era un sognatore. Mi raccontò dell'influenza fascista e marxista subita negli anni parigini, quando studiava alla Sorbona. Diffidava sia dell'Occidente sia del comunismo.[18]
  • L'Iran imperiale disponeva di enormi risorse finanziarie che consentivano grandi innovazioni, in tutti i campi. Teheran era la meta obbligata di legioni di uomini d'affari occidentali, incolonnati come questuanti davanti ai ministeri, ansiosi di proporre prodotti e progetti. Non mi passò neppure per la testa l'idea che quel successo potesse condurre a un disastro. A ritorcesi contro lo scià fu l'eccessiva modernizzazione, compresa quella culturale. La precipitosa industrializzazione, pagata con i proventi petroliferi, non dette i frutti sperati. L'Iran non era competitivo sul piano internazionale e all'interno i consumi non erano sufficienti per mantenere le attività appena create. Si accentuò il declino dell'agricoltura, ferita da una riforma che, per volontà dello scià, aveva trasformato mezzadri e fittavoli in tanti proprietari troppo piccoli per sopravvivere. Così il distacco tra le città, gonfiate da popolazioni inurbate in gran fretta, e la società rurale era aumentato, ed era cresciuto in modo vertiginoso quello tra le classi beneficiate dalla pioggia petrolifera e quelle escluse, abbandonate a se stesse. Le campagne in favore dell'emancipazione femminile e dell'alfabetizzazione fecero emergere strati sociali subito assetati di libertà adeguate al loro nuovo status. Ma un apparato poliziesco severo, e spesso spietato, reprimeva quegli slanci suscitati dalle riforme. La monarchia non fu capace di gestire la modernizzazione (l'occidentalizzazione) che essa stessa aveva voluto. Non fu capace di rinunciare a un rigido autoritarismo che comprimeva la società civile in espansione.[19]

la Repubblica, 5 maggio 2004

 
Battaglia di Dien Bien Phu
  • Cinquant'anni fa, nel cuore dell'Asia, in un punto strategico del Tonchino settentrionale, sul territorio vietnamita ma a ridosso del Laos, e a una certa distanza dal confine con la Cina, si svolse l'ultima battaglia antica dell'epoca moderna. Il suo nome mitico, Dien Bien Phu, tradotto alla lettera diventa burocratico. Dien in vietnamita significa grande; Bien frontiera; Phu è un capoluogo amministrativo. Dien Bien Phu vuol dunque dire Grande Centro Amministrativo di Frontiera. La battaglia, in quella località battezzata da mandarini senza fantasia e abitata da pacifici coltivatori d'oppio, durò cinquantasei giorni, tra metà marzo e i primi di maggio del 1954: e se non cambiò subito, direttamente, la storia del mondo, come altre battaglie rimaste nella memoria, essa annunciò, con un enorme spargimento di sangue e un altrettanto disperato coraggio da entrambe le parti, i mutamenti che nel mondo si sarebbero prodotti in un futuro non tanto lontano.
  • Quel giorno di maggio, al momento della resa, de Castries accolse i vincitori tenendo alto il naso d'aquila che appuntiva il suo viso, e sforzandosi a sporgere il mento non troppo pronunciato. Era un suo atteggiamento nei momenti difficili, quando cercava di fingere l'indifferenza. Ma i testimoni raccontarono che la palpebra pesante, cui doveva l'abituale espressione tra l'assorto e lo sprezzante («da seduttore di garden party», secondo chi non lo prendeva troppo sul serio) era molto più abbassata del solito, quasi chiudeva il suo sguardo, come una saracinesca.
  • Dien Bien Phu fu una disfatta francese, ma anche una pagina militare onorevole, coraggiosa nella storia dell'esercito francese. Nel ricordarla non si può tuttavia non scendere nei particolari perché quella fu una battaglia «all'antica», in cui l'onore aveva le sue regole.
  • Per vincere la battaglia di Dien Bien Phu, Giap si era servito dell'arte della guerra imparata nelle foreste e nelle risaie del Viet Nam. I suoi studi erano stati di tutt'altra natura. All'università di Hanoi aveva frequentato disordinatamente corsi di legge e di filosofia. La sua passione era la storia. E nella storia aveva incontrato due maestri: Alessandro Magno e Napoleone. Dei quali aveva tratto insegnamenti che aveva poi adeguato alla sua realtà. Un altro suo ispiratore nell'arte della guerra era il Mao Tse Tung che non si accaniva contro i punti inespugnabili del nemico, che evitava le battaglie dall'esito incerto, che si sottraeva alla forza dell'avversario, e che sapeva mobilitare i contadini con parole d'ordine semplici, elementari, e cariche di passione.
  • La scena della resa, nel bunker del generale de Castries, quel 7 maggio 1954, prefigura la scena del 30 aprile 1975, a Saigon: quella in cui l'ambasciatore americano con la bandiera sotto il braccio sale su un elicottero, posato sul tetto dell'ambasciata, che subito s'invola, mentre i soldati di Giap, non più con i sandali di gomma logora ma con i carri armati, stanno per sommergere la capitale del Sud. I militari francesi, come quelli americani ventun anni dopo, pagarono gli errori commessi nel valutare gli avversari.

la Repubblica, 29 ottobre 2004

 
Yasser Arafat
  • Yasser Arafat è stato – è ancora – uno dei principali personaggi pubblici dell'ultimo mezzo secolo. È stato tra i più amati e tra i più detestati. Negli ultimi tempi la sua immagine si è annebbiata, ma egli non è certamente "fuori gioco", come sostengono Gerusalemme e Washington. Nelle memorie arabe Arafat è la Palestina, e la Palestina è per loro la prova concreta dei soprusi compiuti dagli occidentali in terra araba. O musulmana.
  • Lui è stato il creatore dell'identità palestinese. E la sua gente lo sa, lo sente. La sua malattia, la morte che lo minaccia, la sua partenza, l'eventuale non ritorno suscitano emozioni collettive. Hanno implicazioni politiche. E quindi anche questa sua ultima vicenda – che lo mette a confronto con una morte naturale, comune a tutti gli esseri umani – va analizzata con impîetosa freddezza, come appunto va analizzato un avvenimento politico.
  • Nella sua lunga vita politica è stato tutto: è stato il creatore dell'identità palestinese (che prima di lui non era riconosciuta); è stato il terrorista; il premio Nobel per la Pace; l'uomo di Stato rispettato; poi di nuovo il sospettato di terrorismo; e infine il reietto, al quale Gerusalemme e Washington (e i suoi lacchè) rifiutavano di parlare. E lui stesso Arafat sembrava paralizzato, avvinghiato al potere, incapace di trasferirne almeno una parte a personaggi meno condizionati dal lungo passato.
  • Corrotto? Non certo personalmente, ma pronto a corrompere gli altri per comperarne la fedeltà. Il solo ruolo che gli calzava era quello di tenace, dignitoso prigioniero, capace di resistere alle angherie e ai soprusi. Il suo potere era in larga parte formale, poiché il Paese era occupato, spezzettato o isolato. In questa veste di recluso finiva con l'incarnare, ancora una volta, la Palestina, anch'essa repressa.
    Ma era un ruolo improduttivo. Sterile. Meglio che ne sia uscito. Meglio anche per la sua gente, che ha bisogno di uomini nuovi. E speriamo che fuori, con la libertà, Arafat possa anche recuperare la salute.

la Repubblica, 5 novembre 2004

  • L'uscita dalla ribalta politica di Yasser Arafat apre un grande vuoto in Medio Oriente: spalanca uno spazio in cui possono maturare opportunità per una ripresa del dialogo, ma in cui si può anche scatenare un ciclo di violenze ancora più tragico di quello che ogni giorno insanguina una terra troppe volte santa per essere pacifica.
  • Arafat è il protagonista di una lotta tra due popoli che si contendono la stessa terra, in nome di antichi valori, avendo sullo sfondo la strage europea degli ebrei, i cui superstiti sono venuti a rifugiarsi, a recuperare i luoghi biblici degli antenati, su cui vivevano da secoli degli arabi musulmani: i palestinesi diventati vittime delle nostre vittime.
  • George W. Bush, come Ariel Sharon, rifiutava di parlare con Arafat. Lo riteneva responsabile del terrorismo e non lo considerava un interlocutore valido. La scomparsa del raìs dalla scena politica e la simultanea supposta disponibilità di Bush potrebbero consentire una ripresa non solo del dialogo ma anche di veri negoziati. L'ostacolo del logoro, tenace Arafat è caduto. E i dirigenti che dovrebbero succedergli sono più che disponibili.
  • Se Ariel Sharon persiste nel rifiutare al raìs una tomba a Gerusalemme, nella moschea di Al Aqsa, dove lui voleva essere sepolto, ci potrebbe essere la prima fiammata del dopo Arafat.
  • La decolonizzazione è stata l'esperienza più importante della mia vita professionale. Era esaltante, per il giovane cronista degli ultimi anni Cinquanta e poi dei Sessanta, veder nascere tanti Paesi africani, sulle coste mediterranee, atlantiche e dell'Oceano Indiano. Dal Congo alla Somalia, dall'Algeria al Madagascar. Come poi fu deprimente assistere alla rapida degradazione di molti di quei Paesi, dove i capi della lotta per l'indipendenza si erano trasformati in tiranni spesso corrotti. Ma la storia recente non cancella quella passata. E nella storia dell'epoca coloniale, sia pur rivisitata e aggiornata con nuove ricerche e più pacate valutazioni, restano la schiavitù, il lavoro forzato, i massacri, la tortura, le umiliazioni... Tanti crimini, insomma, contro l'umanità.[20]
  • Fa sempre un certo effetto veder nascere una nuova nazione. In queste eccezionali occasioni la gente inneggia a una libertà destinata a durare poco, poiché i capi irredentisti si trasformano presto in tiranni. Mujibur Rahman, capo della Lega Awami, il partito indipendentista bengalese, non sfuggì alla regola. In pochi anni diventò primo ministro, poi presidente, abolì il parlamento, si comportò come un dittatore, fu destituito e ammazzato. Ma prima che questo accadesse, era commovente vivere la breve parentesi in cui la libertà sembra trionfare.[21]
  • La guerra umanitaria contro Milosevic non aveva come obiettivo soltanto la stabilità in Europa, ne aveva anche uno etico. I delitti gravi contro l'umanità, come quelli compiuti da Milosevic nel Kosovo (dove masse imponenti di profughi si muovevano sotto gli occhi impietositi dei telespettatori occidentali) «non potevano restare impuniti». Le parole decise di Madeleine Albright, allora segretaria di Stato nell'America di Clinton, erano un messaggio preciso: era una dichiarazione di guerra al totalitarismo, per ragioni umanitarie. Anche la Germania, per la prima volta dopo la Seconda guerra mondiale, partecipò a un'azione bellica con gli altri europei. La discussione sulla legittimità o meno di quella guerra fu intensa. E diventò ancora più aspra quando invece di crollare dopo i primi bombardamenti, la Serbia di Milosevic tenne duro. Non era stata presa in giusta considerazione la mentalità del dittatore né quella del popolo serbo, convinto di essere capace di dare il meglio di se stesso nei momenti di pericolo (pensa Joze Pirjevec). È con questa stessa mentalità che Milosevic si è difeso al Tribunale internazionale e che non pochi serbi continuano a difenderlo. Al di là, spesso, della ragione.[22]

la Repubblica, 25 settembre 2007

  • Il Buddismo conta da tempo numerosi fedeli in Occidente, ed è in netta espansione sia in Europa sia in America. Ma per il grande pubblico è spesso ancora una religione esotica che adora un saggio in meditazione, e, a volte, degli dei con tante braccia, in pagode con gli angoli dei tetti rialzati e dei guardiani severi. I più avveduti lo considerano una filosofia di rinuncia al mondo, o di serenità in un mondo senza dei. Rari, nel grande pubblico, nonostante la sua grande e rapida diffusione, non solo tra i giovani, sono coloro che considerano il Buddismo quel che esso via via è: vale a dire una regola di vita e un metodo di condotta del pensiero, una filosofia, un culto devoto, un rito, una gnosi di grande libertà, direi senza confini. C'è chi dice licenziosa. Ed è ancora di più.
  • Il Viet Nam non era un paese buddista. I buddisti erano pochi. I colonizzatori francesi avevano diviso sbrigativamente per l'anagrafe la popolazione in buddisti e cattolici. In realtà la maggioranza era dedita al culto degli antenati, ispirato dal confucianesimo. Ma le grandi ricorrenze erano celebrate nelle pagode, tenute dai monaci buddisti. La cui forte influenza si opponeva a quella del potente clero cattolico, irrobustitosi all'ombra del colonialismo ma percorso da un autentico nazionalismo. Un nazionalismo che si scontrava a quello comunista di Ho Chi Minh.
  • Al potere c'era il cattolico Diem, un nazionalista autoritario, che reprimeva gli oppositori, dedicando una particolare attenzione alle pagode, ritenute centri di sovversione, infiltrati dai comunisti. In realtà i monaci erano dei pacifisti, ma il loro pacifismo si scontrava con il clero cattolico, in gran parte fuggito dal Nord comunista e quindi ansioso di ottenere una rivincita.
  • Il Tibet è il teatro della grande tragedia buddista. [...] Insieme alle condizioni di vita, certamente migliorate sul piano economico, dopo anni di privazioni e di umiliazioni, il Tibet ha cambiato faccia. Non è più il paese che era prima di diventare una provincia autonoma cinese. Il buddismo ha perduto quella che considerava la sua patria. I Lama, come tutti gli altri tibetani rifugiatisi in India o in altri paesi, hanno potuto conservare le loro convinzioni, ma nel nuovo ambiente stentano a mettere le radici. Per i tibetani è crollata una struttura secolare. Per i buddisti in generale è stato come smarrire un punto di riferimento.

la Repubblica, 29 dicembre 2007

  • Il Pakistan non è un paese come gli altri. È unico. È un paese musulmano dotato di armi nucleari. Il solo.
  • Il Pakistan rappresenta da tempo un'incognita. La sua immagine è quella di un paese con due volti: talvolta prevale quello che esprime stabilità militaresca in una regione tormentata; talvolta quello che al contrario annuncia, minaccia esplosioni di fanatismo capaci di sconvolgere ancor più la già traumatizzata regione.
  • L'amministrazione Bush puntava su Benazir Bhutto per ricondurre il paese a una decente democrazia, dopo lo strappo autoritario di Pervez Musharraf. L'ideale sarebbe stata un'intesa, un compromesso tra i due. Il compromesso, che avrebbe meritato l'aggettivo di storico, è stato cancellato dal kamikaze. Ora i sostenitori della Bhutto vedono in Musharraf l'istigatore dell'assassinio. Non sarà facile disinnescare le passioni.
  • Dopo la morte di Benazir Bhutto, agli americani resta un solo personaggio su cui puntare: il discreditato Musharraf. Hamid Karzai, il presidente afghano, contava su Benazir Bhutto per migliorare le relazioni con il Pakistan. Con Pervez Musharraf il dialogo non è mai stato disteso. È stato spesso appesantito dai reciproci sospetti. Insomma un rapporto avvelenato dalla diffidenza.
  • [Sulla lingua urdu] Una lingua con accenti da accampamento militare.[23]
  • Al Qaeda è un'ispirazione più che un'organizzazione.[23]
  • Una democrazia non nasce spontaneamente. Noi europei lo sappiamo bene. Per l'Africa va ricordato che nel tracciare i confini dei loro possedimenti, alla fine dell'Ottocento, le potenze coloniali non badarono all'omogeneità culturale dei gruppi umani. Gli stessi confini diventarono negli anni Sessanta quelli degli Stati-nazione indipendenti. Così, per fare un esempio, i popoli di lingua kongo furono dispersi in tre Stati, il Congo ex francese, il Congo ex belga e l'Angola ex portoghese. Nessuno tenne in considerazione il fatto che quei popoli avessero costituito nel passato un potente regno, durato assai più a lungo dell'epoca coloniale.[24]
  • Chi comanda in Ungheria da più di trent'anni, fino alla vigilia dell'89, è Janos Kadar: il più riuscito esempio di leader restauratore di un comunismo afflitto dall'incapacità di rendersi tollerabile. La sua carriera politica ha seguito un percorso zigzagante, tra stalinismo e riformismo, scandito da scomuniche e promozioni. Il suo è il classico curriculum vitae di un dirigente dell'Est. All'inizio non ha osteggiato l'insurrezione del'56, ma poi è stato uno dei "normalizzatori". Il pragmatico Kadar ha preso le distanze dal tumultuoso disordine, troppo traboccante di sogni e di passioni, al tempo stesso rivolto contro il comunismo e in favore di un comunismo migliore. E ha finito col chiedere l'intervento sovietico, che comunque ci sarebbe stato. Con lo stesso realismo, arrivato al vertice del partito, ha adottato la politica dell'indulgenza. Non verso la contestazioneo la critica politica; ma verso i piaceri più individuali. L'Ungheria è diventata con lui la meta dei privilegiati degli altri paesi comunisti, attirati dalle vetrine in cui erano esposti, non senza gusto e con insolita abbondanza, tanti prodotti introvabili nelle loro città, dai tessuti di qualità ai cosmetici più raffinati. Non mancavano la buona cucina e la vita notturna con la sua dose di erotismo. L'ideologia dei consumi, accompagnata da un certo laissezfaire nell'illusoria satira dei cabaret, funzionava da surrogato delle libertà fondamentali chieste durante l'insurrezione del'56 e respinte con la repressione. Con il suo comunismo "al gulash" Kadar raggiunse un consenso passivo invidiabile nelle altre capitali del socialismo reale, alcune delle quali assai più dotate di risorse dell'Ungheria, paese economicamente gracile con una testa enorme e fantasiosa quale era (ed è) la sua capitale.[25]
  • [Su Mohammad Reza Pahlavi] Un monarca che si richiamava a Ciro il Grande, ossia all’epoca preislamica, e che pensava di essere sotto la tutela della superpotenza americana.[19]
  • Gli occidentali avevano da tempo voltato le spalle a Ceausescu, dopo averlo a lungo adulato per assecondare la sua insubordinazione nazionalista nei confronti di Mosca. E nella stessa Unione Sovietica, dopo una burrascosa visita di Gorbaciov a Bucarest, nell'87, si sopportava sempre meno il caparbio, a tratti sprezzante, rifiuto del regime rumeno ad accettare la decisiva svolta del Cremlino, basata sulla perestrojka e la glasnost (la revisione economica e la trasparenza politica). Ceausescu appariva come l'estremo baluardo di un comunismo irriformabile, ancorato a un dittatore, il cui carattere assumeva sempre più aspetti psichiatrici. E il Paese era sull'orlo di un'esplosione.[26]
  • Alle 14,50 del giorno di Natale, in una caserma a neppure cento chilometri da Bucarest, sono sbrigativamente fucilati Nicolae ed Elena Ceausescu e con loro si spegne il comunismo paranoico, alla cui testa non c'era più da tempo il partito ma la famiglia: la famiglia dei coniugi Ceausescu. La quale, come se cercasse il riscatto di una lunga sinistra megalomania, ha un sussulto di dignità davanti alla morte.[26]

la Repubblica, 7 gennaio 2009

 
Studenti dell'Università di Teheran abbattono una statua dello scià durante la Rivoluzione iraniana
  • Lo scià era stato un despota a tratti illuminato e innovatore, a tratti incline alla repressione e ignaro della rivolta che covava tra i sudditi. Aveva regnato trentasette anni e anche lui aveva fatto la sua Rivoluzione bianca. In particolare una riforma agraria che non aveva colpito troppo i latifondisti. A restituirgli il trono travolto da un'insurrezione popolare, nel 1953, era stata la Cia. Non gli erano poi mancati gli ossequi di mezzo mondo. Ossequi di un'intensità proporzionata alla produzione petrolifera della Persia. Persia era il nome che lo scià preferiva per il suo paese. Lo voleva storicamente collegato all'epoca preislamica. La protezione della superpotenza americana gli era garantita. Migliaia di esperti militari venuti dagli Stati Uniti erano la prova concreta che per questi ultimi la Persia di Pahlevi era il migliore alleato nella regione, insieme a Israele. L'idea di poter essere scalzato dai religiosi non l' aveva forse mai sfiorato. Lui aveva seguito le orme del padre, umiliandoli in più occasioni. Reza scià, il genitore, aveva destituito la vecchia dinasta Qajar e si era proclamato imperatore nel 1925, quando era un semplice ufficiale venuto dalla gavetta. Imitando il turco Ataturk, suo grande ispiratore, entrava a cavallo nelle moschee per dimostrare in quale conto tenesse la religione e i religiosi. Cosi aveva fondato una nuova dinastia, quella dei Pahlevi, giudicati dei parvenus da chi poteva vantare un antico sangue reale.
  • La rivoluzione all'inizio sconcertò i politici e gli storici. Era proprio una rivoluzione? Il significato attribuito all' espressione dal 1789 francese non sembrava calzare. Si disse che era la prima rivoluzione «a ritroso». Ossia la prima a infrangere l'idea, la certezza quasi dogmatica, che una rivoluzione equivalga a un' accelerazione dei tempi, a una spinta in avanti, che esprima in concreto, per la sua stessa natura, il concetto opposto di conservazione. Dopo tre decenni nessuno mette più in dubbio che si sia trattato di una rivoluzione, sia pure «alla rovescia», tesa a ricreare in un certo modo il passato e non a disegnare un futuro inedito. Essa ha rivoluzionato in tutti i casi l'islam sciita al suo interno, e influenzato l'assai più esteso, preponderante, Islam sunnita, che fino allora aveva tenuto in scarsa considerazione, o addirittura ignorato, la corrente minoritaria sciita (appena il 12% del mondo musulmano). Nella storia del '900, pur ricca di guerre e di rivoluzioni, l'avvento al potere dei religiosi a Teheran occupa senz'altro un capitolo importante. Nel nuovo millennio rappresenta uno dei principali problemi. Chi si trova nel mezzo di eventi tanto precipitosi riesce di rado a decifrarne il significato.
  • La repressione di ogni tipo di dissenso risultò subito più severa di quella del periodo imperiale. La Costituzione approvata nel dicembre dello stesso anno conferì a Khomeini poteri assoluti a vita, in quanto guida politico-religiosa. Venne respinta qualsiasi influenza proveniente dal mondo occidentale ed ogni possibile opposizione interna al nuovo governo di stampo teocratico.
  • La rivoluzione islamica del '79 ha continuato a manifestare le tendenze repressive dello Stato modernizzatore dello scià, ma in versione teocratica (il Vélayat Faqih, ossia la sovranità del giurista teologico). Versione che ha implicato subito l'abolizione del divorzio, la proibizione dell'aborto, e, sulla base della sharia, la pena di morte per l'adulterio e per la bestemmia. Come durante il periodo imperiale l'apertura politica è stata considerata una minaccia all'unità nazionale.

la Repubblica, 18 febbraio 2009

 
Khieu Samphan in processo nel 2011
  • Il genocidio cambogiano fu il primo del dopoguerra, e quindi il secondo in ordine di tempo, ma anche per le dimensioni, rispetto a quello perpetrato dai nazisti contro gli ebrei.
  • Gli interrogatori venivano condotti con metodi molto simili a quelli adottati dai nazisti. Le vittime erano fotografate e le loro dichiarazioni erano sommariamente verbalizzate e archiviate. Gli strumenti di tortura non avrebbero sfigurato al confronto di quelli delle SS e della Gestapo. I torturatori erano spesso ragazzi di dieci-quindici anni, provenienti da tribù primitive, addestrati a compiere le azioni più atroci nei confronti dei prigionieri, o di chiunque venisse indicato come sospetto. E sospetti erano tutti coloro che per la loro estrazione sociale o per l'educazione occidentale ricevuta potevano essere ritenuti potenziali nemici di Angkar.
  • Ho conosciuto la Cambogia molto prima che i khmer rossi decimassero i suoi abitanti. Era il paese del sorriso. Uomini e donne sorridevano spesso. Tutte le favole, i racconti che erano alla base della cultura popolare cominciavano con episodi carichi di ironia, di sensualità, di allegria. Erano popolati di personaggi pittoreschi: re stravaganti nella loro onnipotenza e prepotenza; contadini sempliciotti, ma anche scaltri, come Bertoldi. E con loro animali svegli e intelligenti come esseri umani: tigri aggressive, conigli furbi, coccodrilli avidi. Ma più ci si addentrava in quelle fiabe e più si moltiplicavano gli episodi irrazionali che precipitavano in tragedie, in improvvise esplosioni di crudeltà.
  • Non ha senso accostare la Cambogia prima dei Khmer rossi alla Germania prima dei nazisti. Cosa c'entra il regno buddista di Sihanuk con la Repubblica di Weimar? Il solo pensiero è una bestemmia. Eppure anche i personaggi della fiaba in famiglia, la fiaba della Germania di un tempo, le ondine che chiacchieravano dal fiume con le lavandaie e i nani ospiti domenicali, e il corvo e la gazza, e il cavallo massiccio con la criniera bionda e gli occhi celestini, erano portatori di sortilegi. Come i coccodrilli avidi e i conigli furbi della foresta cambogiana.
  • Sognano di realizzare nella remota Cambogia una società perfetta. Per rianimare l'antica civiltà khmer (fiorente all'epoca di Carlo Magno) puntano su una rivoluzione adeguata alle realtà del loro paese. E vogliono evitare gli errori commessi dai rivoluzionari occidentali. I quali erano falliti o stavano fallendo perché non avevano liberato radicalmente le loro società dalle classi borghesi, dalle loro tradizioni e dalle loro culture.

la Repubblica, 18 agosto 2009.

  • Ahmid Karzai ricorda il presidente sudvietnamita Ngo Dinh Diem. Il paragone non è lusinghiero. [...] Come Diem anche Karzai è inefficace. La sua famiglia afgana è corrotta come lo era quella vietnamita di Diem. Si è inimicato gran parte della popolazione come accadde al dittatore cattolico di Saigon. Presenta sintomi di paranoia, sembra lontano dalla realtà.
  • Una rapida occhiata alla situazione spinge a paragonare quel che accade in questi giorni (con i taliban capaci di arrivare alle porte di Kabul e di organizzarvi attentati) a quel che accadeva venticinque anni fa durante la presenza sovietica: lo stesso numero di soldati e la stessa incapacità di controllare le province. I taliban non possono sconfiggere le truppe straniere ma possono tenerle impegnate senza limiti di tempo. Così potenti eserciti moderni perdono le guerre asimmetriche del nostro tempo.
  • Larga parte della popolazione teme il brutale estremismo dei jihadisti, ma sente l'inefficienza di Karzai, la sua incapacità di garantire la sicurezza, e subisce la corruzione dei suoi.
  • Karzai ha il vantaggio di essere un pashtun. Appartiene al gruppo etnico più numeroso (42 per cento della popolazione). Ma molti pashtun sostengono i taliban, perché i loro storici rivali, i tagiki (24 per cento), sono numerosi attorno a Karzai.
  • Nella loro propaganda i taliban insistono sull'invadenza dei "panjshiris" e chiamano con derisione "panjshir-zai" il presidente Karzai. Considerato da non pochi pashtun una marionetta nelle mani dei tagiki.
  • Ashraf Ghani appartiene a un'importante e numerosa tribù pashtun, la tribù Ahmadzai. E conta celebri antenati. Suo nonno aiutò Mohammed Nadir Shah a salire sul trono nei primi anni Venti. Il fratello, Hashmat, occupa un posto di rilievo nel gran consiglio di tribù pashtun che rappresentano circa un quarto dell'intera popolazione dell'Afghanistan. Gli americani contano su Ashraf Ghani. La sua esperienza, come funzionario della Banca mondiale e come ministro delle finanze, potrebbe rendere più efficace (e rispettabile) una seconda presidenza di Karzai.

la Repubblica, 29 ottobre 2009

 
Todor Živkov
  • Più che a un cambio di regime, la destituzione di Zivkov assomigliava a un pensionamento: aveva 78 anni e i suoi successori erano dei dirigenti comunisti. Sembrava la transizione da una generazione all'altra.
  • Anche lui, come Nicolae Ceausescu, il vicino rumeno, aveva irritato Michail Gorbaciov respingendo con disprezzo i due pilastri della nuova dottrina moscovita: la perestroika e la glasnost (la revisione in economia e la trasparenza in politica). Il russo e il bulgaro appartenevano a generazioni diverse. Il primo voleva riformare il comunismo agonizzante; il secondo era convinto che fosse irriformabile. Gorbaciov giudicava Zivkov un personaggio pretenzioso. Zivkov riteneva Gorbaciov un leader inesperto.
  • Todor Zivkov è stato più modesto di Nicolae Ceausescu, che si faceva dedicare poemi in cui era esaltato come "Danubio del pensiero" o "Genio dei Carpazi" o "Sole della patria". Todor Zivkov non arrivava a questi eccessi, ma si era circondato di persone solerti nel manifestargli in continuazione la loro "predanost" (lealtà, devozione).
  • Sulle capacità intellettuali e sulla personalità di Zivkov c'erano opinioni discordanti. Alcuni gli riconosceva un raro senso dell'umorismo e ne apprezzavano la scaltrezza e l'arguzia del contadino. Altri erano più severi. Giudicavano scarsa la sua cultura politica e la capacità di valutare le situazioni.
  • Cosa molto rara in un dirigente comunista, sapeva ridere di se stesso, al punto da collezionare le barzellette politiche non sempre lusinghiere per lui.
  • «Non sono mai stato un dittatore», amava ripetere negli ultimi anni della vita. Ma il suo regime aveva e usava tutti gli strumenti di una dittatura. In particolare la Drzavna Sigurnost, la polizia segreta i cui uomini assassinarono tra l'altro, a Londra, nel 1978, con un ombrello avvelenato, lo scrittore Georgi Markov. E pochi anni dopo le indagini sull'attentato a Giovanni Paolo II condussero e si smarrirono sulla «pista bulgara».
  • Di baci ai capi sovietici Zivkov ne dette molti nei trentacinque anni al potere. Fu il solo tra i capi dei paesi comunisti satelliti a non trovarsi mai seriamente in contrasto, fino all'arrivo di Gorbaciov, con il centro dell'impero.
  • Denunciò il titoismo, l'eresia cinese, la controrivoluzione ungherese, l'insubordinazione rumena, l'indisciplina dei polacchi, l'eurocomunismo, le velleità riformiste cecoslovacche... Per questo ha meritato il titolo di "eroe dell'Unione sovietica". Grazie alla sua obbedienza a Mosca, l'aggettivo "bulgaro" è servito, a lungo, nel linguaggio politico europeo, ad indicare chi praticava una sudditanza cieca, incondizionata.
  • Ceausescu esaltava l'identità latina dei rumeni per distinguerli dagli slavi, immaginando stravaganti parentele con gli imperatori romani. Lo sciovinismo veniva sollecitato con accuse contro le minoranze etniche. Ceausescu riversava il suo odio contro gli ungheresi di Transilvania. Zivkov se la prese con i turchi. Sarà il suo ultimo grande errore. Un errore con risvolti criminali. L'atteggiamento dei comunisti bulgari verso i novecentomila abitanti di origine turca e i duecentomila pomaki (ossia musulmani di lingua bulgara) non era mai stato generoso: e non solo per motivi religiosi, in un sistema per sua natura antireligioso, o a causa della maggioranza ortodossa. Nel riesumare la storia nazionale, il partito ha creato o risvegliato assurdi sentimenti di vendetta nei confronti delle minoranze che potevano apparire come i residui della lunga, plurisecolare, dominazione ottomana. Prima Zivkov fece slavizzare i nomi turchi in occasione del rinnovo della carta di identità. Arrivò anche a proibire la lingua turca nei luoghi pubblici e a punire i musulmani che praticavano la circoncisione.
  • Può darsi che i successori, racimolati di gran fretta dall'esercito per evitare un pericoloso vuoto di potere, siano in realtà dei pretoriani, pronti a difendere nei limiti del possibile gli interessi dell'esule. Ma resta il fatto che il Maghreb ha perduto un dittatore e che gli occidentali (Stati Uniti, Francia, Italia) hanno un alleato "laico" in meno nel mondo musulmano.[27]
  • Il nuovo presidente fu salutato come un salvatore della patria che versava in pessime condizioni economiche e che si diceva fosse insidiata da un partito integralista islamico (Ennahdha) impegnato in innumerevoli e imprecisati complotti. Lui, Ben Ali, rilanciò l'economia gettando le basi di un liberismo nuovo per il paese e schiacciò il partito integralista. Ebbe anche impennate democratiche, poiché abolì il principio della "presidenzaa vita" del tempo di Bourghiba e limitò a tre il numero dei mandati, che poi aumentarono via via che prendeva gusto ad esercitare il potere. Promosse persino una politica sociale detta di solidarietà, istituendo fondi speciali destinati ai più poveri, o alla creazione di un sistema di sicurezza sociale. Sull'esempio del predecessore, che aveva fatto della donna tunisina una delle più libere del mondo arabo, si dedicò per un certo periodo anche all'emancipazione femminile. Mentre diventava l'idolo delle classi medie, favorite dal rapido sviluppo economico (la crescita è stata per anni superiore al 5 per cento); Ben Ali sviluppava al tempo stesso, e con identico zelo, la sua inclinazione alla repressione poliziesca. Non soltanto nei confronti degli islamisti, ma anche di qualsiasi oppositore, subito definito di sinistra. Cosi ha creato un'atmosfera da incubo.[27]
  • [Su Osama bin Laden] Quale arabo, dopo forse il Saladino, ha affrontato l'Occidente con tanto impeto?[28]
  • Quella avvenuta ad Abbotabad (a 80 chilometri a nord di Islamabad) è stata la seconda morte di Osama Bin Laden. Quella fisica. Mentre quella simbolica, politica, ideologica, era già avvenuta sulle piazze del Cairo, di Tunisi, di Damasco, di Bengasi, dove Al Qaeda è stata ignorata. Nessuno l'ha esaltata. Nessuno l'ha nominata. La "primavera araba" è sbocciata, è esplosa per la voglia di democrazia, di libertà. Non è provocata dal fanatismo islamista, e ancor meno ispirata dall'idea di un califfato (antico fantasma totalitario) lanciata da Bin Laden. Il suo strumento terroristico, Al Qaeda, più una nebulosa alimentata da gruppi di imitatori spersi nel mondo che una organizzazione vera e propria, è stata ed è ignorata dai giovani egiziani, tunisini, siriani o libici. Per loro è un arnese insanguinato e obsoleto. Non è una scelta. È fuori dal tempo, anche se i suoi sporadici seguaci sono ancora capaci di colpire. Prima degli americani, Bin Laden è stato ucciso simbolicamente dalla gente di piazza Tahrir e di avenue Burghiba.[28]
  • Osama non è un musulmano colto, non conosce molto di teologia, ma questo l'aiuta: parla un arabo semplice, elegante, classico, condito di versetti del Corano.[28]

la Repubblica, 26 marzo 2011

 
Ritratto di parte della famiglia Asad. (Da sinistra a destra), in basso Hafiz al-Asad con sua moglie Anīsa Makhlūf. In alto Māher, Bashar, Bāsil, Majid e sua figlia Bushra Asad.
  • [Su Hafez el-Assad] Venne battezzato il Bismark dell'Estremo Oriente. Era un uomo freddo e duro. Prese il potere a Damasco nel 1971, due anni dopo che il colonnello Muhammar Gheddafi l'aveva preso a Tripoli.
  • Hafez el-Assad (Assad I) sembrava in verità destinato a una breve carriera di dittatore. Ero a Beirut in quei giorni e non avrei puntato un centesimo su di lui. Apparteneva a una minoranza, era un alauita, una corrente dell'Islam relegata in Siria sulle montagne, e quindi non avrebbe retto, secondo i sofisticati analisti di Beirut, all'inevitabile rivalità delle altre comunità, assai più numerose e assuefatte a governare. Uno dopo l'altro, gli amici e colleghi libanesi e siriani autori di quella profezia morirono invece prima di lui. Furono uccisi nella interminabile guerra civile libanese, in cui Hafez el-Assad ebbe sempre un ruolo determinante e deleterio.
  • Gli Assad sembrano o sembravano eterni. Ma, a dispetto delle apparenze, l'abile, spregiudicato equilibrio su cui si è appoggiato per decenni il loro clan, basato in gran parte sulle forze armate, cominciava a traballare. Per questo non mi stupisce quel che sta accadendo in queste ore. Anche se non è facile scalzare Assad. Il suo potere ha radici profonde. E il sangue scorre facilmente in Siria.
  • Gli Assad si sono destreggiati nei rapporti con i palestinesi. Hanno fomentato le rivalità tra le correnti. Li hanno combattuti, uccidendone più di quanti ne abbiano uccisi gli israeliani. Con Hamas, Bashar, il figlio, va d'accordo. Ne ospita i dirigenti. Esercita inoltre un'influenza sugli hezbollah libanesi, con i quali sa essere severo quando deve placare le preoccupazioni all'interno del suo paese, dove è vivo il timore di essere trascinati da quegli alleati sciiti libanesi esaltati in disordini simili a quelli che tormentano, insanguinano il vicino Iraq. Inoltre la Siria è sempre ufficialmente in guerra con Israele, che occupa un territorio siriano sulle alture del Golan. Con il clan degli Assad hanno conti da regolare i Fratelli musulmani, che il padre Hafez massacrò nella città di Hama, poi demolita con i bulldozer. Nella rivoluzione araba che infuria, la Siria di Assad presenta la peculiarità di essere antiamericana, al contrario della Tunisia dei Ben Ali e dell'Egitto di Mubarak. La Libia di Gheddafi sfuggiva ad ogni classificazione prima di essere tragicamente isolata.
  • Bashar el-Assad è accusato dai manifestanti di essere un falso riformatore. Laureato in medicina, e poi convertito alla politica per prendere la successione del padre, egli si prestava come un uomo aperto alla modernità, appassionato d'informatica ed esperto internauta. Ma ha fatto disperdere brutalmente le timide manifestazioni dei giovani armati di candele riunitisi la sera a Damasco per appoggiare l'insurrezione del Cairo. Il caso di Tal al-Malluhi, una ragazza di diciannove anni, autrice di blog impertinenti, arrestata, maltrattata, condotta in tribunale con gli occhi bendati e le manette, e condannata a cinque anni per spionaggio a favore degli Stati Uniti, non ha reso credibile la conversione democratica di Bashar.

la Repubblica, 1 maggio 2011

  • Muhammar Gheddafi interpreta, nell'ultima apparizione televisiva, la sua reale tragedia come un attore consumato. Il burnus nero, il volto immobile, di una compostezza sofferta, lo sguardo fisso, socchiuso. Le mani nervose che tormentano i fogli sul tavolo, danno drammaticità all'intervento. Non alza mai la voce. Né si agita. Neppure quando proferisce minacce. Ad esempio: «Porteremo la guerra in Italia». Le espressioni, i gesti, non sono più caricaturali. Le tracce della paranoia, della delirante mania di grandezza, sembrano cancellate. È con toni dignitosi, dietro i quali credo di leggere una forte tensione, che recita per ottanta minuti un monologo ritmato da minaccee da inviti alla pace, molto simili a suppliche. Il discorso è scucito, confuso nella forma, ma con un preciso filo conduttore. È il bluff della disperazione, lanciato nella notte, mentre cadono i missili della Nato su Tripoli. E le esplosioni oscurano per tre volte il teleschermo. La scena si addice all'orazione un po' cupa.
  • Accusa gli occidentali di mirare al petrolio libico, di essere crociati assetati di denaro, ma chiede a « Francia, Italia, Gran Bretagna e America » di negoziare. Poiché non può essere accettata, la proposta assomiglia alla supplica di uno che intravede il capestro. E tuttavia si guarda bene dal prospettare quel che quei paesi pongono come condizione per eventuali trattative: vale a dire il suo definitivo abbandono del potere, la sua uscita di scena, insomma il suo esilio in qualche terra africana, dove ha seminato dollari per decenni. È l'orgoglio del capo beduino, che per quarantadue anni ha esercitato con scarsa pietà un potere assoluto? I ribelli di Bengasi sanno che trattare con Gheddafi significherebbe ammettere la sua vittoria.
  • Gli Stati Uniti non hanno grandi interessi nel paese del Maghreb, mentre una destabilizzazione della Siria, nel cuore del Mashrek, l'Oriente arabo, avrebbe serie ripercussioni in Iraq, in Libano e in Israele, dove si è riluttanti a cambiare i pur difficili interlocutori di Damasco. Un governo sunnita sarebbe molto meno graditoa Gerusalemme. Inoltre la Siria ha in comune con la Turchia, membro della Nato, un confine e una popolazione curda che potrebbe risentirne. La stessa Arabia Saudita, in preda a contestazioni interne, non gradirebbe il crollo di un altro regime arabo. E l'Iran, alleato della Siria, coglierebbe l'occasione per inserirsi in disordini interni se a Damasco dovesse succedere a quello di Assad un regime sunnita, non gradito alle minoranze sciite, e alla setta degli Alauiti, alla quale appartiene la famiglia Assad. Per questi ed altri motivi gli Stati Uniti non hanno chiesto le dimissioni di Assad, mentre esigono con insistenza quelle di Gheddafi.
  • Le sanzioni hanno colpito il Servizio di intelligence siriano e le unità paramilitari iraniane (le Guardie della rivoluzione) che avrebbero fornito gas lacrimogeni ed altri strumenti utili nella repressione alle autorità di Damasco.
    Gli Stati Uniti e gli europei non esigono tuttavia le dimissioni del presidente Bashar el-Assad, per non turbare i difficili equilibri mediorientali. E ancor meno hanno pensato a un intervento militare. Gheddafi è invece isolato. A parte il petrolio, in larga parte in mano agli insorti di Bengasi, ha poche carte da giocare nella società internazionale.
  • Ahmed ben Bella è stato uno storico personaggio della decolonizzazione. Uno dei nove capi dell' insurrezione algerina, che, tra il 1954 e il 1962, ha condotto il paese all'indipendenza, attraverso la lotta armata.[29]
  • I modi di ben Bella sono spicci. Ha fretta. Diventato segretario generale del partito si occupa con zelo dell' epurazione dell' esercito, dell' amministrazione, e dello stesso Fronte di Liberazione Nazionale, cioè del partito. Ad Algeri prevale un' atmosfera rivoluzionaria. Gli eccessi libertari si alternano agli eccessi repressivi. La società condizionata dalla tradizione religiosa stenta a seguire i ritmi del nuovo presidente.[29]
  • La Siria è una terra con profonde radici cristiane. Non solo perché Paolo di Tarso si convertì a Damasco. Da secoli qui vivono ortodossi armeni, siriani e greci; e cattolici siriani e greci. L'elenco non è certamente completo. Nell'insieme rappresentano più del dieci per cento della popolazione. Un'élite con un notevole peso economico è insediata nei quartieri attorno alla Cittadella (dove si trovano importanti chiese e santuari), o comunque nella zona controllata dall'esercito lealista. Per tradizione le minoranze sono in balia dei regimi autoritari, possono esserne le vittime o gli strumenti. O entrambe le cose. Anche se con cospicue eccezioni, il mosaico cristiano è stato trattato con riguardo, o più ancora, dal potere degli Assad che si basa, appunto, essenzialmente su un'altra minoranza, quella alawita.[30]
  • Gli alawiti temono la vendetta dei sunniti, e si aggrappano al regime di Assad; e a loro volta i sunniti temono la vendetta di Assad, che potrebbe seguire l'esempio del padre.[30]
  • Hafez el-Assad è morto nel suo letto, e gli ha dato il cambio Bashar, il figlio, il quale rischia una fine molto più agitata. Quando nell'82 si scopri che il vecchio Assad aveva fatto massacrare ventimila tra uomini e donne nella città di Hama, dove i Fratelli musulmani si erano ribellati allo strapotere di Damasco, pensai, e non fui il solo, che presto o tardi qualcuno avrebbe vendicato i sunniti sepolti sotto le rovine di Hama da centinaia di bulldozer. Eppure sono passati più di trent'anni e gli Assad se la sono cavata. Almeno finora. Penso che a proteggerli sia stata anche la loro fama di rais "laici". Eh sì, laici. Una specie di licenza di uccidere veniva infatti accordata ai capi arabi considerati laici. Si pensi a Saddam Hussein che quando, negli anni Ottanta, sfidò la teocrazia iraniana di Khomeini ebbe la simpatia dell'Occidente. Il suo partito, il Baath, non era forse laico e considerato eretico da molti musulmani zelanti? E il Baath (sia pure in una versione siriana, diversa da quella irachena) era anche il partito degli Assad. Una prova di laicità guardata con un certo interesse, anche se con diffidenza, da chi temeva l'ondata islamista. Ai Fratelli musulmani, non sempre rinsaviti, non sempre moderati, gli Assad, padre e figlio, non hanno mai risparmiato la galera o nei casi estremi la sepoltura con il bulldozer. Veri laici d'Oriente. Generale d'aviazione, Hafez aveva lo sguardo celestino. Due ferritoie e due occhi fissi. Pugnali avvelenati col sorriso. Il figlio Bashar è un medico. Ha l'aria di un bravo ragazzo. Persino un po' pirla. Un simpaticone, fino al giorno in cui l'esercito ereditato dal padre ha esagerato, accelerando la dinamica omicida. In realtà sempre in servizio permanente. A cominciare le "primavere arabe" non sono stati i Fratelli musulmani. Sono stati i giovani figli del web, un tempo si sarebbe detto giovani di sinistra, adesso è più appropriato l'altrettanto generico aggettivo "modernizzati". I Fratelli musulmani e i derivati integralisti, salafiti ed altri, si sono intromessi nella folla in rivolta. Avevano sulle spalle anni, decenni di galera e di torture e avevano il diritto di ribellarsi.[31]
  • C'è chi descrive Bashar el Assad politicamente agonizzante. Ma fin che il grosso dell'esercito è al suo fianco può resistere. Di giorno in giorno cresce tuttavia il rischio che le forze armate ereditate dal padre lo abbandonino. Questo dicono e temono amici e nemici. La Siria ha tanti confini. Gli interessi dei paesi limitrofi non sono sempre chiari. Non coincidono sempre con quelli di Damasco. Cambiano secondo le stagioni. Ma tutti hanno paura di una Siria in preda all'anarchia.[31]
  • Per ammazzare una settantina di esseri umani e per ferirne quasi duecento bisogna sparare parecchio. Ma gli afrikaner non lesinavano i mezzi per imporre l'Apartheid, istituzionalizzato al fine di separare lo sviluppo di bianchi e neri, vale a dire di segregare i neri, privati dei diritti civili e politici riservati ai bianchi.[32]
  • Mandela non ignorava certo l'eredità di Gandhi. Ma è rimasto un uomo d'azione. I suoi modelli non erano i pacifisti. Lui non lo era. Sarà non violento quando potrà esercitare la violenza e non lo farà. Questa è stata la sua nobiltà. Una nobiltà africana, senza odio e desiderio di vendetta, o di rivalsa, che ne ha fatto un grande leader carismatico.[32]

la Repubblica, 5 ottobre 2013

  • Vo Nguyen Giap era un generale autodidatta con le qualità di un grande capo militare. Le sue straordinarie doti, nel comando, nella logistica, nella tattica, l'hanno elevato al rango dei più celebrati generali del secolo scorso. È stato giudicato dai suoi avversari, da lui sconfitti, della stessa stoffa di un MacArthur e di un Rommel. Ma quell'uomo di non imponente statura, un po' impacciato, esitante nell'avviare un discorso quasi fosse timido, appassionato di storia, senza la minima frequentazione di un'accademia militare o di una scuola di guerra, nei capitoli di storia, non solo militare, già dedicatigli, supera quei celebri capi di guerra, poiché vi figura come il solo generale che ha sconfitto separatamente due potenze occidentali: la Francia e gli Stati Uniti. Per quel che riguarda questi ultimi è una vittoria senza precedenti. Nessuno li aveva battuti prima di lui. Nessun esercito di quel che chiamavamo terzo mondo aveva mai battuto due eserciti occidentali moderni (a parte la remota vicenda italiana di Adua).
  • Ha sconfitto l'Armée della Quarta repubblica a Dien Bien Phu avviando il successivo crollo dell' impero coloniale francese, sulle cui rovine, quattro anni dopo, nel 1958, durante la guerra d'Algeria, sarebbe nata la Quinta repubblica fondata dal generale de Gaulle, richiamato d'urgenza al potere. In quanto all'America, vittoriosa in due guerre mondiali, ha sentito l'umiliazione della sconfitta inflittale da un esercito di contadini. Ma è durante quella guerra, vinta da Giap, che si è consumata la rottura tra Unione Sovietica e Cina, i due grandi sostenitori del Vietnam comunista. Rottura che ha accelerato, ha contribuito all'implosione dell' Urss nel decennio successivo. È morto dunque, a centodue anni, nel suo Vietnam, non più coloniale come alla sua nascita, non più diviso come nei decenni delle sue guerre, meno comunista di come forse lo voleva, ma saldamente riunificato e indipendente, un personaggio che ha lasciato un segno profondo nel secolo alle nostre spalle.
  • I principi di Giap erano semplici. Il primo era che bisogna sempre sorprendere il nemico. Un'altra sua convinzione era che dove passa una capra può passare un uomo, e dove passa un uomo può passare un battaglione.
  • Giap aveva carisma, aveva la fama di un duro, e lo era, ma era giudicato anche un giusto. Era semplice e inflessibile come i soldati che aveva ammirato da ragazzo nei libri di storia.
  • Il piglio del capo era evidente, ma colpiva anche lo sguardo tra il cameratesco e il paterno che rivolgeva ai subalterni. Nessuna agitazione nei gesti, malgrado gli schianti dell'artiglieria e dei bombardamenti aerei. Come coloro che conoscono la vera arte del comando, poteva alzare la voce, anzi l'alzava, ma senza toni minacciosi. Intimoriva, esortava e rassicurava coloro che obbedivano. Sapeva trascinarli. La sua prepotenza si manifestava altrove, nell'offensiva contro i palestinesi, ai quali non dava tregua scaricando su di loro tutti i mezzi dell'efficace esercito israeliano.[33]
  • Ritenuto colpevole, sia pure indiretto, da una commissione di inchiesta israeliana, della strage dei palestinesi del campo di Sabra e Shatila, fu dichiarato non adatto a comandare le forze armate, nella veste di ministro della Difesa. Fu una brutta pagina della vita di Sharon. Il massacro fu compiuto da libanesi, ma lui lasciò fare.[33]

la Repubblica, 16 marzo 2014

  • La Russia ha perduto l'Ucraina e per punire la nazione sorella ribelle si prende una sua provincia, la Crimea. La occupa con suoi soldati senza mostrine e senza bandiere, e li fa passare per patrioti del posto, tanto tutti parlano russo. E' un po' da banditi, ma per dare una patina di legalità all'operazione fa promuovere dalle ubbidienti autorità locali un referendum.
  • [Sulla cessione della Crimea] Nikita Krusciov, allora al Cremlino, nel 1954 trasferì la Crimea da una repubblica all'altra. A quei tempi l'Urss contava quindici repubbliche ed essere nell'una o nell'altra non era poi tanto importante, poiché si restava sovietici. Umoristi e malelingue dicono che Krusciov quel giorno fosse ubriaco. Certo non poteva prevedere quel che sarebbe accaduto quasi settant'anni dopo, senza più l'Unione Sovietica e con l'Ucraina indipendente.
  • Da un lato Vladimir Putin si è sentito ferito quando l'Ucraina si è ribellata a Viktor Yanukovich. L'ex presidente fuggito da Kiev e rifugiatosi in Russia aveva rifiutato l'associazione all'Unione europea, sul punto di essere conclusa, e aveva ribadito la sua fedeltà al progetto di Unione euroasiatica. Con la quale Putin si proponeva non solo di far concorrenza all'Ue, ma di ridisegnare un'Unione sovietica senza sovietici. La cacciata di Yanukovich e la defezione ucraina hanno mandato all'aria il programma.
  • Sul piano storico e culturale la rivendicazione russa della penisola sul Mar Nero può essere discussa. Sul terreno della legalità internazionale è un abuso. Nel 1994, col memorandum di Budapest, la Russia garantì, insieme agli Stati Uniti e alla Gran Bretagna, l'integrità della nazione Ucraina, in cambio del trasferimento in Russia dei suoi arsenali nucleari, terzi per importanza nel mondo. Putin ha rinnegato quel memorandum e ha reagito come il responsabile politico di un'altra epoca.

la Repubblica, 24 agosto 2014

  • Il caso del presidente siriano, Bashir el-Assad, è esemplare. Dall'inizio dell'insurrezione, nel 2013, l'apparato militare del regime di Damasco ha concentrato gli attacchi sulle zone del paese favorevoli alla ribellione e sui gruppi armati dell'opposizione liberale o islamista, risparmiando lo Stato islamico nel suo feudo di Rakka (nel Nord-Est siriano). Il riguardo ha suscitato il forte sospetto che quel movimento jihadista fosse un mostruoso strumento del "laico" Assad. La complicità appariva a molti evidente, anche se non provata.
  • Al Qaeda è la madre di tutti gli jihadismi, anche se adesso molti movimenti, come lo Stato islamico, l'hanno superata nel fanatismo, nella ferocia ed anche nella capacità di raccogliere consensi e occupare territorio. L'Al Qaeda delle origini è invecchiata e non esercita più l'autorità di un tempo, sebbene siano in tanti a servirsi abusivamente del suo nome. Sia pure con altri protagonisti, la sua storia assomiglia in alcuni tratti a quella del califfato di el Baghdadi.
  • La sconfitta sovietica fu attribuita all'aiuto di Dio, ma i missili Stinger forniti dagli Stati Uniti furono decisivi, perché privarono i russi del decisivo appoggio di aerei ed elicotteri. Il ritiro dell'Armata rossa dall'Afghanistan precedette di poco l'implosione dell'Urss, e questo convinse Al Qaeda di avere provocato il crollo di uno dei grandi imperi della storia. Perché non sconfiggere anche quello americano, di cui erano stati lo strumento contro i russi?
  • Neppure agli israeliani passò per la testa di favorire il consolidamento del loro futuro tenace avversario, quando agevolarono l'espansione di Hamas, nella Striscia di Gaza. Il loro obiettivo era allora di contrastare, attraverso gli islamisti, l'azione del Fronte popolare di Georges Habache. Un nazionalista marxista, come si definiva.

Dall'intervista di Giulia Belardelli

Bernardo Valli, intervista. "Web, cavalli, guerre e imbecilli". La verità (mai assoluta) dello storico inviato di Repubblica, Huffingtonpost.it, 26 agosto 2014

  • La società vietnamita, l’umanità di questo popolo e la sua capacità di affrontare le sofferenze mi sono entrate nel cuore. Lo stesso discorso vale per l’Algeria, un paese completamente diverso, più duro e meno espansivo, in cui ho vissuto l’epoca della decolonizzazione, la più importante della mia vita. L’Algeria ha conquistato la propria indipendenza a un prezzo molto alto, e questo ha suscitato in me un forte senso di ammirazione e una profonda stima. I giovani non hanno memoria quando dicono che il mondo di oggi è peggiore rispetto al passato.
  • In Siria e Iraq sta crollano il mondo che era stato disegnato dopo la prima guerra mondiale dalle due grandi potenze coloniali di allora, Francia e Inghilterra. Si tratta di paesi artificiali, i cui confini sono stati disegnati a tavolino. Il nazionalismo arabo, fallito con Nasser, è stato sostituito come capita spesso nella storia dell’Islam da fermenti religiosi molto forti.
  • L’Italia è un paese curioso, ha più italiani all’estero che sul suo territorio. Nei secoli ha esportato viaggiatori straordinari, tra i grandi studiosi del Medio Oriente ci sono dei nomi italiani formidabili. Il problema dell’Italia è che, essendo uno Stato giovane, non ha saputo tradurre in termini politici quella enorme sciagura e ricchezza che è stata l’immigrazione. Prendiamo l’esempio dell’America Latina: San Paolo è mezza italiana, così come Rio, per non parlare dell’Argentina. Eppure, non c’è un solo corrispondente di un giornale italiano. L’Italia post-unitaria era un paese rurale, povero, che a dispetto della retorica sull’eredità gloriosa di Roma ha dovuto espellere milioni di italiani verso altri continenti. La storia dell’emigrazione italiana non è stata raccontata abbastanza, è come se ce ne fossimo vergognati. Eppure sono state le ricchezze degli immigrati italiani, le loro rimesse, a far nascere l’industria in Italia.
  • L’Italia di Berlusconi è stata terribile, non solo vista dalla Francia, ma da ogni parte del mondo.
  • I giovani giornalisti di solito sono sempre per i ribelli, ma dovrebbero anche pensare a cosa diventeranno i ribelli quando saranno al governo. Io l’ho imparato sulla mia pelle in Cambogia con uno degli episodi politici più crudeli del secolo. Abbiamo appoggiato dei ribelli contro un regime corrotto, che però poi sono diventati dei tiranni sanguinari...
  • Rispetto al grande, storico e povero Egitto, la Libia è un ricco, bellissimo deserto abitato da tribù litigiose. Che si odiano da sempre. Dai tempi dei datteri al petrolio. L'Italia coloniale ci mise decenni prima di domarle con repressioni sanguinose e con quelle poi chiamate pulizie etniche, cioè con spostamenti in massa di popolazioni decimate. Nel primo, in Egitto, c'è un regime dominato dai militari che non sopportano chiunque contesta il loro diritto di esercitare il potere. La confraternita dei Fratelli musulmani, portata al governo da libere elezioni, era un rivale settario e incapace di governare. L'ondata jihadista è la peste per colonnelli e generali. È l'indisciplina, il fanatismo senza le regole che i militari prediligono.[34]
  • Al Sisi ha superato la cattiva reputazione abbattutasi su di lui con la brutale presa del potere e le successive repressioni. La minaccia dei terroristi jihadisti, che decapitano gli ostaggi, uccidono giornalisti ed ebrei e spuntano sulla sponda del Mediterraneo, rivaluta la figura del raìs. In quanto dighe dell'islamismo, i dittatori arabi erano apprezzati in Occidente. Poi le primavere arabe li hanno cacciati o squalificati. Appassite le primavere, con l'eccezione tunisina, la figura del raìs è di nuovo rispettata e ricercata. Soprattutto se come nel caso egiziano è alla testa di un grande Paese.[34]

la Repubblica, 29 ottobre 2015

  • Nell'epoca sovietica, quando non si usavano le buone maniere, [...] i popoli venivano risparmiati. La propaganda sparava sui dirigenti del mondo capitalista, ma ai proletariati, come si diceva allora, venivano aggiudicate aspirazioni più nobili. Adesso la propaganda nazionalista investe le intere società occidentali: sono descritte in preda a una decadenza inarrestabile, in particolare quella europea che rinuncia alle sue radici cristiane e non sa difendersi dall'islamismo, impegnata com'è in un consumismo senza ritegno.
  • Il desiderio di Europa è palpabile. Non solo per i numerosi negozi rigurgitanti di moda maschile e femminile proveniente dall'Occidente. Chi dispone di un passaporto, al quale tutti hanno diritto, e ha i mezzi per viaggiare, vale a dire un russo su dieci se ci si basa sui passaporti richiesti, sceglie spesso come destinazione le nostre vecchie città. Ma stando ai sondaggi, o comunque secondo le intenzioni di chi li promuove, la reputazione degli americani e degli europei sarebbe in netto ribasso. Sia perché l'accerchiano e minacciano con l'Alleanza atlantica, sia perché con le sanzioni rivelano la loro ostilità alla Russia impegnata a recuperare il prestigio di super potenza, cui aspira per naturale diritto.
  • Alla fine dell'Ottocento Leontiev sosteneva che dopo il Rinascimento l'Europa non aveva più dato né santi né geni. E quindi la Russia, allora zarista, doveva contare su se stessa. Ne aveva la forza e il dovere. I consiglieri di Putin hanno recuperato Leontiev ed altri filosofi a lungo dimenticati nelle biblioteche o ritrovati nei cimiteri degli esuli "bianchi". Ed essi animano i discorsi del presidente. Il quale, come noto, non è un intellettuale, ma rispettando la tradizione russa gli capita di esaltare i pensatori adeguati al momento politico. E suggeritigli dai consiglieri. Tu hai l'impressione che Pushkin, Cechov, Tolstoj abbiano ceduto il passo a scrittori di cui si erano perdute le tracce, o si conoscevano appena le opere.
  • Da giovane, vivendo per le strade di San Pietroburgo (allora Leningrado), Putin ha imparato che spesso bisogna essere pronti a sferrare il primo pugno. È un principio che non ha mai dimenticato. Sorprendere. Così ha fatto, mezzo secolo dopo, in Georgia, poi in Crimea e adesso in Siria.
  • Oltre a suscitare un "entusiasmo disciplinato", Putin applica una democrazia protetta, che è un surrogato di quella vera. Non esiste censura in Russia, né giornalistica né letteraria. Ma sulla stampa agisce una forte autocensura, favorita dalle proprietà e dalla vigilanza politica. Questo non esclude la discreta libertà concessa a pubblicazioni secondarie. Le quali servono da alibi. Lo stesso vale per la televisione, totalmente addomesticata, ma con qualche canale e stazione radio marginali che fanno eccezione. Idem per le case editrici. Non ci sono interdizioni ma i saggi o i romanzi troppo scomodi per il regime finiscono da editori secondari. La vita privata usufruisce di una larga libertà. Una libertà nella sicurezza dopo il caos degli anni Novanta, quando dalle ceneri dell'Urss spuntavano gli oligarchi, che si spartivano i beni dello Stato, e nelle strade non mancavano i delinquenti. Oggi puoi usare senza restrizioni Internet e i suoi più moderni derivati. Se hai i soldi puoi viaggiare dove vuoi nel mondo. Sbatti contro la cappa autoritaria se alzi la testa al livello del potere politico.
  • Per certi e non trascurabili aspetti, Andropov resta per Putin un punto di riferimento.
  • Vladimir Putin invoca la nostalgia dell'Unione Sovietica, ma anche dei principi religiosi, della Russia zarista, dell'identità russa, della lingua nazionale, del progetto euroasiatico, dell'ispirazione slovofila (che l'ha spinto a incontrare Alexander Solgenitsyn). Il suo impero in gestazione si muove in tante direzioni, zigzagando tra le due correnti opposte, in cui si divide il pensiero russo: quella slavofila e quella filo- occidentale. Il sistema imperiale che si disegna è più pragmatico di quel che appare. Vuol essere efficace, moderno, capace di usufruire degli spazi internazionali, politici e militari, che si presentano. Un sistema basato sull'economia di mercato, in cui le tradizioni religiose e nazionali sono elementi essenziali per l'unità del paese. Molto resta imprevedibile.
  • L'Egitto è un paese religioso, non tanto nella pratica quanto nello spirito. Nei sentimenti. La popolazione era sensibile a due poteri: quello militare per l'ordine, anche con la violenza, e quello invadente dei Fratelli musulmani, dediti a varie assistenze e all'educazione islamica.[35]
  • Era considerato un «criminale di guerra» dai palestinesi e un politico avventuroso da molti intellettuali israeliani. Un uomo imprevedibile, spericolato e intraprendente. Amante della guerra ma anche della quiete nella sua fattoria modello doveva faceva l'agricoltore. Interdetto come ministro della Difesa, dopo un lungo periodo di disgrazia, è diventato primo ministro. Un capo del governo capace di sorprendere, di stupire, così come aveva sorpreso e stupito come capo militare. Ha deciso la costruzione del muro fra i territori palestinesi e Israele, e al tempo stesso ha abbandonato Gaza ai palestinesi. Una concessione territoriale al momento eccezionale, rivelatasi poi insidiosa per l'autorità palestinese, dominata dall'Olp moderata, che ha perduto il controllo di quella provincia, dominata dalla più intransigente Hamas. L'iniziativa di Sharon tendeva forse a dividere gli avversari, ma era accompagnata da una politica tesa a stabilire rapporti distensivi con molti paesi arabie con gli stessi palestinesi. Da uomo di una destra spesso estrema, che aveva favorito l'insediamento di numerose colonie israeliane in Cisgiordania, è diventato un politico aperto a soluzioni pacifiche. Ha abbandonato il Likud e ha fondato un partito di centro, Kadima per questo è stato accusato di tradimento da alcuni suoi amici. E per non pochi vecchi nemici è apparso invece come un leader capace di favorire una vera intesa. La sua energia sembrava rivolta verso una giusta direzione. Ma il suo cervello ha ceduto. È intervenuta la morte cerebrale. Otto anni dopo diventata morte totale.[33]
  • Adesso Recep Tayyp Erdogan può giocare la carta della Repubblica presidenziale. È quel che sogna da tempo. Desiderava invano una riforma per rendere legittimi gli ampi poteri di cui già dispone ed esercita, ma di cui non è costituzionalmente investito. Ora può ottenerla. L'ha a portata di mano. Gli basta indire un referendum. Il paese, prima riluttante, ora esaudirà la sua ambizione. I militari golpisti volevano deporlo e invece l'hanno rafforzato. Il fallimento del loro tentato colpo di Stato, dovuto all'imperizia ma anche all'opposizione popolare, o se si vuole al mancato appoggio popolare, ha ridato prestigio a Erdogan. Prestigio che si era deteriorato: consumato dagli scandali, dalle impennate autoritarie, dall'incoerenza politica, dalla megalomania galoppante, dalla zigzagante politica estera. In sostanza i maldestri militari putchisti hanno fatto dell'uomo che volevano abbattere il capo che lui, la vittima designata, sognava di essere.[36]
  • Il presidente turco non detesta i giornalisti, non sopporta quelli che lo criticano. Mette in prigione quelli che non sono d'accordo con lui.[37]
  • I Taliban non occupavano tanto territorio afgano dall'autunno 2001. Cioè da quando cominciò l'intervento armato Usa firmato Enduring Freedom (libertà duratura). [...] Adesso, in questo nostro autunno, i Taliban controllano il dieci per cento della popolazione, mentre un terzo dei trentun milioni di abitanti vive in zone contese.[38]
  • Prima della presenza americana, che ho vissuto nella fase iniziale tra Kabul e le regioni orientali, con una puntata a Tora Bora sull'Indu Kusch, avevo seguito un ventennio prima le tragiche vicende dei sovietici andati a vivere l' agonia del loro impero nel groviglio tribale afgano. Neppure i comunisti della fazione kalk (popolo), in larga parte Pashtun, il gruppo etnico maggioritario, erano fedeli all'Armata Rossa. I generali venuti da Mosca potevano fidarsi ciecamente soltanto dei parsham (bandiera), comunisti della corrente dominata per lo più dalla minoranza tagika.[38]
  • Gli americani furono generosi con i ribelli che si battevano contro i sovietici e i generali oggi amici del loro protetto presidente della repubblica in esercizio. Gli fornirono persino i famosi Stinger, i missili antiaerei portatili, che annientarono la flottiglia di elicotteri russi, affrettando la sconfitta e indirettamente la successiva implosione dell'impero sovietico. Nei jihadisti nacque allora la convinzione di avere trionfato su una super potenza, e quindi di poter fare altrettanto con quella che restava: di poter umiliare anche gli Stati Uniti d'America.[39]
  • [Sui Talebani] Da un lato era un movimento religioso puritano, rigorista e fondamentalista, ma con un solo progetto politico: l'applicazione della sharia. La sharia, nient'altro che la sharia. Non aveva, ma poi l'ha maturata, una tendenza apertamente anti-occidentale. Come l'Iran di Khomeini o l'Al Qaeda di Bin Laden. All'origine aveva anche un'aspirazione nazionalista: quella di creare uno Stato afgano con un'identità pashtun, appartenendo i Taliban a quel gruppo etnico.[39]

la Repubblica, 11 gennaio 2016

  • Per chi ha seguito per anni il conflitto indocinese, Giap era un personaggio sempre presente. Era un'ossessione. Un mito. Un incubo. Un eroe. Un genio. Un vulcano coperto di neve, dicevano in tanti, perché lo giudicavano carico di energia ma freddo nel comportamento.
  • Ho imparato a conoscerlo a distanza, leggendo i suoi scritti, anche le sue poesie, non segrete ma ignorate, e seguendo le sue epiche offensive, che hanno umiliato i grandi strateghi occidentali.
  • Nella valle di Dien Bien Phu gli algerini, incorporati nell'Armée, avevano imparato che un esercito occidentale moderno, ben armato, poteva essere sconfitto da un esercito "indigeno". Non era la prima volta nella storia, ma la battaglia di Adua del secolo precedente, che aveva visto gli italiani sconfitti dagli etiopi, non era nelle memorie. Ritornati in patria, alcuni di quegli algerini riaccesero la fiamma dell'indipendenza, rivendicata già alla fine della Seconda guerra mondiale, quando i magrebini che avevano combattuto per la libertà della Francia, occupata dai nazisti, avevano chiesto, invocandola senza successo, la propria libertà. Giap aveva insegnato loro come i colonizzati potevano vincere i colonizzatori.
  • Gli americani erano andati nella penisola indocinese per fermare quello che pensavano fosse un complotto comunista centralizzato, ossia ordito tra le varie capitali dipendenti o influenzate dall'Urss e dalla Cina popolare. E hanno fallito. Dalla sconfitta dell'America, Mosca aveva ricavato la certezza che la teoria dei domino, ossia l'avvento a ripetizione del comunismo in tanti Paesi in seguito alla vittoria comunista in Vietnam, si sarebbe realizzata. Volendo approfittare della situazione mondiale favorevole, Mosca aveva dunque cercato di estendere la sua egemonia allo Yemen, all'Angola, all'Etiopia e infine all'Afghanistan. Ma scoprì, via via, che le realtà geopolitiche si applicavano alle società comuniste come a quelle capitaliste. Essendo meno elastico, il fallimentare super impegno sovietico non suscitò una catarsi come in America, ma contribuì alla disintegrazione dell'Urss. All'origine di questo lungo processo mondiale ci sono gli straordinari successi militari periferici di Giap. I quali hanno creato illusioni e catastrofi.
  • Giap non fu sempre un vincitore, subì anche serie umiliazioni. Fu spesso dato per sconfitto e senza possibilità di riprendersi. Non fu certo un liberale. Il suo irriducibile patriottismo coabitava con lo spirito, puro e duro, del dirigente comunista, pronto a reprimere, con slancio stalinista. La lotta armata, per lui, non consentiva debolezze. Nei limiti del possibile garantiva però l'assistenza sanitaria ai suoi soldati e, nell'ambito dei villaggi, aiutava le loro famiglie.
  • Il sogno trionfale di una Turchia neo ottomana e potenza dominante nella regione si è annebbiato da tempo.[40]
  • Il "sultano" sta recuperando la fiducia perduta. Una mano di ferro, spesso imprevedibile, non sempre coerente, governa un paese esposto a mille pericoli.[41]
  • La Turchia è coinvolta in un conflitto a mosaico, in cui in ogni casella si può combattere un conflitto diverso.[41]
  • È riaffiorata una società in parte attratta da un autoritarismo nazionalista, con una forte traccia religiosa, in cui c'è un evidente richiamo neo ottomano, e al tempo stesso in parte conquistata dal liberalismo occidentale. Nel quale si è convertito il kemalismo laico, a lungo autoritario. Dai tempi di Ataturk nessun leader turco aveva mai avuto tanto potere. Dopo i decenni di riconosciuto successo economico ed anche di un esercizio della democrazia, sia pur esitante, che l'avvicinava all'Europa, la Turchia di Erdogan è stata investita dall'eruzione mediorioentale.[42]
  • La Turchia è un grande Paese in balia degli avvenimenti bellici, in corso nei paesi vicini, in cui è coinvolta; degli attentati terroristici con origini varie; delle nuove alleanze con la Russia e l'Iran. Il legame con la Nato, di cui è uno dei principali membri per le dimensioni del suo esercito convenzionale, sopravvive ma sembra meno chiaro. Come sono meno chiari i rapporti con l'Europa.[42]

la Repubblica, 23 agosto 2017

  • Erano arrivati cinquantamila russi, soprattutto con carri armati ed elicotteri, ai quali se ne sarebbero aggiunti molto presto altrettanti. Dopo la prima distratta impressione quella che era apparsa una esotica stazione di sport invernali, risultò un grande accampamento militare. I sovietici erano ovunque, tra le pieghe del paesaggio urbano disegnato a sbalzi: nel giardino del palazzo della televisione, all'interno e davanti ai ministeri, sulla torre di controllo dell'aeroporto, attorno alle caserme dell'esercito afghano disarmato, nel palazzo presidenziale. Gruppi di giovani col colbacco e il mitra a tracolla apparivano all'improvviso nelle sottili strade del centro, e curiosavano tra le botteghe non solo da presepe. Dalle porte socchiuse trapelavano sguardi allarmati dal passaggio di quegli stranieri armati. Nemici o alleati, comunque invasori non graditi.
  • L'intervento Usa, provocato dall'attacco alle torri gemelle, fu un seguito nel 2001 di quello dell'Urss nel dicembre '79. Dopo la sconfitta dell'impero russo, di poco precedente alla sua implosione, gli Stati Uniti hanno dato il cambio e sono rimasti impigliati nella guerra più lunga della loro storia, più lunga del Vietnam.
  • Nessun invasore, dopo la disfatta britannica del 1842, è riuscito a controllare la sfuggente preda afghana.
  • Il passaggio dal progressismo dichiarato al comunismo praticato ha provocato sanguinose lotte tra le varie fazioni del regime ai primi passi. Hafizullah Amin ha eliminato il predecessore, Nur Mohammad Taraqi, più moderato e ben visto dai sovietici. Ma nel frattempo si è inasprita la rivolta nelle campagne e il nuovo potere non riusciva a controllarla. I sovietici non hanno perso tempo, sono intervenuti militarmente e un loro uomo di fiducia, Babrak Karmal, ha preso il posto di Hafizullah Amin, ucciso da un commando intervenuto durante l'invasione. Gli avvenimenti afghani hanno messo fine alla distensione Est-Ovest succeduta alla guerra fredda. Gli americani hanno approfittato della trappola in cui erano caduti i sovietici.
  • Prima di dedicarsi all'Afghanistan, con la benedizione della monarchia saudita della quale era un suddito, bin Laden aveva cercato di contrastare in Siria gli Assad al potere, colpevoli di avere represso i Fratelli musulmani. La successiva scelta afghana avrà per il mondo conseguenze che sono andate ben al di là dei confini dell'Arabia saudita. Gli americani hanno aiutato bin Laden e la sua Al Qaeda nella lotta contro i sovietici. Lo stesso bin Laden ha ringraziato il principe Bandar, ambasciatore saudita negli Stati Uniti, per avere convinto gli americani ad aiutarlo nella lotta contro i sovietici. A Washington non potevano immaginare di avere armato un uomo più tardi accusato di essere il responsabile, per sua stessa ammissione, dell'aggressione dell'11 settembre. Come altri arabi impegnati in Afghanistan, bin Laden era convinto di avere provocato non solo la sconfitta militare dell'Urss nel paese asiatico, ma anche la successiva implosione. Sicuro di averne fatto crollare uno, Osama bin Laden ha deciso di dedicarsi a quello che restava: gli Stati Uniti e i loro alleati europei.
  • Le varie formazioni terroristiche, in seguito operanti in Iraq e in Siria, lo stesso "califatto" con tutte le sue diramazioni, compresi i gruppi spontanei europei, hanno la loro origine, o traggono la loro ispirazione, da Al Qaeda sia pure declassata.

Da Perché nessuno ferma il Sultano

la Repubblica, 15 ottobre 2019

  • [Sulla Offensiva turca nella Siria nordorientale del 2019] Trump ha abbandonato i curdi, Putin non va oltre la diplomazia e l'Europa è inconsistente: ecco perché la Turchia ha mano libera. Per Erdogan, il presidente turco, i principali obiettivi dell'offensiva in Siria sono uno politico e l'altro militare. Quello politico riguarda la Turchia dove la sua popolarità era in netto ribasso, come si è visto alle ultime elezioni amministrative, quando l'opposizione ha ottenuto un notevole successo. Da lui subìto come un'umiliazione. Le azioni a sfondo nazionalista consentono di recuperare larga parte dell'opinione pubblica ed è quello che sta accadendo con la spedizione contro i curdi di Siria.
  • Trump ha superato i suoi predecessori, Bush padre e Bush figlio, nel provocare danni in Medio Oriente. Si è detto di un silenzioso consenso russo alla spedizione turca in Siria, senza che ci siano state conferme in merito. Né penso ci saranno.
  • In quanto agli europei che hanno sbattuto la porta in faccia per anni alla Turchia ansiosa di entrare nell'Unione, in questa occasione dimostrano tutta la loro debolezza. La loro vergognosa inconsistenza è evidente di fronte alla grave crisi, che rischia di traboccare in un conflitto più ampio.
  • L'offensiva turca ha indirettamente favorito in queste ore la fuga di molti prigionieri dai luoghi di detenzione organizzati allora, dopo quello scontro armato. Gli evasi si sono dati alla macchia con la probabile intenzione di rianimare la battaglia perduta.

la Repubblica, 22 dicembre 2019

  • Per Mohandas Gandhi, il Mahatma (la Grande anima), e Jawaharlal Nehru, il primo capo del governo dell'India indipendente, l'armonia tra musulmani e indù era il principio centrale dello Stato costituzionalmente laico che avevano contribuito a creare. Il loro Paese doveva essere una terra aperta a tutte le religioni. Non fu un'impresa facile. Oggi rischia di non esserlo più.
  • L'India di Nehru era definita la più grande democrazia del mondo, anche se non era sempre esemplare. In una società tanto composita e segnata da pesanti difficoltà esistenziali, la realtà si distaccava spesso dai principi. Ma sia per Gandhi, devoto induista (Mahatma, il soprannome con il quale era designato, significa anche "santo"), sia per il primo ministro Nehru, un liberale laico, la visione dominante restava quella di un Paese aperto alle religioni, le quali non dovevano prevalere nella vita politica.
  • Il testo, Citizenship Amendment Bill, che aggiorna una legge del 1955, propone di naturalizzare i rifugiati indù, sikh, cristiani, jainisti, buddisti e parsi, arrivati in India prima del 2014 per motivi religiosi. I profughi musulmani sono esclusi. Non figurano nel testo. Non sono citati neppure gli ebrei, che rappresentano una piccola minoranza.
  • Il primo ministro Modi ha definito un "avvenimento storico" l'emendamento votato in Parlamento. L'opposizione ha denunciato senza esitare la violazione di un principio essenziale della democrazia indiana, poiché la nuova legge si basa su criteri religiosi. Ed è la prima volta. Da qui le proteste e gli scontri di questi giorni. È come se l’India di Gandhi e Nehru fosse stata archiviata.

Anni 2020

modifica
  • [Sulla pandemia di COVID-19] Oggi si sa il luogo di partenza del coronavirus, si ritiene venga da Wuhan, nell'Hubei, la provincia cinese più colpita. Nel '600 il contagio fu portato in Lombardia dai lanzichenecchi, dalle truppe tedesche mercenarie di Albrecht von Wallenstein, arrivate in Italia dalla Valtellina e dirette a Mantova, dove era in corso la lotta per la successione tra Francia e Spagna. Un tempo i portatori di virus erano i soldati. Oggi sono civili pacifici, turisti, commercianti, tecnici. Il virus adesso viaggia in aereo o su un piroscafo. Le due situazioni non sono ovviamente paragonabili: sarebbe un’imperdonabile forzatura.[43]

la Repubblica, 16 febbraio 2020

  • Boris Johnson, primo ministro britannico, è il disertore dall'Unione Europea. Un disertore legittimato democraticamente dalla maggioranza del popolo del Regno Unito. Il suo nome è legato alla prima mutilazione politica del Vecchio Continente faticosamente impegnato da sette decenni a rendere permeabili le frontiere, se non proprio a eliminarle. Così Boris Johnson resterà nella Storia per avere girato le spalle a un'entità ricca e fragile.
  • Il personaggio trae in inganno. Esibisce eccentricità che nascondono virtù. Non è una tattica, è un suo modo di essere che dura da tutta la vita. C'è chi l'ha definito un "buffoon", perché imprevedibile.
  • Non assomiglia certo alla rigorosa Angela Merkel, anzi è l'opposto: ma, come la cancelliera, il disertore Boris Johnson è uno dei più accattivanti personaggi sulla ribalta politica europea, dalla quale si è adesso messo ai margini.
  • Oltre ad andarsi a sposare in mutande, Boris Johnson è anche il migliore allievo nella facoltà di letteratura classica. E sarà l'autore di un libro sulla Roma antica. Ancora oggi, a 56 anni, sa recitare a memoria interi capitoli dei poemi omerici, durante le conferenze stampa. In questo modo vuole, forse, intimidire e dissuadere i giornalisti dall'interrogarlo sulla sua vita sentimentale.
  • In un panorama europeo dominato da uomini grigi, mediocri, che occupano ministeri e parlamenti, i comportamenti bizzarri ritmano la vita privata di Johnson, ma non ne compromettono il forte impegno in quella pubblica.

la Repubblica, 23 agosto 2021

  • [Sui talebani] Era facile distinguerli dagli altri gruppi di resistenti. Erano più disciplinati e diffidenti con gli estranei.
  • L'Afghanistan, mosaico di gruppi etnici, ha sconfitto, ha costretto a ritirarsi dal suo territorio le più grandi potenze. Nell'epoca coloniale annientarono una colonna britannica che cercava di inoltrarsi nel Paese per assumerne il controllo. Poi nel 1979 è intervenuta l'Unione Sovietica che ha rimpatriato i suoi soldati dopo avere tentato di aiutare invano gli alleati afghani per dieci anni. Gli americani hanno resistito di più: dal 2001 al 2021.
  • L'Unione sovietica, anche in seguito al fallimento afghano, ha smarrito la sua rivoluzione, ed è ritornata a essere la Russia. E gli Stati Uniti sono in un questo momento castigati. Sono prudenti poiché lasciano di gran fretta il campo in cui erano impegnati. I loro alleati afghani (300mila negli effettivi ufficiali) esibivano cifre false. Molti battaglioni che esistevano sulla carta ricevevano aiuti americani senza avere un solo soldato.

lespresso.it, 21 marzo 2022

  • Non sono certo il solo, sono uno dei tanti semplici cittadini a vedere in questi giorni la guerra in Ucraina come il più grave conflitto in Europa dal 1945. È forse avventato, di un pessimismo precipitoso, meglio primario, disegnare l'evoluzione di un avvenimento in corso. Anche perché non è in gioco soltanto la sopravvivenza dell'aggredito.
  • Putin sogna una Russia “zarista”. Nell'esercizio del potere, in particolare quando diventa presidente o è capo del governo, non risparmia gli oppositori che colpisce con le epurazioni, l'emarginazione, e che talvolta fa anche uccidere. Mentre favorisce i sudditi miliardari, gli oligarchi, creatisi con la fine del sistema comunista. Ha nostalgia dell'impero e fretta di ricomporlo.
  • [Su Volodymyr Zelens'kyj] Lui non ha la nostalgia dell'impero. E non pensava, quando si pronunciava in favore di un'adesione alla Nato, di dare col tempo il pretesto per un'invasione a Putin, con il quale era già ai ferri corti. Zelensky parla il russo come l'ucraino, forse meglio. Quando era un attore recitava nelle due lingue. Ma il cuore è ucraino. Egli ha un personale vantaggio sul suo avversario di Mosca. La sua evidente inferiorità militare non implica un'umiliazione.

lespresso.it, 2 maggio 2022

  • Non poteva prevedere l'invasione dell'Ucraina. Ma giudicava il regime russo capace di azioni di grande viltà. Anche su larga scala. Basta leggere le righe che ha dedicato a Vladimir Putin.
  • Anna Politkovskaja parlava di quel che vedeva e toccava con mano. Era difficile per lei immaginare le azioni di Vladimir Putin. Ma lo giudicava capace di qualunque cosa.
  • Anna raccontava i fatti, analizzava quello che vedeva. Tratteggiava i ritratti dei protagonisti, ne elencava delitti e viltà con la precisione e l'asciuttezza di cui pochi reporter sono dotati. Con un'audacia senza retorica. Virtù rara nei suoi colleghi.
  • L'invasione dell'Ucraina ha ridato una straordinaria attualità al libro scritto quasi venti anni fa [La Russia di Putin]. Dalle prime righe emerge l'esercito russo d'oggi. Non è infatti cambiato. Anna ne fa il ritratto. Non è più quello - benché duro - di Vasilij Grossman, impegnato nella Seconda guerra mondiale e descritto in Vita e Destino e in Stalingrado. Quello degli anni Quaranta combatteva in patria contro l'invasore. Nella Germania appena occupata i comportamenti poi mutarono. L'esercito impegnato negli anni Duemila in cui Anna compie con onestà il suo lavoro di cronista a Mosca ma in particolare nella Cecenia insubordinata, è un «luogo chiuso, chiuso come una prigione». La vita del soldato semplice è quella di uno schiavo. L'esercito russo, a differenza degli altri, ha un rapporto peculiare con la popolazione. In patria manca qualunque controllo della società civile sull'operato dei militari. Al di là dei muri di una caserma un ufficiale può fare a un soldato quello che vuole, quello che gli passa per la mente. Può trattare come più gli piace un subalterno.
  • I primi capitoli del libro di Anna Politkovskaja sono dedicati alle Forze Armate, descritte come un inferno dove le reclute sono sottoposte a umiliazioni crudeli, senza pietà. Le falsificazioni dei vari graduati sono comportamenti correnti; creazione di false prove e documenti, torture e processi che il più delle volte sono soltanto farse. La cronista dedica spazio al colonnello Budanov, il quale violenta e uccide una ragazza cecena, e finisce con l'essere assolto. Lo stesso esercito combatte, distrugge, violenta adesso in Ucraina.

lespresso.it, 13 giugno 2022

  • Viene in mente una vecchia sentenza: ha perso il pelo ma non il vizio. È il caso della Russia di Putin, non più sovietica, non più idealmente e formalmente discendente della Rivoluzione d'ottobre, e che, impero in decadenza, è ansioso di recuperare le terre perdute. Quindi il potere che esse comportano.
  • Il secolo passato, che ho in gran parte percorso, mi ha riservato alcuni tra i maggiori eventi della storia: la Seconda guerra mondiale, con la fine del nazismo e del fascismo; la decolonizzazione che ha fatto emergere tante nazioni di quello che un tempo fu chiamato Terzo Mondo; la fine della dittatura marxista e quindi il travolgente fallimento della rivoluzione sovietica. Non pensavo di diventare testimone, a volte diretto, di tanti mutamenti.
  • Il nuovo secolo, anzi millennio, che mi apprestavo a vivere come ultima tappa della già lunga esistenza, ricca di grandi mutamenti, non mi avrebbe riservato sorprese tragiche come il Novecento. Ecco invece che nel paese in cui il comunismo reale (non quello immaginato e mai concretizzato) è stato sepolto senza tanti onori, risorge un regime non più comunista, ma ansioso di recuperare almeno parte delle glorie perdute. Il conflitto in Ucraina ci dirà se la Mosca di Putin ne sarà capace. Se riuscirà sarà un rimbalzo della storia.

lespresso.it, 27 giugno 2022

  • La riduzione drastica dell'esportazione di gas russo o di frumento ucraino è destinata a pesare sulle nostre prossime stagioni. Ed è solo un aspetto di quel che può provocare la vicina guerra.
  • L'Europa occidentale, tartassata come il resto del mondo dalla non ancora del tutto spenta pandemia sfuggita a lungo alla scienza, alla medicina, si trova adesso intrappolata in una guerra vecchio stampo, che sembrava superata nel continente appena uscito da un secolo con due conflitti mondiali e almeno quattro rivoluzioni fallite. Tutte convinte di essere destinate all'eternità e invece tragicamente sgonfiatesi in pochi decenni.
  • Se si scorre la cronaca bellica degli ultimi cento giorni ci si accorge che i giudizi iniziali degli strateghi di Mosca erano sbagliati. Avventati. L'indisciplinata Ucraina, elemento importante e spesso tragico di quella che era l'Unione Sovietica, appariva pronta a reintegrare la nuova Russia amputata di tante repubbliche. Questa era l'immagine che dava. Meglio, quella che illudeva Putin e i suoi collaboratori moscoviti. Era l'illusione che nella Storia ha spesso condotto alla rovina gli uomini temporaneamente forti. L'interminabile fila di carri armati sulla strada di Kiev sembrava pronta a un assalto decisivo. Un'operazione militarmente facile. Tanti alleati, amici, simpatizzanti, l'attendevano. E invece la colonna blindata ha sbandato, si è ritirata, si è dispersa, puntando in altre direzioni giudicate più accessibili.

Citazioni su Bernardo Valli

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  • Un maestro che ti dà lezione senza l'impressione di darla, esponendo i suoi dubbi, come se non fosse mai sicuro di cosa scrivere, per sentire il tuo parere. Maestro di stile, oltre che di sostanza: scrive in un italiano lirico senza bisogno di barocchismi, poetico ma asciutto. I suoi articoli mi fanno tornare in mente le parole di [Rodolfo] Brancoli, quando tagliò il mio commento finale dal reportage su Detroit della Rai: "Non c'è sempre bisogno di una chiusa a effetto". Valli conclude i suoi pezzi mettendo semplicemente un punto in fondo all'ultimo ragionamento. Non serve aggiungere altro. Suona perfetto così. (Enrico Franceschini)
  1. a b Da I muscoli di Peres, la Repubblica, 16 novembre 1985.
  2. a b c Da La piaga iraniana, la Repubblica, 4 agosto 1987.
  3. a b Da Sulla strada numero 4 dove nacque il mito viet, la Repubblica, 14 agosto 1988.
  4. Da Su Hué, vecchia capitale l'ombra della carestia, la Repubblica, 19 agosto 1988.
  5. a b Da Il ladro di Bagdad, la Repubblica, 3 agosto 1990.
  6. a b Da Anche per i leader arabi Saddam va eliminato, la Repubblica, 12 agosto 1990.
  7. Da Il miracolo di Baker, la Repubblica, 2 novembre 1991.
  8. a b Da Ma il tribunale non è imparziale, la Repubblica, 4 aprile 1992.
  9. Da Il Saddam dei Balcani, la Repubblica, 30 maggio 1992.
  10. a b c Da Guerre di religione, la Repubblica, 28 febbraio 1994.
  11. a b Da La grande tenebra che oscura il Ruanda, la Repubblica, 23 luglio 1994.
  12. Da L'ultimo funerale del Mahatma mezzo secolo dopo, la Repubblica, 31 gennaio 1997.
  13. a b Da Nella villa di Indira. Una dinastia al tramonto, la Repubblica, 7 febbraio 1997.
  14. Da Il falco di Belgrado, la Repubblica, 26 marzo 1999.
  15. Da Quando a Saigon l'America si arrese, la Repubblica, 22 aprile 2000
  16. a b Da Lo storico processo al tiranno, la Repubblica, 29 giugno 2001.
  17. a b Da La disperazione dei sconfitti, la Repubblica, 19 novembre 2001.
  18. a b c Da Assedio a Bagdad città di spettri, la Repubblica, 26 marzo 2003.
  19. a b Da Sulle strade di Teheran con la furia di un popolo, la Repubblica, 31 gennaio 2004.
  20. Da Colonie. La cattiva coscienza dell'Occidente, la Repubblica, 16 dicembre 2005.
  21. Da Calcutta, l'inverno dell' olocausto dimenticato, la Repubblica, 24 dicembre 2005.
  22. Da La norimberga senza colpevole, la Repubblica, 12 marzo 2006.
  23. a b Da Quelle accuse al Pakistan, la Repubblica, 28 novembre 2008.
  24. Da Africa. Dalla tirannia al Darfur le piaghe di un continente, la Repubblica, 10 marzo 2009.
  25. Da Ungheria. Quel funerale che aprì le porte alla democrazia, la Repubblica, 18 settembre 2009
  26. a b 'Così cacciammo Ceausescu'. Bucarest il sangue dell' 89, la Repubblica, 22 ottobre 2009
  27. a b Da Il dittatore laico. Da idolo del ceto medio a tiranno, la Repubblica, 15 gennaio 2011.
  28. a b c Da Ascesa e caduta del principe del terrore / Il giovane viziato con lo sguardo timido, la Repubblica, 3 maggio 2011.
  29. a b Da Addio ad Ahmed ben Bella il padre dell' Algeria libera, la Repubblica, 12 aprile 2012.
  30. a b Da Tra i bambini di Aleppo, la Repubblica, 12 dicembre 2012.
  31. a b Da Assad e la sindrome irachena, la Repubblica, 20 luglio 2012.
  32. a b Da Quando Mandela prese le armi, la Repubblica, 7 dicembre 2013.
  33. a b c Da Il piglio del capo, la Repubblica, 12 gennaio 2014.
  34. a b Da Lo scenario, la Repubblica, 17 febbraio 2015.
  35. Da L'Egitto di oggi nella solitudine della Sfinge, la Repubblica, 17 maggio 2016.
  36. Da Il Sultano, la Repubblica, 17 luglio 2016.
  37. Da Il regime dei giornalisti in carcere, la Repubblica, 31 luglio 2016.
  38. a b Da Afghanistan la guerra senza fine, la Repubblica, 6 ottobre 2016.
  39. a b Da La culla della jihad dove nacque il terrore globale, la Repubblica, 6 ottobre 2016.
  40. Da La Turchia in fiamme e un sogno a stelle e strisce, la Repubblica, 19 gennaio 2017.
  41. a b Da Un Paese in bilico sui tanti vulcani del Medio Oriente, la Repubblica, 27 gennaio 2017.
  42. a b Da Il sultano azzoppato, la Repubblica, 18 aprile 2017.
  43. Da E poi cominciò la caccia all'untore, la Repubblica, 29 febbraio 2020

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