Enrico Franceschini

giornalista italiano

Enrico Franceschini (1956 – vivente), giornalista e scrittore italiano.

Enrico Franceschini nel 2021

Citazioni di Enrico Franceschini

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  Citazioni in ordine temporale.

  • [L'Ucraina] non era tra le sei, piccole repubbliche secessioniste, da tempo in lotta per separarsi dall'Urss, bensì è la seconda più popolosa repubblica dell'Urss, una regione ricca, fertile, in cui un quarto dei 55 milioni di abitanti sono russi di lingua, estrazione e cultura. Una regione che, pur rivendicando la propria "diversità", è anche la culla della Russia, il luogo di nascita della Rus' di Kiev, il primo impero, quello del principe Vladimir. Senza l'Ucraina, dicono in molti a Mosca, non ci può essere una Russia. E gli uomini di Eltsin aggiungono che dietro la dichiarazione d'indipendenza dell'Ucraina non c'è solo un desiderio nazionalista: è un tentativo del presidente ucraino Kravchuk di cancellare il suo passato comunista, zittire i sospetti sul suo iniziale silenzio davanti al golpe, cavalcando l'ala più estrema del movimento indipendentista.[1]
  • [Su Aleksandr Vladimirovič Ruckoj] È il "vice" di Boris Eltsin, ma stima anche Gorbaciov. Si considera un "comunista democratico", ma crede in Dio. Ha fiducia nella rinascita di un'Unione, ma è deciso a cambiare da cima a fondo la vecchia Urss. Era pronto a usare la sua pistola contro i golpisti, ma da quando è tornato a casa dall'Afghanistan non va più nemmeno a caccia di renne e cinghiali, la sua passione di un tempo.[2]
  • [Su Aleksandr Vladimirovič Ruckoj] I giornalisti occidentali lo hanno soprannominato "Rambo", per il suo passato di eroe militare, abbattuto due volte dietro le linee nemiche, catturato dai guerriglieri afghani, torturato per mesi prima di essere liberato in uno scambio di prigionieri. Ma se si deve cercare un'analogia cinematografica, Rutskoj somiglia di più al "Cacciatore" del film di Michael Cimino sul conflitto americano in Vietnam. Come il personaggio interpretato da Robert De Niro, anche lui si è accorto di quanto la guerra lo aveva cambiato, il giorno che ha puntato di nuovo il fucile su un animale selvaggio, nella foresta russa, e non è riuscito a premere il grilletto.[2]
  • La Russia degli zar ci mise secoli ad assoggettare la Cecenia, e ci volle la spietatezza di Stalin per spegnerne del tutto la resistenza. Che tuttavia è ricominciata dopo il crollo dell'Urss. La minuscola provincia cecena ha dichiarato l'indipendenza dalla Russia, e ha vissuto come uno stato separato e sovrano. Per due anni, Eltsin ha preferito ignorare il problema piuttosto che affrontarlo. Ha le sue ragioni. I ceceni sono poco numerosi, ma combattono come grandi guerrieri. E la mafia cecena è la più potente di Mosca: c'era il rischio che i secessionisti, se sfidati dal Cremlino, commissionassero alla "loro" mafia un attentato contro il presidente.[3]
  • La guerra tra Russia e Cecenia è stata paragonata a un "piccolo Afghanistan", o alla sfida di qualche mese fa tra Stati Uniti e Haiti. Ma a Mosca si comincia a dire che il parallelo da tracciare è un altro: con la "Baia dei Porci", il mal riuscito tentativo americano di rovesciare Fidel Castro; o con lo scandalo "Iran-contras" dell'era Reagan.[4]
  • [Sulla crisi degli ostaggi in Kizljar-Pervomajskoje] Il Cremlino [...] ha sostenuto dall'inizio che non si poteva fidare dei terroristi; e prima di lanciare il bombardamento finale di Pervomajskoe con i micidiali missili Grad ha affermato che i guerriglieri avevano già ucciso tutti gli ostaggi. Quando, a battaglia terminata e villaggio distrutto, è apparso evidente che un folto gruppo di ribelli era riuscito a scappare forzando l'assedio russo, e che si erano portati dietro un certo numero di ostaggi, Mosca ha cambiato posizione: insinuando il sospetto che non si trattasse di autentici ostaggi, ma di "collaboratori", ovvero di russi catturati dai ceceni e quindi passati dalla loro parte.[5].
  • Certamente, Dudaev era controverso, anche tra i suoi seguaci. Era un irrazionale, il potere gli aveva dato alla testa. Si faceva intervistare di notte, in palestra, mentre faceva sollevamento pesi. Due anni fa, confidò serissimo a un giornalista canadese: "Prima o poi voglio ritirarmi dalla politica. Farò lo scienziato. Se riesco ad abbassare di due gradi la temperatura della terra, farò rinascere i dinosauri". [...] Può darsi che la scomparsa del leader confonda e indebolisca i ribelli. Ma può anche darsi che gli innumerevoli "volontari della morte" ceceni lancino immediatamente una rappresaglia. Magari cercando di rispondere "occhio per occhio": un presidente ucciso per un presidente ucciso.[6]
  • [Su Aleksandr Ivanovič Lebed'] Avevamo preso l'abitudine, giornalisti, politici, opinione pubblica, di chiamarlo "Rambo". Un Rambo russo. Colpa della sua biografia: paracadutista, decorato in Afghanistan, militare di carriera, generale. Colpa del suo aspetto fisico: testa grossa, spalle larghe, un metro e ottantacinque di muscoli. Colpa della voce: paragonata, sempre dai giornali, al ringhio di un cane, al rombo del tuono. E siccome una volta si lasciò scappare che non gli dispiaceva Pinochet, gli è stata affibbiata l'etichetta di duce nazionalista.[7]
  • [Su Aleksandr Ivanovič Lebed'] Per capirlo, serve rammentare che nell'agosto '91 la sua divisione corazzata fu la prima a venire in soccorso di Eltsin, contro i golpisti che avevano destituito Gorbaciov; e che come comandante della 14esima Armata in Moldavia ha usato, sì, la forza, ma per riportare la pace in una regione minacciata da una guerra etnica tra russi e rumeni. In campagna elettorale si è presentato come il paladino della lotta a corruzione e criminalità, l'uomo delle "mani pulite": una sorta di "Di Pietro russo". Altro che Rambo. E dalle risposte che dà ai cronisti emerge un leader ambizioso, che crede nell'ordine ma anche nella democrazia, e dotato di un suo particolare umorismo: chissà che non sia il tipo giusto per completare il viaggio della Russia verso stabilità e benessere.[7]
  • Il paese non esiste quasi più. Non c'è una sola casa, un solo edificio di Grozny, che sia sfuggito ai 21 mesi di raid, di bombe, di cannoneggiamento. Le fabbriche sono ferme. Nessuno lavora. L'acqua viene distribuita con le autobotti, quando possibile. Il governo non ha un rublo. I telefoni non funzionano. Non c'è insomma più niente. La guerra è stata vinta, ma a un prezzo esorbitante: un terzo della popolazione è fuggita, un decimo è morta, e i sopravvissuti si aggirano ora tra gli scheletri dei palazzi rimasti in piedi come zombie in uno spettrale, immenso cimitero.[8]
  • Le immagini della tv non bastano a trasmettere l'entità della distruzione. Non bastano, tuttavia, neppure le parole. Rimani presto a corto di aggettivi. Puoi solo ripetere "terribile". E riandare con la memoria a quelle foto in bianco e nero della seconda guerra mondiale che tutti abbiamo visto: Berlino dopo la caduta del Reichstag. Dresda. Coventry. Delle case ancora in piedi è rimasto solo il teschio. Fai fatica a credere che quello che vedi sia vero: sembra una scenografia cinematografica.[8]
  • [Keir] Starmer, per quanto serio e intelligente, appare legnoso, tecnocratico, privo di carisma.[9]
  • Benjamin Netanyahu ha molti detrattori, in patria e all'estero. Eppure l'eredità che lascia a Israele, cedendo il comando con la palma di premier più longevo nella storia dello Stato ebraico, è duplice. Da un lato è stato l'artefice della modernizzazione economica e il garante della sicurezza nazionale, culminata negli accordi di Abramo che hanno allargato la pace con gli arabi agli Emirati, al Bahrein, al Marocco. Dall'altro in quindici anni di governo non ha risolto la questione palestinese, fonte di ricorrenti conflitti, come testimonia il recente scambio di razzi e missili con Gaza, e dilemma che divora entrambi i popoli da sette decenni. [10]
  • [Su Bernardo Valli] Un maestro che ti dà lezione senza l'impressione di darla, esponendo i suoi dubbi, come se non fosse mai sicuro di cosa scrivere, per sentire il tuo parere. Maestro di stile, oltre che di sostanza: scrive in un italiano lirico senza bisogno di barocchismi, poetico ma asciutto. I suoi articoli mi fanno tornare in mente le parole di [Rodolfo] Brancoli, quando tagliò il mio commento finale dal reportage su Detroit della Rai: "Non c'è sempre bisogno di una chiusa a effetto". Valli conclude i suoi pezzi mettendo semplicemente un punto in fondo all'ultimo ragionamento. Non serve aggiungere altro. Suona perfetto così.[11]

Sul putsch di agosto, la Repubblica, 20 agosto 1991

  • "Bentornato in Unione Sovietica, compagno giornalista", dice l'uomo in divisa che controlla i passaporti all'aeroporto. Il "benvenuto", ringhioso e beffardo come una minaccia, arriva dopo un esame interminabile dei documenti, piu lungo e burocratico del solito: il primo segnale, per chi torna, che l'Urss di ieri, 19 agosto 1991, è un paese profondamente diverso da quello di un giorno, di una settimana, di un mese prima.
  • Agli occhi del cronista che vi fa ritorno, Mosca si presenta così come la storia di due città, diverse e parallele, una golpista e ferita, l'altra pacifica e sonnolenta: e la sovrapposizione di violenza e apatia o indifferenza la rende ancora più inquietante.
  • In questa Mosca repressa e prigioniera, con le informazioni ridotte a zero, la censura reinstituita, anche ogni singola testimonianza torna ad essere preziosa, come ai tempi prima della glasnost, come ai tempi di Breznev. Tornare ad attraversare le vie di Mosca, dopo una breve assenza, fa perciò l'effetto di compiere un viaggio a ritroso nel tempo, in un fantascientifico, allucinante "ritorno al passato", denso di immagini che avevamo già visto alla televisione e sui giornali in altre città, la Santiago del Cile di Allende, Praga e Budapest invase dai carri armati sovietici.

Sul putsch di agosto, la Repubblica, 22 agosto 1991

  • L'incubo di un violento ritorno all'Urss del passato svanisce. L'uomo della perestrojka torna a Mosca, al Cremlino, al potere. Ma è una Mosca assai diversa, quella in cui Gorbaciov fa ritorno. In tre giorni incredibili, terribili e persino grotteschi, la "Casa Bianca sulla Moscova", sede del Parlamento della Russia, la maggiore Repubblica sovietica, si è trasformata da una fortezza assediata nel nuovo centro di potere del paese. Boris Eltsin, che tanti dubbi aveva suscitato nei sei anni e mezzo della perestrojka, per il suo carattere irruento, per le sue feroci polemiche contro Gorbaciov, appare oggi il salvatore del paese, il leader con cui tutti, i comunisti, i capi di Stato stranieri, lo stesso Gorbaciov, debbono adesso fare i conti.
  • L'immensa folla radunata attorno al Parlamento russo lo acclama. "Eltsin, Eltsin", gridano i ragazzi che per tre giorni si sono accampati sulle rive della Moscova in difesa della democrazia. "Eltsin, Eltsin", grida la gente ai soldati sulle torrette dei carri armati che abbandonano la piazza davanti al Cremlino. E i soldati rispondono alzando le dita nel segno di vittoria, come a dire che quel grido va bene anche a loro. Per un giorno, in effetti, Eltsin è il loro comandante in capo.
  • Per Eltsin, il fallimento del golpe è la prova della debolezza, della disperazione, delle forze reazionarie che si oppongono alla democrazia. Un colpo di Stato organizzato male, precipitosamente, con la consapevolezza di avere sempre meno sostegno dalle Forze Armate. I tre giorni che hanno fatto tremare l'Urss sembrano così finiti bene per la democrazia. Come nei "dieci giorni" del '17, una nuova rivoluzione, questa volta democratica, ha vinto senza tremendi spargimenti di sangue, dopo anni di progressivo, inesorabile rifiuto del vecchio sistema totalitario.

la Repubblica, 30 agosto 1991

  • Il Partito comunista sovietico è morto ieri sera nell'aula di un parlamento, dentro alle mura del Cremlino, a poche decine di metri dal mausoleo in cui giace imbalsamato il suo fondatore, Vladimir Ilic Lenin.
  • Mentre muore il vecchio potere che aveva governato l'Urss per 73 anni e mezzo, ieri è infatti cominciato a nascere il nuovo potere di un paese andato in pezzi sotto la spinta della "seconda rivoluzione russa". È un "Gran Consiglio" a cui toccherà il compito di ricostruire il mosaico di repubbliche, razze, idiomi e culture di cui era composta l'Unione Sovietica: compito difficile, ma che inizia ad avere qualche possibilità di successo, quando tutti si rendono conto del disastro che comporterebbe un fallimento.
  • Eltsin ha deciso che non c'è bisogno di aspettare le indagini: ieri, con uno dei suoi decreti, ha dichiarato "proprietà della Russia" tutti i beni del Pcus situati sul territorio della repubblica. E le Izvestia rivelano che un altro "bene" del partito sta per diventare "proprietà del popolo": il suo colossale archivio, un milione e mezzo di documenti "top secret", sepolti al Comitato Centrale. Dentro, c'è tutto, dal testamento politico di Lenin, ai complotti del Komintern, dalle lotte fra Trotskij e Stalin, ai verbali di ogni riunione del Politbjuro. Le Izvestia affermano che presto, grazie ai segreti dell'archivio, sarà possibile riscrivere la storia del partito comunista. Forse, in quello stesso momento, la ex-Urss di Mikhail Gorbaciov potrà cominciare a scrivere il primo capitolo di una nuova storia.

Su Vladimir Žirinovskij, la Repubblica, 8 aprile 1994

  • Naturalmente andare al night non è un delitto. Ma è strano incontrarci un leader politico che in pubblico lancia crociate contro prostituzione, erotismo, pornografia, e ogni genere di "libertà sessuale". Moralista e bacchettone in pubblico, "peccatore" in privato fra le luci basse dei night?
  • Le contraddizioni di Zhirinovskij tra pubblico e privato non si limitano al sesso. La più clamorosa è che ha costruito una parte del suo successo politico sull'antisemitismo, mentre da mesi circolano le prove che suo padre era ebreo: l'ultima l'ha trovata un giornalista americano all'anagrafe della sua città natale, dove risulta che fino all'età di 18 anni Vladimir Zhirinovskij si chiamava Eidelstein. Ha cambiato cognome, come consentito dalla legge, per entrare più facilmente all'università, che ai tempi dell'Urss privilegiava i russi rispetto alle minoranze, in particolare gli ebrei.
  • Manca solo di scoprire che anche il suo antiamericanismo è una facciata per le masse. Magari un giorno verremo a sapere che, quando nessuno lo vede, Zhirinovskij beve Coca-Cola, mangia cheeseburger inondati di ketchup, e balla a ritmo di rap.

Su assedio di Groznyj, la Repubblica, 18 dicembre 1994

  • Groznyj è piombata nel buio e nella paura. La voce che Eltsin, allo scadere della mezzanotte, ha deciso di lanciare l'attacco ha gettato nel panico tutta la Cecenia. La gente fugge, portando via le donne e i bambini nei villaggi di montagna. Non c'è casa sicura che non si sia aperta ai fuggiaschi, che non nasconda due o tre famiglie, decine di bambini spaventati che non capiscono cosa stia succedendo. Tutti i giornalisti delle più importanti testate e agenzie internazionali, persino la famosa Cnn, sono fuggiti verso il vicino Daghestan, lasciandosi alle spalle una città di ombre, che aspetta sola la fine del mondo. Le speranze sono tutte finite.
  • Senza mai perdere l'allegria e l'ironia, un senso atavico della fatalità e della vita, i ceceni si avviano verso l'apocalisse.
  • Lo potrebbe descrivere solo Dante in un canto dell'Inferno. Centinaia di famiglie hanno cominciato a raccogliere le loro cose per fuggire in montagna. Nei villaggi vicini, dopo aver messo al sicuro le famiglie, gli uomini hanno imbracciato i fucili e si sono lanciati a ritroso nelle strade buie e insicure, verso Grozny. In città sono rimaste solo le famiglie dei russi, che non hanno parenti nei villaggi, che non sanno dove andare. Sono rimasti i vecchi, che non se ne vogliono andare.
  • Lo sforzo della sopravvivenza qui è uno sforzo collettivo. Sarà forse la memoria della deportazione di massa voluta da Stalin nel '44 che portò via in una sola notte tutto il popolo ceceno e inguscio, accusati di collaborazionismo con i tedeschi; o sarà forse il fatto che il piccolo popolo matura una sensibilità collettiva più acuta degli altri. Sta di fatto che qui, nell'ora del pericolo, nessuno ha pensato solo a se stesso, i ceceni si sono uniti per affrontare insieme il destino. È difficile immaginare l'ospitalità, la gentilezza, l'ironia di questo popolo, che a Mosca viene descritto sempre e solo come una grande tribù primitiva, di fede musulmana, dedita alla mafia e corrotta fino al midollo. La gente di qui ha rischiato la vita, senza mai abbandonare il sorriso, ha attraversato le strade pattugliate da bande nemiche per portare in salvo i giornalisti nei villaggi vicini.

Sulla crisi degli ostaggi in Kizljar-Pervomajskoje, la Repubblica, 15 gennaio 1996

  • Se i combattenti ceceni si sono riuniti a riflettere davanti a un televisore acceso, in una delle casupole del villaggio di Pervomaiskoje, forse avranno visto scorrere sul video le immagini (elicotteri alla carica e bombe al napalm) del film mandato in onda ieri sera, sicuramente per caso, dal primo canale russo: Apocalypse Now. E si saranno fatti un'idea dell'apocalisse che li attende a partire da quest'oggi, se non rimettono in libertà gli ostaggi.
  • Nel pomeriggio, hanno appostato dei cecchini sul tetto delle case di Pervomaiskoje, schierato gli ostaggi come "scudi umani", e iniziato a fare il tiro a segno con i russi che li circondavano. Ne hanno feriti quattro. Allora i russi hanno ritirato di circa un chilometro i soldati e fatto alzare in volo gli elicotteri, ma appena questi si sono avvicinati al villaggio i ceceni hanno aperto il fuoco anche contro di loro, con i kalashnikov, i mortai, i lanciamissili a spalla. Una scena che fa pensare al Far-West, i coloni che mettono i carri in cerchio (in questo caso, gli autobus), e sparano sugli indiani che li assediano in forze dieci o cento volte più numerose. Con la notevole differenza che di solito, in questi frangenti, i coloni bianchi non usavano ostaggi indiani come scudi umani.
  • Se moriranno a Pervomaiskoje, del resto, porteranno al Creatore insieme a loro parecchia gente. I guerriglieri si sono sparpagliati fra le case del villaggio; ciascuno ha con sé un gruppo di ostaggi; l'attacco russo, anche se condotto dalle forze di elite, dai Rambo del Cremlino, e con tutte le risorse dell'alta tecnologia militare, si trasformerebbe in una battaglia casa per casa, metro per metro. Una battaglia dall'esito finale scontato, ma ugualmente lunga, sanguinosa, e difficile. Boris Eltsin è così di fronte a un dilemma. Non può permettere ai combattenti ceceni di rientrare in patria con gli ostaggi, perché l'opposizione lo accuserebbe di aver ceduto a un ricatto terroristico. Ma non può nemmeno ordinare un attacco che costi la vita agli ostaggi, perché l'opposizione lo accuserebbe di non aver saputo garantire la sicurezza di civili inermi.

Sulla crisi degli ostaggi in Kizljar-Pervomajskoje, la Repubblica, 17 gennaio 1996

  • Forse i guerriglieri ceceni sono tutti Che Guevara o Superman. Forse le teste di cuoio dell'ex-Kgb, e le migliaia di soldati lanciati all'assalto col supporto di elicotteri e carri armati, sono tutti degli inetti. Ma qualunque sia il motivo, l'operazione per liberare gli ostaggi è diventata l'ennesimo disastro della guerra in Cecenia: dopo due giorni e due notti di battaglia, i russi sono riusciti soltanto a trasformare il villaggio di Pervomajskoe in un rogo di case in fiamme. I ceceni resistono, varie decine di ostaggi restano nelle loro mani, e non sapendo più come nascondere l'imbarazzo, il Cremlino nasconde almeno il numero delle vittime: ha perfino impedito l'accesso al villaggio ai soccorritori della Croce Rossa e di Medici senza Frontiere.
  • Certo, errare è umano: anche in guerra. Ma perseverare è diabolico. E c'è qualcosa di perverso nel modo in cui Boris Eltsin e i suoi generali hanno gestito il duello di Pervomajskoe, una catena di incertezze, ripensamenti, errori, conclusa con un attacco che fallisce l'obiettivo nonostante la schiacciante superiorità militare. Lunedì notte, il comando russo aveva annunciato di aver praticamente terminato i combattimenti: restavano solo da "liquidare gli ultimi nidi dei ribelli". Ma ieri mattina è ricominciato tutto come prima: razzi e bombe da elicotteri e carri armati, scontri casa per casa.
  • Gli ufficiali di ritorno dalla battaglia facevano dichiarazioni allucinanti: "I ribelli sono arroccati su posizioni molto forti, andiamo incontro a una resistenza accanita", come se avessero di fronte un esercito intero. Possibile? Possibile. Perché quella di Pervomajskoe è ormai una battaglia come ce ne sono state tante nell'anno e passa di guerra in Cecenia, e ha seguito la stessa trama: i russi non si azzardano ad entrare in contatto con i guerriglieri, questi dimostrano eccezionali doti di coraggio, alla fine le truppe di Mosca prevalgono solo grazie ai bombardamenti, dopo aver raso al suolo villaggi o città. Con questa tecnica è stata conquistata Grozny, e allo stesso modo prima o poi cadrà Pervomajskoe.

Sulla crisi degli ostaggi in Kizljar-Pervomajskoje, la Repubblica, 18 gennaio 1996

  • [...] a giudicare da quel che scrivono i giornali di Mosca, e dalle reazioni di quasi tutti i partiti politici in Parlamento, la Cecenia sta diventando ogni giorno di più la pietra al collo di Boris Eltsin, un peso che sembra in grado di affondare definitivamente le sue speranze di rielezione nel voto del giugno prossimo.
  • Più che come terroristi, i ceceni agiscono come guerriglieri in guerra. Una guerra disperata, in cui il terrore, il sequestro di ostaggi inermi, è la migliore (l'unica) arma contro i bombardamenti a tappeto dell'Armata Russa. I ribelli di Pervomajskoe e Trebisonda possono essere eliminati con la forza, oppure con essi si può negoziare, ma in entrambi i casi è certo che i loro compagni faranno nuovamente ricorso al terrore. E allora come si può fermare questa cancrena che sta paralizzando la Russia? Non ci sono risposte semplici. Eliminare tutti i "lupi solitari" della Cecenia costerebbe alla Russia gran parte dei progressi democratici che ha compiuto negli ultimi anni, e probabilmente richiederebbe la decimazione del popolo ceceno.
  • L'obiettivo di Eltsin è evidente: archiviare la Cecenia, farla scomparire dalle prime pagine dei giornali, con sufficiente anticipo rispetto alle presidenziali. Il pericolo è che non ci riesca. Ma ormai potrebbe essere troppo tardi per fare marcia indietro e riportare ceceni e "falchi" di Mosca al tavolo delle trattative. È insomma un rebus senza via d'uscita logiche. Per cui non si può escludere che qualcuno ne cerchi di meno logiche: stato d'emergenza, rinvio delle elezioni, colpo di Stato. Il solito incubo russo.

Sulla crisi degli ostaggi in Kizljar-Pervomajskoje, la Repubblica, 18 gennaio 1996

  • Camion e blindati carichi di trecento commandos russi, stanchi, sporchi, stravolti e impauriti, si sono allontanati poco per volta dal villaggio. Quindi sono stati costretti ad allontanarsi i giornalisti, tenuti finora a tre chilometri di distanza, ieri spediti ancora più in là. A quel punto, altri camion hanno trasportato in prima linea le batterie multiple di missili Grad, un'arma che non si presta a "chirurgici" colpi di precisione, ma rade al suolo grossi bersagli. E i missili sono partiti, uno al minuto, con boati spaventosi, che hanno fatto alzare verso il cielo dense colonne di fumo e tremare la terra per chilometri, sino a notte inoltrata. Che cosa resterà dei guerriglieri e degli ostaggi lo sapremo oggi, o non lo sapremo mai, vista la censura imposta dalle forze russe: con i giornalisti lontani, non sarebbe difficile dimostrare che i ceceni hanno tagliato la gola ai prigionieri.
  • [...] constatata l'impossibilità di conquistare il villaggio in tempi brevi, visto il crescente imbarazzo di Eltsin, è stato scelto quello che al Cremlino appariva come un "male minore", cioè il sacrificio degli ostaggi ancora prigionieri. Testimoni scomodi, oltretutto, di una vicenda che forse non è andata esattamente come Mosca si sforza di far credere. Per cui che morissero anche loro, sotto i micidiali missili multipli.

Sulla crisi degli ostaggi in Kizljar-Pervomajskoje, la Repubblica, 19 gennaio 1996

  • Il villaggio di Pervomajskoe, in cui i guerriglieri ceceni hanno resistito per quattro giorni insieme agli ostaggi al bombardamento russo, non c'è praticamente più: è stato raso al suolo dai missili Grad, la "soluzione finale" che ha permesso a Mosca di vincere questa sporca battaglia. Ma non ci sono più neppure una trentina di guerriglieri (e non si sa quanti ostaggi), protagonisti di una fuga rocambolesca nella notte tra mercoledì e giovedì, che ha permesso loro di attraversare l'inferno di fuoco dell'assedio e mettersi in salvo in Cecenia. Un'incredibile beffa per il Cremlino, ultimo atto di un duello in cui Boris Eltsin canta vittoria, ma che rivela come non era mai accaduto l'impotenza, l'inefficienza e le menzogne della leadership russa.
  • Dunque la linea dura adottata a Pervomajskoe continuerà, con rappresaglie e bombardamenti: ovvero, la piena ripresa delle ostilità in Cecenia. Il bilancio reso noto da Mosca parla di 153 guerriglieri uccisi e 28 fatti prigionieri, 26 russi morti e 93 feriti, 82 ostaggi liberati. Non dice però quanti ostaggi sono morti nella battaglia, limitandosi ad ammettere che 18 mancano all'appello.
  • Un ufficiale russo ha dichiarato che 52 guerriglieri sono stati uccisi dal suo reparto durante la fuga: gli altri, a quanto pare, sono scappati in Cecenia, mentre sulla sorte degli ostaggi che erano con loro non si è saputo nulla. Cifre e testimonianze della battaglia contraddicono radicalmente le informazioni fornite dal comando russo e dal Cremlino: per esempio, quando mercoledì è iniziato il bombardamento con i missili Grad, Mosca sosteneva che 41 ostaggi erano stati liberati e che tutti gli altri erano già morti, uccisi dai ribelli; ieri, invece, di ostaggi vivi ne sono saltati fuori il doppio. Un comandante delle forze speciali del ministero degli Interni confida a un giornalista che l'assalto non è stato minimamente organizzato: "Siamo entrati a Pervomajskoe senza sapere quale era il nostro compito, ci hanno utilizzati come carne da cannone, non ho mai visto un simile bordello".
  • Gli ordini erano talmente tassativi, che le forze russe hanno perfino sparato (all'inviato del New York Times) e usato i cani-lupo (hanno morso un altro reporter americano) per impedire alla stampa di assistere a una così disastrosa battaglia. Linea dura con tutti, insomma, compresi quei paesi che hanno osato criticare le modalità dell'attacco ("Non avrei mai usato missili o bombe per liberare ostaggi", ha detto il ministro della Difesa usa), o invitare al negoziato ("Pervomajskoe dimostra che la crisi cecena non si può risolvere con la forza", ha detto l'Unione Europea).

Sulla crisi degli ostaggi in Kizljar-Pervomajskoje, la Repubblica, 20 gennaio 1996

  • L'impressionante violenza dell'attacco militare contro i guerriglieri, e le minacce di intense rappresaglie in Cecenia con cui il presidente lo ha accompagnato, sono in effetti i primi slogan elettorali del candidato Eltsin. Il leader russo sembra esser giunto a questa conclusione: affinché la vittoria comunista e nazionalista nelle elezioni legislative del dicembre scorso non si ripeta alle presidenziali di giugno, l'attuale leadership deve appropriarsi dei programmi dell'opposizione. Dunque deve rallentare o modificare le riforme economiche che hanno gettato nella povertà milioni di persone, deve adottare una politica estera più aggressiva nei confronti dell'Occidente, deve spingere l'acceleratore sul nazionalismo e sull'"imperialismo" russo, a cominciare dalla piaga del conflitto ceceno.
  • La linea dura intrapresa dal Cremlino è evidente in tutte le decisioni che Eltsin ha preso da quando, a fine dicembre, è uscito dall'ospedale in cui aveva trascorso una lunga convalescenza per l'attacco cardiaco sofferto in ottobre. La nomina di un "falco" dichiarato, Evghenij Primakov, come nuovo ministro degli Esteri al posto della "colomba" filo-occidentale Kozyrev. La sostituzione del capo dello staff presidenziale, Sergej Filatov, uno degli ultimi "liberali" della prima ora rimasti nella squadra del Cremlino, con un altro "falco", Nikolaj Egorov. Il licenziamento di Anatolij Chubais, vice primo ministro e artefice del programma di privatizzazione che in quattro anni aveva smantellato la colossale economia pubblica ex sovietica. Tutti sintomi del fatto che Boris Eltsin si prepara a condurre la campagna elettorale come il difensore dei poveri e dell'orgoglio nazionale russo, piuttosto che come l'architetto delle riforme e della democrazia.
  • Come Gorbaciov nel '91, Eltsin oggi sembra illudersi che basterà abbracciare superficialmente le idee dell'opposizione per mantenere il potere e in seguito, forse, proseguire il cammino verso democrazia e riforme. Gorbaciov pagò questo errore con un golpe ordito dagli stessi "falchi" di cui si era volontariamente circondato, e successivamente con il crollo dell'Unione Sovietica e un'umiliante uscita di scena. Boris Eltsin, che della disfatta gorbacioviana fu spettatore e complice, dovrebbe essere il primo a sapere che i cedimenti alle pressioni del fronte anti-riformista e anti-occidentale non faranno altro che incoraggiare sfide sempre più grandi alla sua leadership.

Sulla crisi degli ostaggi in Kizljar-Pervomajskoje, la Repubblica, 21 gennaio 1996

  • È il giorno delle giustificazioni. O più precisamente, delle tentate giustificazioni, perché non molti le prendono per buone. I due "registi" del bombardamento di Pervomajskoe, il capo dei servizi segreti Barzukhov e il ministro degli Interni Kulikhov, inviati personalmente da Eltsin a dirigere la battaglia contro i guerriglieri ceceni, hanno dato ieri a Mosca la loro versione dei fatti in una conferenza stampa. Versione talmente contraddittoria e incredibile che a un certo punto i giornalisti non sono riusciti a trattenere una risata.
  • I potenti missili Grad, ha [detto] Barzukhov, sono stati usati soltanto come "arma psicologica" , per intimorire i guerriglieri: in realtà non hanno mai colpito il villaggio, perché erano puntati in modo da sorvolarlo e andare a cadere più lontano. È in questa occasione che i giornalisti si sono messi a ridere, poiché numerosi inviati e osservatori indipendenti hanno testimoniato che sono stati i missili Grad a radere praticamente al suolo il minuscolo villaggio.
  • [...] un ex-ostaggio ha raccontato che i prigionieri non avevano scelta, i ribelli li hanno obbligati a trasportare feriti e munizioni sotto la minaccia delle armi. E comunque, visto l'inferno di fuoco scatenato dai russi su Pervomajskoe, fuggire era per tutti, ribelli ed ostaggi, l'unica speranza di salvasi la vita.

Repubblica.it, 31 agosto 2022

  • [Sul putsch di agosto] La fine dell'Urss era nell'aria perlomeno [...] quando i nostalgici del comunismo avevano tentato di rovesciarlo con un golpe: da vittima designata, Mikhail Sergeevic diventò agli occhi del suo stesso popolo un complice del complotto, perché quegli uomini li aveva scelti lui, nel continuo zig-zag tra riforme e passi indietro per tenere insieme il Paese più grande del mondo.
  • Gorbaciov era rimasto solo, abbandonato dai nostalgici del comunismo come dai radicali democratici. E sbeffeggiato dalla gente comune per la sua battaglia contro l'alcolismo, che gli valse il soprannome di "segretario minerale", come se fosse astemio, un'infamia per un russo paragonabile a quella di un italiano che disdegna la pizza o gli spaghetti. Non era vero che non beveva: qualche volta, nei giorni finali di solitudine al Cremlino, si era perfino sbronzato di cognac, come confessò il suo più stretto collaboratore Anatolij Cernjaev nel proprio diario. Non era un ubriacone come il suo successore Boris Eltsin, tuttavia. Non avrebbe mai detto, come il principe Vladimir, fondatore della prima Russia, "bere è la gioia dei russi, non possiamo vivere senza", rifiutando per questo l'Islam come fede di stato, perché vietava l'alcol, e abbracciando invece il cristianesimo.
  • Disse che i primi anni di Vladimir Putin erano stati buoni, per riportare un po' di ordine senza imbrigliare del tutto la nascente democrazia russa e i buoni rapporti con l'Occidente, ma che poi Putin aveva sbagliato a spingere sull'autoritarismo e sulla forza. Quella forza che Gorbaciov non aveva usato, lasciando che l'Europa orientale si liberasse dalle catene, regalando agli stessi russi lo spiritello della libertà. Ma la libertà, come ripetevano le massaie di Mosca davanti ai negozi vuoti, non si mangia.
  • L'uomo della perestroika, l'ultimo presidente sovietico, il leader che per liberare un impero lo ha distrutto, era fatto così: sapeva ridere di sé stesso. Perfino nel momento in cui aveva perso tutto.

Repubblica.it, 8 dicembre 2024

  • [Su Bashar al-Assad] In un quarto di secolo al potere, a cui aggiungere i trent'anni precedenti in cui il Paese era in mano a suo padre Hafez, ha avuto tutto il tempo di nascondere all'estero capitali sufficienti ad assicurarsi un agiato futuro. Ma per lui e per il Medio Oriente è la fine di un'era: "Non ci può essere guerra senza l'Egitto, non ci può essere pace senza la Siria", si diceva un tempo dei conflitti del Levante, a questo punto potrebbe non essere più vero.
  • I pessimisti scommettevano che Assad junior non sarebbe durato a lungo: era un medico oculista 34enne, privo di esperienza militare o politica, con l'aspetto e i modi di un timido mollaccione.
    Gli ottimisti, d'altro canto, speravano che l'esperienza di vita in Occidente lo avrebbe spinto a democratizzare gradualmente la sua nazione [...].
    Entrambi i pronostici si sono rivelati sbagliati. Assad figlio è rimasto al potere per venticinque anni, e non ha affatto democratizzato la Siria, usando repressione e violenza quanto il padre. Ma ancora più del genitore si è legato ad altre potenze per rimanere in sella, l'Iran (in particolare gli Hezbollah libanesi, esercito per procura di Teheran) e la Russia; e assai più di Assad senior ha dovuto tollerare sacche di resistenza interna che hanno progressivamente diviso il Paese.
  • [Sulla caduta di Damasco] Come che sia, Teheran e Mosca sono distratti dai conflitti in Libano e Gaza, da un lato, in Ucraina dall'altro: e i ribelli di Hts ne hanno approfittato. Fra dipendenze da fuori e minacce da dentro, il risultato è che il regime di Bashar si è dissolto in pochi giorni, come non era avvenuto di fronte alle grandi manifestazioni di protesta della Primavera Araba di un decennio fa.
  • [Sul massacro di Hama] Assad fece sigillare la città dall'esercito, la assediò per tre settimane, annunciò che chiunque fosse rimasto sarebbe stato considerato un nemico, poi la bombardò dal cielo e da terra. Praticamente la rase al suolo con tutti gli abitanti dentro. Le stime dei morti variano da 20 mila a 40 mila: il più grande massacro di civili compiuto da un Paese arabo contro la propria popolazione. Sulla spietatezza di Assad senior circolava anche questa storiella. In Siria si tiene una delle tante elezioni-farsa. Un consigliere gli comunica con entusiasmo che le ha vinte: "Ha votato per lei tutta la popolazione tranne tre persone, signor Presidente, cosa potrebbe chiedere di più?" E lui di rimando: "I nomi di quei tre".
  • [Bashar al-Assad] ha cercato di replicare la fama del padre, senza riuscirci del tutto. Ha usato perfino i gas chimici per sopprimere le rivolte di vario segno esplose durante la guerra civile. Ha rinchiuso in carcere ogni tipo di dissidente. Ha fatto arrestare e torturare gli avversari. Ma non è riuscito, a differenza del padre, a tenere unito il Paese; né ha avuto il ruolo che ebbe Assad senior nei rapporti con le altre autocrazie e dinastie monarchiche arabe. A sorreggere Assad junior sono stati soprattutto i bombardamenti russi, le Guardie della Rivoluzione iraniana, gli Hezbollah libanesi. Ha tremato davanti ai dimostranti pro-democrazia della Primavera Araba, alla sfida del sedicente Stato islamico, ai raid delle forze americane e israeliane.
  • [Sulla caduta di Damasco] Malpagato e corrotto, l'esercito siriano si è dimostrato incapace di difendersi da sé. Pochi giorni or sono, ricevendo a Damasco il ministro degli Esteri iraniano, Bashar si è sforzato di apparire al comando. Ma in molti scommettevano che preparasse già la fuga, come è avvenuto mentre i ribelli si avvicinavano a Damasco.
  1. Citato in Gorbaciov frena Eltsin, la Repubblica, 29 agosto 1991.
  2. a b Da "Credo in una unione con a capo Gorbaciov", La Repubblica, 21 settembre 1991.
  3. Da La strana alleanza Eltsin-Khasbulatov. La nuova Cecenia, la Repubblica, 15 settembre 1994.
  4. Da Accuse a Eltsin. "È solo un blitz riuscito male", la Repubblica, 20 dicembre 1994.
  5. Da "Gli ostaggi liberi tra 24 ore", la Repubblica, 22 gennaio 1996
  6. Da Trappola mortale per Dudaev il ribelle, la Repubblica, 25 aprile 1996.
  7. a b Da "Sono pronto a ripulire questo paese, la Repubblica, 18 giugno 1996.
  8. a b Da La Cecenia alle urne tra macerie e povertà, la Repubblica, 27 gennaio 1997.
  9. Da La disfatta laburista specchio d'Europa: la sinistra senza identità, repubblica.it, 8 maggio 2021.
  10. Da Cosa resta di Netanyahu, repubblica.it, 13 giugno 2021.
  11. Da Come girare il mondo gratis. Un giornalista con la valigia, Milano, Baldini + Castoldi, 2023. ISBN 978-88-93889-97-1; citato in Charlie, nel loro piccolo, ilpost.it, 5 febbraio 2023.

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