Giorgio Manganelli

scrittore, traduttore e giornalista italiano (1922-1990)
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Giorgio Manganelli (1922 – 1990), scrittore, traduttore, giornalista e critico letterario italiano.

Citazioni di Giorgio Manganelli

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  • Ad Aurangabad il figlio dell'imperatore fece costruire per la madre un monumento affettuosamente inesatto, che imita in dolcezza di balocco il Tāj Mahal, costruito due generazioni prima dal padre di Aurangzeb, Shāh Jahān. Nel monumento di Aurangabad, Bībī-kā-Makbaṛā vi è consolazione di acqua, quell'acqua architettonica che è una delle meraviglie dell'arte mussulmana; e mitezza di piante che acconsentono a decorare una morte femminile, indifesa, sommessamente melodiosa. Come sempre nei monumenti moghul, il marmo è morbido, trafitto dallo strazio elegante di un minuto ago; sebbene non sia un'opera suprema, la tomba della prima moglie di Aurangzeb ha la delicata grazia di un oggetto deposto nell'aria, in un giardino che ignora il fasto angoscioso della sacra giungla.[1]
  • Credo di essere contrario al cannibalismo, ma prima vorrei pensarci, e poi vorrei introdurre dei distinguo. E sulla moda, sul sesso, sull'amore, sull'adolescenza, non ho idee. Se le avessi, sarei nel Tibet a fare il Dalai Lama.[2]
  • [Sulle pagine bianche] Disposti su parallele colonne, minutamente stampati, stanno cognomi e nomi, vie e piazze e numeri: numeri che designano case, e infine il numero telefonico, misteriosa combinazione talmudica... Chi sono quei cognomi e nomi? La convenzione racquietante vuole che siano indizi di esseri esistenti; e poniamo che sia vero: ma di costoro si presuppone anche una egizia immobilità, mummia e statua: l'elenco descrive una città di esseri asettici, disamorati, morti e immortali.[3]
  • Dopo aver letto America di Kafka mi chiedo come si possa "interpretare" un libro di cui manca la conclusione. C'è chi s'è dato pena di mettere quest'opera al centro di sottilissime indagini. Qualcosa di incredibile. O io sono stupido, o c'è un malinteso. Un libro interessante, lo è. Ma come vadano a finire le avventure di Rossmann, io non lo so, e, se il libro è tutto lì, chi altri può capirlo?[4]
  • Il Caino del Belli è un rissoso transteverino, dal coltello facile; ma è anche un poveraccio che finisce per l'eternità 'a piagne in de' la luna'.[5]
  • In generale, gli scrittori sono convinti segretamente di essere letti da Dio.[6]
  • [Sull'iperbole] In questa arcaica figura retorica la fantasia plebea celebra una sua libertà estetica, ed esibisce il fasto di una invenzione estrosa, inventiva e illuminante. Che si tratti di libertà e fantasia frammentarie, discontinue, è carattere essenziale di questa stilistica popolare, che per vocazione vuol tenersi al di qua dell'ideologia, e restringersi a bizzarrie e scatti dell'umore: è retorica di breve respiro, umile e conversativa.[7]
  • Io amo i poveri, e soffrirei in un mondo senza poveri; i poveri sono le brioches dell'anima.[8]
  • L'italiano medio, scapolo, divorziato o con famiglia, che passi nelle vicinanze di una bandiera italiana, sgargiante nei suoi tre colori, è ammonito di tenere un contegno assolutamente inequivoco; potrà sorridere, ma con rispetto, nei confronti di detta bandiera, e non sguaiatamente, come può accadere di ammiccare ad un compagno di bevute e sconvenienze; gli si consiglia di levarsi il cappello, ma sempre come si usa con i superiori, non, ad esempio, con i condòmini; in genere, può eseguire gesti allusivi a trepida devozione, incondizionato assenso, festosità e generico desiderio di morire in modo straziante per la medesima: tanto, egli lo sa, la sua famiglia resterà raccomandata alle cure di quella bandiera, che non dimentica i suoi figli migliori. Questo contegno non esito a giudicare saggio, prudente e, anche se ipocrita, da vero italiano.[9]
  • L'uomo vive di pane e pigiama.[10]
  • La poesia di Whitman fu nell'insieme uno dei tentativi più decisi e coerenti di conseguire l'arduo livello del pessimo e il meno arduo del risibile; che Whitman non ci sia riuscito è uno degli ilari misteri della letteratura.[11]
  • Mi pare di vedere in Kafka da un lato un mondo che chiamerei di stemmi, stemma, un labirinto, un disegno estremamente severo, molto preciso, molto astratto, duro, arcaico; ma questo disegno non riesce, non può, gli si vieta, direi, di diventare un disegno fisico, carnale e quotidiano perché il mondo su cui si proietta è un mondo totalmente deforme, infimo, losco, sordido. La intensità di Kafka nasce proprio da questa sproporzione eroica e tragica tra l'esattezza labirintica del disegno originario e la povertà industriosamente patologica del mondo su cui questa immagine si esercita.[12]
  • Non v'è nulla di più futile della recensione; gesto miserabile, irresponsabile, ritaglio di chiacchiera, gomitolo di inutili aggettivi, di frivoli avverbi, di risibili sentenze. Ma appunto questa fatuità insolente può fare della recensione un "genere" letterario più infimo che minore, una ciancia da angiporti, un berlingare senile; e dunque anche alla recensione può spettare una qualche accoglienza nella disordinata, chiassosa piazza dei mestieri letterari, tra il poema epico e l'epigramma, il sonetto caudato e il capitolo in rima.[13]
  • Ogni viaggio comincia con un vagheggiamento e si conclude con un invece. (da L'isola pianeta e altri settentrioni, Adelphi, 2006)
  • Sebbene racconti delle storie che fanno stare col fiato sospeso, Stevenson è moderatamente interessato a quel che di "interessante" egli sta raccontando. Con una eleganza provocatoria, da gentiluomo e da baro, nelle prime righe dell'Isola del Tesoro Stevenson ci spiega tutto quello che accadrà nel libro che si accinge a scrivere; e noi, indifesi e drogati, lo leggiamo esattamente come se non sapessimo nulla, e ci deliziamo di ansie ingiustificate, e sprechiamo palpiti e sollievi.[14]
  • Se ciò che fa la fortuna d'un poeta è un elemento tutto pratico, è chiaro come D'Annunzio debba ora essere circondato di diffidenza. Le sue parole sono prive di avventura: i suoi miti sono oratori e abbondevoli. Ora noi tendiamo alla "purezza": che ha un contenuto morale ben definito: elusione, sacramentalità verbale. Ma il "caso" D'Annunzio va energicamente rievocato: prima che un nuovo attivismo lo faccia suo vessillifero – sarà bene capirlo. Capire D'Annunzio è una delle cose più difficili, adesso. (da I saggi non usano punti esclamativi)
  • Vengo in possesso, per cortesia sempre di Salvatore Nigro, della fotocopia dell'edizione del 1641, e non posso non notare che è stampata in modo un poco bizzarro: perché mai i capitoli terminano in un disegno triangolare, restringendo via via le righe fino a che l'ultima parola o sillaba faccia da punto? [..] A questo punto ho la sensazione che presto avrò davanti un testo che esigerà di esser letto in modo nuovo, mescolato forse in parte all'antico, o forse no, giacché mi par di capire che "l'oggetto" Della dissimulazione onesta di Torquato Accetto è tanto o poco diverso da quello che ho frequentato e che da molti anni abita la mia memoria.[15]

La Stampa, 23 marzo 1979

  • Se mi guardo la dentatura allo specchio, la trovo abbastanza regolare. In ogni caso, non ho quei denti appuntiti che contraddistinguono il vampiro. Me ne rallegro, perché i vampiri non mi piacciono. Che io rammenti, nella mia famiglia non ci sono mai stati vampiri; spero che non ce ne siano mai. Messo alle strette, preferirei uno zio un po' matto, e un cugino con un debole per lo spiritismo.
  • Gira in questi giorni per le sale cinematografiche un Nosferatu, un film che a me sembra fatto da qualcuno che va un po' troppo al cinema, e nel quale comunque recitano con molto garbo decine di bare e centinaia di topi. Bene gli altri.
  • [Su Dracula] È un libro lungo, errabondo e noioso, scritto da un signore che amava il bel canto, e sveniva quando sentiva un acuto che gli andava a genio. In quel libro c'è tutto quello che serve; il castello, la notte degli spiriti, i pericoli che corrono gli sciocchi e innamorati impiegati di concetto che vanno dai vampiri con documenti da firmare.
  • Il vampiro non è solo un nemico, qualcosa che vuole distruggerci, che vuole accostarci per nutrirsi di noi: è anche una terribile tentazione.
  • Dalle nostre viscere è nato il vampiro ed è immortale – cioè, coesiste con tutto ciò che in noi è vivo – perché noi desideriamo disperatamente consegnare il collo a quell'essere orribile e fraterno che succhia il nostro sangue, che ci esenta dal compito di avere sangue e volto e destino. Il vampiro ci sottrae il simbolico sangue, cioè quell'esistenza che è il segno della nostra appartenenza al mondo dei destini. Il destino di Dracula è incompatibile con il nostro.
  • Il vampiro è uno, e noi, ciascuno di noi, è infinito, è una folla. Ci tormenterà tutta la vita, e molte e molte volte troveremo i segni dei suoi denti sulla nostra gola. Egli abita dentro di noi, ma il suo castello è un rudere, geme nei nostri sogni, è assassino e accattone. Ma il rosso sangue è nostro, il vampiro è esangue. Noi sappiamo di non poterlo uccidere, ma se egli ci uccidesse dimenticherebbe irreparabilmente quel sapore di vita che egli riesce a rubarci.

Angosce di stile

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  • Agli inizi della nostra letteratura narrativa, ai margini degli ultimi documenti notarili e dei libri di storia e di pietà rifatti sui grandi ed ormai sconciati testi dell'antichità, si colloca, direi si acquatta un minuscolo classico, familiare e difforme: il Novellino. Con la sua strana furbizia da svelto e mimetico felino letterario, questo libretto ha accettato con grazia questo titolo felicemente infantile, assolutamente spurio e gradevolmente deviante. A cominciare dal titolo, questo libretto è un enigma. (p. 124)
  • Il Novellino dà l'impressione di un solaio narrativo nel quale si può trovare di tutto, squisitezze e schegge inservibili, una spada di Toledo, una vecchia macchina da scrivere, un fantasma che ha disimparato a parlare, l'ultima salma impagliata di un animale definitivamente scomparso dalla faccia della terra. (p. 125)
  • Due notizie possiamo dare per certe su questo testo: che è fiorentino, come ci avverte la lingua, e che venne scritto all'incirca tra il 1280 e il 1300: lo dimostrano le allusioni a personaggi di cui conosciamo opere e vita. Dunque, il Novellino sta subito alle spalle di Dante: assai simile il linguaggio, una folla di personaggi troviamo nel Novellino che ritroveremo nella Divina Commedia; psicologicamente, questo libro manda bizzarramente a Dante, alle sua angosce arcaiche; non al Boccaccio, né al lontanissimo Sacchetti. (p. 127)

Antologia privata

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Laboriose inezie

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  • Credo che tutti i lettori di Dante siano in qualche modo viziati dalla giovanile lettura parcellare imposta dalla scuola. [...] Leggendo la Divina Commedia d'un fiato, mi rendevo conto di contrastare una antica malsana usanza; ma di meglio non potevo fare. [...] Dante è un enigmatico, e almeno una volta accettiamolo per quel che è. Ha i suoi motivi per non farsi capire subito, e qualche volta per essere assolutamente impenetrabile. È una corsa stremante tra luci e tenebre, stelle, lune, soli, misteriosi frammenti di edifici regali e sacri, con mutile, occulte scritte. Il percorso è talora nitido, geometrico; talora geometrico al punto di essere indecifrabile; talora è paludoso, è uno strisciar tra cunicoli ed antri. Non capire è importante. (p. 95, da Corriere della Sera, 1984)
  • Quante cose aveva mai in uggia il professore De Sanctis: non amava le allegorie, i concetti, le «arguzie» secentesche, la prosa proliferante e torbida, le cerimonie della retorica; e puntualmente a scuola ci insegnarono che quelle cose erano, letterariamente il Male; voleva scrittori di «cose» e di «vita», e aveva l'abitudine di pensare per secoli, come altri pensano per nazioni, o paesi. (p. 101, da Francesco De Sanctis, L'Espresso, 1971)
  • Chi fa un viaggio rischia di arrivare; è accaduto ad Ulisse, accade anche a Pinocchio. Dopo fatiche e metamorfosi, egli è ammesso alla definitiva iniziazione alla condizione umana. Ma appunto allora, con assoluta, lancinante chiarezza, avvertiamo che Pinocchio ha subìto l'iniziazione sbagliata. Il suo itinerario è stato insieme un viaggio verso, ed una fuga; come accade nei luoghi fatali, i due percorsi coincidono. Dunque la pedagogica minaccia «Pinocchio deve morire» ha trovato, ha eccitato il sicario? No: Pinocchio, lo sappiamo, sa uscire indenne dal fondo del mare, da un nodo scorsoio, dai pugnali degli Assassini. Per consumare la sua iniziazione, Pinocchio ha dovuto scegliere la sola morte che gli fosse consentita: ha dovuto suicidarsi. (p. 109, da Carlo Collodi: Pinocchio, L'Espresso, 1968)
  • Si sono ipotizzati due Omeri, una federazione di Omeri, Omeri sparsi unificati da un redattore paziente ma anche confuso, un vociante e spintonante coro di Omeri che mescolano le loro voci, le lingue, le età. È impossibile muovere obiezioni: filologicamente, Omero non può esistere. Tuttavia, criticamente, Omero continua ad esistere. (p. 110, da Omero: Odissea, Corriere della Sera, 1981)
  • La fedeltà è il tema centrale della Telemachiade; la costanza non già verso Odisseo, che è un personaggio del mito, ma verso il mito stesso, la sua forma che deve essere custodita e trasmessa intatta, perché tutto abbia senso. Penelope, Telemaco, Euriclea nei primissimi canti sono i segnacoli di questa costanza, i celebranti di un mistero che va protetto con arguzia e ostinazione; e anche quel misterioso Mentore, che sospettiamo alle soglie del terrestre, quasi un mutevole volto di Atena. (p. 112, da Omero: Odissea)

Extravaganti

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  • Cristina Campo, un nome fattosi fioco in questi anni; forse questo è il momento esatto per riscoprire una figura di difficile fascino, inquieta ed inquietante, signora di una prosa che non ha l'eguale da molti anni. Cristina Campo – araldico nome di Vittoria Guerrini – è morta assai giovane, dieci anni fa; più che un profilo quotidiano, è una fulminea luminescenza, un aroma pervasivo e riluttante alla descrizione, un disegno magro ed esatto, simile ai grafici giapponesi che le erano cari. (da Cristina Campo, p. 167, Il Messaggero, 1987)
  • [Cristina Campo] Signora, regina della prosa. C'è qualcosa di regale nello stile mentale di questa scrittrice; una regalità astratta, esiliata, clandestina, fiabesca; così nelle favole nel cuore di una foresta, in una caverna, una tana, larve regali esercitano la loro regalità senza sudditi. Spogliato di ogni diritto di mondana vessazione, è un potere tutto e solo dello stile, della solitudine, ignaro di fratellanze, devoto al destino. (da Cristina Campo, Il Messaggero, 1987, p. 167)
  • Cristina Campo si accostò al linguaggio come il credente al testo sacro, direi come il mussulmano al Corano, libro che è sacro solo in quella lingua, nella quale ripete la propria imperitura immagine celeste. Ma non fu una sacerdotessa del linguaggio, la prosatrice venne assistita dai doni dell'esilio e della regalità. (da Cristina Campo, pp. 167-168, Il Messaggero, 1987)
  • [...] la letteratura russa dell'Ottocento ha ancora un mito di cui si nutre, con amore, furore ed odio: dovunque, da Puškin a Majakovski, proprio il Majakovski del Poema di Lenin, si riconosce il trauma cristiano; il trauma immedicabile della profezia, dello schiacciamento degli umili, della persecuzione, della liberazione, del demonio e della vita eterna. Una gigantesca teologia è esplosa, come quel meteorite, o forse astronave, che diede una gran fiammata sulla Siberia nei primi anni di questo secolo, e ancora ne portano segni rocce ed alberi; e di questa teologia esplosa, questi diamanti, e sassi arroventati, e selci che tagliano il corpo, di queste cose non fatte per mani d'uomo i «russi» hanno fatto una letteratura. (da Leggere i russi, pp. 189-190, La Stampa, 1979)
  • D'altra parte lo sapevamo fin da Dante che l'inferno ha una tendenza urbanistica. L'abbiamo sempre saputo, c'è una mappa dell'inferno, si può fare, ci sono delle strade, c'è una toponomastica, senza dubbio ci sono dei vigili. Voi direte che anche il paradiso potrebbe avere qualche qualità visionaria di questo tipo ma non è mica vero, nella nostra cultura noi non riusciamo a pensare al paradiso, per il momento, se non come una variante particolarmente luminosa del nulla. (p. 211, da Jung e la letteratura, intervento al Convegno su «Jung e la Cultura Europea», Roma, 21-24 maggio 1973)
  • [L'Estasi di santa Teresa d'Avila] Quel volto che non offre problemi è in realtà sconvolgente di problemi; in quel viso dimora la morte, ma non è letale; essa ha solo il compito di «uccidere» il volto: cioè di lasciarlo identico ad un volto umano, e tuttavia togliergli ogni qualità antropomorfica; giacché quel volto ha catturato, è stato colto dall'assenza, è stato penetrato e trasformato da ciò che, per noi, è pensabile solo come un luminoso, abbagliante nulla. Quel volto è la perdita dell'io, del nome, del dialogo: non si difende, ed è imprendibile; non resiste, e la sua forza è incalcolabile; si astiene, ed è ossessionante; come acqua e luce è privo di forma, ed occupa ogni luogo, ogni occhio che osi guardarlo; la sua lontananza è insondabile, e tuttavia abita, tormentosa e distratta, nel profondo di noi. (Angelo e donna danzanti, p. 197, Corriere della Sera, 1980)
  • [L'Estasi di santa Teresa d'Avila] Questa suprema cerimonia è anche teatro, è spettacolo, è recitazione. No, non ho sbagliato parola. Non è forse la recitazione un minuscolo rito che consente una sospensione dell'io? E non sono gli spettatori coinvolti in questa cerimonia della assenza provvisoria? Ero giunto a queste considerazioni, quando mi sono accorto che gli spettatori c'erano da sempre.
    Ai due lati della figurazione, immerse nell'ombra stanno, quasi in un palco, alcune figure; furono della illustre famiglia Cornaro; e da secoli si affacciano ai loro posti di teatro e piamente contemplano: una figura ha nelle mani un libro – un testo sacro o uno spartito? Immersi nell'ombra, di rado riprodotti assieme alla figura centrale, essi sono esclusi dalla trasformazione e ne sono consapevoli; come lo spettatore, essi non possono che indirettamente partecipare ad un evento edificante e mostruoso; ma se ignoriamo la loro mondana e lussuosamente umiliata presenza, dimentichiamo che l'impresa della Donna che sogna è temeraria ed estrema; e non avvertiamo che in quel moto immoto delle membra danzanti vi è un occulto presentimento di musica, forse il silenzio sospeso che precede la scoperta del canto. (Angelo e donna danzanti, p. 199-200, Corriere della Sera, 1980)
  • Non credetegli quando dicono che lo scrittore deve adoperare una lingua che tutti devono capire. Non la deve capire nessuno! Figurarsi. Devono leggerla, rileggerla; sennò quale sarebbe la polivalenza linguistica dello scrittore nel tempo? (p. 213, da Jung e la letteratura)
  • [...] il re non può fare a meno del fool, non può fare ameno dello sciocco, di colui che delira ma delira sensatamente, di colui che interpreta la dissennatezza del re e le sue angosce, di colui che comicizza la tragedia del re e della vita, perché il fool è molto vicino al punto di vista della morte.
    Il discorso è comunque cascato per strada. C'è qualcosa nel mondo psicoanalitico che ha un particolare fascino per lo scrittore. Potrei dire che nello psicoanalista c'è una strana mescolanza del fool e del prete, direi del vescovo e del ciarlatano. Essendo una mescolanza potrebbe non dispiacermi. Dopotutto sia l'uno che l'altro, sono completamente indifferenti alla storia, essendo collocati nel grembo – potrei dire di peggio – della morte. (p. 216, da Intervento al Convegno su «Jung e la Cultura Europea», Roma, 21-24 maggio 1973)
  • Non abbiamo mai conosciuto dinosauri, ma senza di loro saremmo diversi. Non riusciamo a stare mai a lungo senza parlare dei nostri sconosciuti amici. Oziamo al caffè, leggiamo libri futili, ci interroghiamo sull'al di là, andiamo a votare, ascoltiamo Brahms; poi, d'un tratto, l'antica tarantola ci morde: che ne è dei dinosauri? (p. 217, da In onore dei dinosauri, Corriere della Sera, 1984)
  • La fortuna inaudita, esibizionistica del sonetto è dovuta proprio al fatto che è rigorosamente carcerario, non ti lascia andare a spasso, qui gli accenti, qui le rime; e la riprova della fortuna fascinosa di questa macchinazione sta nel fatto che taluni si divertirono a far sonetti anomali per dimensione e foggia, e furono appunto i burleschi. Un sonetto caudato è una burla da ragazzi maleducati. (pp. 231-232, da I corsivi, Il Messaggero, 1989)
  • Come il sonetto, il corsivo è terribilmente esigente; per questo, non sempre riesce; qualche volta l'equilibrista mette il piede in fallo. Ma il pubblico non ha pietà; fischia, ed è giusto. Il perfetto corsivo dovrebbe assomigliare ad un bicchiere d'acqua gelida in ora di calura; ma un bicchiere non colmo, che lasci spazio a una fantasia eccitata ma non placata, una traccia di desiderio, il compiacimento di essere stati insieme oggetti e complici di una burla. (p. 233, da I corsivi)

Centuria

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Supponiamo che, ad un certo momento, una persona che sta scrivendo una lettera ad un'altra persona – il sesso o i sessi sono irrilevanti – abbia il sospetto, o forse semplicemente s'accorga di essere lievemente ubriaco. No, non si tratta di ubriachezza molesta, chiassosa e ripugnante – se non per il fatto che l'ubriachezza, iperbole dell'esistenza, ne mette in evidenza (si diceva nei temi) l'intrinseca repellenza.

Citazioni

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  • [...] egli aveva sperimentato la tossicità dell'amore, ed aveva capito che la tossicità della distanza era solo alternativa alla tossicità dell'intimo, e che aveva vomitato il passato per dar luogo al vomito del futuro. Sebbene gli fosse impossibile spiegarlo a chiunque, egli sapeva che il vomito appunto, e non i sospiri, erano il sintomo di un amore necessario, come la morte è l'unico sintomo certo della vita. (pp. 19-20)
  • Il signore che sa il latino vorrebbe non aspettare telefonate; le telefonate vengono dal mondo, sono, in conclusione, l'unica prova concessagli della esistenza del mondo. Ma non della sua. (p. 28)
  • Il signore vestito di chiaro si accorge improvvisamente dell’assenza. Vive in quella casa da molti anni, ma solo ora, quando verosimilmente il suo soggiorno volge al termine, si avvede che in una stanza semivuota vi è una zona d’assenza. La stanza semivuota, è, dopo tutto, una stanza come le altre; e, non fosse per l’assenza, nessuno la noterebbe. L’assenza, va da sé, non ha nulla a che fare con il vuoto. Una stanza totalmente vuota può essere priva di assenza, e nemmeno spostando rapidamente un mobile si crea una vera e propria assenza. Non si crea nulla. (p. 31)
  • Un uomo ha sempre sulle labbra un «Che cosa è?». Ma l’uomo non è invecchiato invano. Metodicamente elimina in sé ogni desiderio di interrogare, di sapere, di indagare. Tenebre o luce gli sono indifferenti, come amore o abbandono. (p. 32)
  • In genere, l'attesa della morte non è lunga né penosa; la compagnia è numerosa, si chiacchiera, ci sono giochi per bambini e per adulti. (p. 36)
  • Egli non è ostile al vero Dio, ma ne diffida. In genere diffida di tutto ciò che è vero, ed ha cercato di fornire di sé un'immagine di cui sia difficile dire se sia vera o falsa. (p. 38)
  • Mentre un lieve sudore di angoscia e di speranza gli tocca la fronte, egli pensa che all'angolo di quelle due strade potrebbe iniziare 'una storia', un inesauribile deposito di ricordi. Qualcosa gli dice bruscamente: «Qui comincia il tuo matrimonio». Il rapido passo di una donna lo fa trasalire. «Comincia ora?». Mancano pochi minuti, qualcosa negli astri, nei cieli delle stelle fisse, nella contabilità degli angeli, nel Volumus degli dèi, nella matematica della genetica, comincerà a ronzare. Lei appoggerà la sua mano al suo braccio, e inizierà un percorso che non avrà fine. (p. 40)
  • Come tutti i malati, spesso egli si sveglia al mattino con un profondo, abbandonato senso di salute. Non avverte il mondo fattosi angusto, la brevità dei percorsi che compie anche nella sua casa. La sua vita, sempre più minuscola, gli sembra della misura giusta, un vestito che gli si addice con proprietà ed eleganza. [...] Egli sta bene, perché dovrebbe fare gesti o dire parole e pensare pensieri che potrebbero far vacillare quel mirabile senso di equilibrio? (p. 67)
  • Col tempo, è diventato un appassionato dell’attesa. Egli ama aspettare. Puntualissimo, detesta i puntuali, che lo privano, con la loro maniacale esattezza, del piacere incredibile di quello spazio vuoto, in cui non accade nulla di umano, di prevedibile, di attuale, in cui tutto ha l’odore esilarante e indefinibile del futuro. (p. 81)
  • Il fantasma è annoiato; è difficile, per un fantasma, non provare, per gran parte del tempo, un profondo, lento senso di noia. [...] Un fantasma può meditare, leggere, camminare, e se è abbastanza stupido o annoiato, fare rumori e scuotere le tende; questo, naturalmente, se c'è qualcuno da spaventare. Un fantasma può lasciare il castello che gli è stato assegnato solo per una settimana dopo il primo secolo, due dopo il secondo, e così via: una faccenda abbastanza burocratica. (pp. 97-98)
  • Dal momento in cui si è accorto che è impossibile non essere al centro del mondo, e che questo vale tanto per lui, quanto per ogni essere umano, o animale, o anche sasso, o alga, o batterio, egli ha dovuto accettare che due sole soluzioni sono date, a descrizione del comportamento da tenere in quella situazione. O il centro del mondo è attivo, ed allora il mondo, dotato e arricchito da infiniti centri, sarà infinitamente attivo; oppure dovrà essere assediato dalla totalità del mondo; più esattamente essere il bersaglio del mondo. (p. 111)
  • Un signore amò follemente una giovane donna per tre giorni, riamato per un periodo di tempo all'incirca corrispondente. La incontrò per caso il quarto giorno, quando da due ore aveva cessato di amarla. Inizialmente, fu un incontro lievemente imbarazzante; tuttavia, il colloquio si movimentò, quando risultò che anche la donna aveva cessato di amare il signore, esattamente un'ora e quaranta minuti prima. (p. 113)
  • un amore che non comincia, non finisce nemmeno, sebbene sia riconoscibile, nel suo non nascere, un poco della futile amarezza di una possibile conclusione. (pp. 115-116)
  • Solo un cavaliere può uccidere un drago – ad esempio, non un militare di carriera, né un campione sportivo. Ci sono cavalieri che si vantano di aver ucciso più draghi: mentono. Non è nel disegno del mondo consentire l’uccisione di più di un drago ad un Cavaliere [...] Dei draghi non si sa molto, ma in genere i cavalieri ignorano anche il poco che se ne conosce. Che esistano regioni in cui i draghi dimorano, regioni lontane e forse tecnicamente inaccessibili, molti credono, e pare verosimile. Da quella regione si allontanano; viaggiano sempre soli: nessuno ha mai saputo di una coppia di draghi, una famiglia, due draghi amici. Il drago si dirige verso la propria uccisione. Che si sappia, questo è il solo modo di morire consentito ai draghi. Il drago si dirige verso le mura della città, in cui tuttavia non penetra mai; non ha interesse per i villani, ma cerca cavalieri, giacché solo da uno di questi otterrà la morte. Talora il drago si apparta in una grotta, se ne fa ricetto, accumula sassi sulla soglia. Il drago emette dalla bocca fuoco: che tiene luogo di favella. Egli ha verosimilmente molte cose da dire, ma la lunga solitudine l’ha reso disavvezzo, e l’intima fatica esce in lingua di fiamma. (pp. 119-120)
  • Egli non ha mai scritto libri, e tutto sommato non ne ha mai letto molti, e in generale si trattava di libri stolti, o di poco peso intellettuale. In verità, non v’è nessun motivo, morale o pratico, per il quale egli debba scrivere un libro; ma durante la notte tra sabato e domenica gli è venuto fuori nell’anima quel bizzarro bubbone, che include l’idea che scrivere un libro sia attività nobile e nobilitante. (p. 129)
  • [...] l’esperienza gli ha insegnato che un «sì», altro non è che un «no» protratto, un duplice «no», un «no» a due privo di tutti i dolorosi e delicati conforti del «no». (p. 144)
  • Una donna ha partorito una sfera: si tratta di un globo del diametro di venti centimetri: il parto è stato facile, senza complicazioni. Si ignora se la donna sia o meno sposata; un marito avrebbe supposto una relazione col demonio, e l'avrebbe cacciata o forse uccisa a martellate. Dunque non ha marito. Si dice sia vergine. In ogni caso è una buona madre: è molto affezionata alla sfera. (p. 165)

Citazioni su Centuria

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  • Un libro straordinario, Centuria, la cui ricchezza di motivi non posso propormi d'esplorare in questa nota, intesa solo a offrire un inquadramento generale dell'opera di Manganelli e a invitare a valicarne la soglia. (Italo Calvino)

Concupiscenza libraria

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  • Non conosco il signor Barosso, che ha pensato un Dizionaretto della lingua italiana lussuosa. Il risvolto mi avverte che è stato collaboratore di «Topolino» e autore di Principi generali di linguistica operativa. Sento di doverlo chiamare signor Barosso, giacché in tal modo riconosco che egli appartiene, totalmente, al genere «confezione regalo». Se mai vi fu domator di destrieri, degustator di lieo, esperto di verzure, certo è questo serio e divertente signore. Poiché ora, transumato totalmente alle lettere e ai campi, vive presso Amelia, lo sospetto intenditore di tordi. Frequenta costui quella tal gargotta di Amelia dove si gustano palombacci e tordi? Temo di no, non ho mai visto entrare nessuno a cavallo. (pp. 39-40)
  • Il signor Barosso è goloso di nonsense: Orobo, Ervo, Lero, Gilo, Zirbo: ama le definizioni stravaganti e pedanti: «Bariglione: vaso per tenerci salumi e munizioni di guerra», con esempi di falso popolano: «Busigno: cenetta. San Busigno: Santa Cenetta, piccola eucarestia alla buona». Né mancano citazioni di scrittori, abilmente fittizie. (p. 40)
  • Il signor Barosso ha tuttavia il senso infallibile del superfluo, che è l'anima del lusso. Egli sa che la parola da gioielliere raccoglie sotto la sua bandiera innumeri particolari, minuti, pittoreschi, affascinanti. Ad esempio, quel «guerriero etrusco» potrebbe essere celibe, bilingue, blasfemo, daltonico. Una parola così la si può usare una volta al secolo, e non si vende a rate. Il signor Barosso non l'ha messa nel Dizionarietto perché è un avaro. uno scedardo e, senza offesa, scazzeggia. (p. 40)
  • Camporesi è lettore malizioso di testi secenteschi, e anche, direi, scrittore di testi di quel secolo. E fra quei testi, predilige i predicatori, i naturalisti, descrittori barocchi di una natura barocca, i medici, i cronisti; questi ultimi perché mescolano la vocazione dei cronisti della «nera» – nel senso attuale – e degli agiografi devoti di miracoli e mostruosità. (p. 81)
  • L'amor cortese si fonda su quattro regole essenziali: l'umiltà definisce la condizione propria al servo d'Amore nei confronti della sua dama; si esige pertanto differenza di grado; infatti, ove tale differenza non sussistesse, ci troveremmo in tutt'altro sistema; come annota il pio manualista amoroso Andrea Cappellano, su femminetta di minor rango, «si locum opportunum inveneris», non sarà disdicevole al nobile cavaliere far ricorso ad una «modica coatio»; umiltà è tributo alla cortesia di cui la dama è custode e interprete, e che ella impone con tenero, irresistibile sadismo; o poiché non esiste interpretazione autentica della cortesia se non quella appunto della dama, non si daranno imperativi a quella estranei o superiori, ed anche l'atto codardo, il disonore, diventa onorevole quando imposto dalla dama. (p. 94)
  • Ma vi è dell'altro. L'amor cortese è in primo luogo adultero. Agli antichi, questa idea dell'amor coniugale, tra marito e moglie, semplicemente non era mai venuta in mente; al più, ne avevano ricavato fantastiche fabelle arcadiche. L'amore, fosse libidinoso e dionisiaco furore, non ha nulla a che fare con la bella e funzionale istituzione sociale del matrimonio. (pp. 94-95)
  • [Sul culto pagano-sciamanico dei benandanti] Nel 1575, a Cividale, nel Friuli, ha inizio una bizzarra vicenda sacra e dialettale, un oscuro dramma reeligioso che ha per protagonisti da una parte analfabeti contadini, uomini «vili e grami», anche maliziosi e disperati, e di fronte a costoro, uomini di chiesa, sottili ed eleganti «literati». (p. 101)
  • Un contadino friulano, Paolo Gasparutto, racconta a un don Sgabarizza di essere un «benandante»: parola di cui il prete ignora il significato; e il Gasparutto spiega come egli sia di quelli che, alle quattro tempora, vanno a far battaglia notturna contro gli stregoni. Il prete ne riferisce agli inquisitori: e inizia così una vicenda di indagini e processo protrattasi per quasi ottant'anni, e che ora Carlo Ginzburg ha ricostruito, con sottile e sapiente montaggio nel suo libro I benandanti. (p. 101)
  • Quattro volte l'anno – raccontano i benandanti – essi sfidano in battaglia streghe e stregoni: questi hanno per armi canne di sorgo cui i benandanti oppongono i mazzi di finocchio. E dove combattono? Nei prati del Veneto, a Cormons, a Gradisca, fin verso Verona. E perché combattono? Ma «per amor delle biade»; ad ogni battaglia, la posta è la proprietà della terra: viti, frumento, grani minuti; se vincono gli stregoni è carestia; ma se vincono i benandanti è grascia. (p. 102)
  • I documenti di cui il Menocchio fu sottoposto ed una paziente, poliziesca indagine tra i libri, i documenti, le testimonianze di quel secolo religiosamente sconvolto consentono di tracciare un profilo, contraddittorio e faticoso, ma quanto intenso, di questo mugnaio, filosofo «villano», ostinato a indagare il mondo con quel suo cervello accanito e fantasioso, di poche letture, di nessuna speranza terrena; una figura solitaria, che alla fine, capisce che la sua ostinazione a pensare lo condurrà alla morte, che tuttavia non sembra vivere con la superbia del martirio per la verità. (pp. 104-105)
  • Il Menocchio, questo mugnaio vestito, come usano quelli del mestiere, di panni bianchi, è un uomo perseguitato da una disperata volontà di filosofare del mondo; una sorta di selvatico cruccio mentale, che lo fa irto e aggrovigliato nel discorso, ma che gli dà una piagata nobiltà di essere pensante, ignota ai suoi colti, ironici inquisitori, i vicari del vescovo, gli uomini del papa Clemente VIII, i minuziosi sicari dell'ortodossia. (p. 105)
  • [Sul Menocchio] Non abbiamo una biografia del mugnaio friulano; sappiamo che fu condannato una prima volta a vita, poi graziato; ma nuovamente tornò a parlare di Dio come «un po' de fiato»; e questa volta non venne perdonato. Non sappiamo il giorno in cui salì sul rogo a Pordenone; era l'estate del 1601. Un mese dopo, sua figlia Giovanna si sposava, ed aveva dote, «non ricca ma nemmeno troppo misera». (pp. 106-107)
  • Frederick Rolfe (detto Baron Corvo) non era uno storico; era un grande, un puro scrittore, ed era verosimilmente un paranoico; esempio notevole di genio detestabile. (p. 113)
  • Personaggio della decadente fin di secolo, maniaco ed emarginato, Rolfe nella sua non lunga vita (morì nel 1913 a poco più di cinquant'anni) si specializzò in una ben lavorata demenza, fondata su di un suo progetto, che egli riteneva frustrato dalla calunnia, di divenire prete cattolico. Tutta la sua vita si sentì spretato, senza esser mai stato prete, «strappato alla vita laica, respinto dal clero», scrisse. (p. 114)
  • Rolfe si metamorfizzò in un Borgia, nell'intera casata più detestata, oggetto di una avversione sfrenata e immotivata. I Borgia, è ovvio, sono dei Rolfe; bisogna salvarli. Ma Rolfe è anche un uomo della «decadenza»; è un inglese che non ha dimenticato né rinnegato l'immagine dell'Italia cinquecentesca: una immagine festosa. [...] Rolfe nega che in quella età si sapessero usare veleni sottili e folgoranti; ma di veleni egli ama parlare, veleni strani, decadenti, come la cantarella, «una polvere zuccherata... di una bianchezza meravigliosa e di gusto assai gradevole». (pp. 114-115)
  • Allo stesso modo Rolfe ama gli inauditi delitti all'italiana, futili assassinii a freddo, notturne decapitazioni sulla neve, impiccagioni di decine di congiurati, strangolamenti con la cordicella rossa: «era un privilegio baronale». Rolfe fu senza dubbio un «maledetto», un uomo geniale perseguitato da un demone sordido, miserabilmente astuto dotto e infelice. (p. 115)
  • Gitta Sereny, «di padre ungherese, nata a Vienna» ha scritto un libro che si può osare definire: non comune. In quelle tenebre (Adelphi) è un libro orribile e distensivo, e da questa lettura velocissima, furibonda, si esce con la bella calma dei fucilati. Si è detto che è un contributo unico alla conoscenza di uno degli argomenti più irritanti del nostro secolo veramente molto sgradevole: i campi di sterminio istituiti dai nazisti in Polonia. È certamente vero che in proposito questo libro racconta qualcosa che non è facile dimenticare. È dal punto di vista dell'orrore archetipico, della casa degli orchi e delle streghe, una buona fiaba. (pp. 116-117)
  • Durante la recente guerra – che resterà recente finché l'ultimo di noi non sarà stato condannato – i tedeschi costruirono in Polonia, acquattati tra foreste e paludi, luoghi di antichi e nobili silenzi, quattro campi di sterminio. L'autrice annota: «Fin dalla fine della seconda guerra mondiale, questi "campi si sterminio" sono stati confusi con i "campi di concentramento", di cui v'erano letteralmente dozzine [...]». Ora i campi di sterminio furono solo quattro, nessuno di essi fu attivo per più di diciassette mesi, e il loro compito esclusivo e specifico era quello di ammazzare esseri umani; erano puri e semplici mattatoi per uomini, donne, bambini. Al mattino arrivavano treni stipati di decine di migliaia di esseri umani, e alla sera erano tutti morti, cremati, e la loro dolce cenere accatastata compatta, là dove è tuttora. (p. 117)
  • Pare certo che solo a Treblinka gli ammazzati siano stati oltre un milione. La signora Sereny, assai scrupolosa, ci avverte in una nota che non è vero che i nazisti di quei morti facessero sapone e fertilizzanti: fecero, è vero, qualche esperimento, ma risultò poco conveniente. (p. 118)
  • Questo racconto ha un eroe, in tutti i sensi di questa parola malnata: è Franz Stangl, comandante del campo di Treblinka, che Gitta Sereny intervistò nel carcere di Düsseldorf, per molte e molte ore; letteralmente fino alla morte di Stangl, che morì d'infarto poche ore dopo un colloquio, uno dei più lucidi e rovinosi. (p. 118)
  • Attraverso le molte ore di colloquio, Gitta Sereny vuole capire e far capire chi è il comandante di un campo di sterminio, confezionato per procedere alla abolizione di centinaia di migliaia di vite umane. La scoperta memorabile di questa indagine è che non c'è nulla da scoprire: Herr Franz Stangl non è un mostro, né un assassino di vocazione, né un demente, né un ambizioso. Per dirla in breve è un bravo padre di famiglia. (p. 118)
  • [Su Franz Stangl] Vuol bene alla moglie, è fedele, ha figlie che ama, riamato. È un uomo gentile, forse un po' troppo scrupoloso sul lavoro. Ha un certo decoro professionale. Gli è toccato un compito inconsueto, ma lo adempie con decenza. Somiglia a molte persone di gusti semplici che incontriamo ogni giorno. Caso mai, è migliore della media: più garbato. Non fa quel che fa per senso dello Stato, per amore della Germania, per la vittoria ariana. Non pensa per concetti, nemmeno generici. È un essere socievole: e tanto basta. (p. 118)
  • Non mi stupisco che al Filippo Buonanni, gesuita, secentesco, collaboratore di padre Kirker, palesemente discepolo stilistico di Daniello Bartoli, le chiocciole siano tanto congeniali da dedicare ad esse una vita di paziente e squisita dottrina. (p. 147)
  • Un'anima chiocciolosa quella del Buonanni, un'intelligenza a spirale, golosa di enigmi, di elaborate invenzioni, di stravaganze matematiche, di giochi geometrici; dunque, invaghita delle chiocciole, animali taciturni, occulti, e insieme labirintici. (p. 147)
  • Ama il Buonanni la piccolezza delle chiocciole, la loro misteriosa generazione – le credeva nate dalla materia inorganica – la struttura sapiente, e soprattutto il disegno, l'incantevole stravaganza delle linee tortili che definiscono uno degli oggetti vivi – come altrimenti chiamarli? – più estrosi della Creazione. (pp. 147-148)
  • Pietro Fortini è un senese schietto, esemplare d'una città ricca e prestigiosa, ma angusta rispetto alla contemporanea Firenze, città ormai affatto internazionale. Fortini scrive senese, e la sua lingua ha un sapore aspro, arcaico, ed ha un miglio di discorso parlato, che talora dà allo sciatto, ma anche lo esenta dai rigori di una sintassi vessatoria. Talora, come accade nel discorrere, si ripete, sbanda, lascia cadere e riacchiappa il filo; è, insomma, un favoleggiare plebeo, anche se il Fortini doveva essere di qualche cultura. Gli piacciono i modi di dire, le figure dell'eloquenza popolare. (pp. 154-155)
  • Si vorrà sapere che genere di storie racconti. Anch'io ne ero assai curioso; il Fortini aveva fama di scrittore grasso, ma dopo tutto la nostra novellistica è tutta un po' sul grassoccio: Boccaccio ha fatto scuola. (p. 155)
  • Più sboccato che lascivo, un poco canaglia, il Fortini ha talora strane e forse casuali grazie; le tracce di una malinconia di vecchio mal vissuto. (p. 156)
  • I trattenimenti sono stati pubblicati nel 1587, a Siena; Scipione Bargagli è un autorevole, prestigioso senese. Essere senesi nel 1587 non è né agevole né divertente; ed è questo un punto essenziale per accostarsi ai Trattenimenti. Siena è l'ultima città toscana a cedere all'invadenza fiorentina; nel 1554 è stata assediata e sconfitta; in quell'anno cessa per sempre la sua storia autonoma [...]. Il Bargagli è un aristocratico sopravvissuto ad una catastrofe, e di questo fa la materia del suo narrare. (pp. 156 e 158)
  • Mary Lamb era entrata nella letteratura inglese per una strada un po' indiretta: assistita da una tumultuosa follia aveva assassinato a coltellate la vecchia madre inferma. Un modo indiretto, ho detto, per attingere le regioni della letteratura. Riconosciuta pazza di intermittente demenza, Mary Lamb venne affidata alle cure del fratello Charles, letterato tra gli squisiti, ed anima tenerissima e sommessa; e a Mary, Charles consentì una vita protetta e attiva, la vita umbratile di una letterata tenuta per mano dalla follia. (p. 161)
  • Alla fine del 1936 giungeva a Roma Ernst Bernhard, lasciandosi alle spalle, da esule, la Germania, e disponendosi a vivere, da sradicato, le proprie tradizioni in travestimenti simbolici e mentali, e a scoprirsi, infine, una vocazione protetta ma non legata al prestigio di un luogo. A Roma, molle «madre mediterranea», egli concludeva la prima fase di una faticosa ascesi intellettuale, che aveva saldato varie e ardue esperienze nella psicanalasi junghiana, periglioso e drammatico conglomerato di ritrovate, violente mitologie, simboli riposti a fuoco davanti ad occhi disavvezzi e diffidenti. (p. 269)
  • Il lavoro di Ernst Bernhard fu inteso ad una ostinata, e anche lieta eversione; «l'errore fondamentale della nostra civiltà» è il suo amore dell'ordine, dell'attendbilità, della ponderatezza, dell'equilibrio; il malato e il proscritto – i socialmente esclusi – sono più prossimi al riconoscimento di sé, al momento «anormale e mostruoso» della individualità, che non la collettività «sana». Pertanto, consapevole del fatto che nessuno è peggiore del buon cittadino, e che una legge giusta è più vessatoria di una legge ingiusta perché ti vuole suo complice, Bernhard aveva trovato a Roma una dimora congeniale, un luogo complice e ragionevolmente disonesto. (p. 271)
  • A conclusione e culmine del suo destino, Bernhard aspirava forse a sciogliere la sua personalità in una condizione definitivamente equorea, insinuante, inalterabile e insieme capace di tutte le forme; perfettamente disponibile a tutte le metamorfosi. Il 25 giugno del '65, quattro giorni prima di morire, rievocava e dettava un sogno: «Entro in una specie di teatro, dove vengono distribuite le diverse parti. A me viene assegnata la parte che devo rappresentare, di non rappresentare cioè alcuna parte». (p. 271)
  • La «Settimana enigmistica» è una esplicita indicazione allegorica: un enigma che esce ogni settimana, è vile e distruttivo. (p. 279)
  • In Inghilterra, dove Angus Wilson è considerato tra i pochissimi romanzieri importanti, lo si è definito spesso scrittore satirico, ironico narratore della società inglese del dopoguerra, che vede mescolati esemplari di assai lontane generazioni: uomini nuovi del welfare state, e residui di una sconfitta aristocrazia, inetta ed eloquente. A me pare che Wilson abbia tentato un obiettivo assai più periglioso: una descrizione di società che della satira ha il disdegno ma non la buona coscienza; il rancore, senza la dignità ideologica; l'ironia ma non il distacco. È racconto insieme ilare e torvo; dignitoso e indiscreto; appunto, sgradevole. (p. 378)

Dall'inferno

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Secondo ragione, dovrei ritenere d'esser morto; e tuttavia non ho memoria di quella lancinante decomposizione, l'opaca decadenza corporale, né delle smanie interiori, terrori e speranze, che dicono accompagnino il percorso verso la morte; ma sì rammento una tal quale aridità e del corpo e della mente; una neghittosità taciturna, un continuato distogliermi da pensieri gravi, per indugiare su immagini tra povere e sordide, quasi giocherellassi con le sfrangiate nappe dei miei terrori.

Citazioni

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  • «Non desidero essere partorita» dice una voce che riconosco, sebbene non l'abbia mai sentita, per la voce della bambola. «Desidero restarti in corpo a lungo. Sei caldo» (p. 22)
  • «Possiamo chiedere alla bambola se è disposta ad uscire».
    «No, cerretano, non intendo uscire; non ora. Amo questa pace buia. Sono pigra. Godo delle mie blande sevizie. Mi diletta questa funzione di tomba, questa casa in guisa di latrina. Vivo nelle mie feci, la mia ferocia è sazia» (p. 41)
  • «Questa assenza esige riti e cerimonie?».
    «Appunto; l'assenza non è immune da una sorta di fragilità, va custodita con gesti accurati e preziosi». (p. 57)

Hilarotragoedia

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Se ogni discorso muove da un presupposto, un postulato indimostrabile e indimostrando, in quello chiuso come embrione in tuorlo e tuorlo in ovo, sia, di quel che ora si inaugura, prenatale assioma il seguente: CHE L'UOMO HA NATURA DISCENDITIVA. Intendo e chioso: l'omo è agito da forza non umana, da voglia, o amore, o occulta intenzione, che si inlàtebra in muscolo e nerbo, che egli non sceglie, né intende; che egli disarma e disvuole, che gli instà, lo adopera, invade e governa; la quale abbia nome potestà o volontà discenditiva.

Citazioni

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  • Prigione, donna infedele, sedia sfatta: lì abita l’imperfetta divinità, o forse la perfettissima a noi accessibile. (p. 46)
  • Si introna nella femmina la slealtà essenziale. Dunque, la libertà del divino. Accoglie assensi, li approva e travisa. Costei, che con gesto di natiche ti solleticò alla supplica, protesta, schermisce, assente, e te ne fa persuaso con adesione del corpo incolloso, con pesante intervento di saliva, con diteggiare lascivo e casuale; tu irretito ti celebri sua hostia; e quella allora principia a fartisi infedele: ruotano le sue cosce ad altra preda, ad altre decime e regalie. (p. 48)
  • Amo la compagnia, tra tutte discretissima, dei morti. (p. 62)
  • Io nacqui in un borgo selvatico, credo dell'Alsazia, o erano gli Appennini? Vi si parlava una lingua dolce e vinosa, come il modanese: forse era la Borgogna. Il mare? Certo, un gran mare calmo e metallico. Ma non era un borgo montano? E di aria purissima, aggiungerò, aromatizzata da grandi boschi di abeti. Era forse a picco sul mare? Di rado. Era un borgo marittimo inselvato tra montagne e ghiacciai, una baita lambita da due oceani. Qui possiamo far sosta. È sempre così. Io non posso tener discorso di me senza che in due batter d'occhio tutto sia piombato nella più inestricabile contraddizione. (p. 122)

Il delitto rende ma è difficile

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  • 1. Finché c'è al mondo un bimbo che muore di fame, fare letteratura è immorale. (p. 13)
  • 7. Quale follia partorire fanciulli in una società che ha perso il gusto dell'antropofagia. (p. 13)
  • 8. Il delitto rende ma è difficile (p. 13)
  • 10. Le parole usate per servire a qualcosa si vendicano. (p. 13)
  • 21. Non si può avanzare che retrocedendo. (p. 15)
  • 24. La vita è e deve essere un negativo dei sogni. (p. 15)

Il rumore sottile della prosa

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Perché io scrivo? Confesso di non saperlo, di non averne la minima idea e anche che la domanda è insieme buffa e sconvolgente. Come domanda buffa, avrà certamente delle risposte buffe: ad esempio, che scrivo perché non so fare altro; o perché sono troppo disonesto per mettermi a lavorare.

Citazioni

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  • Sono libero di credere o non credere in Dio, ma devo salire sul tram dalla parte destra, portiera di fondo. (p. 27)
  • Un mio amico diceva: «è necessario scrivere, non è necessario pubblicare»; verità di un certo livello di profondità, che ritroviamo nel suo contrario, quello che sto scrivendo: «è necessario pubblicare, non è necessario scrivere». A dimostrazione della fondatezza del mio assunto, mi permetterò di offrire al tipografo una riga inesistente:

    come avete visto, la riga non c'è [...]. (p. 27)
  • Il romanzo mi pare intrapresa monoteista. (p. 34)
  • Quando Don Abbondio incontra i bravi, deve passare sul cadavere del racconto dei bravi – di che si saran parlati andando a quel bivio? – e il cadavere del racconto che voleva nascere attorno a quel tabernacolo dipinto d'anime purganti [...]. (p. 34)
  • Tentiamo una definizione: lo scrittore è colui che è sommamente, eroicamente incompetente di letteratura. (p. 39)
  • In definitiva, ha qualcosa da insegnare solo chi non vuole insegnare. (p. 42)
  • Dante fu uno scrittore oscuro. Manzoni è chiaro, Joyce è oscuro. (p. 43)
  • Scheletro, uomo delle tenebre, resuscitato e insieme morto irreparabilmente, doppiamente esperto di morte, rifiutato dal tempo, autore di libri inesistenti, sbagliati, impossibili, io, lo scrittore. (p. 56)
  • Diventato nutrimento ideologico, insaporito di frammenti di idee, il romanzo è decaduto (come nota Giuliani) a messaggio edificante; [...]. (p. 57)
  • (In generale, direi che rendere difficile il lavoro del tipografo è sempre una buona cosa). (p. 64)
  • Sia onore alla Ripetizione e all'Anacoluto! Il regno della Rettorica non conoscerà altra fine che la fine del mondo. (p. 66)
  • Alla letteratura è essenziale evitare questo rapporto diretto: essa non parla al lettore, meno che mai al suo cuore; al contrario, gli si presenta, ma non gli si offre, gli impone la fatica di cercare un contatto; lo frusta, lo elude; non risponde alle sue domande. (p. 74)
  • La letteratura, ben lungi dall'esprimere la ‘totalità dell'uomo’, non è espressione, ma provocazione; non è quella splendida figura umana che vorrebbero i moralisti della cultura, ma è ambigua, innaturale, un poco mostruosa. Letteratura è un gesto non solo arbitrario, ma anche vizioso: è sempre un gesto di disubbidienza, peggio, un lazzo, una beffa; e insieme un gesto sacro, dunque antistorico, provocatorio. (p. 76)
  • [...] l’'idea di fondo, cioè che «l'innamorato scrive troppo e male», mi pare sana. (p. 86)
  • [...] una parola è un incantamento, una evocazione allucinatoria, non designa una "cosa", ma la cosa diventa parola, ed esiste nell'unico modo in cui può esistere: suono significante, arbitrio fonico, gesto magato ed efficace. (pp. 89-90)
  • Non lo so; in ogni caso mi sentirei di dire al giovane in questione: «C'è una probabilità su diecimila che lei sia destinato a scrivere Guerra e pace o l'Amleto. [...] Lei dice di essere Shakespeare? Per questo le dico: si iscriva a Geologia. Vedrà quante metafore le verranno regalate. Non ricordo più cosa siano gli oligoscisti: ma quella, mio caro, quella è letteratura». (pp. 104-105)
  • Il libro di Citati è "impuro"; esattamente. Assomiglia a un diario privato che abbia per tema Kafka; ha l'erratica densità di un epistolario, un vasto taccuino, uno zibaldone su un unico tema; [...] il libro di Citati non è una biografia. Ma allora che cosa è? È letteratura. (p. 118)
  • Questi libri che hanno esigua storia hanno talora, non sempre, una pagina; cioè, sono intensamente scritti. Posso dimenticare i nomi dei protagonisti, ma mi resterà in mente il rumore sottile della prosa. (p. 131)
  • Alfieri usa un linguaggio che è urtante, è un linguaggio falso, finto, cioè non fa nessun tentativo per far credere che qualcuno abbia mai parlato quel linguaggio [...]. (p. 163)
  • lo scrittore deve adescare, non deve raccontare niente, non ha nessun compito di trasmettere verità. (p.164)
  • A D'Annunzio non interessa trasmettere alcunché, vuole solo costruire delle strutture e per costruire saccheggia la totalità del vocabolario italiano [...]. (p. 164)
  • In verità, non c'è al mondo oggetto librario più fascinoso, seducente, innamorativo di una Enciclopedia. (p. 167)
  • Vi sono passioni che, congiunte, come nel mio caso, con labilità nervosa, generano stremanti fantasie di onnipotenza. Il Mondo non era né eterno né creato: era stato stampato da Sonzogno, via Pasquirolo, Milano. (p. 167)
  • Sappiamo che I promessi sposi ebbero un successo clamoroso: non fu un successo senza conseguenze: giacché pochi libri, forse nessuno dei nostri ultimi centocinquant'anni, venne letto così a sproposito, fino a farne quella ripugnante, edificante epopea degli umili e della Provvidenza, che lo ha reso illeggibile a generazioni di ex liceali. (p. 189)
  • Ho sempre amato questo poema quattrocentesco [il Morgante di Luigi Pulci], che è uno dei libri più sfrenatamente divertenti della nostra letteratura; un libraccio ridanciano, drammatico, gaglioffo, rissoso, plebeo e aristocratico, un divertimento e un capolavoro di calcolata dottrina. (pp. 203-204)
  • Mentre parlo con l'amico enigmista, penso a Lewis Carroll, a quest'uomo che non avrebbe mai scritto il mirabile Alice se non avesse avuto il difficile privilegio di assistere alla catastrofe delle parole. (p. 207)
  • Producete, producete cultura: è il vostro mestiere, e soprattutto è il contrario della letteratura. (p. 212)
  • Rileggere è una esperienza che non ha nulla a che fare con il leggere, [...]. La prima lettura può essere anche un innamoramento; ma esistono delizie di amorosità mentale che si abbandonano solo dopo anni di solidarietà, di complicità. (pp. 217 e 219)

Improvvisi per macchina da scrivere

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  • [Eruzione del Vesuvio del 79] La Catastrofe di Pompei appartiene ad un altro genere: più limitata e concentrata, essa offre il raro e colto diletto della distruzione di una città popolosa, ricca, tra elegante e burina, né romana né greca; una città poco imperiale, un po' come San Remo, magari durante il festival, o come Ostuni. Pompei ha il vantaggio di offrire in educato accoppiamento il grandioso dell'eruzione, il magnifico della lava, lo splendore degli incendi e il fragore dei crolli, e insieme il patetico dei fuggiaschi sopraggiunti dalla nube di cenere, le case domestiche consumate e distrutte, giovani amori stroncati, cristiani periti senza martirio – anche se non ce n'erano si può sempre metterceli, perché non possiamo non dirci Cristiani – pagani che invocano i loro dèi ormai in decadenza. (p. 58)
  • Dico talvolta: «Ciao gatto», e poi mi vergogno per avergli dato del tu. (p. 85)
  • Nella mente di molti di noi, il sagrestano è una figura evanescente, di modesta, innocua magia, un profilo infantile, rassicurante. Un poco anziano, il sagrestano è colui che s'aggira con la bussola delle elemosine, accende e spegne ceri, suona le campane, da musicante celeste, ora sul tragico, ora sull'allegro; sebbene non sia figura direttamente sacra, il sagrestano vivendo in quella sobria e taciturna penombra si è imbevuto di un che di pio, anche se la sua naturale umiltà lo coinvolge molto marginalmente ma utilmente negli eventi mesti e lieti di cui una chiesa è testimone. (p. 86)
  • Oggi non è il mio primo giorno di scuola. Non indosso grembiuli che mal si accorderebbero con la mia mole, la mia dignità generica, i miei occhiali pensosi, che sono la mia parte più squisitamente intellettuale. Sono esentato dalla marmellata, dai quaderni, dalle campanelle, e nessun bidello, nell'intera penisola, ha alcun potere su di me. Dal punto di vista della scuola, e di questo, fatale, iniziatico primo giorno, io sono un uomo libero. Non è un risultato da poco, e qualcuno vorrà sapere come mai io, che sono, tutto considerato, un inetto, sia riuscito a tanto. Il metodo è semplice: invecchiando. (p. 100)
  • Ho davanti agli occhi lo stemma della Repubblica Italiana: la stella a cinque punte, una ruota dentata, tutt'attorno una corona di verdure varie – che poi saprò essere quercia e ulivo – e la scritta Repubblica italiana su di un nastro, o meglio su uno di quei foglietti fragili e sottili che adornavano di sentimenti i cioccolatini di una volta. Esiterei a definirlo bello o interessante. So che ha quarant'anni. (p. 147)
  • [Sull'Emblema della Repubblica Italiana] In primis, la domanda, se gli italiani «si riconoscano ancora in quel simbolo». Credo che il numero di emigranti pronti a scoppiare in lacrime clamorose scorgendo quella ruota dentata sia del tutto irrilevante. Credo che poche persone, sperabilmente innocue, si siano «riconosciute» in quel simbolo: la contemplazione di quel simbolo potrebbe entrare in un test psicanalitico non privo di interesse. (p. 147)
  • Non so quale sia la vostra opinione sul mostro di Loch Ness, ma a me è simpatico; ammiro la sua discrezione, quel suo secolare esserci e non esserci, la mole, forse l'arcaica pinguedine piena di dignità, e insieme la sua elegante invisibilità; nessuno lo ha proprio visto, ma si sa che è enorme. (p. 171)
  • Per l'oscura legge degli antichi, Caino non venne giudicato da alcun tribunale, non patì prigione né sedia elettrica; ché anzi venne protetto da un segno misterioso: nessuno doveva toccarlo, sebbene fosse Caino. Nessuno lo ha toccato: la garanzia sacra lo ha accompagnato nei secoli, nei millenni; Caino è da sempre e per sempre con noi. (p. 196)
  • Diciamo la verità: Abele, il mite Abele, non è altrettanto simpatico. Ho in mente una Storia sacra illustrata, in cui Caino ha la faccia stravolta e gli occhi storti e Abele ha la faccia inconfondibile del primo della classe, del boy scout che aiuta le vecchiette ad attraversare la strada. Deve essere stato l'inventore della cravatta, dell'erre moscia, delle vacanze a Cortina, dei mocassini e dei levrieri; delizioso, l'uomo che tutte le madri sognano come marito per le figlie, così distinto e per bene, il tipo che piace, piace addirittura al Signore. (p. 196)
  • Ma poi capita che le ragazze abbiano un debole per Caino; è un tipo sgangherato, è un mettimale che ogni tanto bisogna ripescare all'osteria, ma è anche un lavoratore, ed è un malinconico: bisogna consolarlo. Alza la voce, ma ha le lacrime facili. Un violento? Lasciate fare, un po' alla volta si potrà educare. Purché sia meno infelice. (p. 196)
  • Adamo ed Eva erano tecnicamente una famiglia? Bene, quando li hanno cacciati, estromessi, sfrattati, sono diventati la prima famiglia con problemi di alloggio. Nessuno lo dice, ma forse in quel momento si affacciarono nella storia umana gli animali affettivi. (p. 197)
  • Devo dire che non ho nessuna simpatia per la scuola come maestra delle coscienze e formatrice di anime; la naturale imperfezione degli insegnanti, in quanto esseri umani, mi rassicura; la scuola continuerà a fornire un pasticcio di idee generali e qualche buona cognizione concreta; oltre non può andare: non vado dall'orologiaio per sapere che cos'è l'eternità, ma possibilmente per trovare un orologio che non menta eccessivamente sul passare del tempo. Non studio i misteri sulle pagine settimanali di parole incrociate e, se i sogni mi travagliano, non mi consolerà la Smorfia.[16]

La letteratura come menzogna

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  • Impossibile identificarsi con il principe Florizel delle Notti Arabe, come è impossibile identificarsi passionalmente con il re di quadri delle carte francesi. Come al re di quadri, spetta a Florizel un destino intricatissimo, fitto di innumerevoli casi; ma alla fine egli uscirà vergine, non logorato da alcun evento, idoneo a nuovi giochi, infinitamente. (L'ordigno letterario, p. 24)
  • Nei racconti di Stevenson, tutto ciò che supponiamo stabile e reale è al suo posto consueto: i vestiti, le convenzioni linguistiche e morali, le case grige, i giardini smorti, le rosse cassette postali; ma vi è un modo di attraversare queste strade, di salire quelle scale, di aprire le porte, di rivolgere la parola ad uno sconosciuto che trasformerà ogni cosa in sede intemporale di minaccia e illuminazione. Nel mondo quoti­diano esistono ore deputate ai gesti noti, luoghi per nascere, persone cui essere fedeli, con cui vivere e morire: in quell'altro universo ogni porta si spalanca su prospettive abissali, ogni uomo è folletto, ogni og­getto una carta da gioco. (L'ordigno letterario, p. 25)
  • Lo stile di Stevenson non è mimetico: al contrario, è costruito come una diligente sfida agli estri imprevedibili, alle aggressioni della favola. Da questo colto disaccordo, questo squisito iato intellettuale, viene la qualità dinamica, la purezza da grafico, della fantasia stevensoniana, la sua segreta, saggia ilarità. (L'ordigno letterario, p. 31)
  • Il Signore di Ballantrae è un esercizio ascetico negativo, completo fino all'estasi conclusiva. Ed è anche il rifacimento melodrammatico, la degradazione favolosa dell'iter illuminativo. Nelle sue pagine Stevenson ha celebrato con lucido furore la sua devozione alla letteratura come asocialità, provocazione, mistificazione. Nel breve e perfetto ambito del suo cinismo di letterato, ogni orrore e dolore, verità e menzogna, odio e morte diventano destino e struttura. (L'ordigno letterario, p. 33)
  • In questa favola [I tre moschettieri], Alessandro Dumas sfoggia non poche qualità del grande scrittore: e non delle secondarie. In primo luogo una sovrana impudenza; un insieme di complicità ed oltraggio nei confronti del lettore; nessun patetismo, neppure quando ricorre a situazioni obiettivamente patetiche: giacché nelle sue mani anche la morte dell'innocente si fa avventura, è «divertente». E ancora, il gusto del gioco, della mistificazione; l'onesta carenza morale, che ci rassicura che nei labirinti di questa deliziosa macchinazione non si nasconde la pia frode di un messaggio; una nobile guitteria, che gli detta la mossa esatta per scatenare la saggiamente consenziente credulità del pubblico, e che insieme proibisce qualsiasi identificazione emotiva: il lettore è tenuto a bada nel momento stesso in cui è affascinato; è e deve restare spettatore. (I tre moschettieri, pp. 35-36)
  • Dickens è uno scrittore delizioso e irritante. Quanto è difficile da maneggiare questo cordiale, unghiuto, un po' pingue, o forse pletorico, animale letterario, la cui gola poderosa sa articolare ogni sorta di voci : rugghi, rantoli, stronfi, e anche delicatissime fusa, tiepidi sgnaulii. Domestico o feroce? Quell'equivoco pelame, tra giaguaro e gatto domestico, ci fa cauti e perplessi. (Grandi speranze, p. 63)
  • Una analisi dei racconti di Lovecraft non è agevole; grava sul lettore il pesante fascino della materia; l'ipnosi che impongono gesti e riti mentitamene sacri. Vi è in Lovecraft qualcosa di risolutamente ingenuo, una cultura da incolto, una artificiosità elementare. E tuttavia non pare assurdo dirlo «scrittore». Forse perché il suo puro, concentrato orrore stinge rapidamente, e svela, sotto, qualcosa di duro, di ostinato: si sospetta, una scheggia di letteratura. È angusto, ma non sciocco; è sommario, talora anche rozzo, ma lo assiste una oscura intelligenza, una macchinosa astuzia da monomane. I suoi racconti sono incubi, ed è proprio degli incubi l'essere falsi: sgomenta non la concretezza dell'apparizione, ma la sua sacrilega aspirazione ad esistere. Lovecraft fruga una regione germinale, affollata di nulla sconciamente deformi, e gli accade talora di rintracciare e annotare i segnali dell'altrove, sfregi segnaletici violentemente significanti. (La città blasfema, p. 82)
  • Robinson non ha voluto intendere i moniti della Provvidenza: ha scelto per sé la naturalità. Di conseguenza, si troverà costretto a sperimentarne la coerente gravezza senza interruzione, senza difesa; verrà collocato in una condizione totalmente disumana, perché totalmente naturale. Ma, e solo a poco a poco egli se ne avvedrà, appunto la naturalità estrema della sua condizione ha il segno del destino; la sua ribellione non è stata né punita né stroncata, ma trasformata in testimonianza. (Isole volubili, p. 109)
  • Non v'è dubbio: la letteratura è cinica. Non v'è lascivia che non le si addica, non sentimento ignobile, odio, rancore, sadismo che non la rallegri, non tragedia che gelidamente non la ecciti, e solleciti la cauta, maliziosa intelligenza che la governa. [...] Corrotta, sa fingersi pietosa; splendidamente deforme, impone la coerenza sadica della sintassi; irreale, ci offre finte e inconsumabili epifanie illusionistiche. Priva di sentimenti, li usa tutti. La sua coerenza nasce dall'assenza di sincerità. Quando getta via la propria anima trova il proprio destino. (pp. 216-17)
  • Lo scrittore sceglie in primo luogo di essere inutile [...]. (p. 218)
  • Avvolto nelle spire, nella sfera del suo linguaggio, non solo lo scrittore non è contemporaneo agli eventi che sono riusciti a procurarsi una cronologia non incompatibile con la sua biografia; ma nemmeno è contemporaneo a quegli altri scrittori con i quali convive, se non quando anch'essi siano in qualche modo coinvolti nel medesimo linguaggio: condizione, questa, metafisica, e non storica. (p. 220)

La notte

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  • Giacché in primo luogo esso è questo: una costruzione. Prima che si sappia che esso è sarcofago, e dunque bara, duplice bara di duplice putredine, menzogna nuziale, sudario e non lenzuolo, preservativo di tenebre a infecondi e taciturni amplessi; prima che vi siano forme, una di femmina ed una d'uomo, e che si parli delle loro fattezze, e del modo che tennero per venire a sdraiarsi quaggiù; prima di tutto ciò, esso è una costruzione. (p. 169)
  • Piramo corre: egli sa, oscuramente avvertito, che grandi e strani pericoli insidiano il percorso del fatale amore che lo vincola a Tisbe. Per ora costei è invisibile. Ma, vi prego, ammiriamo la corsa amorosa e insieme attenta, impaziente e insieme ostinata, la linea retta con cui Piramo varca fossati e attraversa macchie d'alberi, oltrepassa argini e supera rupi. (p. 208)
  • Mentre Piramo corre, Tisbe attende; ma non immota. La scorgiamo, eccola, aggirarsi tra gli alberi radi di una selva; indugiare accanto agli arbusti, talora sdraiarsi e poi inquieta muoversi ad una breve corsa. (p. 209)

Lunario dell'orfano sannita

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  • La tesi di Toynbee è che sta nascendo, è già nata, già s'impiglia nei primi calzoncini, una città mondiale, planetaria, una Ecumenopoli. Muoiono le città metropoli, come già morirono i borghi del mercato; con avidità le periferie si cercano, gli animali urbani tendono i loro pseudopodi, si toccano, si aggrovigliano. Tra poco sarà preziosismo geografico distinguere Torino da Milano, come, a Roma, designare un rione, o una contrada a Siena. Tra dieci anni, Roma sarà un quartiere meridionale di Terni. Da uno Stato all'altro, varcando fiumi e perforando montagne, la città mondiale dilaga per il pianeta. Propriamente parlando, il Grande Rientro non esiste; nel momento in cui vi mettete in macchina, v'infilate sull'asfalto dell'autostrada, siete già a casa, nella vostra casa irreparabilmente intossicata. (p. 67])
  • La condizione d'italiano espatriato attiva il complesso dell'orfano sannita, un che di sventurato e diffidente, di irto e rusticamente astuto. (p. 78)
  • Se in Italia le cose non vanno come si deve, non sarà tutta colpa di una certa permissività sessuale che può aver contaminato le alte sfere? Infine, la parola «scandalo» non accomuna politica, finanza e sesso? (p. 112)
  • Un lettore di professione è in primo luogo chi sa quali libri non leggere; è colui che sa dire come scrisse una volta mirabilmente Scheiwiller, «non l'ho letto e non mi piace». (p. 119)

Nuovo commento

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  • Casto, dunque, e gelido, punta l'asessuato sesso dell'ingegno a ingravidare del suo morto seme lo sterile e vergine testo. (p. 10)
  • Non si adonti l'occhiuto lettore alla intonsa insolenza di un codesto «nuovo», né travalichi in precoce, incauto sdegno. (p. 11)
  • Avendo colto la mia predilezione per i particolari irrilevanti, giudicandoli forse innocenti, forse lusinghieri sintomi di ossequio maniacale, anche delicatamente torbido, alla memoria del marito, la signor A., opportunamente vi fece ricorso per blandirmi, allettarmi; le mani contigue alle sue, avevo diteggiato belle, vedove lenzuola; apprezzato solide stoffe, contemplata l'affollata, sedentaria scarpiera. (p. 84)
  • E per sentire, come usa, l'opinione, meglio il documento, di un esperto, ci siamo rivolti ad un cortese, conclusivo cledonista; al quale, in grazia della singolare, sventurata testimonianza, si dovrà perdonare il funebre turgore della prosa. (p. 129)
  • Un conclusivo sarcasmo mi consente di leggermi, di interpretare me stesso moribondo. (p. 139)

Pinocchio: un libro parallelo

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C'era una volta...
– Un Re...
No...
Quale catastrofico inizio, quanto laconico e aspro, una provocazione, se si tiene conto che i destinatari sono i «piccoli lettori», i «ragazzi», soli competenti di fiabe e regole fiabesche. A scrutare tra gli interstizi di queste sette parole, si scopre subito una favola nella favola, qualcosa che è prossimo al cuore d'ogni possibile favola. Il «c'era una volta», è, sappiamo, la strada maestra, il cartello segnaletico, la parola d'ordine del mondo della fiaba. E tuttavia, in questo caso, la strada è ingannevole, il cartello mente, la parola è stravolta. Infatti, varcata la soglia di quel regno, ci si avvede che non esiste il Re.

Citazioni

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  • Non so che sia un libro: ma penso che saggiamente agissero quei cuneiformi che, per via della chiodosa grafia, ne improntavano spessi e argillosi poi ben cotti mattoni; ogni pagina, trecento delle nostre. È inganno tipografico, che una pagina abbia lo spessore esiguo su cui, su entrambi i lati, si stampa. Direi che la pagina comincia da quella esigua superficie in bianco e nero, ma si dilunga e si dilata e sprofonda, ed anche emerge e fa bitorzoli, e cola fuori dai margini. (p. 10)
  • È incredibile la quantità di cose che riesce a fare gente che non è mai nata: Romolo fondò Roma, Noè fece l'Arca, Robinson sopravvisse per vent'anni in un'isola deserta, con lo scomodo aggiuntivo di muoversi tra pagine e parole di un grosso libro, due volumi. Quale stupendo espediente dell'anima è, ad esempio, l'autobiografia immaginaria, o l'autobiografia anonima; e nella autobiografia tradizionale, chi è il personaggio e chi l'autore? (p. 30)
  • Nessun libro finisce; i libri non sono lunghi, sono larghi. (p. 161)
  • «Benedictus» è un modo di esistere dei colori. Ha personalità una piuma, una rosa, una farfalla? La personalità di una piuma, una rosa, una farfalla è colore, volo, librata instabilità. (p. 22)
  • Benedictus lavora avendo in mente gioielli, tessuti, parati, tappezzerie. È interessante che egli abbia scelto una destinazione apperentemente vicaria, quasi che le sue forme non fossero proposte come tali, ma come – ecco, esattamente come il colore per le ali di una farfalla, di un uccello, per un fiore, per il pelame di una belva, per le squame equoree di un pesce. (p. 22)
  • Benedictus ha il compito di ricordarci che tutti gli esseri viventi si vestono di colori, di disegni, di giochi, infine che non v'è essere vivo che non abbia uno stemma inserito nel corpo; ora, Benedictus, araldico del mondo, è lo scopritore degli stemmi, l'inventore dei colori che fanno della così detta natura uno splendore inesauribile di calcolato, malizioso artificio. (p. 23)
  • Qualcosa di vizioso, di mortuario, di tristo ed elegante nobilita il candore del gesso. La sua vischiosità; la morbidezza tuttavia tenace; ciò che un latino avrebbe detto lentus: l'ostinata voglia di cedere. (da Il lento candore dell'universo, 2014, p. p. 11)
  • Anche il sasso più distratto e arcaico ha le sue vene, le sue allusioni di sangue, le sue millenarie pulsazioni; la selce è carne planetaria, è lentigginosa, è rugosa, fitta di cicatrici, stigmate; ovunque, tracce tiepide di sanie; ma il gesso è perfetto; non ha storia; non ha sangue; non si ammala; non ha forma; può disfarsi in polvere, ma è immortale, come un cattivo fantasma; e anzi tutto fa credere che sia quella la materia di cui sono fatti i fantasmi, quella farina che docile si rapprende in una pasta ironica, la sfoglia sarcastica che chiude nel suo grembo l'inquietudine della statua. (Il lento candore dell'universo, 2014, p. p. 11)
  • Il vetro non si lascia trattenere; esangue, si scheggia e dissangua del suo secco umore d'aria; slitta, scivola, si frange e si disperde, risata e catastrofe. Di questa qualità magata, questo segno del folletto, della fata, dell'ombra, Lalique ha fatto il segno sovrano del suo gesto invetriato. Sovrano: giacché l'artista ha da essere cortigiano del proprio segno regale, e i gesti di Lalique sono creazione del sovrano e omaggio al sovrano. (p. 30)
  • Le tabacchiere nascono e subito fioriscono tra Seicento e Settecento; dunque non ci stupiremo di cogliere in queste conchiglie anguste un segno e della febbre tardobarocca, e della grazia rococò. Esiste una psicologia della tabacchiera? Che è mai, in aeternitate, una tabacchiera? Essa ha, come tutti, un'anima; un'anima scura, ma non tenebrosa, un pulviscolo di psiche tenero e pungente, come a dire uno spiritus giacché ha a che fare con l'aura, con il fiato, e con la sua ironica e sentenziosa incarnazione – lo starnuto. (p. 44)
  • Cosimo III de' Medici, instabile erede di delicati e dotti nevrotici, come Francesco I, cercò chiarezza e riposo nella esatta didascalia scientifica. Amava il Redi, la sua prosa pulita ed esente da araldici fantasmi. Ma, tardo e fantastico personaggio di una famiglia che già pregustava il prezioso sarcofago di San Lorenzo, era destinato a far sorgere dovunque immagini allusive, che tenevano della scienza, ma soprattutto parevano alludere a una commedia simbolica, recitare una allegoria. Questo accadde quando affidò ad alcuni pittori della sua corte il compito di apprestargli delle immagini di animali. Ritratti d'animali: basta questa annotazione per proporre un tema arduo, insidioso, un poco malato; giacché il rapporto dell'uomo con l'animale e soprattutto con la sua figura è misterioso. ironico, impossibile. (p. 59)
  • [...] la storia di Napoli nasce lentamente. Soprattutto, è una storia esotica, una invenzione che sa di Omero, di poemi ciclici, di innumeri indecifrabili frammenti di leggende, favole, conti di mercanti, liti di taverne, imbrogli, risse, coltelli lucidi e rapidi, adulteri e nostalgie. (p. 71)
  • Napoli voleva essere accerchiata, catturata, la grande metropoli inesistente, invisibile, intoccabile, stava nel centro delle grandi manovre delle flotte tra piratesche e adolescenti che cercavano casa oltre le coste patrie. Napoli non c'era; non c'era il rumore, il clangore, non il precipitoso coagulo di colori, non gli dèi, le donne, l'aroma del cibo, il sonno. Eppure l'ipotesi colossale di Napoli agiva, e i minuscoli uomini sfioravano lo spazio che doveva per sempre essere Napoli. Poi sbarcarono a Cuma. (pp. 71-72)
  • Partenope è una sirena, è una città, è greca, è morta per amore, è una dea, è un luogo, è una strada, è una taverna, è miracolosa, venerarla bisogna, qui è Partenope[17], Partenope è in ogni luogo, di soppiatto scaturisce dal mare, qui dove è nome di ninfa sarà sacra la ninfa nei secoli; non morirà mai; la città non morrà, la ninfa città non morrà. Gioco, allucinazione, miracolo, liturgia, la città-ninfa sta nascendo. È inevitabile chiedersi; ma come, ma quando, ma dove nasce Napoli?
    Giacché il nascere di Napoli non può essere il nascere di altre, anche nobili, eroiche città.
    Dopo Partenope nascerà una «città nuova», insomma una Neapolis. Siamo arrivati? Forse siamo arrivati da sempre; forse è impossibile arrivare. Ma questo sospettiamo: che vi fu un momento in cui tra i marittimi dalle brache salse e crude, tra i duri campani che non capivano greco, cominciarono ad arrivare gli dèi. (pp. 72-73)
  • Si ha l'impressione che arrivassero dappertutto, e certamente era così, ma che a Napoli-Partenope fosse impossibile distinguerli dalla folla di graeculi e campani; erano dèi forastici, meteci, un po' contado un po' mare, ma fitti e inframettenti come i folletti. (Certo che c'erano i culti misterici. A Napoli? Ma dove volete che fossero? E Mitra si sa. E la bella Cerere, materna e chiassona, e un'Iside così pervasiva che nemmeno si sa dove si fosse il suo santuario, si è diffusa per tutta la città, non v'è città isiaca come Napoli-Partenope. Ecco, Partenope; no, non è né storia, né folklore, è ancora una presenza sacra, e ancora qualcuno, che non veda Cerere, sussurra nella gran folla una preghiera greca a una ninfa ondosa, una ninfa greca morta dopo aver conosciuto Odisseo. (p. 73)
  • Nella seconda metà dell'Ottocento, un pittore romano, Scipione Vannutelli, tentò di vedere e di fermare quanto di Parigi fosse possibile scoprire nelle immagini di Roma. Vannutelli non è un grande nome nella grande storia della pittura italiana; ma questo interessa, che egli fosse soprattutto famoso per le sue immagini devote al «romanticismo storico», quella dignitosa mistificazione da cui poteva nascere una Maria Stuarda al patibolo, o una celebrata Roxane al bagno. Questa vocazione alla «grande pittura» in un pittore così ricco di intuizioni del minimo e dell'effimero fa pensare a una dicotomia, che probabilmente ha a che fare con il fatto, sempre problematico, dell'esser costui un romano. La tentazione di usare della città di Roma come di una via di accesso al grandioso, allo scenografico, allo «storico» è sempre invadente, ignara di sottigliezze, minatoria. (p. 75)
  • «Il genio addita agli artefici moderni i capolavori delle tradizioni e dei maestri passati cominciando dalle prime civiltà ove il giaciglio e la capanna l'uomo adornò per la sua compagna»: con queste parole Galileo Chini illustrava un suo dipinto, parte di una serie dedicata alle otto tappe – tante ne contava – della storia della civiltà. È una prosa curiosa, forse interessante, come sono interessanti i reperti dei criminali e dei dementi; con che non voglio dire che il Chini avesse qualcosa a che fare col crimine e con la follia, ma appunto che non aveva affatto a che fare, il che per chi voglia fare arte è criminoso e dissennato. L'idea delle otto tappe non sarebbe così rivoltante, se non ci fosse quella parola: tappe, che indicano un percorso, dunque una partenza, pertanto una meta. Al di sotto del discorso di Galileo Chini sta questa onesta ubbìa, che l'umanità – checché si sia – proceda verso qualcosa di grande, di glorioso, di artisticamente cattivante. (pp. 83-84)
  • Solidamente piantato, proprio come un camminatore di gambe robuste, dentro l'Ottocento, Winslow Homer fu il maestro di un genere che non aveva ancora pensato di poter avere maestri. Duramente americano, godé del vantaggio di essere un inquilino del mondo periferico, un mondo che aveva Parigi per capitale, ma non era parigino. L'ilare libertà del watercolor, del colore d'acqua, lo eccitò, lo fece fantasioso, lieto, anche garrulo; giacché l'acquarello tollera questi vizi minori, anzi se ne diletta grandemente. (p. 102)
  • Winslow Homer era assolutamente americano, cittadino o forse popolano di un mondo inedito, sommario, capace di raffinate solitudini, anche di temerarie invenzioni individuali, ma ancora frammentato, anche folkloristico, infantile e grandioso. (102)
  • La pittura di Paul Delvaux pone alcuni problemi che direi di lessico. Ad esempio: è un pittore affascinante o fascinoso? Non pretendo di sapere con chiarezza che mai sia affascinante e che mai sia fascinoso; ma suppongo che nel secondo termine sia incluso un che di sapientemente infimo, che non mi pare accolto nel primo, che ha invece un sapore d'anima probabilmente mentito. Ma, nel caso di Delvaux, l'irruzione d'anima pare coincidere con una sapiente inclinazione all'infimo, un recupero della notte pingue di sogni. E anche: è Delvaux assolutamente un pittore, o il suo dipingere è un genere letterario periferico, straniato, impervio e insieme astuto? È, forse, costui un illustratore, un catalogatore di immagini che si riferiscono a un testo possibile, un libro eventuale, o forse un racconto orale narrato da bocche già taciute, o una filastrocca, un nonsense elaborato, metafisico, astratto? (pp. 137-138)
  • Massimiliano partì per il Messico come da ragazzo era partito per Smirne, questo luogo caro ai teatranti veneti e viennesi. Forse Massimiliano si chiese se il mondo era teatro o stipo degli stupori, o se era entrambi: ma certo non dubitò che il suo vivere in quel mondo fosse stupore. Ecco, si imbarca tra uno spettacolare tripudio di remi, ma è anche un addio; lascerà per sempre Miramar, ma in cambio, in cupo baratto, il destino gli offre tutto intero il Messico e una corona da imperatore. Impossibile. Divertente. Sontuoso. Fastoso. Tutta la musica della storia lo circonda. Massimiliano è un personaggio. Non dovrebbero accadergli degli eventi da personaggio? Ha un copione o un destino? (pp. 155-156)

Ti ucciderò, mia capitale

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  • In un punto restano ben fermi, nel negare ogni credibilità all'idea di Dio: e qui sono disposti a battersi, perché essi dicono essere ben chiaro che ove accettassero quella esistenza, le vecchie violente immagini di passioni rinascerebbero, e tra il credere in Dio, e rovinarsi per una ballerina, la differenza è assai poca. (p. 53)
  • Dio non c'è. Puoi cavare le viscere a tua sorella, puoi limare il cranio d'una bambina fino a fare spiccinare il cervello, puoi cuocere il tuo migliore amico, cavare le unghie i denti gli occhi il fegato di tuo padre, puoi giacere – se ci riesci – con tutte le tue consanguinee e nemmeno la scriminatura si muoverà a quel lucido, correttissimo, urbanissimo niente che è Iddio. (p. 84)
  • Non è evidente che l'omicidio, il delitto, sta dentro il nostro rapporto, è un momento di delicata enfasi del nostro rapporto, ma non lo conclude in nessun modo? Troppo vero. Il delitto sta dentro il nostro colloquio, ma non lo risolve. (p. 298)

UFO e altri oggetti non identificati (1972- 1990)

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  • La delusione più cocente e insieme più astratta della mia vita, e di molti altri come me, fu senza dubbio il mancato sbarco dei marziani nel decennio tra il 1950 e il '60. (p. 15)
  • C'è lo sceriffo: egli è un uomo onesto, e come tale non può aiutare disoccupati e madri povere. Sulle sue spalle posa la croce umana, l'imperativo di far sì che il disordine protratto e tenuto immobile appaia come ordine. (p. 103)

Incipit di alcune opere

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Agli dèi ulteriori

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Che io sia Re, mi pare cosa da non dubitare. V'è in me un modo regale di pensare, di opinare, di fantasticare, che non finisce di stupirmi e di allietarmi. Non riesco a pensare a cose umili e povere; ogni cosa deve avere un nome, collocarsi in una gerarchia, incedere o strisciare, ma in modo emblematico. Penso alle aquile; specie al primo dilùculo, nel silenzio tra notte e giorno, nel freddo che anneghittisce, in mezzo al distratto sgomento dei fiori, penso ad enormi aquile, ali metalliche e sapiente malvagità degli occhi.

Citazioni su Giorgio Manganelli

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  • Egli è stato un autentico eversore d'epoca (e mi pare di scorgere la beatitudine che gli avrebbe procurato la rettifica). «Volemose male» sembra il motto ideale che sorregge i suoi pensieri sull'Italia. Ogni volta, «l'imbarazzante penisola» viene da lui presa a ceffoni. Egli esecra la famiglia: gli pare fondata sul sadismo. Detesta i democristiani, che «credono nella fine del mondo», e lo maneggiano «nelle more della sua scomparsa». Sferza la televisione, invereconda «scatola dell'anima». (Nello Ajello)
  • Era ora. Da vent'anni la letteratura italiana ha uno scrittore che non assomiglia a nessun altro, inconfondibile in ogni sua frase, un inventore inesauribile e irresistibile nel gioco del linguaggio e delle idee... Manganelli è il più italiano degli scrittori e nello stesso tempo il più isolato nella letteratura italiana. (Italo Calvino)
  • Giorgio Manganelli è morto sei anni fa; e nella nostra cultura si avverte un'assenza o una specie di vuoto, come se fosse scomparso chi più di tutti amava la letteratura con un disperato amore, e ne rappresentava "l'ombra e lo stemma". Tra gli scrittori della sua generazione, non c' era nessuno che, come lui, la coltivasse nella sua infinita complessità. Per lui, era tutto: splendore linguistico, energia di stile, gioia, disperazione, malattia, nevrosi, abisso, superficie, tensione intellettuale, metafisica, gioco. Attento come nessuno ai valori formali, era liberissimo da ogni esclusiva attenzione alle forme: perché la letteratura era un'avventura vertiginosa, che finiva sulle rive dell'infinito. (Pietro Citati)
  • Giorgio Manganelli è stato probabilmente uno degli scrittori più straordinari e meno considerati della letteratura italiana del Novecento. Nessuna storia del dopoguerra letterario può fare a meno di citarlo e di considerarlo come uno degli esiti migliori del passaggio culturale e stilistico tra le due guerre, eppure i suoi libri e le sue invenzioni narrative sono ben lungi dall'ottenere l'attenzione dei lettori così come meriterebbero. (Giuseppe Panella)
  • La sua scrittura, complessa, convulsa, paradossale, al limite della non-comprensibilità immediata ne fa uno scrittore minore (nel senso utilizzato da Deleuze e Guattari per descrivere quella di Franz Kafka) in quanto la sua lingua letteraria non è inscrivibile nei registri della tradizione italiana aulica e accademicamente corriva ma non può nemmeno considerarsi legata a stilemi marcatamente realistici o "bassi". Il termine "barocco" con la quale però viene troppo semplicisticamente etichettata non rende la novità assoluta di molte delle sue soluzioni verbali o delle sue invenzioni narrative. (Giuseppe Panella)
  • Manganelli, pur con le sue tracotanze linguistiche e narcisistiche, si scaglia contro la letteratura che funziona a luce diurna e vive del principio del senso comune. E in questo ha ragione: la letteratura deve essere menzogna rispetto a una realtà monolitica. (Antonio Spadaro)
  • "Mi lasci 'sta roba in portineria" disse scontroso Giorgio Manganelli nel telefono a Romana Petri sui vent'anni che aveva osato cercare il suo numero in elenco (allora funzionava così, erano i primi anni Ottanta) per chiedergli di leggere certi racconti che aveva scritto. "Mi lasci 'sta roba in portineria": immagino esattamente il tono fra lo scocciato e l'imbarazzato, la voce indimenticabile con la erre moscia, quel buttar fuori la frase come un colpo di tosse. (Sandra Petrignani)
  • Parlando, Calvino si inceppava, si interrompeva, emetteva frammenti e rottami aforistici: anche a me riesce quasi impossibile infilare un condizionale e un congiuntivo, o tanto peggio un congiuntivo dietro un altro congiuntivo; ma Manganelli parlava superbamente. Non ho mai ascoltato nessuno parlare così. Come un grande padre predicatore o un papa rinascimentale o un diplomatico secentesco, ostentava gerundi, participi presenti, parole rare, proposizioni subordinate dentro altre proposizioni subordinate, piuccheperfetti, con una esattissima consecutio temporum, nutrendosi avidamente di parole sanguinanti arrosti di sostantivi, colorati contorni di aggettivi, folleggianti salse di verbi e di avverbi. Lo straordinario era che, in lui, il pensiero più sottile e complicato diventava subito, senza un attimo di incertezza e di dubbio, forma verbale: a tal punto la sua mente era dominata dall'istinto formale. (Pietro Citati)
  • Sai, una donna decomposta, | come sono io, | un uomo decomposto, | com’eri tu, | non potevano che trasmigrare | in due figure di sogno, | un grande pinocchio | e una fatina petulante e misera che, | come Coppelia, vanno a vedersi | dall’alto di un loggione | di cartapesta. | Idealmente, io e te, abbiamo portato | un cappello a sonagli | per tutta la vita. (Alda Merini)
  • Tutta la ricchezza delle geniali invenzioni verbali di Manganelli presuppone un agio, nel lettore-spettatore, non molto diverso da quello di chi si immerge nei piaceri della pubblicità televisiva. [...] La fatale monotonia di Manganelli, che annulla la novità sostituendola con la perpetua sorpresa, deriva dalla incapacità di farsi mettere in discussione, foss'anche per un attimo, da un diverso sistema di giudizi e scelte (come Beckett e, naturalmente, Kafka, sanno invece accettare). Sembra che Manganelli voglia che l'acquirente non abbia sorprese: gli garantisce sempre un Manganelli di origine controllata. Ha sempre ragione. Dunque non ha ragione mai. (Franco Fortini)
  • [Sulla sua storia d'amore tra con Alda Merini] Uno che un giorno se ne scappò da Milano in Lambretta, o forse era una Vespa (che differenza c'è fra una Vespa e una Lambretta?) mollando tutto, ma proprio tutto per trasferirsi a Roma. Ma che dico trasferirsi, per fuggirsene da un matrimonio disgraziato, da una paternità per lui invivibile, soprattutto da un amore folle, nel vero senso della parola, per una giovanissima Alda Merini già poeta e già fuori di testa. Si erano conosciuti che lui aveva diciassette anni e lui ventisei. A un certo punto lui – trentunenne – salì sulla famosa Lambretta e faticosamente arrivò a Roma. Senza bagaglio. Senza casa. Senza niente. Rompendo i ponti con l'università dove insegnava, con la famiglia, con quella donna impossibile – la Merini, che un giorno aveva fermato per strada la Fausta, legittima moglie di Giorgio, apostrofandola: "Signora, lo sa che mi sono innamorata di suo marito?" e l'altra, senza fare una grinza: "Ma se lo prenda, benedetta, se lo prenda". (Sandra Petrignani)
  1. Da Esperimento con l'India, a cura di Ebe Flamini, Adelphi, Milano, pp. 46-47. ISBN 978-88-459-0904-7
  2. Da "E se dicessimo "no" alle interviste telefoniche?", Corriere della Sera, 3 marzo 1983; citato in ilpost.it, 2 marzo 2021.
  3. Citato in Francesco Palmieri, 'L'Italia del duplex, Il Foglio Quoatidiano, 29 ottobre 2002.
  4. Da I saggi non usano punti esclamativi, la Repubblica., 14 giugno 2011.
  5. Citato in Salvatore Battaglia, Grande Dizionario della Lingua Italiana, XXI, Unione Tipografico-Editrice Torinese, Torino, 2002, p. 243. ISBN 88-02-05983-7
  6. Da È serio ridere con Wodehouse, Corriere della Sera, 3 ottobre 1981.
  7. Dalla Prefazione a O. Henry, Memorie di un cane giallo e altri racconti, Adelphi, 2014. ISBN 978-88-459-7494-6
  8. Da Giorgio Manganelli incontra Edmondo de Amicis, Le interviste impossibili, Rai Radio 2; in De Amicis, in A e B, Rizzoli, 1975 e in Aa. Vv., Le interviste impossibili, Bompiani, 1975, e Giorgio Manganelli, Le interviste impossibili, Adelphi, 1997.
  9. Da Patria, in Mammifero italiano, Adelphi, 2007.
  10. Da In Arabia con Leone, Il Mondo, 20 marzo 1975; ora in L'infinita trama di Allah, Quiritta, Roma, 2002.
  11. Da Incorporei felini, a cura di Viola Papetti, Edizioni di storia e letteratura, 2002.
  12. Da Franz Kafka; le opinioni di Giorgio Manganelli e Franco Fortini, RaiEducational.
  13. Citato da Salvatore Silvano Nigro, Referenze e note critiche, in Giorgio Manganelli, Concupiscenza libraria, Adelphi, Milano, 2020 p. 392. ISBN 978-88-459-3458-2
  14. Da Chi lo legge è perduto, in L'Europeo, 31 ottobre 1980, p. 101.
  15. Dalla presentazione a Torquato Accetto, Della dissimulazione onesta, edizione critica a cura di Salvatore Silvano Nigro, Costa & Nolan, Genova, 1996, p. 10.
  16. Da Improvvisi per macchina da scrivere, Adelphi, Milano, 2014. ISBN 9788845975370
  17. Nel testo: Partenone.

Bibliografia

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