Tito Livio

storico romano
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Tito Livio (59 a.C. – 17 d.C.), storico romano.

Busto di Tito Livio in una litografia bianco e nero di inizio novecento.
Tito Livio

Ab urbe condita

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Originale

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Facturusne operae pretium sim si a primordio urbis res populi Romani perscripserim nec satis scio nec, si sciam, dicere ausim, quippe qui cum veterem tum volgatam esse rem videam, dum novi semper scriptores aut in rebus certius aliquid allaturos se aut scribendi arte rudem vetustatem superaturos credunt.

[Tito Livio, Ab Urbe condita, Èulogos, 2010.]

Gian Domenico Mazzocato

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Non so se vale davvero la pena raccontare tutte le vicende del popolo romano fin dai primordi di Roma. E quand'anche ne fossi convinto, non oserei affermarlo apertamente. Mi rendo ben conto infatti che questa è materia antica e già sfruttata; e poi, di continuo, si fanno avanti nuovi storici che presumono di apportare qualche dato più sicuro agli eventi narrati o di superare con il loro stile più raffinato il rozzo narrare degli antichi.

[Tito Livio, Storia di Roma dalla sua fondazione, traduzione di Gian Domenico Mazzocato, Newton, Roma, 1997. ISBN 978-88-8183-768-7]

Mario Scàndola

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Non so bene se farò un'opera degna di pregio narrando compiutamente, fin dai primordi dell'Urbe, la storia del popolo romano, né, se lo sapessi, oserei dirlo, poiché vedo che si tratta di un uso antico e comune, mentre gli storici recenti credono di portare nella narrazione dei fatti qualche notizia più sicura, oppure di superare col proprio stile quello rozzo degli antichi.

[Tito Livio, Storia di Roma dalla sua fondazione, traduzione di Mario Scàndola, Rizzoli, Milano, 1982. ISBN 978-88-17-12365-5]

Luciano Perelli

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Non ho la certezza, né, se anche l'avessi, oserei esprimerla, di compiere un'opera che valga la fatica scrivendo la storia del popolo romano dall'inizio dell'Urbe, in quanto vedo che la cosa è antica e assai diffusa, mentre sempre nuovi scrittori cercano o di meglio accertare la verità dei fatti o di superare nell'arte dello scrivere i rozzi scrittori del passato.

[Tito Livio, Storie, traduzione di Luciano Perelli, UTET, Torino, 1974. ISBN 978-88-02-02140-9]

Claudio Dalmazzo

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Io non so bene certamente, se farò alcuna utilitade scrivendo le istorie del popolo di Roma dal cominciamento della cittade, e s'io lo sapessi, io non l'oserei dire; come veggio la cosa antica e ritratta e manifesta per molti altri, [e] che quelli che scriveno alcuna storia di rinovello, [sempre] si credeno le cose o più certamente e più veramente ritrarre, o in ben dire avanzare la rozzezza degli antichi.

[Tito Livio, La Prima Deca di Tito Livio, tomo I, traduzione di Claudio Dalmazzo, Stamperia Reale, Torino, 1845.]

Luigi Mabil

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Se io sia per fare pregevol cosa, pigliando a scrivere la storia del popolo Romano dalla fondazione di Roma, né bene il so, né, se il sapessi, oserei dirlo; perciocché veggo esser opra già fatta vieta e comune, mentre ogni dì nuovi scrittori credonsi o d'apportare qualche maggior certezza ne' fatti, o di vincere co' pregj dello stile la rozza antichità.

[Tito Livio, La storia romana di Tito Livio, traduzione di Luigi Mabil, Bettoni, Brescia, 1804.]

Jacopo Nardi

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Io non so bene, e quand'io il sapessi, non ardirei di dirlo: se pigliando à scrivere dal principio della città i fatti del popolo Romano; io m'habbia à far cosa che meriti il pregio: veggendo massimamente ciò essere, e cosa vecchia, e parimente usitata e comune: mentre ch'i nuovi scrittori si credono sempre, ò d'havere à recare nelle cose alcuna maggiore certezza: overo à vincere con l'artificio del parlare la rozzezza de gli antichi.

[Tito Livio, Le deche di T. Livio Padovano delle Historie romane, traduzione di Jacopo Nardi, L.A. Giunti, Venezia, 1547.]

Codice Laurenziano

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Ma io tutto per contrario mi diletterò in raccontare l'antichità; e, mentre che io sarò a ciò intento, dimenticherò li gran mali e le grandi distruzioni, che tanto avemo vedute nel nostro tempo, fuormesso di tutto il pensiero che potrebbe mettere l'animo mio in sollecitudine, tutto nol potesse dilungare dalla verità della storia. Ciò che li autori raccontano del cominciamento di Roma [e de' tempi anteriori], più per modo [di favole] adornati di belli detti, che [per] pura verità di storia, non ho io cura di contradire, né d'affermare. Imperò che alli antichi fu conceduto di mescolare le cose divine coll'umane per fare il cominciamento della città più nobile e più onorevole.

[Tito Livio, Codice Laurenziano, secolo XIV, in La Prima Deca di Tito Livio, tomo II, traduzione di Claudio Dalmazzo, Stamperia Reale, Torino, 1846.]

Codice Riccardiano

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Io non so bene certamente, se io farò alcuno profitto scrivendo le storie del popolo di Roma e del cominciamento de la città, e se io lo sapesse, noll'osarei dire: come veggio la cosa anziana e ritratta e publicata per molti altri, [e] che coloro che alcuna storia di novello scrivono, credono le cose o più certanamente e più veracemente raccontare, o in bene dire sormontare la rozzità degli antichi.

[Tito Livio, Codice Riccardiano, 1352, in La Prima Deca di Tito Livio, tomo II, traduzione di Claudio Dalmazzo, Stamperia Reale, Torino, 1846.]

Citazioni

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Proemio – Libro X

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Romolo e Remo segnano la nascita della vicenda liviana
  • È la storia di una città [Roma] che, partita da modestissimi inizi, è tanto cresciuta da essere ormai oppressa dalla sua stessa grandezza. (proemio, 4; 1997)
Ab exiguis profecta initiis eo creverit ut iam magnitudine laboret sua.
  • Non possiamo tollerare né i nostri vizi tradizionali né i loro rimedi. (proemio, 9; 1997)
Nec vitia nostra nec remedia pati possumus.
[F]oedum inceptu foedum exitu.
  • Patisca la stessa sorte chiunque abbia ad oltrepassare le mie mura. (Romolo: I, 7; 1997)
Sic deinde, quicumque alius transiliet moenia mea, interfectum.
  • [V]anam sine viribus iram esse. (I, 10)
A poco serve l'ira se non è sostenuta da adeguate forze.[1] (1997)
L'ira senza forze è vana. (2011)
Proditori nihil usquam fidum.
  • [Gli antichi romani] tutti volevano che un re fosse scelto perché non avevano ancora gustato la dolcezza della libertà. (I, 17; 1997)
In variis voluntatibus regnari tamen omnes volebant, libertatis dulcedine nondum experta.
  • [Numa Pompilio], poiché l'indole dei Romani (da sempre tenuta a freno dal timore dei nemici) una volta venuti meno essi, non si corrompesse nell'ozio, pensò bene di introdurre un grande timore verso gli dèi: era il metodo più efficace per gente ignorante e, dati i tempi, rozza. (I, 19; 1997)
Clauso eo cum omnium circa finitimorum societate ac foederibus iunxisset animos, positis externorum periculorum curis, ne luxuriarent otio animi quos metus hostium disciplinaque militaris continuerat, omnium primum, rem ad multitudinem imperitam et illis saeculis rudem efficacissimam, deorum metum iniciendum ratus est.
  • Roma intanto prospera sulle rovine di Alba. (I, 30; 1997)
Roma interim crescit Albae ruinis.
  • Fere fit: malum malo aptissimum. (I, 46)
Il malvagio è assai incline al male. (2010)
Il malvagio finisce sempre col trovarsi con un altro malvagio. (1997)
  • Perché ci sia colpa, deve volerlo la mente, non il corpo. (I, 58; 1997)
[M]entem peccare, non corpus.
  • Se non c'è volontà non c'è colpa. (I, 58; 1997)
[U]nde consilium afuerit culpam abesse.
  • In un popolo libero hanno più potenza i comandi delle leggi che non quelli degli uomini. (II, 1; 2006)
In libero populo imperia legum potentiora sunt quam hominum.
  • La libertà corre gravi pericoli a causa di inganni e tradimenti. (II, 3; 1997)
Per dolum ac proditionem prope libertas amissa est.
  • Le leggi non stanno ad ascoltare, non si lasciano commuovere dalle preghiere, recano al povero vantaggi maggiori che al ricco, e, se si sgarra, non concedono indulgenza o perdono. (II, 3; 1997)
[L]eges rem surdam, inexorabilem esse, salubriorem melioremque inopi quam potenti; nihil laxamenti nec veniae habere, si modum excesseris.
  • È pericoloso, data la facilità con cui si sbaglia, vivere puntando solo sull'onestà. (II, 3; 1997)
[P]ericulosum esse in tot humanis erroribus sola innocentia vivere.
 
Caio Muzio Scevola che mette la mano sul fuoco per mostrare la sua assoluta sicurezza e determinazione.
È tipico dei Romani saper agire e soffrire in grande.[2] (2011)
L'operare e il soffrire da forte è degno di un romano. (1921)
Un Romano sa agire e soffrire con grande animo. (1997)
  • A debiti si aggiungono debiti per via dell'usura. (II, 23; 1997)
Id cumulatum usuris.
  • «Un tempo nel corpo umano, non vi era armonia di tutte le membra, come ora, ma ogni parte del corpo aveva un suo particolare modo di pensare e di parlare. Nacque allora malumore in tutte le parti del corpo poiché ogni loro preoccupazione, ogni loro fatica e ogni loro servizio finivano per portare cibo solo al ventre. Il quale se ne stava lì in mezzo senza alcuna preoccupazione che non fosse quella di godere dei piaceri che altri gli procuravano. Si misero d'accordo, dunque, perché le mani non portassero cibo alla bocca e la bocca non lo accettasse e i denti non lo masticassero. Con questa ritorsione volevano piegare il ventre per fame, ma poi tutte le membra e infine il corpo nel suo complesso, vennero ad un estremo sfinimento. Fu chiaro a tutti che il ruolo del ventre non era inutile: è vero che riceveva cibo, ma anche lo distribuiva restituendo a tutte le parti del corpo quel sangue che, diviso in giusta misura attraverso le vene e nutrito dal cibo digerito, ci tiene vivi e ci regala vigore.» Partendo da questo paragone, [Agrippa Menenio Lanato] fece vedere la somiglianza fra la rivolta interna al corpo e le rivendicazioni della plebe contro i patrizi e in questo modo riuscì a piegare gli animi. (II, 32; 1997)
Tempore quo in homine non ut nunc omnia in unum consentiant, sed singulis membris suum cuique consilium, suus sermo fuerit, indignatas reliquas partes sua cura, suo labore ac ministerio ventri omnia quaeri, ventrem in medio quietum nihil aliud quam datis voluptatibus frui; conspirasse inde ne manus ad os cibum ferrent, nec os acciperet datum, nec dentes quae acciperent conficerent. Hac ira, dum ventrem fame domare vellent, ipsa una membra totumque corpus ad extremam tabem venisse. Inde apparvisse ventris quoque haud segne ministerium esse, nec magis ali quam alere eum, reddentem in omnes corporis partes hunc quo vivimus vigemusque, divisum pariter in venas maturum confecto cibo sanguinem. Comparando hinc quam intestina corporis seditio similis esset irae plebis in patres, flexisse mentes hominum.
  • La paura di una minaccia esterna, massima garanzia di concordia, teneva uniti gli animi, anche se non mancavano reciproci sospetti e ostilità.[3] (II, 39; 1997)
Externus timor, maximum concordiae vinculum, quamvis suspectos infensosque inter se iungebat animos.
  • La gloria disdegnata ritorna talvolta, a tempo debito, accresciuta. (II, 47; 2010)
Adeo spreta in tempore gloria interdum cumulatior rediit.
Detur irae spatium. Saepe non vim tempus adimit, sed consilium viribus addit.
Fit, fastidium copia.
  • Portare aiuto dopo la battaglia è tardi. (III, 5; 1997)
[S]erum auxilium post proelium.
  • [Loro avevano messo all'ordine del giorno la guerra sabina: ma] il popolo romano aveva una guerra più importante di quella dichiarata.[4] (III, 39; 1997)
De bello Sabino eos referre, tamquam maius ullum populo Romano bellum sit.
  • Gli uomini sentono più il peso delle loro sofferenze presenti che delle paure future. (III, 39; 1997)
Graviora quae patiantur videri iam hominibus quam quae metuant.
[E]x magno certamine magnas excitari ferme iras.
  • È inevitabile che chi parla alla folla tenendo conto del suo interesse particolare risulti più gradito di colui che ha in mente solo il vantaggio pubblico. (Tito Quinzio Capitolino Barbato: III, 68; 1997)
Natura hoc ita comparatum est, ut qui apud multitudinem sua causa loquitur gratior eo sit cuius mens nihil praeter publicum commodum videt.
  • Il danno arrecato alla nostra reputazione e al nostro credito è maggiore di quello che può essere eventualmente stimato. (III, 72; 2006)
Nam famae quidem ac fidei damna maiora esse quam quae aestimari possent.
Potius sero quam nunquam.
  • Le lotte fra le fazioni furono sempre e saranno per i popoli di maggior danno, che non le guerre esterne, che non la fame, le epidemie. (IV, 9; 2006)
Certamine factionum fuerunt eruntque pluribus populis magis exitio, quam bella externa, quam fames morbive.
  • L'animo umano non si sazia nemmeno con le più belle promesse della sorte. (IV, 13; 1997)
Est humanus animus insatiabilis eo quod fortuna spondet.
Necessitas ultimum et maximum telum est.
  • Mai gli uomini indietreggiano davanti ad un ostacolo se saranno proposti grandi premi a chi tenta grandi imprese. (IV, 35; 1997)
Nihil non adgressuros homines si magna conatis magna praemia proponantur.
  • Le grandi ambizioni rendono grandi gli animi. (IV, 35; 1997)
Magnos animos magnis honoribus fieri.
 
La Curia, simbolo del potere di Roma nell'epoca repubblicana
  • Fama e onore vanno talvolta più facilmente a chi non li ricerca. (IV, 57; 1997)
[G]ratia atque honos opportuniora interdum non cupientibus essent.
Labor voluptasque, dissimillima natura, societate quadam inter se naturali sunt iuncta.
  • Roma, città fortunata, invincibile e eterna. (V, 7; 2010)
[B]eatam urbem Romanam et invictam et aeternam illa concordia dicere.
  • Già i Giochi e le Ferie Latine erano stati rinnovati, già l'acqua del lago Albano era stata dispersa per i campi, già il destino incombeva su Veio. (V, 19; 1997)
Iam ludi Latinaeque instaurata erant, iam ex lacu Albano aqua emissa in agros, Veiosque fata adpetebant.
Sunt et belli, sicut pacis, iura.
Vae victis!
  • Le avversità ricordano agli uomini i doveri religiosi. (Marco Furio Camillo: V, 51; 1997)
Adversae deinde res admonuerunt religionum.
  • Pianta l'insegna qui, alfiere; questo è il posto giusto per noi![6] (Marco Furio Camillo: V, 55; 1997)
Signifer, statue signum; hic manebimus optime.
  • Qui resteremo benissimo.[6] (Marco Furio Camillo: V, 55; 2006)
Hic manebimus optime.
Ostendite modo bellum; pacem habebitis.
  • La folla fonda le sue opinioni sulle cose più incerte. (VI, 23; 2006)
Multitudo ex incertissimo sumit animos.
  • Tutti hanno di dispiacersi quando sono superati in qualcosa dai parenti. (VI, 34; 1997)
A proximis quisque minime anteiri volt.
  • Queste sono piccole cose, ma è proprio non disprezzando queste piccolezze che i nostri antenati hanno reso così grande la Repubblica. (Appio Claudio Crasso Inregillense: VI, 41; 1997)
Parva sunt haec; sed parva ista non contemnendo maiores vestri maximam hanc rem fecerunt.
  • Abolire il dovere di pagare i debiti mina alla base le regole della convivenza umana. (Appio Claudio Crasso Inregillense: VI, 41; 1997)
[F]idem abrogari cum qua omnis humana societas tollitur?
Ira et spes fallaces sunt auctores.
  • La situazione è giunta fino ai triarii.[8] (VIII, 8; 1997)
[I]nde rem ad triarios redisse.
 
Livio calca sulla guerra sannitica introducendo modi di dire rimasti famosi.
Dimostra di essere solidissimo quel governo in cui tutti obbediscono con grande soddisfazione personale. (1997)
Dimostra di essere solidissimo quel governo in cui gli amministrati godono di benessere. (2006)
  • Per lo più precipita nel suo destino chi fugge. (VIII, 24; 2006)
Ferme fugiendo in media fata ruitur.
  • Il risultato mostra che la fortuna aiuta gli audaci.[9] (VIII, 29; 2009)
[E]ventus docuit fortes fortunam iuvare.
Etenim invidiam tamquam ignem summa petere.
  • Ogni errore umano merita venia. (VIII, 35; 2006)
Venia dignus est error humanus.
  • È giusta quella guerra che scaturisce da una scelta obbligata e sono sante le armi di coloro che solo nelle armi possono riporre qualche speranza. (Gaio Ponzio: IX, 1; 1997)
Iustum est bellum quibus necessarium, et pia arma, quibus nulla nisi in armis relinquitur spes.
  • La fortuna molto può in tutte le umane cose, ma specialmente in guerra. (IX, 17; 2006)
Fortuna per omnia humana maxime in res bellicas potens.
  • Absit invidia verbo.[10] (IX, 19 e XXXVI, 7)
Sia detto senza offesa. (2009)
Le parole siano accolte senza sospetto. (1997)
  • Un soldato deve confidare sulla sua spada e sul suo coraggio, non perdere tempo ad adornarsi di oro e argento. [...] Un soldato deve adornarsi del suo valore. (Lucio Papirio Cursore: IX, 40; 1997)
[H]orridum militem esse debere, non caelatum auro et argento sed ferro et animis fretum. [...] Virtutem esse militis decus.
[N]ihil concordi collegio firmius ad rem publicam tuendam esse.
  • I Galli valgono più degli uomini all'inizio della loro battaglia, alla fine valgono meno delle donne. (X, 28; 2006)
Gallos [...], primaque eorum proelia plus quam virorum, postrema minus quam feminarum esse.
Tu quidem macte virtute diligentiaque esto.

Libro XXI – Libro XXX

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Lo sguardo teso e immerso nei suoi pensieri di Quinto Fabio Massimo fa trasparire il suo carattere riflessivo che ha salvato in più occasioni Roma
  • [Su Annibale] Ma in un uomo di tali qualità e valore, la contropartita era data da vizi immensi: una crudeltà mai vista in altra persona, una slealtà che lo rendeva peggiore della sua stessa origine cartaginese, disprezzo per le cose più vere e più sacre, spregio assoluto per gli dèi, per i giuramenti, per i vincoli religiosi. (XXI, 4; 1997)
Has tantas viri virtutes ingentia vitia aequabant, inhumana crudelitas, perfidia plus quam Punica, nihil veri, nihil sancti, nullus deum metus, nullum ius iurandum, nulla religio.
  • Mentre a Roma si discute, Sagunto è presa.[13] (XXI, 7; 2006)
Dum ea Romani parant consultantque, iam Saguntum summa vi oppugnabatur.
  • Tanto minore è il pericolo, quanto minore è la paura. (XXII, 5; 1997)
[Q]uo timoris minus sit, eo minus ferme periculi esse.
  • Siamo stati sconfitti in una grande battaglia. (Marco Pomponio: XXII, 7; 1997)
M. Pomponius praetor pugna inquit magna victi sumus.
  • Tutti sanno che, sotto un buon condottiero, non ha grande valore la fortuna, ma sono a prevalere l'intelligenza e la razionalità. (XXII, 25; 1997)
Sciant homines bono imperatore haud magni fortunam momenti esse, mentem rationemque dominari.
Consilia magis res dent hominibus quam homines rebus.
  • E non è solo il successo che insegna – il successo è il maestro degli stolti – ma anche la strategia razionale.[14] (Quinto Fabio Massimo: XXII, 39; 1997)
Nec eventus modo hoc docet – stultorum iste magister est – sed eadem ratio.
  • Si dice che la verità è destinata a soffrire, ma non si estingue mai.[14] (Quinto Fabio Massimo: XXII, 39; 1997)
Veritatem laborare nimis saepe aiunt, exstingui nunquam.
  • Vanam gloriam qui spreverit, veram habebit. (Quinto Fabio Massimo: XXII, 39)
Chi disprezzerà la gloria vana, riceverà la gloria autentica.[14][15] (1997)
Avrà la vera gloria chi l'avrà disprezzata. (2011)
  • Omnia non properanti clara certaque erunt; festinatio improvida est et caeca. (Quinto Fabio Massimo: XXII, 39)
A chi opera con calma, ogni cosa è chiara e sicura; la fretta è sconsiderata e cieca.[14] (1997)
Chi non ha fretta ha modo di chiarire ed accertare le cose; la fretta è improvvida e cieca. (2006)
  • Vincere scis, Hannibal; victoria uti nescis. (Maarbale: XXII, 51)
Annibale, tu sai come si raggiunge una vittoria, ma non sai farne uso. (1997)
Tu sai vincere, Annibale, ma non sai sfruttare la vittoria.[16] (2011)
  • Il male è tanto più tollerabile quanto più lo si conosce. (XXIII, 3; 1997)
[N]otissimum quodque malum maxime tolerabile.
  • Ognuno ha in mano la propria sorte. (XXIV, 18; 1997)
[S]uam cuique fortunam in manu esse.
  • Il nome della libertà riconquistata è dolce a sentirsi. (XXIV, 21; 2006)
Deinde libertatis restitutae dulce auditu nomen.
  • Nulla corre più veloce della fama. (XXIV, 21; 1997)
Fama [...] nihil [in talibus rebus] est celerius.
  • È facile rinunciare al possesso di una grande fortuna nel momento in cui lo si desideri, difficile e impegnativo è invece prepararla e costruirla. (Dionisio I di Siracusa: XXIV, 22; 1997)
Facile esse momento quo quis velit cedere possessione magnae fortunae; facere et parare eam difficile atque arduum esse.
  • La folla ha questa natura: o serve umilmente, o superbamente comanda; né sa allontanarsi modestamente dalla giusta libertà, né goderla nella sua pienezza. (XXIV, 25; 2006)
Ea natura multitudinis est: aut servit humiliter aut superbe dominatur; libertatem, quae media est, nec sibi parare modice, nec habere sciunt.
  • Chi per primo impugnerà la spada, sua sarà la vittoria. (Lucio Pinario: XXIV, 38; 2010)
Qui prior strinxerit ferrum, eius victoria erit.
  • Molti sono i problemi la cui soluzione trova ostacoli nella natura, ma che vengono risolti dall'intelligenza. (Annibale: XXV, 11; 1997)
Multa, quae impedita natura sunt, consilio expediuntur.
  • In rebus asperis et tenui spe fortissima quaeque consilia tutissima sunt. (Lucio Marcio: XXV, 38)
Nelle cose difficili, come nelle cose lievi, i consigli rigorosi formano una sicurezza per chi li riceve. (2006)
Nelle situazioni difficili e quando le speranze si assottigliano, sono proprio le risoluzioni più audaci quelle che offrono maggior sicurezza. (1997)
  • Se nel breve momento utile a cogliere un'occasione, la cui opportunità passa e poi vola via, si esita, inutilmente si va poi alla ricerca della circostanza perduta. (Lucio Marcio: XXV, 38; 1997)
Si in occasionis momento cuius praetervolat opportunitas cunctatus paulum fueris, nequiquam mox omissam quaeras.
  • Da piccole cose, spesso traggono origine grandi e gravi fatti. (XXVII, 9; 2006)
Ex parvis saepe magnarum momenta rerum pendent.
  • Come il rigore dei genitori, così quello della patria veniva attenuato dalla pazienza e dalla sopportazione. (XXVII, 34; 1997)
[U]t parentium saevitiam, sic patriae patiendo ac ferendo leniendam esse.
  • La paura è sempre inclinata a veder le cose più brutte di quel che sono. (XXVII, 44; 2006)
Metus interpres semper in deteriora inclinatus.
 
La famosa continenza di Scipione l'Africano
[B]arbaris, quibus ex fortuna pendet fides.
  • La libertà anima i cuori degli uomini valorosi. (XXVIII, 19; 2006)
Libertas virorum fortium pectora acuit.
  • L'animo umano è fin troppo pronto a scusare le proprie colpe. (XXVIII, 25; 2010)
[S]ubtrahente se quoque ut credidisse potius temere quam finxisse rem talem videri posset.
  • Mi avvicino a questi interrogativi a malincuore, come fossero ferite, ma nessuna cura può essere effettuata senza sfiorarli e discuterli. (Scipione l'Africano: XXVIII, 27; 2010)
Nunquam mihi defuturam orationem qua exercitum meum adloquerer credidi, non quo verba unquam potius quam res exercuerim, [...] apud vos quemadmodum loquar nec consilium nec oratio suppeditat.
  • Tutte le plebi, per natura come il mare immobili, sono agitate dai venti e dalle aure. (Scipione l'Africano: XXVIII, 27; 2006)
Multitudo omnis sicut natura maris per se immobilis est [...] ventus et aurae cient.
  • Nessun delitto può trovare un motivo scusante. (Scipione l'Africano: XXVIII, 28; 2006)
Nullum scelus rationem habet.
Non semper temeritas est felix.
  • Il fraudolento sa guadagnarsi per tempo la fiducia nelle piccole cose, per tradire poi con grande profitto. (Quinto Fabio Massimo: XXVIII, 42; 1997)
Fraus fidem in parvis sibi praestruit ut, cum operae pretium sit.
Plus animi est inferenti periculum quam propulsanti.
  • Il terrore delle cose ignote è maggiore. (Scipione l'Africano: XXVIII, 44; 2006)
Maior ignotarum rerum est terror.
  • Nei tempi nostri non vi è tanto pericolo dai nemici in armi, quanto dai piaceri che da ogni parte sono sparsi. (Scipione l'Africano: XXX, 14; 2006)
Non est, non tantum ab hostibus armatis aetati nostrae periculi, quantum ab circumfusis undique voluptatibus.
  • Gli uomini sentono più lentamente il bene, che non il male. (XXX, 21; 2006)
Segnius homines bona quam mala sentiunt.
 
L'incontro tra Annibale e Scipione l'Africano, narrato nel lib. XXX, cap. 30
Praeterita magis reprehendi possunt quam corrigi.
  • È difficile che rifletta sulle incertezze del caso, colui che mai è stato abbandonato dalla fortuna.[17] (Annibale: XXX, 30; 1997)
Non temere incerta casuum reputat quem fortuna nunquam decepit.
Potest victoriam malle quam pacem animus.
  • È migliore e più sicura una pace certa che non una vittoria soltanto sperata.[17] (Annibale: XXX, 30; 1997)
Melior tutiorque est certa pax quam sperata victoria.
  • Maximae cuique fortunae minime credendum est. (Annibale: XXX, 30)
È proprio quando la fortuna si trova al suo apice che bisogna fidarsene meno![17] (1997)
Pochissimo deve fidarsi l'uomo quando è giunto al sommo di ogni fortuna. (2006)
Bisogna fidarsi pochissimo di una grandissima fortuna.[18] (2011)
  • Chi sfacciatamente nega cose certe, merita meno perdono. (XXX, 42; 2006)
[I]mpudenter certa negantibus difficilior venia.
  • È raro che agli uomini vengano concessi, nello stesso momento, successo e lungimiranza. (XXX, 42; 1997)
[R]aro simul hominibus bonam fortunam bonamque mentem dari.
  • Non sarà mai vinto colui che saprà essere saggio e valutare a fondo le cose anche nei momenti di euforia. (XXX, 42; 1997)
[E]o invictum esse quod in secundis rebus sapere et consulere meminerit.
  • Coloro ai quali per la prima volta arride il successo impazziscono perché non sanno padroneggiare la loro gioia. (XXX, 42; 1997)
[E]x insolentia quibus nova bona fortuna sit impotentes laetitiae insanire.
  • Delle sventure pubbliche ci accorgiamo solo quando coinvolgono gli interessi privati: nulla in esse ci tocca più profondamente che la perdita del nostro denaro. (Annibale: XXX, 44; 1997)
Sed tantum nimirum ex publicis malis sentimus quantum ad privatas res pertinet, nec in iis quicquam acrius quam pecuniae damnum stimulat.

Libro XXXI – Libro XL

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Nihil tam incertum nec tam inaestimabile est quam animi multitudinis.
  • Tutte le cose, come capita molto spesso, sono più facili a dirsi che a farsi. (XXXI, 38; 1997)
Id dictu quam re, ut pleraque, facilius erat.
  • L'onore deve essere pari al merito. (XXXIII, 22; 2006)
Par honos in dispari merito esse non debet.
Unam tollendo legem ceteras infirmetis.
  • Nessuna legge è ugualmente vantaggiosa per tutti: bisogna piuttosto chiedersi se fa gli interessi della maggioranza e da un punto di vista generale. (Marco Porcio Catone: XXXIV, 3; 1997)
Nulla lex satis commoda omnibus est: id modo quaeritur, si maiori parti et in summam prodest.
  • [D]iversisque duobus vitiis, avaritia et luxuria, civitatem laborare, quae pestes omnia magna imperia everterunt. (Marco Porcio Catone: XXXIV, 4)
La città è afflitta da due vizi tra loro opposti, l'avarizia e il lusso, rovinosi malanni che hanno fatto crollare tutti i grandi imperi.[19] (1997)
La città è travagliata da questi due vizi: l'avarizia e la lussuria; e queste pesti hanno rovinato tutte le grandi cose dell'impero. (2006)
  • La peggiore delle vergogne è quella della parsimonia e della povertà. (Marco Porcio Catone: XXXIV, 4; 2006)
Pessimus quidem pudor est vel parsimonia vel paupertatis.
  • Come, un uomo malvagio è più sicuro imputarlo che assolverlo, così, il lusso sarebbe più tollerabile trattenerlo piuttosto che lasciarlo libero, come succede ad un animale indomabile, eccitato proprio dai vincoli, lasciato libero. (Marco Porcio Catone: XXXIV, 4; 1997)
Et hominem improbum non accusari tutius est quam absolvi, et luxuria non mota tolerabilior esset quam erit nunc, ipsis vinculis sicut ferae bestiae inritata, deinde emissa.
  • L'eleganza, i monili, le acconciature sono i simboli peculiari delle donne, di questi gioiscono e si vantano. (Lucio Valerio: XXXIV, 7; 1997)
Munditiae et ornatus et cultus, haec feminarum insignia sunt, his gaudent et gloriantur.
Bellum inquit se ipsum alet.
  • Spesso, e soprattutto in guerra, le cose fittizie valgono quanto le cose reali e chi crede di poter far affidamento su qualche aiuto, proprio come se davvero ne disponesse, si salva grazie al morale che ricava dalla speranza e dalla voglia di osare. (XXXIV, 12; 1997)
[S]aepe vana pro veris, maxime in bello, valuisse et credentem se aliquid auxilii habere, perinde atque haberet, ipsa fiducia et sperando atque audendo servatum.
  • La cosa più onorevole, così come la cosa più sicura, è quella di affidarsi interamente al valore. (Marco Porcio Catone: XXXIV, 14; 1997)
[Q]uod pulcherrimum, idem tutissimum: in virtute spem positam habere.
<Ex> factis, non ex dictis amicos pensent.
  • La libertà impiegata con senso di misura reca giovamento ai singoli cittadini e alle intere cittadinanze; quando invece è eccessiva reca disagio agli altri ed è rovinosa per chi la possiede perché non conosce limiti. (Tito Quinzio Flaminino: XXXIV, 49; 1997)
Libertate modice utantur: temperatam eam salubrem et singulis et civitatibus esse, nimiam et aliis gravem et ipsis qui habeant praecipitem et effrenatam esse.
  • Contro individui concordi, anche la potenza dei re s'infrange: ma la discordia e la sedizione offrono infiniti vantaggi agli avversari. (Tito Quinzio Flaminino: XXXIV, 49; 2006)
Adversus consentientes nec regem quemquam satis validum nec tyrannum fore: discordiam et seditionem omnia opportuna insidiantibus faciunt.
  • I grandi uomini al centro dell'attenzione generale sono meno temuti a causa di un certo senso di saturazione. (XXXV, 10; 1997)
In oculis hominum fuerat, quae res minus verendos magnos homines ipsa satietate facit.
  • Lo Stato da solo è libero di poggiare sulle sue forze, e non dipende dalla volontà arbitraria di un altro. (Menippo: XXXV, 32; 2010)
Ea autem in libertate posita est quae suis stat viribus, non ex alieno arbitrio pendet.
  • Le decisioni impetuose e audaci in un primo momento riempiono di entusiasmo, ma poi sono difficili a seguirsi e disastrose nei risultati. (XXXV, 32; 1997)
[C]onsilia calida et audacia prima specie laeta, tractatu dura, eventu tristia esse.
  • Con l'abitudine, il lavoro appare più leggero. (XXXV, 35; 2006)
Consuetudine levior est labor.
  • Il bene comune è la grande catena che lega insieme gli uomini nella società. (Annibale: XXXVI, 7; 2006)
[C]ommunis utilitas, quae societatis maximum vinculum est.
  • Tutto ciò che nasce nella sua sede originaria è più genuino: trapiantato su un terreno che non gli è proprio, è costretto a degenerare perché la sua natura deve diventare simile a ciò da cui trae nutrimento. (XXXVIII, 17; 1997)
<Est> generosius, in sua quidquid sede gignitur; insitum alienae terrae in id, quo alitur, natura vertente se, degenerat.
  • L'invidia è cieca, né altro sa fare che sminuire il valore altrui, corrompendo gli onori ed i meriti che uno si merita. (Gneo Manlio Vulsone: XXXVIII, 49; 2006)
Caeca invidia est nec quicquam aliud scit quam detractare virtutes, corrumpere honores ac praemia earum.
Clarirum virorum senectus, inviolata et tuta sit.
  • Quella che prima era solo una forma di servizio, cominciò ad essere considerata un'arte.[20] (XXXIX, 6; 1997)
Quod ministerium fuerat, ars haberi coepta.
Nihil enim in speciem fallacius est quam prava religio. Ubi deorum numen praetenditur sceleribus.
  • [Filippo V, Re di Macedonia] in un empito di furore, aggiunse che ancora non era calato il sole di tutti i giorni. (XXXIX, 26; 1997)
Elatus deinde ira adiecit nondum omnium dierum solem occidisse.
  • In Catone tanto più forti erano l'animo e l'indole che appariva chiaro come, qualunque fosse stato il suo rango sociale, si sarebbe costruito da solo la sua fortuna. (XXXIX, 40; 1997)
In hoc viro tanta vis animi ingeniique fuit, ut quocumque loco natus esset, fortunam sibi ipse facturus fuisse videretur.
  • Catone ebbe un ingegno tanto versatile e tanto adattabile ad ogni situazione che, qualunque fosse il settore in cui era impegnato, si sarebbe detto che fosse nato proprio per esercitare quell'unica attività. (XXXIX, 40; 1997)
[H]uic versatile ingenium sic pariter ad omnia fuit, ut natum ad id unum diceres, quodcumque ageret.
Vulgatum illud, quia verum erat, in proverbium venit, amicitias immortales, <mortales> inimicitias debere esse.

Libro XLI – Libro CXL

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  • Si diceva che caratterizzava l'uomo saggio e dunque giustamente fortunato il comportarsi con senso della misura nelle situazioni favorevoli senza fidarsi troppo di una momentanea tranquillità. (XLII, 62; 1997)
Modum inponere secundis rebus nec nimis credere serenitati praesentis fortunae, prudentis hominis et merito felicis esse.
  • L'inganno viene alla luce da solo nonostante tutte le cautele adottate agli inizi. (XLIV, 15; 1997)
Ipsam se fraudem, etiamsi initio cautior fuerit.
  • Quiriti, io non sono di quelli che pensano che ai comandanti non si debbano rivolgere dei consigli: anzi, quello che agisce soltanto sulla base della sua opinione, lo giudico arrogante e non certo avveduto.[22] (Lucio Emilio Paolo Macedonico: XLIV, 22; 1997)
Non sum is, Quirites, qui non existumem admonendos duces esse: immo eum, qui de sua unius sententia omnia gerat, superbum iudico magis quam sapientem.
  • Quando la situazione è a noi favorevole, non si deve agire contro qualcuno con arroganza o violenza.[23][24] (Lucio Emilio Paolo Macedonico: XLV, 8; 1997)
Ideo in secundis rebus nihil in quemquam superbe ac violenter consulere decet.
  • Non ci si deve fidare troppo della buona sorte del momento perché non siamo tranquilli nemmeno su quello che ci può recare la sera.[24] (Lucio Emilio Paolo Macedonico: XLV, 8; 1997)
[N]ec praesenti credere fortunae, cum, quid vesper ferat, incertum sit.
  • Uomo sarà colui che non si lascerà né trasportare dal soffio della buona fortuna né schiantare da quello della avversa.[25][24] (Lucio Emilio Paolo Macedonico: XLV, 8; 1997)
Is demum vir erit, cuius animum neque prosperae <res> flatu suo efferent nec adversae infringent.
 
Il famoso ma anche contestato trionfo di Lucio Emilio Paolo Macedonico
  • I popoli, come gli individui, hanno particolari inclinazioni: alcuni sono portati all'ira, altri all'audacia, altri alla viltà. (Astimede[26]: XLV, 23; 1997)
Tam civitatium quam singulorum hominum mores sunt: gentes quoque aliae iracundae, aliae audaces, quaedam timidae.
  • L'arroganza si limita solo alle parole. (Astimede: XLV, 23; 1997)
Superbiam, verborum praesertim.
  • Riguardo all'arroganza, i violenti la soffrono, ma i saggi la deridono. (Astimede: XLV, 23; 1997)
Superbiam [...], iracundi oderunt, prudentes inrident.
  • L'uso corregge nelle loro mancanze le leggi scritte. (XLV, 32; 2006)
Legum corrector usus.
  • I mediocri non sono mai fatti oggetto di odio perché l'odio mira in alto.[27] (XLV, 35; 1997)
Intacta invidia media sunt: ad summa ferme tendit.
[C]um ex summo retro volui fortuna consuesset.
  • Sono i cuori di chi ha ricevuto un beneficio, il forziere più prezioso.[28][29] (XLV, 42; 1997)
Beneficia gratuita esse populi Romani; pretium eorum malle relinquere in accipientium animis quam praesens exigere.
  • Certamente nemmeno il destinatario di un dono può esserne soddisfatto se chi lo concede sa di poterlo riprendere quando vuole. (XLV, 44; 1997)
Ne cui detur quidem, gratum esse donum posse, quod eum, qui det, ubi velit, ablaturum esse sciat.
  • I funerali dei grandi uomini erano resi splendidi, non dalle spese sostenute, ma dalla esibizione delle immagini degli antenati.[30] (sommario del libro XLVIII; 1997)
[I]maginum specie, non sumptibus nobilitari magnorum virorum funera solere.
  • Tutti quelli che prestavano servizio in Africa erano fantasmi svolazzanti e solo Scipione era fatto di carne ed ossa. (sommario del libro XLIX; 1997)
[R]eliquos, qui in Africa militarent, umbras volitare, Scipionem vigere.
  • [Masinissa, re di Numidia] dimostrò di esser così vigoroso nella pratica amorosa che generò un figlio a ottantasei anni compiuti.[31] (sommario del libro L; 1997)
Masinissa [...], adeo etiam Veneris usu in senecta viguit, ut post sextum et octogesimum annum filium genuerit.
  • Publio Cornelio Scipione venne soprannominato, per scherno, Serapione [dal tribuno della plebe Gaio Curiazio]. (sommario del libro LV; 1997)
P. Cornelio Nasica, cui cognomen Serapion fuit ab inridente Curiatio tribuno plebis impositum.
  • Resta, Mancino![32] (sommario del libro LV; 1997)
Mane, Mancine.
  • Publio Cornelio Scipione Emiliano ridiede all'esercito una rigorossima disciplina militare, scacciando dal campo 2000 prostitute. (sommario del libro LVI; 1997)
Scipio Africanus [...] obsedit [...] exercitum ad severissimam militiae disciplinan [...], duo milia scortorum a castris eiecit.
Cum gladio te vallare scieris, vallum ferre desinito.
  • [Roma] Città in vendita, andrai presto in rovina, se si troverà uno in grado di comperarti![34] (Giugurta: sommario del libro LXIV; 1997)
O urbem venalem et cito perituram, si emptorem invenerit.

Frammenti

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Cicerone denuncia Catilina
  • Pirro, irripetibile stratega, fu più bravo a vincere una battaglia che la guerra. (libro XII; 1997)
Ni Pyrrhus unicus pugnandi artifex magisque in proelio quam bello bonus. (citato in Servio, Commentarii in Vergilii Aeneidos libros, I, 456)
Vicit [...], felicitatem tuam mea fortuna. (citato in Commenta Bernensia ad Lucani Pharsaliam, VIII, 91)
  • [Riferendosi a Catone] Alla sua gloria nessuno portò giovamento con le sue lodi, né nocumento con le sue accuse.[36] (libro CXIV; 1997)
Cuius gloriae neque profuit quisquam laudando nec vituperando nocuit. (citato in Girolamo, Commentarium in Oseam, Prefazione, III)
  • Che io muoia nella patria che tante volte ho salvato![37] (Cicerone: libro CXX; 1997)
Moriar in patria saepe servata. (citato in Seneca il Retore, Suasoriae, VI, 17)
  • [Riferendosi a Cicerone] Il capo reciso fu posto da Antonio proprio in quel luogo [i Rostri] dove aveva parlato in quello stesso anno contro di lui.[38] (libro CXX; 1997)
Ita relatum caput ad Antonium [...] ubi ille, ubi eo ipso anno adversus Antonium. (citato in Seneca il Retore, Suasoriae, VI, 17)
  • [Riferendosi a Cicerone] La sua eloquenza era stata tanto degna di ammirazione quanto mai era accaduto a voce umana! (libro CXX; 1997)
[Q]uanta nulla umquam umana vox, cum admiratione eloquentiae auditus fuerat. (citato in Seneca il Retore, Suasoriae, VI, 17)
  • [Riferendosi a Cicerone] Il suo ingegno gli propiziò abbondanza di opere e di riconoscimenti.[39] (libro CXX; 1997)
Ingenium et operibus et praemiis operum felix. (citato in Seneca il Retore, Suasoriae, VI, 22)
  • Chiunque tu sia, sarai dei nostri.[40] (di incerta collocazione; 1997)
Quisquis es, noster eris. (citato in Servio, Commentarii in Vergilii Aeneidos libros, II, 148)

Citazioni su Tito Livio

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  • A Livio interessa soprattutto tenere continuamente il lettore col fiato sospeso e con agitazione d'animo, non far sorgere mai in lui la sazietà. A questo scopo tende un certo carattere variopinto e una certa irrequietezza della lingua, e soprattutto la scelta del materiale. Livio non riprende affatto ciecamente quello che gli offrivano le sue fonti, ma sceglie quello che può essere utile per i suoi scopi artistici. Certo, la cornice annalistica, con la secca elencazione delle magistrature, dei prodigi e così via, era assai scomoda, ma si poteva fare anche qui di necessità virtù e dare il benvenuto a queste notizie, come se fossero piacevoli interruzioni di avvenimenti bellici o altri [...]. Il complesso dell'esposizione acquista con ciò qualcosa di asistematico, poiché le fila non vengono tirate sempre nello stesso modo e si trovano inserite delle notizie che non erano state preparate da altre precedenti né sono poi proseguite nel contesto ma appaiono come dei massi erratici. (Wilhelm Kroll)
  • Autore fra i più illustri per eloquenza e per attendibilità, esaltò con tanto entusiasmo Pompeo che Augusto lo chiamava Pompeiano. (Publio Cornelio Tacito)
  • Certo, Livio è storico artista, ma non si può, in base a questa formula, vedere in ogni mutamento rispetto al testo polibiano un mutamento fatto per fini esclusivamente stilistico-letterari. A volte la veste letteraria non è solo fine ma anche mezzo per valorizzare un fatto a danno di un altro, taciuto o piegato a illustrare un esempio di più alta moralità.
    Livio sottopone l'opera di Polibio – nelle parti, naturalmente, che gli sono fonte diretta – a un generale e minuto processo di elaborazione che, andando al di là della traduzione come trasposizione linguistica, rispecchia profondamente le diversità di storia, di civiltà e di cultura del mondo greco e di quello romano. Ogni vera traduzione – si dirà – comporta una tale trasformazione. (Emilio Pianezzola)
  • Dice Tito Livio [...] che tutti insieme sono gagliardi, e, quando ciascuno poi comincia a pensare al proprio pericolo, diventa vile e debole. (Niccolò Machiavelli)
  • E in Tito Livio, scrittore meravigliosamene fluido, Asinio Pollione pensa che ci sia una certa dose di «patavinità». Perciò, se possibile, sia le parole tutte che la pronuncia odorino di uno che è cresciuto in questa città, di modo che il linguaggio sembri senz'altro romano, e non beneficato dalla concessione della cittadinanza. [...] (Marco Fabio Quintiliano)
  • Erodoto è artista, ma Tito Livio vuol fare l'arte, si direbbe con modo francese. È assai ordinaria la tendenza a volere coprire un mondo passato con una forma artistica studiata e preconcetta. Livio vuole scrivere secondo i precetti di Cicerone, e collegare la rettorica con la Storia. Onde alla semplicità di Erodoto succede la magniloquenza di Livio, come all'Epopea spontanea di Omero quella riflessa di Virgilio. (Nicola Marselli)
  • Fa' ancora il nome di Tito Livio: ha, infatti, scritto anche dei dialoghi che si possono annoverare tra le opere di filosofia così come tra quelle di storia, e dei libri di argomento espressamente filosofico: cedo il passo anche a lui. (Lucio Anneo Seneca)
  • L'unico grande prosatore dell'età di Augusto, Tito Livio [...], è l'unico letterato che faccia realmente degli ideali della romanità il centro della sua arte. Egli è mosso a scrivere la storia di Roma dall'amore per le tradizioni e le istituzioni della repubblica; le sue idealità repubblicane non gli impediscono di condividere pienamente il programma augusteo di restaurazione morale e religiosa. È soprattutto a Livio che si deve l'idealizzazione dell'antica storia di Roma e dei suoi personaggi come modelli delle virtù morali e politiche. (Luciano Perelli)
  • La storia di Livio è opera piena di begli esempi, piena di patriottismo e d'idealità. Ma se è una grande opera dal lato morale, è essa grande pure dal lato scientifico? Applicò Livio scrivendo le esatte norme dell'arte critica per sceverare il vero dal falso? Che Livio fosse animato da un amore disinteressato della verità, e che dove conobbe il vero l'abbia senza reticenze significato, è indubitabile; ma che egli possedesse l'arte di investigare la verità storica, consultando documenti sottoponendo a severa disamina le fonti di cui si serviva, comparando le diverse testimonianze, questo non si può dire. (Felice Ramorino)
  • Le vicende, liete e dolorose, dell'antico popolo romano furono tramandate da illustri scrittori e a narrare dei tempi di Augusto non mancarono splendidi ingegni. (Publio Cornelio Tacito)
  • Livio guarda al passato per poter distoglier lo sguardo dai mali che la sua epoca ha vissuto: le guerre civili, certo; ma egli estende il suo pessimismo e il suo scetticismo anche all'età presente e ai remedia messi in atto dal nuovo regime. All'idealizzazione del passato si affiancano una visione tipicamente etica della storia e una palese finalità di fornire ai lettori, attraverso la rassegna degli uomini e delle virtù che costruirono la potenza romana, una storia esemplare per l'edificazione morale e civile, per la formazione etico-politica dei cittadini. (Emilio Pianezzola)
  • Livio rappresenta drammaticamente gli avvenimenti, e, come un regista, egli inquadra la scena e guida i personaggi, fa parlare le cose come fa parlare i personaggi mediante i discorsi. (Emilio Pianezzola)
  • Negli stessi anni in cui Virgilio compone il poema destinato ad esaltare i valori tradizionali del popolo romano, Livio – secondo una felice definizione di Syme – scrive il corrispondente in prosa dell'epopea virgiliana, ponendo l'accento sull'esaltazione della Roma antica: chiaro è il suo intento di dimostrare che costumi, tradizioni ed istituzioni antiche rappresentano il fondamento dell'impero e il presupposto necessario per il suo sviluppo e per la sua sopravvivenza; e come Virgilio si sofferma con nostalgia sui costumi semplici delle antiche stirpi italiche, così Livio innalza le figure dei Romani delle origini a simbolo della potenza romana e dei suoi valori essenziali. [...] È possibile, dunque, prospettare l'ipotesi che l'impiego costante di arcaismi da parte di Livio non sia semplicemente il frutto di una concessione al gusto di alcuni poeti contemporanei o un omaggio allo stile di Sallustio, ma il risultato di una precisa e costante scelta ideologica. (Paolo Fedeli)
  • Non esiterei a contrapporre Sallustio a Tucidide, né Erodoto potrebbe avere a sdegno che gli sia paragonato Tito Livio, che non solo è scrittore meravigliosamente piacevole e di luminosissima eleganza, ma anche si esprime, nei discorsi, con una efficacia e dignità superiori ad ogni descrizione, cosicché tutto quel che è detto è adatto sia alle situazioni sia ai personaggi: per dirla in breve, quanto agli affetti, e particolarmente quelli più miti, nessuno degli storici ha saputo renderli in modo più appropriato. Per questo egli ha uguagliato con pregi diversi la divina efficacia di Sallustio. (Marco Fabio Quintiliano)
  • Non hai mai letto di quel tale di Cadice, che, mosso dalla rinomanza e dalla reputazione di Tito Livio, venne dall'ultimo confin della terra per vederlo? (Plinio il Giovane)
  • Non vi è prova che egli considerasse la storia dei re più autentica di quanto la ritenesse Cicerone. Ma doveva narrarla. Abbandonando la leggenda, egli si tuffa nel romanzesco, senza avere la capacità di farne emergere i fatti certi. E sebbene nei libri seguenti Livio si muova su basi più sicure (e la guerra annibalica gli sia congeniale), egli è tradito dalla specifica ignoranza della politica e della vita militare, dalla mancanza di principî critici, e, soprattutto, dall'incapacità di dare forma e struttura al materiale.
    Forse il meglio è andato perso. (Ronald Syme)
  • [Sulle letture adatte ai giovani] Nulla dico di Tito Livio: il suo turno verrà; ma è politico, è oratorio, è tutto ciò che meno si addice a quest'età. (Jean-Jacques Rousseau)
  • Se Livio non vede che Roma è perché egli è del tutto legato agli schemi della storiografia romana che, in contrasto con quella greca, ha un interesse esclusivo e profondo per le vicende del proprio popolo e che dalle sue origini fino al suo declinare non è e non vuole essere se non la storia del popolo e dello Stato romano. (Gaetano De Sanctis)
  • Se ne sta pigiata in queste strette pergamene l'enorme opera di Livio, quella che, a contenerla tutta intera, non basta la mia biblioteca. (Marziale)
  • Sull'esattezza di quel che Livio riferisce facciamo le nostre riserve, specie là dov'egli mette in bocca ai suoi personaggi interi discorsi che somigliano più a Livio che a loro. La sua è una storia di eroi, un immenso affresco a episodi, e serve più a esaltare il lettore che a informarlo. Roma, a dargli retta, sarebbe stata popolata soltanto, come l'Italia di Mussolini, da guerrieri e navigatori assolutamente disinteressati, che conquistarono il mondo per migliorarlo e moralizzarlo. Gli uomini, secondo lui, sono divisi in buoni e cattivi. A Roma c'erano solamente i buoni, e fuori di Roma solamente i cattivi. Anche un grande generale come Annibale diventa, sotto la sua penna, un comune mariuolo.
    Ciò non toglie che la storia di Livio, costata cinquant'anni di fatiche a un autore che si dedicò soltanto ad essa, resti un gran monumento letterario. Forse il più grande fra quelli, piuttosto mediocri, eretti sotto il segno di Augusto. (Indro Montanelli)
  • Tito Livio descrive l'ambiente fisico soltanto per spiegare le emozioni morali; solo avendo di mira l'anima, osserva il corpo. (Hippolyte Taine)
  • Il più grande, anzi l'unico grande prosatore dell'età Augustea è Tito Livio; e grande è sopratutto per qualità che si potrebbero dire poetiche.
  • In Livio era profonda la convinzione che la grandezza di Roma era per volere degli dei e frutto della grande religiosità dei Romani (cum rerum humanarum maximum momentum sit, quam propitiis quam adversis agant diis); nella pietas vede e ammira uno degli elementi più importanti del carattere romano.
  • Livio [...] non tanto si propone di procurare a' suoi concittadini una più completa ed esatta cognizione scientifica della loro storia, quanto di scuotere e commuovere gli animi loro nella contemplazione del valore, della magnanimità, della giustizia, della religiosità degli avi. Questa dignità morale e religiosa della storia è per lui la cosa importante; e come l'animo suo nobile e schietto era tutto compreso di questo sentimento, così l'alto ingegno, una fantasia come di poeta, la virtù d'un'eloquenza che la scuola aveva acuita e affinata senza renderla artificiosa, facevano di lui il vero artista atto a comunicare agli altri il calore de' suoi affetti e il suo entusiasmo.
  1. Dopo il ratto delle Sabine, nelle popolazioni sabine si accende l'ira per il rapimento di queste. Vengono a battaglia per lo sdegno ma perdono e dimostrano che senza forza l'ira non serve.
  2. La citazione proposta, nel tempo, è diventata la concezione che il popolo degli antichi romani aveva di sé. (2011)
  3. Mentre i tribuni istigavano la plebe già inferocita di per sé contro la nobiltà cittadina, queste lotte fra patrizi e plebei cessarono di fronte ad un pericolo condiviso da entrambi: la guerra.
  4. Il popolo di Roma aveva bisogno di riforme e di concessioni da parte dei patrizi, non di una guerra.
  5. I patrizi aizzavano la folla dicendo che i tribuni della plebe avrebbero sempre più voluto potere, già a partire da questa legge. Perciò bisognava affrontare, meglio tardi che mai la sfrontatezza di quelli.
  6. a b Nel tempo l'espressione è stata poi ripetuta da Quintinio Sella nel 1870 riguardo a Roma Capitale ed è stata utilizzata da D'Annunzio riguardo all'impresa di Fiume. (2011)
  7. Quinzio Cincinnato in occasione della sua difesa, dopo essersi auto-deposto dalla carica di dittatore a causa delle accuse dei tribuni della plebe.
  8. Si usa nei momenti di difficoltà ed è sinonimo di "la situazione è critica".
  9. L'espressione «La fortuna aiuta gli audaci», utilizzata da Livio anche in un altro passo dell'opera (XXXIV, 37), si trova in molti autori latini, soprattutto in Terenzio Phorm. 1, 4, 25 (203); cfr. Cicerone Tusc. 2, 4, 11. Cfr. anche Publio Virgilio Marone.
  10. Questa frase la si ritrova anche nelle forme modificate: Absit iniuria verbis o anche Absit injuria verbis ("sia lontana l'ingiuria dalle parole"), non riscontrate nell'opera dello storico, e da ritenersi quindi attribuite.
  11. Questo qui espresso è il principio fondamentale delle istituzioni romane. Tutte le cariche erano collegiali, dai consoli alle magistrature minori, poiché c'era la convinzione che una gestione di questo tipo potesse allontanare il pericolo di una tirannide. (2011)
  12. Rispondendo al giovane Spurio Papirio, figlio di suo fratello.
  13. Si dice per lunghe discussioni che portano a indugi, invece che a rapide azioni.
  14. a b c d È Quinto Fabio Massimo che parla a Lucio Emilio, presagendo la sconfitta di Canne per il carattere antitetico dell'altro console. Quinto Fabio dopo aver sfiancato Annibale con la sua tattica, si è meritato il soprannome di Temporeggiatore.
  15. Disprezzare la gloria e quindi essere modesti è un presupposto indispensabile per raggiungerla. Inoltre chi agirà in questa maniera conserverà l'animo e il pensiero sempre libero. (2011)
  16. Sono le parole che il comandante cartaginese Maarbale rivolge ad Annibale dopo avergli inutilmente consigliato di mettere a frutto la vittoria di Canne, marciando subito verso Roma per assediarla. (2011)
  17. a b c d e Queste parole sono di Annibale che parla con Scipione, nel celebre ampio discorso tra i due massimi comandanti dell'epoca e di quella che li aveva preceduti, dopo la sconfitta dei Cartaginesi nella battaglia presso Zama.
  18. Aforisma imparentato con: "Chi sale più in alto, cade più rovinosamente." (2011)
  19. La frase si inserisce direttamente nel discorso della citazione precedente. Qui Catone ricorda a tutti che lui ha sempre criticato la lussuria e l'avarizia; quindi come mai alle donne si vuole concedere?
  20. Ci si riferisce alla cucina e all'arte culinaria dei cuochi che nel periodo di contatto con la cultura mediterranea prende avvio.
  21. Ci si riferisce ai riti dei Baccanali.
  22. Le parole di Lucio Emilio Paolo si rifanno ad un'affermazione di Quinto Fabio Massimo, il Temporeggiatore, che preferì una diminuzione del suo potere piuttosto che servire male lo Stato.
  23. Dopo una vittoria non si deve infierire violentemente sul nemico, ma – secondo il concetto di clemenza – si deve cercare di tendere alla pace.
  24. a b c Questa espressione ha la funzione di exemplum, cioè di una "morale" riguardo la guerra.
  25. Il senso è che: uomo sarà colui il quale saprà approfittare delle occasioni con moderazione e sarà allo stesso tempo accorto nelle situazioni improvvise.
  26. Capo di una delegazione rodiese a Roma.
  27. La riflessione è stata scritta da Livio riguardo al ritorno dal console Lucio Emilio Paolo dalla vittoriosa guerra macedonica contro Perseo. Infatti i tribuni della plebe, ma anche i senatori stessi, fecero a pezzi l'immagine del console defraudandolo, in un primo tempo, dell'onore della vittoria. Il comandante veniva accusato di aver impartito troppo duramente la disciplina militare. In questo senso l'odio mira alle persone di una certa importanza, infatti avendo esse più risonanza delle altre, sono per alcuni motivo d'odio.
  28. Nel contesto la frase è seguita da "la restituzione avverrà in termini di stima e gratitudine" che fa comprendere meglio il senso dell'espressione. Letteralmente in latino la frase significa: "I benefici, il popolo romano li elargiva senza contropartita e preferiva riporre il prezzo del riscatto nell'animo dei beneficiati piuttosto che convertirlo in denaro contante."
  29. L'espressione è usata in risposta al re Coti che per ingraziarsi il Senato romano gli promette donativi. Ma il Senato, ancora per la maggior parte onesto, risponde in questo modo per far capire anche ad altri regnanti che l'alleanza con Roma non si può comprare, ma che si acquista aiutandola nei momenti difficili; di conseguenza il favore di Roma si ottiene con i fatti.
  30. Il redattore della periocha ci riferisce che Livio ci informa sulle abitudini della Roma Repubblicana.
  31. Alla sua morte all'età di circa 90 anni, il re si lascia dietro una folla di pretendenti al trono.
  32. Parole pronunciate dagli dèi che preannunciavano al console Gaio Ostilio Mancino, mentre si imbarcava per la Spagna, la sua salvezza e allo stesso tempo il suo futuro tenebroso; egli venne sconfitto ed esiliato da Roma.
  33. Frase proverbiale rivolta ai soldati che procedevano con i paletti per la costruzione, a fatica sotto questo peso. L'espressione sta a significare sia che la difesa può non occorrere se dotati di buon attacco, ma anche che non ci si deve rinchiudere per paura o fiacchezza negli accampamenti sicuri, ma bisogna affrontare il nemico corpo a corpo.
  34. Vedasi anche Sallustio, che nel suo scritto La guerra di Giugurta, cap. XXXV, dice similmente Urbem venalem et mature perituram, si emptorem invenerit.
  35. Si tratta della famosa Cornelia che in questo caso si rivolge a Pompeo in questi toni, sintomo che nell'ambito delle famiglie dei principi la donna acquista maggior rilievo. L'espressione continuerebbe così: "Cosa pensavi, dunque, di ricevere dalla infausta casata dei Crassi, se non una diminuzione della tua grandezza?"
  36. Si riferisce a Cicerone e Cesare che cantarono accuse e lodi di Catone.
  37. Queste sono le ultime parole di Cicerone, che, vedendosi costretto a non poter fuggire, a causa del mare in tempesta, da Gaeta, viene colto dal desiderio di farla finita.
  38. Il capo è di Cicerone, che venne precedentemente sgozzato. Cicerone aveva pronunciato i suoi discorsi contro Antonio ai Rostri: le "Filippiche". Per punirlo Antonio gli fece tagliare oltre che il capo anche le mani, che vennero esposte proprio ai Rostri. La gente, per le lacrime, a fatica alzava gli occhi perché vedeva le sue membra mozzate.
  39. Viene citato sempre Cicerone. L'espressione fa eco a quest'altra sempre di Livio dedotta da Seneca il Retore: "Per ricordarne fino in fondo i titoli di merito ci sarebbe bisogno di uno capace di tessere elogi come Cicerone stesso."
  40. Si tratta di un'espressione o usata da un comandante per accogliere un disertore sotto la sua protezione o da un politico per accogliere un avversario nella sua cerchia. Allo stesso modo quando occorrono persone o voti è frequente l'uso di questa modo di dire.

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