Giosuè Carducci

poeta, scrittore e critico letterario italiano (1835-1907)
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Giosuè Alessandro Giuseppe Carducci (1835 – 1907), poeta italiano. Usò lo pseudonimo Enotrio Romano nelle sue opere giovanili.

Giosuè Carducci
Medaglia del Premio Nobel
Medaglia del Premio Nobel
Per la letteratura (1906)

Citazioni di Giosuè Carducci

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  • [Su Gabriele Rossetti, Il veggente in solitudine, novena seconda, II, IV-VI] A me non avvien mai di rileggere questi versi, che un brivido non mi prenda e non mi si inumidiscano gli occhi. Sento che è cotesto il solo stipendio che gli uomini possano dare al poeta; che è cotesta la sola consolazione alle fatiche ineffabili, ai patimenti non creduti di chi l'arte ama di amore. Beato quello fra voi, o giovani italiani, che potrà raggiungere cotesto premio; del quale a non pochi nobili ingegni negò la natura fin la speranza, fino il pensiero, fino la degna estimazione.[fonte 1]
  • [Riferendosi alla giovane poetessa Annie Vivanti] Annie, la tua pochezza mi riposa.[1]
  • Colui che potendo dire una cosa in dieci parole ne impiega dodici, io lo ritengo capace delle peggiori azioni.[fonte 2]
  • [Sullo Zibaldone] È una mole di 4526 facce lunghe e larghe mezzanamente, tutte vergate di man dell'autore, d'una scrittura spesso fitta, sempre compatta, eguale, accurata, corretta. Contengono un numero grandissimo di pensieri, appunti, ricordi, osservazioni, note, conversazioni e discussioni, per così dire, del giovine illustre con sé stesso su l'animo suo, la sua vita, le circostanze; a proposito delle sue letture e cognizioni; di filosofia, di letteratura, di politica; su l'uomo, su le nazioni, su l'universo; materia di considerazioni più ampia e variata che non sia la solenne tristezza delle operette morali; considerazioni poi liberissime e senza preoccupazioni, come di tale che scriveva giorno per giorno per sé stesso e non per gli altri, intento, se non a perfezionarsi, ad ammaestrarsi, a compiangersi, a istoriarsi. Per sé stesso notava e ricordava il Leopardi, non per il pubblico: ciò non per tanto gran conto ei doveva fare di questo suo ponderoso manoscritto, se vi lavorò attorno un indice amplissimo e minutissimo, anzi più indici, a somiglianza di quelli che i commentatori olandesi e tedeschi solevano apporre alle edizioni dei classici. Quasi ogni articolo di quella organica enciclopedia è segnato dell'anno del mese e del giorno in cui fu scritto, e tutta insieme va dal luglio del 1817 al 4 dicembre del 1832; ma il più è tra il '17 e il '27, cioè dei dieci anni della gioventù più feconda e operosa, se anche trista e dolente.[fonte 3]
  • [Inno di Goffredo Mameli] Fu composto l'otto settembre del quarantasette, all'occasione di un primo moto di Genova per le riforme e la guardia civica; e fu ben presto l'inno d'Italia, l'inno dell'unione e dell'indipendenza, che risonò per tutte le terre e in tutti i campi di battaglia della penisola nel 1848 e 49.[fonte 4]
  • Io sono e resto quale fui | e attendo la grande ora.[fonte 5]
  • l'arte e la letteratura sono l'emanazione morale della civiltà, la spirituale irradiazione dei popoli.[fonte 6]
  • Nel 1454 [Janus Pannonius] si tramutava a Padova a studiare diritto canonico quattro anni, e ne riportò i gradi accademici. Nel soggiorno veneto dee aver composto il panegirico a Giacomo Antonio Marcello, patrizio e provveditore nella guerra sostenuta dalla Repubblica con Filippo Maria Visconti (esam. 2870, distici 20): ne' quali versi è notevole la facilità del descrivere i particolari minuti e sottili delle marcie e i grandi e nuovi delle flotte trasportate su per i monti da un lago all'altro.[fonte 7]
  • Nella sua poesia [...] c'è molta facilità, ma vi si desidera tutto quello che fa la poesia vera. È un fatto per me oramai fermo: codesti meridionali, dal più al meno, recano nella poesia quella volubilità delle loro chiacchiere, che si devolve per lunghi meandri di versi sciolti o per cadenzati intrecciamenti di strofe senza una cura al mondo del pensiero. Il poeta napoletano tipo è il Marino. È inutile: i meridionali non sono poeti né artisti, non ostante tutte le apparenze: sono musici e filosofi. La poesia (anche questo parrà un paradosso) è delle genti più prosaiche e fredde della Toscana e del Settentrione.[fonte 8]
  • Sai che il Fogliame americano io l'ho tradotto a lettera tre volte con il mio maestro d'inglese, un italiano che scappò in America di 17 anni e ci è stato ventitré, e ha fatto il capitano al servizio della Repubblica nella guerra di secessione contro gli Stati del Sud? È una bestia, sempre ubriaco; ma sente e respira l'America; e non sa quasi nulla d'Italiano; me lo commentava facendo gesti e urli feroci. E mi venne subito la voglia di tradurlo in esametri omerici. Tutti quei nomi a catalogo! Quelle enumerazioni, successioni, quella serie di sentimenti straordinarie e vere! Io ne rimasi e ne sono rapito! Dopo i grandissimi poeti colossali, Omero, Shakespeare, Dante, ecc. ci sarà del più pensato, del più profondo, del più perfetto, ma nulla così immediato e originale.[fonte 9]
  • Non rampare di aquile e leoni, non sormontare di belve rapaci, nel santo vessillo; ma i colori della nostra primavera e del nostro paese, dal Cenisio all'Etna; le nevi delle Alpi, l'aprile delle valli, le fiamme dei vulcani.[fonte 10]
  • Non sa ella, signora Contessa, che Domineddio fece apposta il Lambrusco per annaffiare la carne dell'animale fausto ad Enea e caro ad Antonio abbate? E io, per glorificare Dio e benedire la sua provvidenza, mi fermai a Modena a lungo a meditare la Sapienza.[fonte 11]
  • Pastonchi? mai letto tanti brutti versi.[fonte 12]
  • Qui il paese è veramente bello, tale che fa intendere la Scuola umbra: che linee d'orizzonte, che digradante vaporoso di monti in lontananza! Fui ad Assisi: è una gran bella cosa, paese, città e santuario, per chi intende la natura e l'arte nei loro accordi con la storia, con la fantasia con gli affetti degli uomini. Sono tentato di far due o tre poesie su Assisi e San Francesco.[fonte 13]
  • Se già sotto l'ale | del nero cappello | nel vin Cromuello [Oliver Cromwell] | cercava il signor,[2]|| ne' colmi bicchieri | ricerco pur io | men fiero un iddio, | ricerco l'amor. (Da Brindisi in Levia gravia, XXV, vv. 1-8)
  • Sette anni fu alla scuola e al convitto del Guarino; e vi formò lo stile e il costume, quello caldo e abbondante, questo cordiale e sciolto. Ne fan testimonianza gli epigrammi (410, in due libri), per grandissima parte di argomento e sentimento italiani, scritti i più nella gioventù prima; la cui licenza, se bene sia da riferire al genere e al modello [...] e sia da credere che Giano ostenti in gara con lui sporcizia e villania, pure ci appar di soverchio candida la fede e l'attestazione di Vespasiano, per quanto s'intendeva de' suoi costumi, esser fama che Giovanni fosse vergine.[fonte 14]
  • Stamane ho cacciato a sassate un organetto che mi sonava sotto la finestra.[3]

A Satana

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A te, dell'essere
principio immenso,
materia e spirito,
ragione e senso;
mentre ne' calici
il vin scintilla
sì come l'anima
nella pupilla.

Citazioni

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  • Via l'aspersorio, | prete, e 'l tuo metro! | no, prete, Satana | non torna in dietro! (vv. 21-24)
  • Nella materia | che mai non dorme, | re dei fenomeni, | e delle forme, | sol vive Satana. (vv. 37-41)
  • E già già tremano | mitre e corone: | dal chiostro brontola | la ribellione, | e pugna e prèdica | sotto la stola | di fra' Girolamo | Savonarola. (vv. 153-160)
  • Gitta i tuoi vincoli, | uman pensiero, | e splendi e folgora | di fiamme cinto; | materia, inalzati: | Satana ha vinto. (vv. 163-168)

Salute, o Satana,
o ribellione,
o forza vindice
della ragione!
Sacri a te salgano
gl'incensi e i voti!
Hai vinto il Geova
de' sacerdoti.

Bozzetti e scherme

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  • Vignola è bella terra che giace un po' come Firenze (si licet con quel che segue), se non che ha più apertura e più sfondo, a piè dell'Appennino, tra bei colli e bei fiumi. Benedetta di ubertà e d'ingegno, produsse il Barozzi il Muratori e il Paradisi; e produce cavoli stupendi, a cui non ho veduto gli eguali nelle mostre agrarie d'Italia. Rammento i cavoli, e frutte vistosissime, e prosciutti molto promettenti; perché alla commemorazione delle glorie passate vollesi unire la dimostrazione del lavoro presente in una esposizione d'agricoltura e d'industria. E fu ottimo consiglio. L'Italia è stata troppo inebriata finora d'idealismo: per me un bel cavolo e ben coltivato è cosa molto più estetica di cinquecento canti della poesia odierna e di mille cento articoli della stampa anche di opposizione. (p. 104)
  • [Émile Littré] Uomo di tre anime lo avrebber chiamato gli antichi: noi nel totale meraviglioso del suo lavoro dobbiamo anche singolarmente ammirare la ramificazione logica delle ricerche, il progressivo abbarbicare degli studi, il sapiente indentamento delle molte ruote della sua operosità intellettuale in tanti congegni e tutti di effettiva utilità, e più ancora la perseveranza, la coerenza, la virtù, con le quali quel nobilissimo ingegno vide, segui, raggiunse l'unità finale. (pp. 301-302)
  • Il Barbier – discorriamo un po' di politica, se pure la politica quando passi per l'arte ha da chiamarsi ancora così –, non ostante i suoi entusiasmi per la grande populace, non era mica un dantoniano, e, tanto meno, un hebertista. Saltando su la restaurazione constituzionale e l'impero conquistatore, egli fermavasi, è vero, alla repubblica vittoriosa, giusta, costumata, illuminata, che fu l'ideale dei migliori di Francia per più anni dopo il '93. Ma egli, come tutti quasi i cresciuti dopo il '15, era inzuppato di quell'idealismo che avendo per gaz alimentatore il cristianesimo civile coronava il suo quieto e quasi lunare irraggiamento co 'l mistico alone del romanticismo liberale. (pp. 331-332)
  • Egli [Auguste Barbier] il poeta, traeva nella pubblica luce il quarto Stato e le sue piaghe, non per conscienza politica o previsione ch'egli avesse del prossimo avvenire; ma per un sentimento di benigna equità, direi quasi di carità, direi quasi di sdegno evangelico contro i godenti e i trionfanti del secolo; si spingeva fino al socialismo, ma all' ombra della croce. Simile in ciò a molti di quella nobile ma debole generazione romantica. (pp. 332-333)
  • La imagine della contessa Gozzadini a me piace ricercarla nell'amena solitudine di Ronzano più ancora che nel salottino pompeiano del suo palazzo di via Santo Stefano, ove pure lo spirito di lei scattava cosi luminoso dall'attrito della varia conversazione. Io amo ricollocarla lassù, tra quelle grandi querce, tra quei cipressi nella loro vecchiezza immobili quasi mète di secoli. Ella, che in gioventù dipinse il paesaggio, che era cresciuta in mezzo a' poeti, aveva della natura un sentimento e una percezione profonda, e sapeva farsene una rappresentazione affettuosa e prossima più che i paesisti e poeti italiani, troppo vagando sui colori e la superficie, non usino avere e rendere. (pp. 373-374)
  • Quando conobbi da prima la contessa Gozzadini, mi parve di ravvisare specialmente nelle linee degli angoli frontali i tratti del viso di Dante. Non lo dissi allora; ma un artista di poi mi notò con più franca asseveranza quello che a me era parso vedere: e ora leggo fatta la stessa osservazione da uno scienziato americano, e so che lo zio Serego offeriva una strana somiglianza co 'l ritratto dell'Alighieri. (p. 374)
  • La contessa Gozzadini avendo, oltre il nobil sentire, un singolar temperamento di facoltà vive fini ed argute, di ciò che sentiva e osservava s'era avvezza a rendersi ragione, facendosene un concetto suo ed esprimendolo con verità ferma e immediata. Non enfasi mai, ch'è indizio di anima debole e falsa: non sentimentalità, ch'è accusa d'anima debole e dura: un gran disprezzo della volgarità, vizio ormai comune in basso ed in alto: un ragionar fitto, serrato, giusto, con un guardarvi fiso e chiaro negli occhi, con lampi d'amori e di sdegni, e di quando in quando uno scatto o una scrollata di spalle, poetica, ghibellina. (p. 382)
  • [Maria Teresa Gozzadini] Leggeva Dante, e se ne recava seco il volume anche nelle ascensioni alpine; ma non lo teneva in mostra, né mai ne le udii far citazioni e sol una ne ho veduta nelle lettere. Grande amica dell'Aleardi, e pure non baciava mai le amiche, e non diceva angelo né anche alle bambine. Così forte uscì dalla fantastica morbidezza della società veronese, cosi schietta passò tra la compassata e liscia gravità bolognese: senza sforzi e atteggiamenti da originale, temperando la franchezza con una gran gentilezza signorile. (p. 382)
  • Se la poesia è e ha da essere arte, ciò che dicesi forma è e ha da essere della poesia almeno tre quarti. Un poeta che trascuri la forma non è un poeta: è uno che ha in grandissima stima sé stesso e in assai basso concetto il prossimo suo, co 'l quale in somma egli tratta cosi: – Vedi, tu devi leggere questa roba, non perché sia poesia, ma perché è la ebullizione del mio cervello e la secrezione del mio cuore: il qual cuore e il qual cervello sono gli organi privilegiati di quel grande idealista, di quel gran realista, di quel grande umorista, di quel bellissimo Endimione della natura che sono io –. (p. 420)
  • Egli [Guido Mazzoni] tradusse Meleagro e traduce Catullo con rara agevolezza e felicità, e ha insieme un debole per la letteratura moderna, specialmente francese. Così tra per la facilità dell'ingegno suo fiorentino e per lo snodamento, acquistato con la coltura e l'esercizio, delle facoltà e tendenze estetiche, egli sgomitola i versi e i metri più difficili che non par fatto suo, e le forme scabre e malagevoli ad altri gli sguisciano levigate e lucide dalla mano, e certe stranezze cercate paiono nel suo stile naturali. Ma a questa sua elegante facilità il Mazzoni, diciamolo sùbito, si lascia andare un po' troppo; e qualche volta dà per rappresentazione fantastica la fosforescenza della frase solleticata dal metro, e all'atteggiamento esterno non ha rispondente sempre un movimento interno dello spirito o un guizzo dell'idea. (pp. 420-421)

Ceneri e faville

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  • Ai giudizi dei nemici vuolsi avere sempre la debita osservanza. (serie prima, p. ii)
  • Fratelli, | per diverse terre le vostre ossa | per l'Italia tutta il nome, | ma la religione di voi è qui | e passa | di generazione in generazione | ammonendo | che scienza è libertà. (serie prima, p. 76)
  • [Parlando della regione Marche] Così benedetta da Dio di bellezza di varietà di ubertà, tra questo digradare di monti che difendono, tra questo distendersi di mari che abbracciano, tra questo sorgere di colli che salutano, tra questa apertura di valli che arridono. (dal discorso tenuto a Recanati il 29 giugno 1898 in occasione del 1° centenario della nascita di Giacomo Leopardi, serie terza e ultima; p. 26)
  • [...] verrà il giorno che il Severo e Clemente, liberatore della città, amatore del mondo, tribuno augusto Francesco Coccapieller, sfromboli giù per il Corso a furia di sferzinate il Parlamento italiano a correre il palio, ignudo. (serie terza e ultima; p. 261)

Confessioni e battaglie

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Serie prima

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  • È pure un vil facchinaggio quello di dovere o volere andar d'accordo co' molti! (p. 122)
  • [...] la letteratura che da due secoli ha dato e dà forme più logiche, più spigliate, più facili al pensiero moderno è senza dubbio la francese, e per la letteratura di Francia son passate e sonosi mescolate le diverse correnti del genio moderno [...]. (p. 167)
  • I giovini non possono generalmente esser critici; e, per due o tre che riescano, cento lasciano ai rovi della via i brandelli del loro ingegno o ne vengon fuori tutti inzaccherati di pedanteria e tutti irti le vesti di pugnitopi: la critica è per gli anni maturi. (p. 170)
  • [...] la repubblica, per me, è l'esplicazione storica e necessaria e l'assettamento morale della democrazia ne' suoi termini razionali: la repubblica, per me è il portato logico dell'umanesimo che pervade ormai tutte le istituzioni sociali. (p. 270)

Serie seconda

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  • L'arte, come la concepisco e come non arrivo a farla io, è cosa altamente e perfettamente [...] aristocratica. (p. 53)
  • [Su Francesco Giuseppe I d'Austria] Riprendemmo Roma al papa, riprenderemo Trieste all'imperatore. A questo imperatore degl'impiccati. (p. 209)
  • Guglielmo Oberdan | morto santamente per l'Italia | terrore ammonimento rimprovero | ai tiranni di fuori | ai vigliacchi di dentro. (epigramma; p. 223)

Della «Canzone di Legnano»

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IL PARLAMENTO
I.


Sta Federico imperatore in Como.
Ed ecco un messaggero entra in Milano
da Porta Nova a briglie abbandonate.
«Popolo di Milano,» ei passa e chiede,
«fatemi scorta al console Gherardo.»
Il consolo era in mezzo de la piazza,
e il messagger piegato in su l'arcione
parlò brevi parole e spronò via.
Allor fe' cenno il console Gherardo,
e squillaron le trombe a parlamento.

Citazioni

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  • Ed allora per tutto il parlamento | trascorse quasi un fremito di belve. (vv. 115-116)
  • Venne il dì nostro | (o milanesi), e vincere bisogna. (v. 122-123[fonte 15])

Giambi ed epodi

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No, non son morto. Dietro me cadavere
Lasciai la prima vita. Sopra i vólti
Che m'arrideano impallidîr le rose,
Moriro i sogni de la prima età.

Citazione

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  • Coraggio, amici. Se di vive fonti | córse, tócco dal santo, il balzo alpin[4] | a voi saggi ed industri i patrii monti | iscaturiscan di fumoso vin; || del vin ch'edúca il forte suolo amico | di ferro e zolfo con natia virtú: | co 'l quale io libo al padre Tebro antico, | al Tebro tolto al fin di servitù. (Agli amici della valle Tiberina, I, vv. 29-36)
  • Oh non per questo dal fatal di Quarto | lido il naviglio de i mille salpò, | né Rosolino Pilo aveva sparto | suo gentil sangue che vantava Angiò. (La Consulta araldica, XI, vv. 25-28[fonte 16])
  • Maledetta | sii tu, mia patria antica, | su cui l'onta de l'oggi e la vendetta | de i secoli s'abbica! (In morte di Giovanni Cairoli, XIII, vv. 117-120)
  • La nostra patria è vile. (In morte di Giovanni Cairoli, XIII, v. 132)
  • Impronta Italia domandava Roma, | Bisanzio essi le han dato. (Per Vincenzo Caldesi, XVIII, vv. 27-28)
  • [Giuseppe Mazzini] E un popol morto dietro a lui si mise. || Esule antico, al ciel mite e severo | leva ora il volto che giammai non rise, | — tu sol — pensando — o idëal, sei vero. (Giuseppe Mazzini, XXIII, vv. 11-14)
  • Ma voi siete cristiane, o Maddalene! | Foste da' preti a scuola. | Siete moderne! avete ne le vene | l'Aretino e il Loiola. (A proposito del processo Fadda[fonte 17], XXIX, vv. 45-48)
  • [Da Perugia] E il sol nel radiante azzurro immenso | fin de gli Abruzzi al biancheggiar lontano | folgora, e con desio d'amor più intenso | ride a' monti de l'Umbria e al verde piano. (Il canto dell'amore, XXX, vv. 37-40)
  • Da le vie, da le piazze gloriose, [dell'Umbria] | ove, come dal maggio ilare a i dì | boschi di querce e cespiti di rose, | la libera de' padri arte fiorì; [...]. (Il canto dell'amore, XXX, vv. 81-84)

Juvenilia

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Ah per te[5] Orazio prèdica al vento!
Del patrio carcere non sei contento,
la chiave abomini grata a i pudichi,
agogni a l'aere de' luoghi aprichi.
E dove, o misero, dove n'andrai.
Dove un ricovero trovar potrai,
o de' miei giovini lustri diletto,
o mio carissimo tenue libretto?

Citazioni

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  • [Vittorio Alfieri] O de l'italo agon supremo atleta | misurator, di questa setta imbelle, | che stranïata il sacro allòr ti svelle | che vuol la santa bile irrequïeta? || E a qual miri sai tu splendida meta | ed a che fin drizzato abbian le stelle | questa età che di ciance e di novelle | per quanto ingozzi e più e più si asseta? (Vittorio Alfieri, XLIII, vv. 1-8)
  • [Dante Alighieri] Forti sembianze di novella vita | circondar la tua cuna, | o re del canto che più alto mira. | Gentil virago ardita, | quale non vider mai le argive sponde | né le latine, e d'amor balda e d'ira, | te venìa la bella | toscana libertade; e il pargoletto | già magnanimo petto | ti confortava de la sua mammella. | Tutta accesa ne' raggi di sua sfera, | mite insieme ed austera, | venne la fede; e per un popoloso | di visioni e d'ombre oscuro lito | la porta ti mostrò dell'infinito. (Dante, LX, vv. 1-15)
  • Dimmi, triangoluzzo mio squadrato, | che al mondo se' degli animali rari, | furono prima i ciuchi o i somari? | e quel tuo capo è un circolo o un quadrato? || Anco: il cervel, se fior te n'è restato, | è isoscelo o scaleno o ha lati pari? | Se' tu l'ambasciador de' calendari, | o un parallelogrammo battezzato? (A un geometra, LXX, vv. 1-8)
  • Or chi pria leverà d'Italia il grido | spezzando il vario, infame, antico freno? | Di martiri e d'eroi famoso nido, | voi Modena e Bologna. Oh al dì sereno || di libertà cresciute, anime altere | tra i ceppi sanguinanti e gli egri esigli | e gli orrendi martòri in prigion nere, || voi ne' tedeschi e ne' papali artigli | chi più mai renderà, poi che un volere | raccoglie alfin de la gran madre i figli? (Modena e Bologna, XC, vv. 5-14)

Odi barbare

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Odio l'usata poesia: concede
comoda al vulgo i flosci fianchi e senza
palpiti sotto i consueti amplessi
stendesi e dorme.

A me la strofe vigile, balzante
co 'l plauso e 'l piede ritmico ne' cori:
per l'ala a volo io còlgola, si volge
ella e repugna.

Citazioni

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  • Lieta del fato Brescia raccoltemi, | Brescia la forte, Brescia la ferrea, | Brescia leonessa d'Italia | beverata nel sangue nemico. (Alla Vittoria, tra le rovine del tempio di Vespasiano in Brescia, libro I, vv. 37-40)
  • Salve, Umbria verde, e tu del puro fonte | nume Clitumno! (Alle fonti del Clitumno, libro I, vv. 25-26)
  • Roma, ne l'aer tuo lancio l'anima altera volante: | accogli, o Roma, e avvolgi l'anima mia di luce. (Roma, libro I, vv. 1-2)
  • Anch'ei, tra 'l dubbio giorno d'un gotico | tempio avvolgendosi, l'Alighier trepido | cercò l'immagine di Dio nel gemmeo | pallore d'una femina. (In una chiesa gotica, libro I, vv. 21-24)
  • Surge nel chiaro inverno la fosca turrita Bologna, | e il colle di sopra bianco di neve ride. (Nella piazza di San Petronio, libro I, vv. 1-2)
  • [...] quando Odoacre dinanzi a l'impeto | di Teodorico cesse, e tra l'èrulo | eccidio passavan sui carri | dritte e bionde le donne amàle || entro la bella Verona, odinici | carmi intonando: raccolta al vescovo | intorno, l'italica plebe | sporgea la croce supplice a' Goti. (Davanti il Castel Vecchio di Verona, libro I, vv. 5-12)
  • [Sul Lago di Garda] [...] una gran tazza argentea, || cui placido olivo per gli orli nitidi corre | misto a l'eterno lauro. (Sirmione, libro I, v. 4)
  • Breve ne l'onda placida avanzasi | striscia di sassi. Boschi di lauro | frondeggiano dietro spirando | effluvi e murmuri ne la sera. | [...] | Par che da questo nido pacifico | in picciol legno l'uom debba movere | secreto a colloqui d'amore | leni su zefiri, la sua donna | fisa guatando l'astro di Venere. (Scoglio di Quarto, libro I, vv. 1-4, 9-13)
  • Superba ardeva di lumi e cantici | nel mar morenti lontano Genova | al vespro lunare dal suo | arco marmoreo di palagi. (Scoglio di Quarto, libro I, vv. 29-32)
  • Fulgida e bionda ne l'adamantina | luce del serto tu passi. (Alla Regina d'Italia, libro I, vv. 29-30)
  • Già il mostro [la locomotiva a vapore], conscio di sua metallica | anima, sbuffa, crolla, ansa, i fiammei | occhi sbarra; immane pe 'l buio | gitta il fischio che sfida lo spazio. (Alla stazione in una mattina d'autunno, libro II, vv. 29-32)
  • Oh qual caduta di foglie, gelida, | continua, muta, greve, su l'anima! | io credo che solo, che eterno, | che per tutto nel mondo è novembre. (Alla stazione in una mattina d'autunno, libro II, vv. 53-56)
  • [Marzo] Quale una incinta, su cui scende languida | languida l'ombra del sopore e l'occupa, | disciolta giace e palpita su 'l talamo, | sospiri al labbro e rotti accenti vengono | e súbiti rossor la faccia corrono || [...] Chinatevi al lavoro, o validi omeri; | schiudetevi agli amori, o cuori giovani; | impennatevi a sogni, ali dell'anime; | irrompete alla guerra, o desii torbidi: | ciò che fu torna e tornerà nei secoli. (Canto di marzo, libro II, vv. 1-5, 26-30)
  • [...] vacche del cielo [...]. (Canto di marzo, libro II, v. 11)
  • L'ora presente è in vano, non fa che percuotere e fugge, | sol nel passato è il bello, sol ne la morte è il vero. (Presso l'urna di Percy Bysshe Shelley, libro II, vv. 3-4)
  • Ah, ma non ivi alcuno de' novi poeti mai surse, | se non tu forse, Shelley, spirito di titano, | entro virginee forme. (Presso l'urna di Percy Bysshe Shelley, libro II, vv. 41-42)

Citazioni sulle Odi barbare

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  • Le Barbare sono serti di fiori posti su delle tombe; o corone di cipresso appese ad abbandonate are votive. Il Carducci è apparso come un superstite di altri tempi... E della sua solitudine ebbe anch'egli coscienza. Onde quella tristezza elegiaca di parecchie, delle più belle e più sincere forse, delle Odi barbare: quella quasi nostalgica adorazione di rovine... (Eugenio Donadoni)

Rime e ritmi

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Alla signorina Maria A.

O Piccola Maria,
di versi a te che importa?
Esce la poesia,
o piccola Maria,
quando malinconia
batte del cor la porta.
O piccola Maria,
di versi a te che importa?

Citazioni

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  • Contessa, che è mai la vita? | È l'ombra d'un sogno fuggente. | La favola breve è finita, | il vero immortale è l'amor. (Jaufré Rudel, vv. 73-76)
  • Salve, Piemonte! A te con melodia | mesta, da lungi risonante, come | gli epici canti del tuo popol bravo, | scendono i fiumi. || Scendono pieni, rapidi, gagliardi, | come i tuoi cento battaglioni, e a valle | cercan le deste a ragionar di gloria | ville e cittadi. (Piemonte, 9-16)
  • [...] e da Superga nel festante coro | de le grandi Alpi la regal Torino | incoronata di vittoria, ed Asti | repubblicana. (Piemonte, vv. 33-36)
  • [A Carlo Alberto di Savoia] [...] oggi ti canto, o re de' miei verd'anni, | re per tant'anni bestemmiato e pianto, | che via passasti con la spada in pugno | ed il cilicio | al cristian petto, italo Amleto. (Piemonte, vv. 65-69)
  • Italia | assunta novella tra le genti. (Cadore, vv. 163-164)
  • [Carlo Goldoni] A te, porgente su l'argenteo Sile | le braccia a l'avo da l'opima cuna, | ne la festante ilarità senile | parve la vita accorrere con una || marïonetta in mano. Al sol d'aprile | te fuggente la logica importuna | presago accolse il comico navile | veleggiando la tacita laguna. (Carlo Goldoni, I, vv. 1-8)
  • Quando, novello Procida, | e più vero e migliore[6], innanzi e indietro, | arava ei l'onda sicula; [...]. (Alla figlia di Francesco Crispi, vv. 17-19)
  • Seco venga a' lidi tuoi | fe' d'opre alte e leggiadre, | o isola del sole, o tu d'eroi | Sicilia antica madre. (Alla figlia di Francesco Crispi, vv. 29-32)
  • [...] come, o Ferrara, bello ne la splendida ora d'Aprile | ama il memore sole la tua pace! (Alla città di Ferrara, vv. 5-6)
  • Salve, Ferrara, co'l tuo fato in pugno | ultima nata, creatura nova | de l'Appennin, del Po, del faticoso | dolore umano! (Alla città di Ferrara, vv. 93-96)
  • Ombra d'un fiore è la beltà, su cui | bianca farfalla poesia volteggia: | eco di tromba che si perde a valle | è la potenza. (La chiesa di Polenta, vv. 13-16)
  • Fuga di tempi e barbari silenzi | vince e dal flutto de le cose emerge | sola, di luce a' secoli affluenti | faro, l'idea. (La chiesa di Polenta, vv. 17-20)

Rime nuove

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Ave, o rima! Con bell'arte
su le carte
te persegue il trovadore;
ma tu brilli, tu scintilli,
tu zampilli
su del popolo dal cuore.
O scoccata tra due baci
ne i rapaci
volgimenti de la danza,
come accordi ne' due giri
due sospiri,
di memoria e di speranza!

Citazioni

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  • Breve e amplissimo carme [...]. (Al sonetto, III, v. 1)
  • Pur ne l'ombra de' tuoi lati velami | gli umani tedi, o notte, ed i miei bassi | crucci ravvolgi e sperdi: a te mi chiami, | e con te sola il mio cuor solo stassi. || Di quai d'ozio promesse adempi e sbrami | gl'irrequïeti miei spiriti lassi? | E qual doni potenza a i pensier grami | onde a l'eterno o al nulla errando vassi? || O diva notte, io non so già che sia | questo pensoso e presago diletto | ove l'ire e i dolor l'anima oblia: || ma posa io trovo in te, qual pargoletto | che singhiozza e s'addorme de la pia | ava abbrunata su l'antico petto. (Di notte, VII)
  • Te che solinghe balze e mèsti piani | ombri, o quercia pensosa, io più non amo, | poi che cedesti al capo de gl'insani | eversor di cittadi il mite ramo. (Colloqui con gli alberi, VIII, vv. 1-4)
  • Né te, lauro infecondo, ammiro o bramo, | che mènti e insulti, o che i tuoi verdi e strani | orgogli accampi in mezzo al verno gramo | o in fronte a calvi imperador romani. (Colloqui con gli alberi, VIII, vv. 5-8)
  • Amo te, vite, che tra bruni sassi | pampinea ridi, ed a me pia maturi | il sapïente de la vita oblio. (Colloqui con gli alberi, VIII, vv. 9-11)
  • Ma più onoro l'abete: ei fra quattr'assi, | nitida bara, chiuda al fin li oscuri | del mio pensier tumulti e il van desio. (Colloqui con gli alberi, VIII, vv. 12-14)
  • T'amo, o pio bove; e mite un sentimento | di vigore e di pace al cor m'infondi. | O che solenne come un monumento | tu guardi i campi liberi e fecondi, | o che al giogo inchinandoti contento | l'agil opra de l'uom grave secondi: [...]. (Il bove, IX, vv. 1-6)
  • Il divino del pian silenzio verde. (Il bove, IX, v. 14)
  • Siede novembre su le vie festanti | ove il maggio s'aprì de' miei pensieri, | e spettral ne la nebbia alza i giganti | templi la tua città, Dante Alighieri. || Meglio cosí; ch'io non mi vegga avanti | gli academici Lapi e i Bindi artieri: | Io vo' vedere il cavalier de' santi, | il santo io vo' veder de' cavalieri. || Forza di gioventù lieta da' marmi | fiorente, ch'ogni loda a dietro lassi | d'achei scalpelli e di toscani carmi, || degno, San Giorgio (oh con quest'occhi lassi | il vedess'io), che innanzi a te ne l'armi | un popolo d'eroi vincente passi. (San Giorgio di Donatello, XIV)
  • Dante, onde avvien che i vóti e la favella | levo adorando al tuo fier simulacro, | e me sul verso che ti fè già macro | lascia il sol, trova ancor l'alba novella? | [...] | son chiesa e impero una ruina mesta | cui sorvola il tuo canto e al ciel risona: | muor Giove, e l'inno del poeta resta. (Dante, XVI, vv. 1-4 e 12-14)
  • L'albero a cui tendevi | la pargoletta mano, | il verde melograno | da' bei vermigli fior, || nel muto orto solingo | rinverdì tutto or ora | e giugno lo ristora | di luce e di calor. || Tu fior de la mia pianta | percossa e inaridita, | tu de l'inutil vita | estremo unico fior, || sei ne la terra fredda, | sei ne la terra negra; | né il sol più ti rallegra | né ti risveglia amor. [elegia funebre] (Pianto antico, XLII)
  • Maggio risveglia i nidi, | maggio risveglia i cuori; | porta le ortiche e i fiori, | i serpi e l'usignol. (Maggiolata, L, vv. 1-4)
  • La nebbia agl'irti colli | piovigginando sale, | e sotto il maestrale | urla e biancheggia il mar; || ma per le vie del borgo | dal ribollir de' tini | va l'aspro odor de i vini | l'anime a rallegrar. || Gira sui ceppi accesi | lo spiedo scoppiettando: | sta il cacciator fischiando | su l'uscio a rimirar | tra le rossastre nubi | stormi d'uccelli neri | com'esuli pensieri | nel vespero migrar. (San Martino, LVIII, vv. 1-16)
  • [Sulla Sicilia] Sai tu l'isola bella, a le cui rive | manda il Ionio i fragranti ultimi baci | nel cui sereno mar Galatea vive | e su' monti Aci? (Primavere elleniche II, LXIII, vv- 1-4)
  • De l'ombroso pelasgo Èrice in vetta | eterna ride ivi Afrodite e impera, | e freme tutt' amor la benedetta | da lei costiera. (Primavere elleniche II, LXIII, vv. 5-8)
  • Meglio operando oblïar, senza indagarlo; | questo enorme mister de l'universo! (Idillio maremmano, LXVII, vv. 38-39)
  • Odio la faccia tua stupida e tonda, | l'inamidata cotta, | monacella lasciva ed infeconda, | celeste paölotta (Classicismo e Romanticismo, LXIX, vv. 37-40)
  • Si volse il prete a dire: Ite. Potente | ruppe il sole a le nubi sormontando, | e incoronò d'un'iride scendente | la bella donna che sorgea pregando. | Corse tra le figure bizantine | vermiglio un riso come di pudor; | ma la Madonna le pupille chine | tenea su 'l figlio, e mormorava – Amor. (Da la qual par ch'una stella si mova, LXXI, 33-40)
  • I cipressi che a Bólgheri alti e schietti | van da San Guido in duplice filar, | quasi in corsa giganti giovinetti | mi balzarono incontro e mi guardâr. (Davanti san Guido, LXXII, vv. 1-4)
  • Su 'l castello di Verona | batte il sole a mezzogiorno | da la Chiusa al pian rintrona | solitario un suon di corno, [...]. (La leggenda di Teodorico, LXXVI, vv. 1-4)
  • Sanguinosa, in un sorriso | di martirio e di splendor: | di Boezio è il santo viso, | del romano senator. (La leggenda di Teodorico, LXXVI, vv. 101-104)
  • [...] o noci della Carnia addio! | Erra tra i vostri rami il pensier mio | sognando l'ombre d'un tempo che fu! (Il comune rustico, LXXVII, vv. 7-9)
  • Cittadini di palagio, | mercanti e buon artieri; | e voi conti di maremma, | dai selvatici manieri; || voi di Corsica visconti, | voi marchesi de' confini; | voi che re siete in Sardegna | ed in Pisa cittadini; || voi che in volta del levante | mainaste or or la vela: | pria che arrossi la Verruca | e si spenga la candela, || fuori porta del parlascio, | su correte arditamente! | Su, su, popolo di Pisa, | cavalieri e buona gente! (Faida di comune, LXXIX, vv. 109-124)
  • Hallali[7], hallali, gente d'Habsburgo! | Ad una caccia eterna io con te surgo; [...]. (Ninna-nanna di Carlo V, LXXX, vv. 33-34)
  • Poeta, su 'l tuo capo sospeso ho il tricolore | che da le spiagge d'Istria da l'acque di Salvore | la fedele di Roma, Trieste, mi mandò. (A Victor Hugo, LXXXI, vv. 49-51)

Incipit di Conversazioni critiche

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Lodiamo di buon animo i buoni pensieri ne' due scritti del dott. C., intitolati I beni della letteratura e I mali della lingua latina, intorno agli offici delle lettere e dei letterati, intorno alle pessime condizioni dell'educazione letteraria qual fu e qual è in parte ancora fra noi e alla necessità di una educazione piú veramente civile.

Citazioni su Giosuè Carducci

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  • A Giosuè Carducci, un dì tanto combattuto pe' suoi eccessi verbali, furono alla fine tributati onori singolari. Non solo egli fu chiamato "il poeta della terza Italia", ch'è appena cominciata, ma il Parlamento nazionale gli decretò un monumento a Roma; dove non l'hanno Virgilio, Dante, Michelangelo, Colombo, Vittorio Alfieri, primo poeta e profeta del Risorgimento, e neppure Alessandro Volta, la cui scoperta torna oggi sì possente alla civiltà del mondo. Ma a Roma era rivolta l'anima del poeta maremmano; il verso di Dante sul "gran veglio" simbolico,
    E Roma guarda sì come suo speglio,
    si adatta a lui, avvivatore delle tradizioni italiche. (Raffaello Barbiera)
  • Antiromantico, antimanzoniano ed anticristiano si dichiarò apertamente Giosuè Carducci, quando poco più che ventenne incominciò a farsi conoscere nella sua Toscana. Armato di cultura pagana e classica parve dapprima scendere in campo come un restauratore del classicismo, quasi un continuatore del Foscolo e dell'Alfieri; ma non tardò ad affermare la sua personalità gettando in quella forma classica pensieri modernissimi, come nell'Inno a Satana che è un entusiastico saluto al progresso ed alla libertà. (Pietro Orsi)
  • Bologna era bella, amabile, degna di essere goduta con l'anima e la carne. Dietro le luminose vetrine della libreria Zanichelli aleggiava ancora lo spirito eternamente corrucciato del Carducci. (Rino Alessi)
  • Carducci è l'ultima tempra d'uomo che abbia avuto la nostra poesia, l'ultimo poeta che nel mondo non abbia veduto soltanto se stesso, ma anche il prossimo. È un uomo quadrato, più ricco di fantasia che Pascoli e D'Annunzio e più complesso di entrambi nel suo svolgimento poetico. (Attilio Momigliano)
  • Egli sembra, anche nell'aspetto, una di quelle foreste sul lido del suo mare, le quali anche nella più quieta serenità pare che si contorcano alle raffiche del libeccio. (Giovanni Pascoli)
  • Giosuè Carducci in mezzo al culto amoroso della poesia non ha abbandonato gli studi severi della critica. Nel Carducci conviene distinguere due persone, il poeta ed il critico; il primo non rassomiglia punto al secondo. Enotrio poeta è impetuoso, irrequieto, impaziente d'ogni difficoltà, e sempre pronto a rompere, come il Duca di Borgogna, l'orologio se suoni un'ora che lo chiami a ciò ch'egli non vuole. Il critico invece medita lungamente e scrive avvisato ed arguto, sapendo unire agli splendori dell'immaginazione la forma culta ed elegante, l'erudizione profonda. Il Carducci sa tenersi lontano dalla nebulosità del De Sanctis, dalla elegante leggerezza del Settembrini, dalla troppo minuziosa analisi del Camerini e si manifesta co' suoi Studi letterarî uno dei più dotti ed arguti critici d'Italia, accoppiando alla serietà alemanna, la vivacità ed il calore degli ingegni del mezzogiorno. (Pompeo Gherardo Molmenti)
  • Il Carducci è l'ultimo dei poeti dell'Italia antica, più che il primo dei poeti dell'Italia nuova. (Eugenio Donadoni)
  • L'ispirazione carducciana è figlia dell'erudizione, e il Carducci è così strano poeta che, dopo d'avere incominciato tardi a produrre i suoi capilavori, lascia trascorrere anni ed anni tra l'uno e l'altro e ne produce pochissimi. (Paolo Orano)
  • La storia nell'anima di Carducci, con buona pace del suo metodo storico, è quasi sempre una proiezione di presente negli sfondi lontani, per dargli autorità e obiettività. La storia in Carducci è polemica. Poeta della storia potrebbe al più significare poeta drammatico, e Carducci non creò una persona artistica fuori della sua personalità lirica. (Scipio Slataper)
  • Ma non si può né si deve dire che Giosuè Carducci sia il poeta di un'epoca, l'uomo rappresentativo di qualche cosa come una civiltà. No. Nell'opera sua manca ogni creazione di idee. Carducci deriva, non crea; e deriva non soltanto il pensiero che, del resto, in lui è sempre allo stato frammentario, dai Greci, dai Latini, dai Tedeschi e dai Francesi; ma anche l'immagine. È forse difficile sostenere che nell'opera poetica e prosastica del Carducci esista una immagine tutta carducciana. (Paolo Orano)
  • Quando il Carducci morì, parve per un momento che la sua statura morale dovesse oscurare a lungo quelle della generazione a lui contemporanea e di altre successive che avrebbero dovuto attingere alla poesia gli ideali e alla personalità morale di lui norme di vita. In verità scompariva e scendeva con lui nella tomba una Italia che i panegiristi, i chroniqueurs, i falsi scolari, i critici maggiori e minori credevano d'intendere, gridando a gran voce con lagrime di dolore le lodi di un uomo che, vivo, si sarebbe violentemente e rudemente liberato di quel coro profano: che non sarebbe stato né posa né gesto platonico, come non erano state ciò le ribellioni del Carducci alla esaltazione cieca della sua personalità poetica e prattica. (Francesco Piccolo)
  • Quando pensiamo al Carducci uomo non sappiamo separare questo dagli altri elementi del suo carattere morale, sicché noi lo vediamo ancora un po' come il maestro e il consigliere di tutte le generazioni. Per altro egli rimane ancora vivo nella coscienza di tutti, anche se ad uso d'una certa coscienza giovanile in formazione è stato ridotto a pezzi d'antologia i quali non danno la misura né del carattere morale né del carattere poetico di lui. Rimane nella scuola, perché la scuola è la più conservatrice di tutte le istituzioni. (Francesco Piccolo)
  • Questa concezione formalistica della poesia come un mestiere artistico infinitamente difficile, e come tale da prendere molto sul serio, ha per il Carducci una grande seduzione anche perché a lui di rado è concesso di mettere in armonici versi un puro avvenimento personale, i propri dolori e le proprie gioje. Non che egli mancasse di calore e di sincerità di sentimento. La morte della madre, e specialmente la perdita dell'unico figlietto, gli toccarono profondamente il cuore. Ma egli era troppo virile ed anche troppo schivo per abbandonarsi a lamenti poetici, all'incirca come il piagnucoloso Pascoli. La poesiola Pianto antico, sulla morte del figlio, ci tocca così profondamente appunto perché è quasi l'unica lacrima nell'occhio di un uomo forte, che non è solito piangere. (Karl Vossler)
  • Sul Giosuè Carducci, scrissi due libri per dire alle genti: L'uomo di cui avete fatto l'apoteosi fu un volgare tornacontista, ed eccone qua le prove:
    – Egli cantò la bianca croce di Savoia: ma a Versailles aveva già – con l'ajuto di Emanuele Kant – decapitato un re.
    – Egli, nell'Adige, celebrò il re Umberto: ma nell' Anniversario della Repubblica aveva già detto corna della monarchia.
    – Egli chiamò il Giuseppe Mazzini: «Ezechiele in Campidoglio»; ma aveva già chiamato il Mazzini: «il sultano della libertà che mandava sicari ad ammazzare i galantuomini.»
    – Aveva cantato il diavolo in un inno che fece andare in visibilio tutti i marinatori delle scuole d'Italia, onde era salito, di primo acchito, alla gloria di poeta di Satana; ma poscia quell'inno egli chiamò chitarronata, e ragazzacci sgrammaticanti chiamò coloro che, a causa di quell'inno, avevano strombazzato il suo nome alle quattro plaghe del mondo.
    – Aveva schiaffeggiato il Galileo di rosse chiome e decapitato Dio con l'ajuto del Robespierre; ma poscia inneggiò alla chiesa di Polenta, alla dolce figlia di Jesse, a Dio ottimo massimo. (Andrea Lo Forte Randi)
  • Torna alla mente con gran tristezza di desiderio il tempo che io studiava a Bologna; e la rivedo ancora quella severa e lunga aula dell'università con i finestroni dai vetri verdognoli che prendono luce dal pian terreno del cortile interno: la rivedo tutta gremita di uditori; tutti col viso rivolto e teso ad un punto, in silenzio: seduti sui banchi, fitti in piedi e addossati agli angoli, presso la porta d'ingresso. E quelle teste, le più giovanilmente vive, altre grige o canute, altre di donne diffondenti in quella austerità non so quale femminile lietezza, mi pare ancora di udire la sua voce che si spandeva ora vibrata, staccata, nervosa; ora lenta, commossa e saliente come nembo d'incenso. Su l'alta cattedra, in fondo, appariva quel capo poderoso, curvo fra i cubiti, con la fronte ferma, come diga a reggere l'onda irrompente del pensiero; la breve mano bianca agitata a ricercare il libro o l'appunto, pur non ristando la voce.
    Qualche volta, sopravvenendo le tenebre, accennava gli recassero una candela e se la poneva da presso; e allora quella fiammella rossa che or s'allungava in sottile piramide e stava immota, ora ballava come un folletto, faceva in quella penombra strani effetti su quel volto animato dall'idea creatrice.
    Era l'autunno o era l'inverno nevoso: eppure per quella tetra sala in alto passava la primavera al suono della sua voce, l'eterna primavera del pensiero che Egli ogni volta evocava, viva, luminosa, presente fuori dai secoli che furono. (Alfredo Panzini)
  • Vorrei mandarle un mazzo di rose grande più di me, vorrei creare una parola nuova che racchiudesse tutto ciò che ha di soave la gratitudine e di sublime la gioia, per dirle quello che sento Amo tutto ciò ch'Ella ha corretto nei miei versi. (Benedetti versi che mi hanno ispirato l'ardire di venire da Lei!). (Annie Vivanti)
  1. Citato in Enzo Biagi, Diciamoci tutto, Edizione CDE su licenza di Arnoldo Mondatori Editore, Milano, 1984, p. 107.
  2. Qui il poeta fa riferimento ad un episodio narrato dal Chateaubriand in Quatre Stuarts. Secondo lo scrittore francese, Cromwell, sorpreso a bere, avrebbe detto agli amici: «Credono che cerchiamo il Signore, ma noi cerchiamo solo un cavatappi» (Il cavatappi era caduto).
  3. Da Lettere, volume 14°, Nicola Zanichelli Editore, Bologna, 1944 e segg., p. 204; citato in Salvatore Battaglia, Grande Dizionario della Lingua Italiana, Unione Tipografico-Editrice Torinese, Torino, 1984, p. 78.
  4. Si accenna alla fonte che secondo la leggenda San Francesco fece scaturire presso il santuario della Verna. [Nota del curatore]
  5. Al libro [1866].
  6. Per il refuso su più vero e maggiore, Cfr. Giuseppe Fumagalli, Chi l'ha detto?, Hoepli, 1921, p. 732.
  7. Hallalí è grido di caccia nella lingua francese, oggi accolto, credo, anche nelle nobili cacce italiane; e può accogliersi, parmi, perché in fine non è altro che un composto d'interiezioni e di avverbi comuni alle due lingue. [Nota del curatore]
  1. Da Le poesie di Gabriele Rossetti, Barbera, Firenze, 1861, prefazione, pp. LXV-LXVI; citato in Vittorio Turri, Dizionario storico manuale della letteratura italiana (1000-1900), p. 320.
  2. Citato in Dino Segre, Sette delitti, Sonzogno.
  3. Dall'introduzione ai Pensieri di varia filosofia e di bella letteratura.
  4. Da Bozzetti critici e discorsi letterari, coi tipi di Franc. Vigo, Livorno, 1876, p. 252.
  5. Citato in Leo Longanesi, In piedi e seduti, Longanesi, 1968.
  6. Da Bozzetti critici e discorsi letterari, coi tipi di Franc. Vigo, Livorno, 1876, p. 457.
  7. Da La gioventù di Ludovico Ariosto e la poesia latina in Ferrara; in La coltura estense e la gioventù dell'Ariosto, Edizione Nazionale delle opere di Giosuè Carducci, volume tredicesimo, Nicola Zanichelli Editore, pp. 175-176; citato (parzialmente) in Janus Pannonius, Epigrammi lascivi, traduzione di Gianni Toti, Fahrenheit 451, 1997, p. 16. ISBN 88-86095-03-1
  8. Dalla lettera ad un amico che gli aveva inviato un volume di poesie di un giovane napoletano; citato in Benedetto Croce, La letteratura della nuova Italia, Saggi critici, vol. IV, Giuseppe Laterza & Figli, Bari, 19222 riveduta, pp. 311-312.
  9. Da una lettera all'amico Enrico Nencioni; citato nella prefazione di Antonio Spadaro, p. 29 in Walt Whitman, Canto una vita immensa, a cura di Antonio Spadaro, Ancora, Milano, 2009. ISBN 88-514-0632-4
  10. Durante i solenni festeggiamenti per il primo Centenario del Tricolore, Reggio Emilia, 7 gennaio 1897; citato in Carlo Azeglio Ciampi e Alberto Orioli, Non è il paese che sognavo: taccuino laico per i 150 anni dell'unità d'Italia, Il Saggiatore, 2010, p. 90. ISBN 8842816469
  11. Da una lettera alla contessa Ersilia Lovatelli, Bologna, seconda decade di gennaio 1884; in Lettere, vol. 14, Zanichelli, 1952, p. 240.
  12. Citato in Bonaventura Caloro, È lo stato che crea la nazione, La Fiera Letteraria, aprile 1973.
  13. Da una lettera a Giuseppe Chiarini, Perugia, 26 luglio 1877; citato in La dolce stagione, Luigi Russo, Editrice Giuseppe Principato, Milano, 1940, p. 454.
  14. Da La gioventù di Ludovico Ariosto e la poesia latina in Ferrara; in La coltura estense e la gioventù dell'Ariosto, Edizione Nazionale delle opere di Giosuè Carducci, volume tredicesimo, Nicola Zanichelli Editore, pp. 174-175.
  15. Citato in Giuseppe Fumagalli, Chi l'ha detto?, Hoepli, 1921, p. 629.
  16. Citato in Giuseppe Fumagalli, Chi l'ha detto?, U. Hoepli, Milano, 1921, p. 381.
  17. Citato in Giuseppe Fumagalli, Chi l'ha detto?, Hoepli, 1921, p. 536.

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