Giovanni Pascoli

poeta e critico letterario italiano (1855-1912)

Giovanni Pascoli (1855 – 1912), poeta italiano.

Giovanni Pascoli

Citazioni di Giovanni Pascoli

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  • Chi ha toccato una volta un'ingiuria – di sangue e di morte – non cesserà mai di toccarne di nuove. Piove sul bagnato: lagrime su sangue, e sangue su lagrime.[1]
  • Conoscere e descrivere la mente di Dante sarà mai possibile? Egli eclissa nella profondità del suo pensiero: volontariamente eclissa.[2]
  • Delle città dove sono stato, Matera è quella che mi sorride di più, quella che vedo meglio ancora, attraverso un velo di poesia e di malinconia.[3]
  • Di quercia caduta ognuno viene a far legna. E tagliato l'albero, così grande e bello, perché hanno a sopravvivere i novelli?[4]
  • [Giosuè Carducci] Egli sembra, anche nell'aspetto, una di quelle foreste sul lido del suo mare, le quali anche nella più quieta serenità pare che si contorcano alle raffiche del libeccio.[5]
  • [Viggiano] Il paese non è grande, ma nemmeno piccolo; l'aria ottima; pittoreschi i dintorni: le rovine di Grumentum a pochi passi; arpeggiamenti per tutto, che fanno di Viggiano l'Antissa della Lucania.[6]
  • Il sogno è l'infinita ombra del Vero.[7]
  • [...] la parte alta della città che sembra voglia svincolarsi dal declivio collinoso su cui riposano le sue case, e forse desiosa di azzurro e di verde tende a stendersi, risalendo coi suoi fabbricati, ancora in alto, verso le montagne presilane che poi azzurramente cupe degradano sino, a poco a poco, a raggiungere le acque silenziose del classico golfo di Squillace. È sempre bello a vedere questo giardino, nei tepidi pomeriggi di autunno e nelle primavere aulenti, nelle fresche mattine d'estate e nelle luminose giornate d'inverno…[8]
  • [A Matera] Non c'è libro qua: da vent'anni che c'è un Liceo a Matera, nessuno n'è uscito con tanta cultura da sentire il bisogno d'un qualche libro; i professori pare che abbiano tutti la scienza infusa; e perciò libri non se n'è comprati. Ci vorrebbe un sussidio del Governo, ma il Governo probabilmente non ne vorrà sapere nulla.[9]
  • [Sullo stretto di Messina] Questo è il luogo dove si stringono due mani invisibili. È lo stretto e, mi si perdoni il bisticcio, la stretta. Qui la penisola si tende verso l'isola col suo selvoso Aspromonte; qui la Sicilia si protende verso l'Italia col suo candido Faro. La Calabria e la regione Mamertina sono le due mani, che l'Italia e la Sicilia si stringono: sono, se volete meglio, le due labbra con le quali si danno un bacio d'amore indissolubile.[10]
  • Ridon siringhe del color di lilla | sopra la mensa e odorano viole: | la capinera è tra gli aranci: brilla | tremulo il sole. || Tu pur, poeta, hai rifiorito il cuore | e trilli e frulli hai nella fantasia. | Le ignave brume e l'umile dolore | sorgi ed oblìa.[11]

Canti di Castelvecchio

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  • Al mio cantuccio, donde non sento | se non le reste brusir del grano | il suon dell'ore viene col vento | dal non veduto borgo montano. (da L'ora di Barga)
  • Che torbida notte di marzo! | Ma che mattinata tranquilla! | che cielo pulito! Che sfarzo | di perle! Ogni stelo, una stilla | che ride: sorriso che brilla | su lunghe parole. (da Canzone di marzo)
  • Egli coglieva ed ammucchiava al suolo | secche le foglie del suo marzo primo | (era il suo nuovo marzo), il rosignolo, || per farsi il nido. E gorgheggiava in tanto | tutto il gran giorno; e dolce più del timo | e più puro dell'acqua era il suo canto. (da L'usignolo e i suoi rivali)
  • Io sono una lampada ch'arda | soave! | La lampada, forse, che guarda, | pendendo alla fumida trave, | la veglia che fila; || e ascolta novelle e ragioni | da bocche | celate nell'ombra, ai cantoni, | da dietro le soffici ròcche | che albeggiano in fila. (da La poesia)
  • Per le faggete e l'abetine, | dalle fratte e dal ruscello, | quel canto suona senza fine, | chiaro come un campanello. | Per l'abetine e le faggete | canta, ogni ora ogni dì più, | la cinciallegra e ti ripete: | tient'a su! tient'a su! tient'a su! (da La partenza del boscaiolo, III)
  • La Chioccetta per l'aia azzurra | va col suo pigolio di stelle. (da Il gelsomino notturno)
  • La vergine dorme. Ma lenta | la fiamma del puro alabastro | le immemori palpebre tenta; | bussa alla chiusa anima. (da Il sogno della vergine)
  • Lascia che guardi dentro al mio cuore | lascia ch'io viva del mio passato; | se c'è sul bronco sempre quel fiore, | s'io trovi un bacio che non ho dato! | Nel mio cantuccio d'ombra romita | lascia ch'io pianga sulla mia vita! (da L'ora di Barga)
  • Mentre pensavo, e già sentìa, sul ciglio | del fosso, nella siepe, oltre un filare | di viti, dietro un grande olmo, un bisbiglio | truce, un lampo, uno scoppio... ecco scoppiare | e brillare, cadere, esser caduto, | dall'infinito tremolìo stellare, | un globo d'oro, che si tuffò muto | nelle campagne, come in nebbie vane, | vano; ed illuminò nel suo minuto | siepi, solchi, capanne, e le fiumane | erranti al buio, e gruppi di foreste, | e bianchi ammassi di città lontane. | Gridai, rapito sopra me: Vedeste? | Ma non v'era che il cielo alto e sereno. | Non ombra d'uomo, non rumor di péste. | Cielo, e non altro: il cupo cielo, pieno | di grandi stelle; il cielo, in cui sommerso | mi parve quanto mi parea terreno. (da Il bolide, 1983, p. 102)
  • Nascondi le cose lontane, | tu nebbia impalpabile e scialba, | tu fumo che ancora rampolli, | su l'alba, | da' lampi notturni e da' crolli | d'aeree frane! (da Nebbia)
  • Oh! Valentino vestito di nuovo, | come le brocche dei biancospini! | Solo, ai piedini provati dal rovo | porti la pelle de' tuoi piedini || Porti le scarpe che mamma ti fece, | che non mutasti mai da quel dì, | che non costarono un picciolo: in vece | costa il vestito che ti cucì. (da Valentino)

Il fanciullino

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È dentro noi un fanciullino[12] che non solo ha brividi, come credeva Cebes Tebano che primo in sé lo scoperse, ma lagrime ancora e tripudi suoi. Quando la nostra età è tuttavia tenera, egli confonde la sua voce con la nostra, e dei due fanciulli che ruzzano e contendono tra loro, e, insieme sempre, temono sperano godono piangono, si sente un palpito solo, uno strillare e un guaire solo. Ma quindi noi cresciamo, ed egli resta piccolo; noi accendiamo negli occhi un nuovo desiderare, ed egli vi tiene fissa la sua antica serena maraviglia; noi ingrossiamo e arrugginiamo la voce, ed egli fa sentire tuttavia e sempre il suo tinnulo squillo come di campanello.

Citazioni

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  • Il mare è affaticato dall'ansia della vita, e si copre di bianche spume, e rantola sulla spiaggia. Ma tra un'ondata e l'altra suonano le note dell'usignuolo ora singultite come un lamento, ora spicciolate come un giubilo, ora punteggiate come una domanda. L'usignuolo è piccolo, e il mare è grande; e l'uno è giovane, e l'altro è vecchio. (capitolo I)
  • Non l'età grave impedisce di udire la vocina del bimbo interiore, anzi invita forse e aiuta, mancando l'altro chiasso intorno, ad ascoltarla nella penombra dell'anima. (capitolo I)
  • [...] se uno avesse a dipingere Omero, lo dovrebbe figurare vecchio e cieco, condotto per mano da un fanciullino, che parlasse sempre guardando torno torno. Da un fanciullino o da una fanciulla: dal dio o dall'iddia: dal dio che sementò nei precordi di Femio quelle tante canzoni, o dell'iddia cui si rivolge il cieco aedo di Achille e di Odisseo. (capitolo I)
  • C'è dunque chi non ha sentito mai nulla di tutto questo? Forse il fanciullo tace in voi, professore, perché voi avete troppo cipiglio, e voi non lo udite, o banchiere, tra il vostro invisibile e assiduo conteggio. Fa il broncio in te, o contadino, che zappi e vanghi, e non ti puoi fermare a guardare un poco; dorme coi pugni chiusi in te, operaio, che devi stare chiuso tutto il giorno nell'officina piena di fracasso e senza sole.
    Ma in tutti è, voglio credere.
    Siano gli operai, i contadini, i banchieri, i professori in una chiesa a una funzione di festa; si trovino poveri e ricchi, gli esasperati e gli annoiati, in un teatro a una bella musica: ecco tutti i loro fanciullini alla finestra dell'anima, illuminati da un sorriso o aspersi d'una lagrima che brillano negli occhi de' loro ospiti inconsapevoli; eccoli i fanciullini che si riconoscono, dall'impannata al balcone dei loro tuguri e palazzi, contemplando un ricordo e un sogno comune. (capitolo III)
  • Tu sei ancora in presenza del mondo novello, e adoperi a significarlo la novella parola. Il mondo nasce per ognun che nasce al mondo. E in ciò è il mistero della tua essenza e della tua funzione. Tu sei antichissimo, o fanciullo! E vecchissimo è il mondo che tu vedi nuovamente! (capitolo V)
  • A te né le gemme né gli ori | fornisco, o dolce ospite: è vero; | ma fo che ti bastino i fiori | che cogli nel verde sentiero, | nel muro, su le umide crepe, | su l'ispida siepe. (capitolo VII, Il fanciullo, vv. 1-6)
  • [...] altro è sentimento poetico, altro è fantasia; la quale può essere bensì mossa e animata da quel sentimento, ma può anche non essere. Poesia è trovare nelle cose, come ho a dire? il loro sorriso e la loro lacrima; e ciò si fa da due occhi infantili che guardano semplicemente e serenamente di tra l'oscuro tumulto della nostra anima. (capitolo VIII)
  • [...] la poesia, non ad altro intonata che a poesia, è quella che migliora e rigenera l'umanità, escludendone, non di proposito il male, ma naturalmente l'impoetico. (capitolo X)
  • Il poeta, se è e quando è veramente poeta, cioè tale che significhi solo ciò che il fanciullo detta dentro, riesce perciò ispiratore di buoni e civili costumi, d'amor patrio e familiare e umano. (capitolo XI)
  • Il poeta è poeta, non oratore o predicatore, non filosofo, non istorico, non maestro, non tribuno o demagogo, non uomo di stato o di corte. E nemmeno è, sia con pace del maestro, un artiere che foggi spada e scudi e vomeri; e nemmeno, con pace di tanti altri, un artista che nielli e ceselli l'oro che altri gli porga. A costituire il poeta vale infinitamente più il suo sentimento e la sua visione, che il modo col quale agli altri trasmette l'uno e l'altra. (capitolo XI)
  • Il poeta è colui che esprime la parola che tutti avevano sulle labbra e che nessuno avrebbe detta. Ma non è lui che sale su una sedia o su un tavolo, ad arringare. Egli non trascina, ma è trascinato; non persuade, ma è persuaso. (capitolo XI)
  • In verità la poesia è tal maraviglia che se voi fate ora una vera poesia, ella sarà della stessa qualità che una vera poesia di quattromila anni sono. Come mai? Così: l'uomo impara a parlare tanto diverso o tanto meglio, di anno in anno, di secolo in secolo, di millennio in millennio; ma comincia con far gli stessi vagiti e guaiti in tutti i tempi e luoghi. La sostanza psichica è uguale nei fanciulli di tutti i popoli. Un fanciullo è fanciullo allo stesso modo da per tutto. E quindi, né c'è poesia arcadica, romantica, classica, né poesia italiana, greca, sanscrita; ma poesia soltanto, soltanto poesia, e... non poesia. Sì: c'è la contraffazione, la sofisticazione, l'imitazione della poesia, e codesta ha tanti nomi. (capitolo XII)
  • Qualunque soggetto può essere contemplato, dagli occhi profondi del fanciullo interiore: qualunque tenue cosa può a quelli occhi parere grandissima. (capitolo XII)
  • La poesia non si evolve e involve, non cresce o diminuisce; è una luce o un fuoco che è sempre quella luce e quel fuoco: i quali, quando appariscono, illuminano e scaldano ora come una volta, e in quel modo stesso. (capitolo XII)
  • La poesia benefica di per sé, la poesia che di per sé ci fa meglio amare la patria, la famiglia, l'umanità, è, dunque, la poesia pura, la quale di rado si trova. (capitolo XIII)
  • Ma noi italiani siamo, in fondo, troppo seri e furbi, per essere poeti. Noi imitiamo troppo. E sì, che studiando si deve imparare a far diverso, non lo stesso. Ma noi vogliamo far lo stesso e dare a credere o darci a credere di fare meglio. Perciò sovente ci pare che, incastonando la gemma altrui in un anello nostro, noi abbiamo trovata e magari fatta la gemma; e più sovente ci imaginiamo che, dorando la statua di bronzo, quella statua non solo sia più bella, ma diventi opera nostra. (capitolo XIV)
  • La poesia consiste nella visione d'un particolare inavvertito, fuori e dentro di noi. (capitolo XIV)
  • Oh! come è necessaria l'imperfezione per essere perfetti! (capitolo XIV)
  • Gli occhi della gente sono oggi così fissi nell'ombelico della propria persona, che non hanno visto, si può dire, altro. (capitolo XVI)
  • Ricòrdati che la poesia vera fa battere, se mai, il cuore, non mai le mani. (capitolo XVII)
  • [...] questo oblìo che preme subito i morti, non è, quanto ai letterati, senza ragione e senza giustizia. Noi letterati vogliamo in vita occupar troppo il mondo di noi. Se stessimo nel nostro angolo, se non ci sbracciassimo tanto nel mezzo della gente, se non vociassimo tanto, non avverrebbe questo compenso di silenzio dopo morte. (capitolo XVIII)
  • A ogni modo perché dovrebbe essere altrimenti? Che cosa fai tu, veramente, che sia degno di lode e di gloria? Tu ridi, tu piangi: che merito in ciò? Se credi d'averci merito, è segno che ridi e piangi apposta: se lo fai apposta, non è poesia la tua: se non è poesia, non hai diritto a lode. Tu scopri, s'è detto; non inventi: e ciò che scopri, c'era prima di te e ci sarà senza te. Vorresti scriverci il tuo nome su? Ti adiri, che ti vogliano giudicare e anche premiare per quello che non è se non la tua natura e la tua manifestazione di vita. Dunque che importa a te del nome? (capitolo XVIII)
  • Voglio la vita mia lasciar, pendula | ad ogni stelo, sopra ogni petalo, | come una rugiada | ch'esali dal sonno, e ricada || nella nostr'alba breve. Con l'iridi | di mille stille sue nel sole unico | s'annulla e sublima... | lasciando più vita di prima. (capitolo XIX)
  • I poeti hanno abbellito agli occhi, alla memoria, al pensiero degli uomini, la terra, il mare, il cielo, l'amore, il dolore, la virtù; e gli uomini non sanno il loro nome. (capitolo XX)

E tu, o fanciullo, vorresti fare quello che fecero quei primi, col compenso che quei primi n'ebbero; compenso che tu reputi grande, perché sebbene non nominati, i veri poeti vivono nelle cose le quali, per noi, fecero essi.[13]

È così? . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .

Sì.

L'ultimo viaggio

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Ed il timone al focolar sospese
in Itaca l'Eroe navigatore.
Stanco giungeva da un error terreno,
grave ai garretti, ch'egli avea compiuto
reggendo sopra il grande omero un remo.

Citazioni

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  • Sonno è la vita quando è già vissuta: | sonno; chè ciò che non è tutto, è nulla. | Io, desto alfine nella patria terra, | ero com'uomo che nella novella | alba sognò, né sa qual sogno, e pensa | che molto è dolce a ripensar qual era. | Or io mi voglio rituffar nel sonno, | s'io trovi in fondo dell'oblio quel sogno. (Ulisse: X, vv. 31-38)
  • E non vide la casa, né i leoni | dormir col muso su le lunghe zampe, | né la sua dea [Circe]. Ma declinava il sole, | e tutte già s'ombravano le strade. (XVII, vv. 23-26)
  • E il vecchio vide che le due Sirene, | le ciglia alzate sulle due pupille, | avanti se miravano, nel sole | fisse, od in lui, nella sua nave nera. | E su la calma immobile del mare, | alta e sicura egli inalzò la voce. | "Son io! Son io, che torno per sapere! | Che molto io vidi, come voi vedete | me. Sì; ma tutto ch'io guardai nel mondo, | mi riguardò; mi domandò: Chi sono?" (XXIII, vv. 29-38)
  • Ed ecco [Calipso] usciva con la spola in mano, | d'oro, e guardò. Giaceva in terra, fuori | del mare, al piè della spelonca, un uomo, | sommosso ancor dall'ultima onda: e il bianco | capo accennava di saper quell'antro, | tremando un poco; e sopra l'uomo un tralcio | pendea con lunghi grappoli dell'uve. | Era Odisseo: lo riportava il mare | alla sua dea: lo riportava morto | alla Nasconditrice solitaria, | all'isola deserta che frondeggia | nell'ombelico dell'eterno mare. | Nudo tornava chi rigò di pianto | le vesti eterne che la dea gli dava. (XXIV, vv. 33-46)

Ed ella [Calipso] avvolse l'uomo nella nube
dei suoi capelli; ed ululò sul flutto
sterile, dove non l'udia nessuno:
– Non esser mai! non esser mai! più nulla,
ma meno morte, che non esser più! –

Myricæ

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Io vedo (come è questo giorno, oscuro!),
vedo nel cuore, vedo un camposanto
con un fosco cipresso alto sul muro.

E quel cipresso fumido si scaglia
allo scirocco: a ora a ora in pianto
sciogliesi l'infinita nuvolaglia.

Citazioni

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  • Sempre un villaggio, sempre una campagna | mi ride al cuore (o piange), Severino: | il paese ove, andando, ci accompagna | l'azzurra visïon di San Marino: | sempre mi torna al cuore il mio paese | cui regnarono Guidi e Malatesta, | cui tenne pure il Passator cortese, | re della strada, re della foresta. (frammento dalla poesia Romagna, da Ricordi)
  • Da' borghi sparsi le campane in tanto | si rincorron coi lor gridi argentini: | chiamano al rezzo, alla quiete, al santo | desco fiorito d'occhi di bambini. (frammento dalla poesia Romagna, da Ricordi)
  • Dal profondo geme l'organo | tra 'l fumar de' cerei lento: | c'è un brusio cupo di femmine | nella chiesa del convento: || un vegliardo austero mormora | dall'altar suoi brevi appelli: | dietro questi s'acciabattano | delle donne i ritornelli. || [...] || Per noi prega, o santa Vergine, | per noi prega, o Madre pia; | per noi prega, esse ripetono, | o Maria! Maria! Maria! (Le monache di Sogliano) [preghiera]
  • Al camino, ove scoppia la mortella | tra la stipa, o ch'io sogno, o veglio teco: | mangio teco radicchio e pimpinella. (O vano sogno, da L'ultima passeggiata)
  • Al rio sottile, di tra vaghe brume, | guarda il bove coi grandi occhi: nel piano | che fugge, a un mare sempre più lontano | migrano l'acque d'un ceruleo fiume. (da Il bove)
 
Ruggero Pascoli con i suoi figli, tra cui Giovanni
  • San Lorenzo, io lo so perché tanto | di stelle per l'aria tranquilla | arde e cade, perché sì gran pianto | nel concavo cielo sfavilla. (da X Agosto)
  • E tu, Cielo, dall'alto dei mondi | sereni, infinito, immortale, | oh! d'un pianto di stelle lo inondi | quest'atomo opaco del Male. (da X Agosto)
  • E cielo e terra si mostrò qual era: || la terra ansante, livida, in sussulto; | il cielo ingombro, tragico, disfatto. (da Il lampo)
  • Io la [felicità] inseguo per monti, per piani, | pel mare, pel cielo, nel cuore, | io la vedo, già tendo le mani, | già tengo la gloria e l'amore. (da Felicità)
  • Quando brillava il vespero vermiglio, | e il cipresso pareva oro, oro fino, | la madre disse al piccoletto figlio: | Così fatto è lassù tutto un giardino. | Il bimbo dorme e sogna i rami d'oro, | gli alberi d'oro, le foreste d'oro; | mentre il cipresso nella notte nera | scagliasi al vento, piange alla bufera. (Fides)
  • Stavano neri al lume della luna | gli erti cipressi, guglie di basalto, | quando tra l'ombre svolò rapida una | ombra dall'alto: | orma sognata d'un volar di piume, | orma d'un soffio molle di velluto, | che passò l'ombre e scivolò nel lume | pallido e muto: | ed i cipressi sul deserto lido | stavano come un nero colonnato, | rigidi, ognuno con tra i rami un nido | addormentato. (La civetta)
  • Udia tra i fieni allor allor falciati | de' grilli il verso che perpetuo trema, | udiva dalle rane dei fossati | un lungo interminabile poema. (frammento della poesia Romagna, da Ricordi)
  • Sembra un vociare, per la calma, fioco, | di marinai, ch'ad ora ad ora giunga | tra 'l fievole sciacquio della risacca. (frammento da I puffini dell'Adriatico, da Ricordi)
  • Scendea tra gli olmi il sole | in fascie polverose; | erano in ciel due sole | nuvole, tenui, róse: | due bianche spennellate | in tutto il ciel turchino. | Siepi di melograno, | fratte di tamerice, | il palpito lontano | d'una trebbïatrice, | l'angelus argentino... (frammento della poesia Patria, da Dall'alba al tramonto)
  • Manina chiusa, che nel sonno grande | stringi qualcosa, dimmi cosa ci hai! | Cosa ci ha? cosa ci ha? Vane domande: | quello che stringe, niuno saprà mai. (Morto, da Creature)
  • Come un'arca d'aromi oltremarini, | il santuario, a mezzo la scogliera, | esala ancora l'inno e la preghiera | tra i lunghi intercolunnii de' pini. (frammento da Il santuario, da Ricordi)
  • Allora... io un tempo assai lunge | felice fui molto; non ora: | ma quanta dolcezza mi giunge | da tanta dolcezza d'allora! (frammento dalla poesia Allora, da Dall'alba al tramonto)
  • Nel campo mezzo grigio e mezzo nero | resta un aratro senza buoi, che pare | dimenticato, tra il vapor leggero. (Lavandare, 1-3)
  • Nella soffitta è solo, è nudo, muore. | Stille su stille gemono dal tetto | [...] La notte cade, l'ombra si fa nera; | egli va, desolato, in Paradiso. (Abbandonato, da Creature)
  • Più bello il fiore cui la pioggia estiva | lascia una stilla dove il sol si frange. (Frammento da Pianto, da Pensieri)
  • Noi mentre il mondo va per la sua strada, | noi ci rodiamo, e in cuor doppio è l'affanno, | e perché vada, e perché lento vada. (Il cane, da L'ultima passeggiata)
  • Odi, sorella, come note al core | quelle nel vespro tinnule campane | empiono l'aria quasi di sonore | grida lontane? (da Campane a sera)
  • Quanti quel roseo campanil bisbigli | udì, quel giorno, o strilli di rondoni | impazienti agl'inquieti figli. (da Quel giorno)
  • Rosa di macchia, che dall'irta rama | ridi non vista a quella montanina, | che stornellando passa e che ti chiama | rosa canina; (da Rosa di macchia)
  • Sappi – e forse lo sai, nel camposanto – | la bimba dalle lunghe anella d'oro, | e l'altra che fu l'ultimo tuo pianto, | sappi ch'io le raccolsi e che le adoro. (da Anniversario)
  • Vien per la strada un povero che il lento | passo tra foglie stridule trascina: | nei campi intuona una fanciulla al vento: | Fiore di spina! (da Sera d'ottobre)
  • Gemmea l'aria, il sole così chiaro | che tu ricerchi gli albicocchi in fiore, e del prunalbo l'odorino amaro | senti nel cuore... || Ma secco è il pruno, e le stecchite piante | di nere trame segnano il sereno, | e vuoto il cielo, e cavo al piè sonante | sembra il terreno || Silenzio, intorno: solo, alle ventate, | odi lontano, da giardini ed orti, | di foglie un cader fragile. È l'estate, | fredda, dei morti. (Novembre)
  • Anch'io; ricordo, ma passò stagione; | quelle bacche a gli uccelli della frasca | invidiavo, e le purpuree more; | e l'ala, i cieli, i boschi, la canzone: | i boschi antichi, ove una foglia casca, | muta, per ogni battito di cuore. (da La Siepe)
  • E nella notte nera come il nulla, || a un tratto, col fragor d'arduo dirupo | che frana, il tuono rimbombò di schianto: | rimbombò, rimbalzò, rotolò cupo, | e tacque, e poi rimareggiò rinfranto, | e poi vanì. Soave allora un canto | s'udì, di madre, e il moto di una culla. (Il tuono, da Tristezze)
  • Per te i tuguri sentono il tumulto | or del paiolo che inquïeto oscilla; | per te la fiamma sotto quel singulto crepita e brilla; || tu, pio castagno, solo tu, l'assai | doni al villano che non ha che il sole; | tu solo il chicco, il buon di più, tu dài alla sua prole; || ha da te la sua bruna vaccherella | tiepido il letto e non desìa la stoppia; | ha da te l'avo tremulo la bella fiamma che scoppia. || Scoppia con gioia stridula la scorza | de' rami tuoi, co' frutti tuoi la grata | pentola brontola. (da Il castagno, vv. 41-56)

Citazioni su Myricæ

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  • Di questo libro che giunge ora alla sua sesta edizione, non rincresca al lettore, e specialmente alla soave lettrice, un po' di storia.
    Le più vecchie poesie del volume sono Il maniero (Ricordi IV) e Rio salto (ib. III), che furono fatti e, mi pare, anche pubblicati prima dell'80. Viene poi Romagna (Ricordi I) che è dell'80 o giù di lì. Fu poi pubblicata nella Cronoca bizantina, ma non so in qual numero: non la vidi mai. Poi ci fu un intervallo. Ero stretto dalle necessità della vita, e il canto non usciva dalla gola serrata. (Giovanni Pascoli, dalla Nota bibliografica, Massa settembre '86, in Myricae, Oscar Mondadori, 1967)

Nuovi poemetti

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La fiorita

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  • Mettea, chi fiori non potea, le spine; | mettea le gemme l'albero più brullo: | piovea la quercia, vergognando alfine, | le vecchie foglie a' piedi del fanciullo. (Il solitario, vv. 13-16)
  • Le voci fuori ne traea più belle | e più lontane. Ed ecco che su l'aia | vide due rondini alïare snelle. || Svolar le vide sotto la grondaia, | e poi sparire; e ritornar più tante, | tornare in quattro, in otto, in dieci, a paia. || E stava sotto il prugno tremolante | di bianchi fiori, tra il girar veloce | di tante nere rondinelle sante. || (Avean Gesù pur consolato in croce!) | Forse mancava a casa lor qualcosa: | parlavan alto, tutte ad una voce... (La rondine, vv. 20-31)
  • Avevi i piedi ignudi su la soglia, | tremavi come un armellino in fiore, | che trema tutto al vento che lo spoglia. (La cinciallegra, vv. 7-9)
  • Ma il torcicollo a cui nulla si cela, | avanti o dietro, e che giammai non erra, | cantava pur la lunga sua querela. (Il torcicollo, vv. 26-28)
  • Udiano le due voci delle sere | di primavera, limpide e sonore, | così lontane che parean non vere, || così vicine che parean del cuore. (Il cuculo, vv. 36-39)
  • Voi fate troppo, autunno verno estate. | Rosa, se non lavate, voi stendete! | Rosa, se non tessete, voi filate! || Per voi non c'è momento di quiete. | Tutto tenete lindo, netto, asciutto, | lustrate ogni solaio ogni parete. || Parete un uccelletto, biondo, sdutto, | snello, che cala becca salta frulla | in un minuto. E sola fate il tutto! (La lodola, vv. 20-28)
  • Allor s'aprì la prima stella in cielo; | e dalla terra tacita e sorpresa | si levò un trillo come un lungo stelo. || Un'altra, un altro. Ad ogni stella accesa, | un nuovo canto. Un canto senza posa | correva ardendo lungo la distesa || del cielo azzurro. – È l'usignolo, o Rosa! – (L'usignolo, vv. 33-39)

Il naufrago – Il prigioniero

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  • Il mare, al buio, fu cattivo. Urlava | sotto gli schiocchi della folgore! Ora | qua e là brilla in rosa la sua bava. | Intorno a mucchi d'alga ora si dora | la bava sua lungi da lui. S'effonde | l'alito salso alla novella aurora. | Vengono e vanno in un sussurro l'onde. | Sembra che l'una dopo l'altra salga | per veder meglio. E chiede una, risponde | l'altra, spiando tra quei mucchi d'alga... (Il naufrago, vv. 1-10)
  • Non siamo onde superbe, onde sommesse. | Onde, e non più. L'acqua del mare è tanta! | Siamo in un attimo, e non mai le stesse. || Ora io son quella che già là s'è franta. | E io già quella ch'ora là si frange. | L'onda che geme ora è lassù, che canta; | l'onda che ride, ai piedi tuoi già piange. (Il naufrago, vv. 24-30)
  • Noi siamo quello che sei tu: non siamo. | L'ombre del moto siamo. E ci son onde | anche tra voi, figli del rosso Adamo? | Non sono. È il vento ch'agita, confonde, | mesce, alza, abbassa; è il vento che ci schiaccia | contro gli scogli e rotola alle sponde. (Il naufrago, vv. 31-36)
  • Andava all'Alpe, dove più non sono | che greggi erranti, e dove non si sente, | fuor che di foglie al vento, altro frastuono; || o il solitario scroscio del torrente | dopo un'acquata, o il conversar tranquillo, | presso le bianche nuvole, di gente, || che non si vede, intorno cui lo squillo | de' campanacci va per le pratina | odorate di menta e di serpillo. (La morte del Papa, vv. 4-12)
  • Usignol della nebbia, che i nostri orti | visiti quando non c'è più che bruchi, | tu che ci lodi il verno che ci porti; || e ti fai cuore, e vieni e vai, t'imbuchi, | t'infraschi, e cerchi e fai sentire un canto | appena trovi sanguini o sambuchi: [...]. (Zi Meo, vv. 34-39)
  • [...] girare i boschi, bere ai puri fonti | della sua terra, e te godere ancora, | sole, che così bello oggi tramonti, || e, dopo ancor l'avemaria, quest'ora | chiara e la sera che s'addorme e pare | sognar, sui monti, d'essere l'aurora. (Nannetto, vv. 16-21)
  • Chi vede mai le pratelline in boccia? | Ed un bel dì le pratelline in fiore | empiono il prato e stellano la roccia. || Chi ti sapeva, o bianco fior d'amore | chiuso nel cuore? E tutta, all'improvviso, | la nera terra ecco mutò colore. (Bellis perennis, vv. 1-6)
  • O mezzo aperta come chi non osa, | o pratellina pallida e confusa, || che sei dovunque l'occhio mio si posa, | e chini il capo, all'occhio altrui non usa; || bianca, ma i lievi sommoli, di rosa; | tanto più rosa quanto più sei chiusa: || ti chiudi a sera, chi sa mai per cosa, | sei chiusa all'alba, ed il perché sai tu; || o primo amore, o giovinetta sposa, | o prima e sola cara gioventù! (Bellis perennis, vv. 11-20)
  • È il verno, e tutti i fiori arse la brina | nei prati e tutte strinò l'erbe il gelo: | ma te vedo fiorir, primaverina. || Tu persuasa dal fiorir del cielo, | fioristi; ed ora, quasi più non voglia | perché sei sola, appena alzi lo stelo. | O fior d'amore su la trita soglia! | Tu tingi al sommo i petali d'argento | d'un rosso lieve. Una raminga foglia | ti copre un poco, e passa via col vento... || O fior d'amore sulla soglia trita! | o quando tutto se ne va, venuta! | che vivi quando è per finir la vita! | e che non muti anche se il ciel si muta! (Bellis perennis, vv. 21-34)
  • Ma il frate, andando, con un pio sgomento | toccava appena la rea terra, appena | guardava il folgorìo del firmamento: || quella nebbia di mondi, quella rena | di Soli sparsi intorno alla Polare | dentro la solitudine serena. || Ognun dei Soli nel tranquillo andare | traeva seco i placidi pianeti | come famiglie intorno al focolare: || oh! tutti savi, tutti buoni, queti, | persino ignari, colassù, del male, | che no, non s'ama, anche se niun lo vieti. (La pecorella smarrita, vv. 78-89)
  • Su quel immenso baratro tu passi | correndo, o Terra, e non sei mai trascorsa, | con noi pendenti, in grande oblìo, dai sassi. || Io, veglio. In cuor mi venta la tua corsa. | Veglio. Mi fissa di laggiù coi tondi | occhi, tutta la notte, la Grande Orsa: || se mi si svella, se mi si sprofondi | l'essere, tutto l'essere, in quel mare | d'astri, in quel cupo vortice di mondi! (La vertigine, vv. 35-43)
  • [...] dolore è più dolor, se tace. (Il prigioniero, v. 3)
  • Chi piange in sogno, è giunto a ciò che vuole, | è giunto alfine a tutto ciò che implora | invano. (Il prigioniero, vv. 21-23)

I filugelli

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  • Or sì, conviene ai gelsi bianchi, ai mori, | dare il pennato, e portar foglia a fasci, | con fruscìo grande e il fresco odor di fuori! || Ma su le prime indugi un po'; né lasci | che il gregge impingui, e se ne perda il frutto: | attenta, accorta, a man a man li pasci | più largamente, fin che indulgi il tutto. (I filugelli, canto III, vv. 127-133)

La mietitura

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  • Fioria la zucca, arsivano i piselli, | nell'orto. Le ciliege erano andate: | per San Giovanni avevano i giannelli.[14] (Tra le spighe, vv. 10-12)
  • E il grano al vento strepitava; e disse | il padre al figlio: "Mieteremo. Vedi: | verdino è, sì, ma non vorrei patisse. || Ché il grano dice: — Io sto ritto, e tu siedi. | Qui temo l'acqua, e il vento mi dà briga. | Altronde, o presto o tardi, o steso o in piedi, | se il gambo è secco seccherà la spiga —" (Tra le spighe, vv. 33-39)
  • La terra è buona: dura, ma fedele; | ma è una barca, il sole per timone, | e bianche e nere nuvole per vele. || Ci vuole il cielo: tutto a sua stagione; | e freddo, caldo, dolce, aspro, ci vuole, | e i lampi e i tuoni e il fumido acquazzone. (Terra e cielo, vv. 4-9)
  • Si sa: marzo va secco, il gran fa cesto. | Il gran, per uno pallido e sottile, | più ciuffi mise, quanto più fu pesto. (Terra e cielo, vv. 17-19)
  • Chi prega è santo, ma chi fa, più santo. (E lavoro, v. 3)
  • Né lavorato avevo a fondo: a fondo | avevo sì, ma pel granturco d'anno. | Il grano è meglio, e però vien secondo. || Sta pago il grano a quello che gli dànno. | Vuol sì la terra trita, ma non trita | tanto, che, anzi, gli sarebbe a danno. || Non diedi al grano che mi dà la vita, | nemmeno il concio. Poco o nulla e' chiede | per far la spiga bella e ben granita. (E lavoro, vv. 17-25)
  • Il meglio, il fiore dell'annata intera, | noi manderemo subito al molino; | che l'abbia a giorno e che lo renda a sera. (Il pane, vv. 20-22)
  • Nere le mete: solo qualche lampo | facean le paglie, come se un tesoro | fosse disperso qua e là nel campo. (La messe, vv. 33-35)
  • L'alba sul monte e l'ombra nella valle. | I vermi chiusi ne' ben fatti avelli, | piccole mummie, rinascean farfalle. || Le spose uscian da' bozzoli più belli, | candide e gravi. Col frullar dell'ale | movean ver loro i brevi maschi snelli. || La savia madre il letto nuzïale | bianco lor tese. Ognuno andava in traccia | d'una compagna all'opera immortale. (I semi, vv. 1-9)
  • Va col corredo quale a te perviene. || Frullare il fuso e correre la spola | facesti assai! La tela, che tessesti! | Quante coperte e paia di lenzuola! || Tutte son tue; che, quando là ti desti | nei primi giorni, prima che sia giorno, | pensi che i più, degli anni tuoi, son questi. || Ti sentirai l'odor di casa attorno, | il buon odor di spigo e di cotogno, | e di tua mamma; ed ecco, di ritorno || sarai, tra noi, se dopo dormi, in sogno. (Il corredo, vv. 6-16)
  • E salutò coi cenni della mano | la vigna verde che le dava il vino, | il campo grande che le dava il grano; || e il melograno rosso e il biancospino | della sua siepe, e il campo così smorto, | in cui fiorì come un bel cielo il lino: || ciò ch'era morto e ciò ch'era risorto, | ciò che nasceva e che moriva al sole, | la selva, il prato, l'oliveta e l'orto. (Il saluto, vv. 4-12)
  • Che cosa avrebbe egli da lei voluto? | Qual piaga dare tenera e mortale | a quelle carni bianche, di velluto? || Qual pianto fa di quel ch'è ora, e quale | rimpianto mai di quel ch'un giorno fu!... — | Col mesto verso eternamente uguale || le rispondeva di lontano il chiù. (Il chiù, vv. 26-32)

Le due aquile – I due alberi

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  • S'alza a vedere; tra le nubi e i venti | s'adagia in cielo. Nelle valli brune | vede gettarsi i botri ed i torrenti. || Vanno con un feroce urlo comune, | chi qua chi là. Scendono ciechi al piano, | portano massi, travi, alberi, cune. || Hanno la cupa voce d'uragano | e di valanga; ed il fragor con loro | rapido va, ma non è mai lontano. || Fuor dalle nubi, risplendente d'oro, | l'aquila ruota, remeggiando lenta, | sopra il terrestre vortice sonoro. | E s'alza ancora ed alto un grido avventa, | atroce, per le vane plaghe sole. | Tre volte grida, e sta tre volte intenta || all'eco forse che ne mandi il sole. (Le due aquile, vv. 23-37)
  • Voli lo staccio e treppichi giocondo, | vaporando il suo bianco alito fino, | che si depone sul tuo capo biondo. || O lieve staccio, io t'amo. Il tuo destino | somiglia al mio: tener la crusca; il fiore, | spargerlo puro per il tuo cammino. | E fai codesto con un tuo rumore | lieto, in cadenza: semplice, ma bello | per l'orecchio del pio lavoratore. (La piada, vv. 23-31)
  • Il poco è molto a chi non ha che il poco: [...]. (La piada, v. 42)
  • Ciò che secca e che cade e che s'oblia, | io lo raccolgo: ancora ciò che al cuore | si stacca triste e che poi fa che sia | morbido il sonno, il giorno che si muore. (La piada, vv. 54-57)
  • Entra, vegliardo, antico ospite: ed ecco | l'azimo antico degli eroi, che cupi | sedeano all'ombra della nave in secco || (si levarono grandi sulle rupi | l'aquile; e nella macchia era tra i rovi | un inquïeto guaiolar di lupi...): | il pane della povertà, che trovi | tu, reduce aratore, esca veloce, | che sol s'intrise all'apparir dei bovi: || il pane dell'umanità, che cuoce | in mezzo a tutti, sopra l'ara, e intorno | poi si partisce in forma della croce: || il pane della libertà, che il forno | sdegna venale; cui partisci, o padre, | tu, nelle più soavi ore del giorno: || ognuno in cerchio mangia le sue quadre; | più, i più grandi, e assai forse nessuno; |o forse n'ebbe più che assai la madre, || cui n'avanza da darne un po' per uno. (La piada, vv. 96-114)
  • Azimo santo e povero dei mesti | agricoltori, il pane del passaggio | tu sei, che s'accompagna all'erbe agresti; || il pane, che, verrà tempo, e nel raggio | del cielo, sulla terra alma, gli umani | lavoreranno nel calendimaggio. (La piada, vv. 115-120)
  • E la luna calante batté gialla | sull'impannata. Netta, senza brume, | stava, sul liscio mar di neve, a galla. || L'immensa taiga biancheggiava al lume. | Qualche betulla nuda, qualche cono | d'abete, e solchi d'ombra d'un gran fiume. (Gli emigranti nella luna, canto primo, Il broading e lo studente, vv. 23-28)
  • Fole! | L'uomo non vola, o garrula ghiandaia, | come gli uccelli e come le parole! (Gli emigranti nella luna, canto primo, Il broading e lo studente, vv. 45-47)
  • Io l'ho veduta. | In un suo libro. Egli sapea contare | i monti e i mari. Io l'ascoltava muta. || C'è il Mare di Serenità. C'è il Mare | di Nubi. Anche, di Pioggie e di Tempeste. | Un altro Mare senza l'acque amare. || C'è la Palude delle Nebbie meste. | C'è anche un Seno, a goccia a goccia pieno | di guazza dalla grande alba celeste. || E c'è il Lago dei Sogni. Anche c'è il Seno | delle Iridi: tanti alti archi di porte | nel cielo: un infinito arcobaleno. || Vicino ai Sogni, il Lago della Morte. (Gli emigranti nella luna, canto secondo, Com'è la luna, vv. 33-44)
  • O tacito paese | sopra le nubi! O isola del cielo, | che fiorisci e sfiorisci d'ogni mese! (Gli emigranti nella luna, canto secondo, Com'è la luna, vv. 48-50)
  • E non c'è dì senz'alba, e l'alba è l'ora | più bella; e senza fiore non c'è frutto, | e il fiore è bello, il fiore è il più che odora. (Gli emigranti nella luna, canto terzo, In sogno, vv. 60-62)
  • Io l'ho veduta. Corre sempre, vola, | passa. Ma mentre va, che non mai posa, | a noi non volge che una parte sola. || Vediamo, noi, nel cielo azzurro o rosa, | sempre quelle montagne, sempre quelle | paludi. Sempre. Ma di là? Che cosa | è mai di là, verso le grandi stelle? (Gli emigranti nella luna, canto quinto, L'altra faccia lunare, vv. 38-44)
  • Più che mezza la luna era, e più ore | restava su, tra l'iridato alone, | e le notti imbevea del suo pallore. (Gli emigranti nella luna, canto sesto, In cerca della guida, vv. 1-3)
  • Vento dei Santi, il giorno si raccoglie | già per morire; e tu su' due gemelli | alberi soffi, e stacchi lor le foglie. || Ora le tocchi appena, ora le svelli: | quali cadono a una a una, quali | partono a branchi, come vol d'uccelli. || Tutta una fuga, quando tu li assali, | si fa nel cielo, e in terra, fra le zolle, | un fruscìo grande, un vano tremor d'ali: || stridono e vanno, girano in un folle | vortice, frullano inquïete attorno, | calano con un abbandono molle. (I due alberi, vv. 1-12)
  • Viene col vento un canto di preghiera | e di tristezza, e vanno via le foglie | con lui, stridendo in mezzo alla bufera: || "Noi di noi siamo le fugaci spoglie: | la nostra vita è sempre là dov'era. || Il vento in vano all'albero ci toglie: | là rinverzicheremo a primavera." | Col vento via le vane foglie vanno; | gemono, mentre intorno si fa sera. | "Non torneremo al rifiorir dell'anno: | noi ce n'andiamo avvolte nell'oblìo. | Non fu la vita che un fugace inganno. | L'albero è morto. Addio per sempre! Addio!" (I due alberi, vv. 17-29)

La vendemmia

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  • La paradisa ha pigne lunghe e chiare, | e tutti d'oro sono i chicchi, e hanno | il sole dentro, il sole che traspare. (La vendemmia, canto primo, vv. 28-30)
  • Il bello è bello, ma non dura. (La vendemmia, canto primo, v. 44)
  • La gente era venuta sull'aurora | quando la guazza o la nebbietta inerte | vapora in cielo, e il cielo si colora. (La vendemmia, canto primo, vv. 50-52)
  • Il cielo già si colorava in fuoco. | Al colmo tino il giovinetto snello | si lanciò su, come provar per gioco. || Stette sull'orlo un poco in piedi, bello, | raggiante tutto del suo bel domani, | a braccia spante, simile a un uccello. || Poi si chinò, s'apprese con le mani | all'orlo, e dentro, fra le pigne frante | tuffò le gambe e sul crosciar dei grani. || Il rosso mosto risalì spumante | sopra i garretti; ed ei girava a tondo | premendo coi calcagni e con le piante. || E il sole rosso illuminava il biondo | vendemmiatore; ed ecco, da un remoto | canto del cielo un tintinnìo giocondo. || Uno, dal cielo, accompagnava il moto | dei piedi suoi, di su quei rosei fiocchi, | picchiando in furia sur un bronzo vuoto... || L'altro moveva rapidi i ginocchi | sul rosso mosto, anche movea la testa | ben in cadenza, il sole in mezzo agli occhi. (La vendemmia, canto primo, vv. 84-104) [descrivendo la pigiatura]
  • Oh! non a nulla! Egli rideva, io penso, | con gli angioletti. Io ci sentii l'odore | di gigli, a volte; o un vago odor d'incenso. || Nella sua stanza essi venian nell'ore | calde che i bimbi dormono. Alla gola | uno lo vellicava con un fiore; || e tutti attorno alla cunella sola | facean i giochi, ed e' guardava attento, | come lassù si canta e suona e vola; || scoteano i loro cembali d'argento, | battean sui loro tamburelli vani... | Entravo, via sparivano col vento: || rideva esso, annaspando con le mani. (La vendemmia, canto secondo, vv. 40-52)

Odi e inni

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  • E nella notte giovinetto insonne | vidi la luce postuma, lo spettro | dell'alba: tremole colonne | d'opale, ondanti archi d'elettro. || E sotto i flessili archi e tra le frante | colonne vidi rampollare il flutto | d'un'ampia chiarità, cangiante | al palpitare del gran Tutto. (da L'aurora boreale)
  • Di fronte | m'eri, o Sicilia, o nuvola di rosa | sorta dal mare! E nell'azzurro un monte: l'Etna nevosa. | Salve, o Sicilia! Ogni aura che qui muove | pulsa una cetra od empie una zampogna, | e canta e passa… Io era giunto dove | giunge chi sogna. (da L'isola dei poeti, pp. 404-405, 1997)
  • Tu [Otto von Bismarck] sei la Forza. Avanti dunque, o conte, | principe, duca, esci dal tuo maniero, | galoppa su la cupa eco del ponte, || corri pel mondo, ancora tuo!... Guerriero | dalla lunga ombra, ferma il tuo cavallo | nel campo, sotto quello stormo nero! (da Bismarck, pp. 408-409, 1997)
  • O tu [corbezzolo] che, quando a un alito del cielo | i pruni e i bronchi aprono il boccio tutti, | tu no, già porti, dalla neve e il gelo | salvi, i tuoi frutti; || e ti dà gioia e ti dà forza al volo | verso la vita ciò che altrui le toglie, | ché metti i fiori quando ogni altro al suolo | getta le foglie; || i bianchi fiori metti quando rosse | hai già le bacche, e ricominci eterno, | quasi per gli altri ma per te non fosse | l'ozio del verno; || o verde albero italico, il tuo maggio | è nella bruma: s'anche tutto muora, | tu il giovanile gonfalon selvaggio | spieghi alla bora... (da Al corbezzolo. p. 412, 1997)
  • Cantò tutta la notte un coro | di trilli arguti e note gravi; | e il plenilunio d'oro | splendé sul letto dove riposavi. || All'alba si diffuse un grande | odor nel portico: il tuo chiostro | fu pieno di ghirlande: | una diceva: AL CARO PIN CH'È NOSTRO. (da A Giuseppe Giacosa, p. 423, 1997)
  • guardi chi passa nella grande estate: | la bicicletta tinnula, il gran carro | tondo di fieno, bimbi, uccelli, il frate | curvo, il ramarro... (da La rosa delle siepi, p. 448, 1997)
  • Ciò fu nei tempi che ai monti | stridevano ancor le Chimere, | quando nei foschi tramonti | Centauri calavano a bere... (da Ad Antonio Fratti, p. 473, 1997)
  • TERRA!... — Sì, terra, sì. Tristo | risveglio! Dormivi, da secoli, || o portatore del Cristo, | dormivi; e giungeva a te l'eco || d'armi e di sferze; a te, presso | la tomba, il lor pianto sommesso | piangeano gli schiavi. || Esule cenere muta, | non questo è l'arrivo: è il ritorno! || Dietro la poppa battuta | dall'onde, è la sera d'un giorno... || esule cenere mesta, | del giorno latino! Ed è questa | la terra degli avi, || vecchia! È la notte del giorno | latino; è il fatale ritorno. (da: Il Ritorno di Colombo, pp. 484-485, 1997)
  • Voi che notturni moveste | per le strade ancora ombrate; | ch'or nel vestibolo, al vento | antelucano, aspettate | ch'uno v'apra il monumento | del gran Morto; || voi che da quando le stelle | pendean bianche su le lande, | state: qui, sotto una mole | grave, v'ascosero il Grande; | qui: vedetela nel sole | ch'è già sorto. | Voi che recaste gli aromi | questa è la tomba, se voi | non cercate che una pietra | esso, l'aedo d'eroi, | sceso qui con la sua cetra, | non è qui. (da A Verdi, p. 524, 1997)
  • Vive, ed è lungi, e ci manda | l'inno dell'anima umana | ch'è in esilio ed in martoro. | Presso un'ignota fiumana | ha sospesa l'arpa d'oro; | non è qui. (da A Verdi, p. 526, 1997)
  • Morto? Ma forse l'Italia | dai due mari fu sommersa? | Dove fu l'Etna nevosa | l'onda ribolle e riversa? | dove stette il Monte Rosa, | c'è una duna? (da A Verdi, p. 526, 1997)
  • Egli sul bianco cavallo | corse via con la sua tromba: | non è qui. (da A Verdi, p. 527, 1997)
  • Oh! chi morì senza fine, | non ha fine, non è spento, | non è qui. (da A Verdi, p. 527, 1997)
  • Dove?... Nel cielo d'Italia! | Dove?... Chiedetene al Sole! | Qui non c'è che questa pietra. | Stare e posare, non vuole: | balzò su con la sua cetra, | non è qui. (da A Verdi, 529, 1997)
  • Voi che sotterra cercate | l'ultimo Grande d'Italia; | – era l'ombra, e il giorno è sorto – | l'ultimo Grande d'Italia, | io vi grido, non è morto, | non è qui! (da A Verdi, p. 529, 1997)

Le canzoni di Re Enzio

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Illustrazione da Le canzoni di Re Enzio

La canzone del Carroccio

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  • Mugliano i bovi appiedi dell'Arengo. | Sull'alba il muglio nella città fosca | sparge l'odor del sole e della terra. | L'aratro appare che ricopre il seme, | appare il plaustro che riporta il grano. | Torri Bologna più non ha, che pioppi: | tra i suoi due fiumi, tremoli alti pioppi.. (I bovi, I, vv. 1-8)
  • Esce il Carroccio e sta sotto l'Arengo. | Par che si levi un pianto dalle donne. | – Quando tu parti, nulla qui rimane: | restano solo i morti nelle chiese. [...] | Le donne in cuore hanno finito il pianto. – Quando tu parti, teco viene il tutto: | poniam su te tutte le vite nostre. | Le nostre vite porti uguali unite: | carico vai di grappoli e di spighe. [...] | La messa e il vespro sovra te si canta, | squillano a morte di su te le trombe. | No, non con noi restano nelle chiese | i Santi d'oro: escono teco in campo! | Nemmeno i morti nei muffiti chiostri | sono con noi: vengono teco al sole! | 'Vengono ai tocchi della Martinella, | che suona all'alba, a sera, a morto, a gloria. | o bel Carroccio, o forza arte ricchezza | e libertà comune! (L'insegna del Comune, IV)
  • Non per un fiume; per un mar tu varchi, | nave fornita d'ogni fornimento | per il passaggio. Un mare ti circonda, | uguale, immenso, e sempre a gli occhi ondeggia: | un mare biondo e tremulo di spighe | donde s'esala già l'odor del pane, | un rosso mare di trifoglio, un mare | verde di folta canapa, un celeste | mare di lino, cielo sotto cielo, | e bianche in mezzo nuotano le culle. (La via Emilia, VII, vv. 61-70)

La canzone del Paradiso

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  • I bovi per l'erbita cavedagna | portano all'aia sul biroccio il grano. | Passa il biroccio tra le viti e li olmi, | con l'ampie brasche, pieno di covoni. | Sotto i covoni va nascoso il carro, | muovono i bovi all'ombra delle spighe. | La messe torna donde partì seme, | da sé ritorna all'aia ed alle cerchie. (Il biroccio, I, vv. 1-8)
  • È mezzanotte, l'ora che al sereno | prende virtù l'erba, la foglia, il fiore, | e l'olio chiuso nelle borse d'olmo, | e il ramo puro, il ramo d'agnocasto. (San Giovanni, II, vv. 65-68)
  • Or ella va con la canestra in capo, | lungo la verde Savena, ai serragli, | alle aspre porte, alla città turrita, | recando l'uva paradisa, d'oro. | Ora non canta: canta sì la verla; | fischiano sì le pispole di passo; | anco le rondini: elle vanno in branco | dolce garrendo a ripulirsi al fiume. | Vede ella i meli rosseggiar di pomi, | vede curvare i peri a terra i rami; | l'api bombire, ode ronzar le vespe | e i calabroni in mezzo al dolce fico. (Lusignuolo e Falconello, IX, vv. 1-12)

La canzone dell'Olifante

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  • Fu il venerdì, ch'era dolore e sangue | e la battaglia al Prato delle rose. | Bello era il tempo e tralucente il giorno. | Enzio era volto a dove nasce il sole. | Di là! l'altr'anno, sorgere una stella | soleva, lunga, che parea selvaggia | del cupo cielo, e lo fendeva in fuga, | lasciando il segno come una ferita. (La vedetta, I, vv. 1-8)
  • Suonano qua e là da' battifredi | or fioche or chiare tutte le campane. | Passa la trecca, passa il pesciaiuolo, | la merce sua cantando ognuno a prova. | Vengono, a frotte, ai portici le donne, | quando si sforna, a comperare il pane. | A quando a quando ora su questa torre | ora su quella tubano i colombi. | E s'ode ancora il canto del giullare | già rauco, e un aspro suono di vivuola. (La mischia, IV, vv. 27-36)
  • E suona la campana del Comune | a tocchi tardi. Ella è sonata a soga. | Buon artigiano, cessa l'opra: è notte. | Uomo dabbene, torna a casa: è buio. | Il bevitore esca dalla taverna. | Chi giuoca a zara, lasci il tavoliere. | Uscite, o guaite, per veder se alcuno | va per la terra senza lume o fuoco. | Affretta il passo, o peregrino, e trova | qualche uscio aperto, ove tu chieda albergo. | Ora in palagio tuonano le porte, | i catenacci stridono e le chiavi, | serrando il re. Poi tace ultima anch'essa | la lunga lugubre campana. (Il Sacro Impero, VIII, vv. 1-14)

Poemi italici

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  • Stormi di gru fuggivano le brume, | schiere di cigni come bianche navi | fendeano l'acqua d'un ceruleo fiume. | Veniano sparse alle lor note travi | le rondini. E tu, bruna aquila, a piombo | dal cielo in vano sopra lor calavi. (Paulo Vcello, cap. III)
  • O Paulo uccello, sii come i foresti | fratelli tuoi! Chè chi non ha, non pecca. | Non disïare argento, oro, due vesti. | Buona è codesta, color foglia secca, | tale qual ha la tua sirocchia santa, | la lodoletta, che ben sai che becca | due grani in terra, e vola in cielo, e canta. (Paulo Vcello, cap. VI)
  • [Su Lev Tolstoj] Cercava sempre, ed era ormai vegliardo. | Cercava ancora, al raggio della vaga | lampada, in terra, la perduta dramma. | L'avrebbe forse ora così sorpreso | con quella fioca lampada pendente, | e gliel'avrebbe con un freddo soffio | spenta, la Morte. E presso a morte egli era! [...] | Ed e' vestì la veste rossa e i crudi | calzari mise, e la natal sua casa | lasciò, lasciò la saggia moglie e i figli, | e per la steppa il vecchio ossuto e grande | sparì [...]. (Tolstoi, cap. I)
  • Nella città rissavano i maggiori | ed i minori; e gli uni avean le spade, | gli altri i pugnali, ed erano di cenci | questi coperti, e que' vestian di ferro; | gli uni più forza, gli altri avean più odio. | Ed ai minori si mescean le donne | forte strillanti e i figlioletti ignudi. | E quelle labbra quasi rosse ancora | del bere al petto, impallidian già d'ira. (Tolstoi, cap. IV, vv. 1-9)

Primi poemetti

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  • Il ricordo è poesia, e la poesia non è se non ricordo. (dalla Prefazione)
  • I rondoni. Strillano in gruppi di quattro o cinque: in corse disperate, come pazzi. Fanno il nido nei buchi lasciati dalle travi. Ecco che io ho intorno casa anche i rondoni, popolo bellicoso e straniero, vestito di nero opaco. Ahimè! con le rondini non andranno d'accordo! saranno risse e guerre! (dalla Prefazione)
  • Sì: sonava lontana una campana, ombra di romba; sì che un mal vestito | che beveva, si alzò dalla fontana, | e più non bevve, e scongiurò, di rito, | l'impaziente spirito. Via via | si sentì la campana di San Vito. (da L'Angelus, vv. 1-6)
  • Tengono l'osso ancora (od uno stecco?) | le cinciallegre, piccoli mastini, | sotto le zampe, e picchiano col becco. (da La cincia, vv. 26-28)
  • Era nel bosco, nella reggia estiva | del redimacchia. Intorno udia beccare | gemme di pioppo e mignoli d'uliva. || E la macchia pareva un alveare, | piena di frulli e di ronzii. Ma ella | sentiva anche un frugare, uno sfrascare, || un camminare. Chi sarà? Ma in quella | che riguardava tra un cespuglio raro, | improvvisa cantò la cinciarella. (da La notte, vv. 20-28)
  • Non i loquaci spettator che suole, | avrà sui merli il volo de' rondoni | (uno svolìo di moscerini al sole || par di lontano sopra i torrioni | del castellaccio); e assorderà le mura | mute il lor grido, e i muti erbosi sproni! (da L'albergo, vv. 13-18)
  • C'è qualcosa di nuovo oggi nel sole | anzi d'antico: io vivo altrove e sento | che sono intorno nate le viole || Sono nate nella selva del convento | dei cappuccini, tra le morte foglie | che al ceppo delle quercie agita il vento. (da L'aquilone, vv. 1-6)
  • L'altra sorrise. «E di': non lo ricordi | quell'orto chiuso? i rovi con le more? || i ginepri tra cui zirlano i tordi? | i bussi amari? quel segreto canto | misterioso, con quel fiore, fior di...?» || «morte: sì, cara». «Ed era vero? Tanto | io ci credeva che non mai, Rachele, | sarei passata al triste fiore accanto. || Ché si diceva: il fiore ha come un miele | che inebria l'aria; un suo vapor che bagna | l'anima d'un oblìo dolce e crudele.» (da Digitale purpurea, vv. 10-21)
  • Or siamo fermi: abbiamo in faccia Urbino | ventoso: ognuno manda da una balza | la sua cometa per il ciel turchino. || Ed ecco ondeggia, pencola, urta, sbalza | risale, prende il vento; ecco pian piano | tra un lungo dei fanciulli urlo s'inalza. || S'inalza; e ruba il filo dalla mano, | come un fiore che fugga su lo stelo | esile, e vada a rifiorir lontano. (da L'aquilone, vv. 22-30)
  • Caro il mio grano! Quando il mio tesoro, | mando al mulino, se ne va, sì, questo; | ma quello nasce sotto il mio lavoro. | [...] | Tua carne è il pane – Ma tuo sangue, il vino – | Che odore sa l'odore di pan fresco! – E che cantare fa, cantar di tino! – (da Grano e vino, vv. 7-9, 26-28)
  • Parea che un carro, allo sbianchir del giorno | ridiscendesse l'erta con un lazzo | cigolìo. Non un carro, era uno storno, || uno stornello in cima del Palazzo | abbandonato, che credea che fosse | marzo, e strideva: marzo, un sole e un guazzo! (da Italy, canto I, vv. 85-90)

Incipit di Ai medici condotti

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Cari e valorosi cittadini,
Voi per pochi giorni siete tornati alla fonte, vi siete riabbracciati alla madre, vi siete ricongiunti alla vostra giovinezza. E la fonte vi mescé ancora la pura limpida salubre bevanda, e la madre vi mise a parte, con l'antico affetto, de' suoi umani studi, e la giovinezza, se non aveva, ahimè! più le volate speranze e i labili sogni d'un tempo, vi rinsaldò e rinvigorì tuttavia nei nobili cuori i severi e alti propositi dei vostri principii.

Citazioni su Giovanni Pascoli

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  • Anche Pascoli mi sembrava un poeta, certamente molto notevole, ma, molto, troppo dolciastro per il mio temperamento. Troppo sentimentale e troppo dolciastro: questa era l'opinione che mi facevo io. (Eugenio Montale)
  • Di fatto si determina nei tre [Giovanni Pascoli e le due sorelle minori Ida e Mariù] che la disgrazia ha diviso e ricongiunto una sorta di infatuazione e mistificazione infantili, alle quali Ida è connivente solo in parte. Per il Pascoli si tratta in ogni caso di una vera e propria regressione al mondo degli affetti e dei sensi, anteriore alla responsabilità; al mondo da cui era stato sbalzato violentemente e troppo presto. Possiamo notare due movimenti concorrenti: uno, quasi paterno, che gli suggerisce di ricostruire con fatica e pietà il nido edificato dai genitori; di investirsi della parte del padre, di imitarlo. Un altro, di ben diversa natura, gli suggerisce invece di chiudersi là dentro con le piccole sorelle che meglio gli garantiscono il regresso all'infanzia, escludendo di fatto, talvolta con durezza, gli altri fratelli. In pratica il Pascoli difende il nido con sacrificio, ma anche lo oppone con voluttà a tutto il resto: non è solo il suo ricovero ma anche la sua misura del mondo. Tutto ciò che tende a strapparlo di lì in qualche misura lo ferisce; altre dimensioni della realtà non gli riescono, positivamente, accettabili. Per renderlo più sicuro e profondo lo sposta dalla città, lo colloca tra i monti della Garfagnana dove può oltre tutto mimetizzarsi con la natura. (Mario Luzi)
  • Entrare nell'orizzonte pascoliano, senza esserne complici, è un'esperienza simile a una tortura; ma, una volta entrati, fatto il primo passo, chiudere l'argomento e tagliare la corda è impossibile: le viscere pascoliane non hanno fine, perché non hanno forma. (Cesare Garboli, Trenta poesie famigliari di Giovanni Pascoli, Einaudi, 1990, p. XXVII)
  • Giovanni Pascoli rimarrà per gli Italiani il grande lirico delle intime tombe familiari, come Ugo Foscolo è il grande cantore delle tombe che la Nazione conserva ai suoi figli immortali.
    Per questi nostri due sommi vati si completa la Italiana Lirica dei Sepolcri! (Guglielmina Ronconi)
  • Il Pascoli non è ancora il poeta della natura, come poi si è ripetuto sino alla noia, ma della campagna, del giardino; dell'orto, spiegherebbe un maligno. Alla sua contemplazione basta poco spazio di terra e di cielo e gli umili motivi sono svolti con tono dimesso, con semplicità francescana in frammenti lirici di poca estensione, simili agli effimeri campestri che nascondono tra l'erba l'esile involucro del gambo e del fiore. C'è lo spunto e null'altro: guai, del resto, se altro ci fosse, che avremmo, anziché tenui violette e non-ti-scordar-di-me, papaveri e rosolacci. Ma ciò basta per darci una sensazione nuova e sincera di colore, di sapore, di suono; farcela risognare entro noi con la malia di un piccolo piacere goduto. Mancano i quadri complessi, dagli sfondi vasti, dai limiti imprecisabili, da le tinte forti che gravano su l' occhio e su l'anima; in ogni poesia c'è solo una linea, una nota, una parola. (Giovanni Rabizzani)
  • La teoria del «verso libero» è l'alibi estetico della poltroneria. Il verso è sempre libero per i poeti veri, qualunque sia il metro che eleggono, ed esso si frange, si snoda, si isnellisce, s'afforza, s'affiochisce e dilegua per seguire i moti interiori dello spirito in armonia col vago ondeggiare dell'ispirazione..
  • Il Pascoli ha usato felicemente alcune combinazioni nuove di strofi, ma in fatto di versi è rimasto fedele alle forme ed ai numeri della tradizione. Avendo da rappresentare un mondo di sogni e di apparenze simboliche e volendo parlarci della foresta incantata, ove le piante sono vive di spiriti e nelle fontane cantano le silfi e le sirene, egli ha tolto ai metri italiani l'oro e il bronzo, la porpora e i pennacchi, l'andamento oratorio e la solita struttura. Tali metri al tocco della sua fantasia divennero cantanti, sognanti, fluidi, spirituali.
  • Se la natura è perenne mobilità, il verso pascoliano, così fluido, vario, duttile, sinuoso, è fatto per seguirne tutti i contorni, coglierne tutti gli attimi, renderne tutti i guizzi, dissolversi e ricominciare infinitamente come essa. Se la vita è sogno, e noi – come suona una sentenza shakespeariana – siamo fatti della stessa stoffa dei nostri sogni, il verso del Pascoli è la lira o il violino magico che conduce sui prati dell'Eliso la danza delle ombre.
  • Ma la meraviglia, il monstrum dell'arte pascoliana è per me l'endecasillabo, principalmente l'endecasillabo delle terzine. Che varietà, che ricchezza, che mobilità in quell'unica forma metrica! Che perenne gorgogliare di polle musicali sempre fresche e nuove! Quanta agilità nel piegarsi all'ondeggiare del sentimento, al mutar delle immagini, alle pause, ai tremori, ai sussulti dell'anima! Che infinita ricchezza nella povertà apparente! Non abbiamo già un solo tipo di verso, ma infiniti, a volontà del poeta.
  • L'opera del Pascoli segna, comunque, un momento memorabile nella storia della nostra arte poetica, perché prima che egli scrivesse ignoravamo di che infinita varietà di armonie, di che vitrea trasparenza di suoni, di che spirituali estenuazioni, di quali incanti e di quali musiche fossero capaci quei vecchi metri italiani, che tanti altri nostri poeti, classici o romantici poco importa, – i romantici furono classici anch'essi – avevano lasciati così saldi di struttura e precisi di ritmo, così sentenziosi e oratorii.
  • Il Pascoli è semplice e schietto e non ricorre mai ad artifizi involuti per la ricerca d'un effetto.
    Quando egli ritrae la natura la riflette con intonazione larga e piana, con una mossa lenta e tranquilla, rende anzi uniforme e monotono il verso, schivando ogni preziosità di forma, ogni imagine vibrante o peregrina perché il lettore si goda la quiete del paesaggio silenzioso, e non sia distratto dalla contemplazione a cui lo si invita.
  • Nel paesaggio [...] egli dimostra le qualità più preziose dei moderni paesisti sicché talvolta, leggendo i suoi versi, ricordi immediatamente una tela di Turner, di Constable o del Fontanesi. Erudito e pratico della nomenclatura rurale e dei lavori campestri egli impugna una tavolozza cosi ricca che dipinge tutti i dettagli, riproduce tutte le sfumature e siccome egli riesce anche a ripetere certe voci e certi suoni naturali con belle onomatopeie, l'arte sua diventa suggestiva, arriva cioè al fondo dell'anima dove posano i pensieri più intimi, li ridesta, ti commuove e si fa ammirare.
  • Poeta singolare, mistico e buono, dimostra per tutta l'opera sua una così spiccata vocazione pittorica e un affetto così intenso per la natura che non v'ha in Italia un altro artefice di versi per il quale la denominazione di poeta pittore nato meglio si convenga. In lui correttezza nel disegno e morbidezza di tinte; soavissime sfumature e belli effetti prospettici; giusti sbattimenti d'ombra e fresca armonia d'insieme.
  1. Nota bibliografica di Giovanni Pascoli per la sesta edizione di Myricae.
  2. Da Minerva oscura.
  3. Citato in Cesare Garboli, Trenta poesie famigliari di Giovanni Pascoli, Einaudi, 1990, p. 47.
  4. Nota bibliografica di Giovanni Pascoli per la sesta edizione di Myricae.
  5. Da Il maestro e poeta della Terza Italia, in Patria e umanità, p. 380.
  6. Citato in Mario Biagini, Il poeta solitario, Mursia, 1963, p. 111.
  7. Da Alexandros, in Poemi conviviali.
  8. Dalla Lettera inviata al Comune di Catanzaro, 1899.
  9. Da una lettera indirizzata a Giosuè Carducci; citato da Nunzio Angiola nella Seduta della Camera del 16 febbraio 2022.
  10. Da Una sagra.
  11. Da Maggio, in Poesie famigliari.
  12. PLATONE, Fedro, 77 E. E Cebes con un sorriso, "Come fossimo spauriti", disse, "o Socrate, prova di persuaderci; o meglio non come spauriti noi, ma forse c'è dentro anche in noi un fanciullino che ha timore di siffatte cose: costui dunque proviamoci di persuadere a non aver paura della morte come di visacci d'orchi." [N.d.A.]
  13. Il lettore ha già veduto da sé, né tuttavia è inutile che glielo faccia meglio notare io, che questi pensieri sulla poesia, più che una confessione, che a volte sarebbe orgogliosa e vanitosa, sono veri e propri moniti a me stesso, che sono ben lontano dal fare ciò che pur credo sia da fare! [N.d.A.]
  14. Termine usato in Toscana per indicare i bachi formati nelle ciliegie troppo mature. Cfr. nota a p. 545 in Giovanni Pascoli, Poesia, volume 2, a cura di Francesca Latini, Unione tipografico-editrice torinese, 2008.

Bibliografia

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  • Giovanni Pascoli, Ai medici condotti nella clinica di Sant'Orsola, Milano, Ed. il Giardino di Esculapio (Tip. N. Moneta), 1955.
  • Giovanni Pascoli, Canti di Castelvecchio, Rizzoli BUR, Milano, 1983.
  • Giovanni Pascoli, Il fanciullino, in Pensieri e discorsi, 1895-1906, Zanichelli, Bologna, 1914.
  • Giovanni Pascoli, Le canzoni di re Enzio, Zanichelli, Bologna, 1908.
  • Giovanni Pascoli, Myricae, Oscar Mondadori, 1967.
  • Giovanni Pascoli, Nuovi Poemetti, Zanichelli, Bologna, 1918.
  • Giovanni Pascoli, Odi e Inni, Edizioni Mondadori.
  • Giovanni Pascoli, Patria e umanità, in Prose (Vol. I), Arnoldo Mondatori Editore, Milano 1952.
  • Giovanni Pascoli, Poemi italici, Zanichelli, Bologna, 1911.
  • Giovanni Pascoli, Poesie e prose scelte, (2 vol.), I meridiani, Arnoldo Mondatori Editore, Milano, 2002
  • Giovanni Pascoli, Poesie (Vol. I), Oscar Classici, Arnoldo Mondatori Editore, Milano, 1997, ISBN 88-04-42323-4
  • Giovanni Pascoli, Poesie (Vol. II), Oscar Classici, Arnoldo Mondatori Editore, Milano, 1997, ISBN 88-04-43805-3
  • Giovanni Pascoli, Primi poemetti, Ditta Nicola Zanichelli, Bologna, 1907.

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