Ryszard Kapuściński

giornalista e scrittore polacco
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Ryszard Kapuściński (1932 – 2007), giornalista polacco.

Ryszard Kapuściński nel 1997

Citazioni di Ryszard Kapuściński

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  • Il problema delle televisioni, in generale di tutti i media, è che sono così grandi, influenti e importanti che hanno cominciato a creare un mondo tutto loro. Un mondo che ha poco a che fare con la realtà. Ma del resto questi media non sono interessati a riflettere la realtà del mondo, bensì solo a competere l'uno con l'altro. Una stazione televisiva, o un giornale, non può permettersi di non avere la notizia che ha anche il suo diretto concorrente. Così essi finiscono per osservare non la vita reale, ma i propri concorrenti.[1]
  • Nella stampa ci sono centinaia di modi per manipolare le notizie. E altre centinaia ve ne sono nella radio e nella televisione. E senza dire bugie. Il problema della radio e della televisione è che non c'è bisogno di mentire: ci si può limitare a non riflettere la verità. Il sistema è molto semplice: omettere l'argomento. La maggior parte degli spettatori della televisione ricevono in modo molto passivo ciò che essa offre loro. I padroni dei network televisivi decidono per loro cosa debbono pensare. Determinano la lista delle cose a cui pensare e cosa pensarne. Non possiamo aspettarci che il telespettatore medio possa svolgere studi indipendenti sulla situazione del mondo, sarebbe impossibile persino per gli specialisti. L'uomo medio, che lavora, torna a casa stanco e vuole semplicemente starsene un po' con la sua famiglia, recepisce giusto quello che gli arriva in quei cinque minuti di telegiornale. Gli argomenti principali che danno vita alle "notizie del giorno" decidono che cosa pensiamo del mondo e come lo pensiamo.[2]
  • Non traduciamo da un testo all'altro ma da una cultura all'altra.[3]
  • Nulla cambierà se le società storiche non imparano a creare, a realizzare una rivoluzione della mentalità, degli atteggiamenti, dell'organizzazione. Se non distruggono la storia, la storia distruggerà loro.[4]
  • Porte e cancelli non sono fatti solo per chiudersi e impedire l’accesso all’altro: possono anche aprirsi invitandolo a entrare.[5]
  • Quando si raggiunge una crisi? Quando sorgono delle domande a cui non si può dare risposta.[6]
  • Si direbbe che nella nostra epoca il precetto cristiano più ignorato e calpestato sia quello che dice: “Ama il prossimo tuo”.[7]

La Stampa, 30 agosto 1996.

  • Molti reporter prendono ossessivamente nota di tutto. Quando rileggi quella robaccia finisci per dimenticare le cose migliori. Ciò che conta non sono le cose, ma il significato delle cose. In questo senso io credo che la memoria sia uno straordinario meccanismo di selezione. Le cose importanti sono quelle che si sono impresse a fondo nella mente.
  • Io non sono un avventuroso. Non cerco l'avventura. È il tipo di lavoro che faccio a mettermi a contatto con l'avventura. L'avventura è il prezzo del mio lavoro.
  • Nessuno era capace di andare nel Nagorno Kharabak. Neppure Gorbaciov, neppure Eltsin. E nessun giornalista, di nessuna nazionalità. Era una sfida. Naturalmente, dopo, mi sono detto: che stupido che sei! Se mi avessero scoperto, sarei finito in chissà quale abbandonata prigione.

La prima cosa che colpisce è la luce. Luce dappertutto, forte, intensa. Sole dappertutto. Solo ieri, la Londra autunnale, inondata di pioggia. L'aereo lucido di pioggia. Il vento freddo, l'oscurità. Qui, di primo mattino, l'aeroporto inondato di sole e noi tutti immersi nel sole. In passato, quando gli uomini giravano il mondo a piedi, a cavallo o per nave, il viaggio dava loro il tempo di abituarsi al cambiamento. Le immagini della terra scorrevano con lentezza, la scena del mondo si spostava un po' alla volta. Un viaggio durava settimane, mesi. L'uomo aveva il tempo di abituarsi al nuovo ambiente, al nuovo paesaggio. Anche il clima mutava gradualmente, a tappe successive. Prima di raggiungere la fornace equatoriale, il viaggiatore proveniente dalla gelida Europa aveva già attraversato il grato tepore di Las Palmas, la canicola di El-Mahara e l'inferno di Capo Verde.

Citazioni

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Bambina malnutrita durante la guerra del Biafra
  • L'Africa è un continente troppo grande per poterlo descrivere. È un oceano, un pianeta a sé stante, un cosmo vario e ricchissimo. È solo per semplificare e per pura comodità che lo chiamiamo Africa. A parte la sua denominazione geografica, in realtà l’Africa non esiste. (2000, introduzione, p. 7)
  • Tra quelle palme, quelle liane, quella boscaglia e quella giungla l'uomo bianco sembra un elemento spurio, incongruo, dissonante. Pallido, debole, la camicia madida di sudore, i capelli appiccicati, sempre tormentato dalla sete, da un senso di impotenza, dalla depressione. Sempre in preda alla paura: delle zanzare, dell'ameba, degli scorpioni, dei serpenti. Tutto ciò che si muove lo riempie d'orrore, di spavento, di panico.
    Per la gente del luogo, invece, è tutto il contrario: con la loro forza, la loro grazia e la loro resistenza, si muovono in modo libero e naturale al ritmo imposto dal clima e dalla tradizione, un ritmo rallentato, che non conosce fretta: tanto nella vita non si può avere tutto. Altrimenti agli altri che resterebbe? (2000, pp. 10-11)
  • Il nostro mondo, in apparenza globale, in fin dei conti non è che un pianeta di migliaia e migliaia delle più svariate province che non si incontrano mai. Girare il mondo significa passare da una provincia all'altra, ognuna delle quali è una solitaria stella che brilla per conto proprio. Per la maggior parte delle persone che vi abitano il mondo reale finisce sulla soglia di casa, al limite del villaggio, tutt'al più al confine della vallata. Il mondo che sta oltre è irreale, insignificante e addirittura inutile, mentre quello che hanno sottomano e sotto gli occhi assurge alle dimensioni di un grande cosmo oscurante tutto il resto. Spesso gli abitanti di un luogo e chi viene da lontano hanno difficoltà a trovare un linguaggio comune, poiché ognuno di loro guarda il posto da un'ottica diversa: chi viene da fuori usa un grandangolare, che rimpicciolisce l'immagine ma allarga l'orizzonte, mentre la persona del posto ha sempre usato il teleobiettivo, se non addirittura il telescopio, che ingigantisce i minimi dettagli. (p. 160)
  • La natura è qualcosa che è inutile contrastare o tentare di correggere e di cui non ci si libera. La natura è data da Dio, quindi è perfetta, come pure sono perfetti la siccità, le calure, i pozzi prosciugati e la morte lungo il cammino. Se non ci fossero non conosceremmo la voluttà della pioggia, il sapore divino dell’acqua e la dolcezza vivificante del latte. Le bestie non godrebbero l’erba succosa, il profumo inebriante dei prati. L’uomo non saprebbe che cosa significhi bagnarsi in un ruscello di acqua fresca e cristallina. Non si renderebbe conto di che paradiso siano queste cose. (2000, p. 181)
  • La storia è spesso il risultato di una mancanza di riflessione. È il frutto bastardo della stupidità umana, parto dello smarrimento, dell'idiozia e della pazzia.
  • Il dramma delle culture, infatti – compresa quella europea – , è consistito in passato nel fatto che i loro primi contatti reciproci sono stati quai sempre appannaggio di gente della peggior risma: predoni, soldataglie, avventurieri, criminali, mercanti di schiavi e via dicendo. Talvolta, ma di rado, capitava anche gente diversa, come missionari in gamba, viaggiatori e studiosi appassionati. Ma il tono, lo standard, il clima fu conferito e creato per secoli dall'internazionale della marmaglia predatrice che non badava certo a conoscere altre culture, a cercare un linguaggio comune o a mostrare rispetto nei loro confronti. Nella maggior parte dei casi si trattava di mercenari rozzi e ottusi, privi di riguardi e di sensibilità, spesso analfabeti, il cui unico interesse consisteva nell'assaltare, razziare, uccidere. Per effetto di queste esperienze le culture, invece di conoscersi a vicenda, diventavano nemiche o, nel migliore dei casi, indifferenti. I loro rappresentanti, a parte i mascalzoni di cui sopra, si tenevano alla larga, si evitavano, si temevano. Questa manipolizzazione dei rapporti interculturali da parte di una classe rozza e ignorante ha determinato la pessima qualità dei rapporti reciproci. Le relazioni interpersonali cominciarono a venir classificate in base al criterio più primitivo: quello del colore della pelle. Il razzismo divenne un'ideologia per definire il posto della gente nell'ordinamento del mondo. Da una parte i Bianchi, dall'altra i Neri: una contrapposizione dove spesso entrambe le parti si sentivano a disagio.
  • La politica interna dell’Africa e dei suoi singoli paesi è sempre contorta e complicata: un’eredità della Conferenza di Berlino presieduta da Bismarck, dove i colonialisti europei, spartendosi il continente tra loro, compressero i circa diecimila regni, federazioni, comunità tribali presenti nel continente alla metà del XIX secolo, privi di stato ma autonomi, entro i confini di appena quaranta colonie. Molti di questi regni e federazioni tribali avevano alle spalle una lunga storia di guerre e di conflitti reciproci. Di colpo, senza essere stati interpellati, si ritrovarono inclusi in una stessa colonia, soggetti allo stesso potere (peraltro straniero) e a una legge comune. Arrivata l’era della decolonizzazione, gli antichi rapporti interetnici, congelati o addirittura ignorati dal governo straniero, rispuntarono tornando attuali. (2000, pp. 50-51)
  • [Su John Okello] Come spesso succede in Africa, conosce o finge di conoscere molti mestieri: è scalpellino, muratore, poi imbianchino. Semianalfabeta ma dotato di carisma, è un semplice di spirito che si prende per un messia. È guidato da alcune semplici idee che gli vengono in mente mentre taglia una pietra o mosa i mattoni. (p. 82)
  • [Su John Okello] Ha la pelle molto scura, la faccia massiccia, i tratti grossolani. Ha in testa un berretto da poliziotto: gli insorti sono entrati nei magazzini della polizia, prendendone alcuni fucili e delle uniformi. Ma il suo berretto ha una fascia di stoffa azzurra (chissà mai perché proprio azzurra). Okello sembra assente, come sotto choc, si direbbe quasi che non ci veda. La gente gli si affolla intorno, spinge, preme, tutti parlano e gesticolano in mezzo a una confusione indescrivibile che nessuno si occupa di controllare. (p. 83)
  • [Sul Colpo di Stato in Nigeria del 1966] La principale difficoltà nella riuscita del colpo di stato dipendeva dal fatto che esso doveva svolgersi contemporaneamente in cinque città: a Lagos, capitale della federazione, e nelle capitali delle quattro regioni nigeriane: Ibadan (Nigeria occidentale), Kaduna (Nigeria del nord), Benin (Nigeria centro-occidentale) ed Enugu (Nigeria orientale). In un paese dalla superficie tre volte più grande della Polonia, abitato da cinquantasei milioni di abitanti, il putsch è stato effettuato da un esercito di appena ottomila soldati. (p. 91)
  • Ancora oggi si ignora la sorte di Balewa. Secondo certuni sarebbe agli arresti in una caserma. Secondo altri sarebbe stato ucciso. (p. 92)
  • Il putsch è stato attuato in cinque città contemporaneamente e con successo. Nel giro di poche ore, un piccolo esercito è diventato il padrone effettivo di questo immenso paese, grande potenza africana. Nel corso di una notte la morte, l'arresto o la fuga nella macchia hanno messo fine a centinaia di carriere politiche. (p. 93)
  • Viaggiare sulle strade d'Etiopia è duro e spesso pericoloso. Nella stagione secca, la macchina slitta sul pietrisco degli stretti percorsi scavati nelle pareti di montagne a picco, lungo precipizi profondi centinaia di metri. Nella stagione delle piogge, le strade di montagna vengono addirittura chiuse, mentre quelle di pianura si trasformano in acquitrini melmosi dove si rischia di restare impantanati per giorni e giorni. (p. 117)
  • Nel paese c'era cibo a sufficienza, ma la siccità aveva fatto salire i prezzi e i contadini poveri non potevano più comprarlo. Naturalmente il governo sarebbe potuto intervenire e anche i paesi stranieri avrebbero potuto fare qualcosa. Ma, per motivi di prestigio, il governo si rifiutava di riconoscere che nel paese regnasse la fame, respingendo le offerte d'aiuto. In quel periodo in Etiopia c'era stato un milione di morti, una realtà tenuta nascosta prima dall'imperatore Hailè Selassiè e poi da colui che doveva privarlo del trono e della vita, il maggiore Menghistu. Divisi dalla lotta per il potere, erano uniti dalla menzogna. (p. 120)
  • Un tempo mi ero proposto di scrivere un libro su Amin perché Amin illustra alla perfezione il rapporto fra il crimine e l'assenza di cultura. (p. 123)
  • Non si fidava di nessuno: nella sua cerchia nessuno sapeva mai dove avrebbe dormito quella notte o dove sarebbe stato l'indomani. Possedeva varie residenze in città, altre sul Lago Vittoria, altre ancora in provincia. Stabilire dove si trovasse era difficile e anche pericoloso. Era lui a cominciare con i sottoposti, lui a decidere con chi parlare e chi vedere. Per molta gente quegli incontri si concludevano in tragedia. Quando Amin cominciava a sospettare qualcuno, lo invitava a casa propria. Si mostrava simpatico, cordiale, offriva Coca-Cola. All'uscita l'ospite trovava ad attenderlo i carnefici, e nessuno ne sentiva più parlare. (p. 127)
  • La forza di Amin stava nell'esercito. L'aveva creato sul modello coloniale, l'unico che conoscesse. I suoi membri provenivano perlopiù dalle piccole comunità di uno degli angoli più spreduti dell'Africa, la zona di frontiera tra il Sudan e l'Uganda. A differenza della popolazione autoctona del paese, che si serve delle lingue bantu, parlavano dialetti sudanesi. Rozzi e ignoranti, non riuscivano a intendersi con i locali. Ma lo scopo era proprio questo: dovevano sentirsi estranei, isolati, dipendere esclusivamente di Amin. Quando arrivavano in camion sparvegano il panico, le strade si svuotavano, i villaggi si spopolavano. Selvaggi, scatenati, spesso ubriachi, i soldati razziavano quello che potevano e picchiavano chiunque capitasse loro sottomano. Senza un motivo, senza un perché. (p. 128)
  • Era un uomo dall'energia inesauribile, sempre eccitato, sempre in movimento. Le rare volte che, in qualità di presidente, convocava una seduta del governo, era incapace di parteciparvi fino alla fine. Dopo un po' si stufava, balzava in piedi e se ne andava. I pensieri gli si accavallavano nella mente, parlava in modo caotico, non finiva mai una frase. Leggeva l'inglese con fatica, conosceva mediamente lo swahili. Possedeva bene il suo dialetto kakwa, che però nel paese era poco conosciuto. Ma erano precisamente questi limiti a renderlo popolare tra i bayaye: era uno di loro, sangue del loro sangue, carne della loro carne. (p. 129)
  • Il Ruanda è un paese piccolo, tanto piccolo che in molte delle carte geografiche contenute sui libri sull'Africa viene indicato solo con un puntino. Solo dalle tabelle annesse alle carte apprenderete che quel puntino nel cuore del continente rappresenta il Ruanda. (p. 146)
  • Il Ruanda è un paese montuoso. La geografia africana è solitamente caratterizzata da pianure e altipiani. Il Ruanda invece è tutto montagne alte due o tremila metri, talvolta anche di più. Per questo viene spesso definito il Tibet dell'Africa, non solo per le sue montagne, ma anche per la sua originalità, la sua atipicità, la sua diversità. Una diversità che concerne soprattutto l'assetto sociale. Infatti, al contrario delle popolazioni degli altri stati africani che sono pluritribali (il Congo è abitato da trecento tribù, la Nigeria da duecentocinquanta, e via dicendo), in Ruanda vive una sola comunità, il popolo dei banyaruanda, tradizionalmente diviso in tre caste: la casta dei tutsi, possidenti di mandrie di bestiame (quattordici per cento della popolazione), la casta degli hutu, agricoltori (ottantacinque per cento) e la casta dei twa, composta di braccianti e servitori (uno per cento). (p. 146)
  • Il Ruanda è piccolo, montuoso e densamente popolato. Come spesso accade in Africa, anche in Ruanda si arriva al conflitto tra chi vive allevando bestiame e chi coltiva la terra. Di solito, però, nel continente gli spazi sono talmente vasti che uno dei contendenti può trasferirsi su territori liberi eliminando il focolaio della discordia. In Ruanda questa soluzione è impossibile: non esiste spazio per spostarsi e cedere il campo. Intanto le mandrie possedute dai tutsi crescono e hanno bisogno di sempre nuovi pascoli, e c'è un solo modo per trovarli: confiscare la terra ai contadini, ossia, scacciare gli hutu dai loro campi. Ma gli hutu vivono già stretti come sardine. Da anni il loro numero cresce a vista d'occhio e, per colmo di sventura, le terre che coltivano sono sterili, poverissime. In effetti le montagne del Ruanda sono coperte da uno strato di terra talmente sottile che, ogni anno, la stagione delle piogge ne lava via grandi porzioni. In molte zone dove gli hutu avevano i loro campicelli di manioca e di granturco, ora luccica la roccia nuda. (p. 148)
  • Nasce così il dramma ruandese, la tragedia del popolo banyaruanda: esattamente come nel dramma palestinese, si è nell'impossibilità di conciliare le ragioni di due comunità rivendicanti il diritto al medesimo pezzo di terra, troppo esiguo per accoglierle entrambe. All'interno di questo dramma sorge, dapprima ancora debole e vaga ma, con gli anni, sempre più chiara e perentoria, la tentazione dell'Endöslung, della soluzione finale. (p. 151)
  • In Africa molte guerre si svolgono senza testimoni, all'insaputa di tutti, in luoghi apparati e irraggiungibili che il mondo non conosce o ha dimenticato. È il caso del Ruanda. Le lotte di frontiera, i pogrom, i massacri proseguono per anni. I partigiani tutsi (che gli hutu chiamano "scarafaggi") incendiano villaggi e trucidano la popolazione locale. Sostenuta dal proprio esercito, questa risponde a sua volta con violenze e carneficine. (p. 152)
  • Alla base del conflitto in Ruanda stava non solo un disaccordo tra caste, ma anche un violento scontro fra dittatura e democrazia. Ecco perché il parlare e il pensare solo per categorie etniche risultano fallaci ed erronei: non tengono conto dei valori più profondi, come bene contro male, verità contro menzogna, democrazia contro dittatura, limitandosi a un’unica e superficiale dicotomia, a un solo contrasto, a una sola opposizione: se è un hutu, è buono, se è un tutsi, è cattivo. (2000, p. 152)
  • [Su Juvénal Habyarimana] Per chiarire le cose, potemmo definire Habyarimana come il Radovan Karadžić degli hutu ruandesi. (p. 153)
  • Mentre nei sistemi hitleriani e staliniani la morte era inferta da carnefici di istituzioni specializzate come le SS o l’Nkvd e il delitto era affidato ad apposite formazioni operanti in luoghi segreti, in Ruanda si voleva che la morte venisse inferta da tutti, che il crimine fosse il prodotto di un’iniziativa di massa e per così dire popolare; un cataclisma naturale collettivo dove tutti indistintamente si macchiassero del sangue dei cosiddetti oppositori del regime. (2000, p. 158)
  • La storia dei rapporti tra hutu e tutsi non è che una tragica serie di pogrom e massacri, di distruzioni reciproche, di migrazioni forzate, di odii feroci. Nel piccolo Ruanda non c'è posto per due popoli così estranei e naturalmente nemici. (p. 158)
  • Il nostro mondo, in apparenza globale, in fin dei conti non è che un pianeta con migliaia e migliaia delle più svariate province che non si incontrano mai. Girare il mondo significa passare da una provincia all'altra, ognuna delle quali è una solitaria stella che brilla per conto proprio. Per la maggior parte delle persone che vi abitano il mondo reale finisce sulla soglia di casa, al limite del villaggio, tutt'al più al confine della vallata. Il mondo che sta oltre è irreale, insignificante e addirittura inutile, mentre quello che hanno sottomano e sotto gli occhi assurge alle dimensioni di un grande cosmo oscurante tutto il resto. Spesso gli abitanti di un luogo e chi viene da lontano hanno difficoltà a trovare un linguaggio comune, poiché ognuno di loro guarda il posto da un'ottica diversa: chi viene da fuori usa un grandangolare, che rimpicciolisce l'immagine ma allarga l'orizzonte, mentre la persona del posto ha sempre usato il teleobiettivo, se non addirittura il telescopio, che ingigantisce i minimi dettagli.
  • Mentre nei sistemi hitleriani e staliniani la morte era inferta da carnefici di istituzioni specializzate come le SS o l'Nkvd e il delitto era affidato ad apposite formazioni operanti in luoghi segreti, in Ruanda si voleva che la morte venisse inferta da tutti, che il crimine fosse il prodotto di un'iniziativa di massa e, per così dire, popolare; un cataclisma naturale collettivo dove tutte le mani indistintamente si immergessero nel sangue di gente considerata nemica dal regime. (p. 160)
  • Se mi muore una persona cara, mi brucia la casa, crepa la vacca, mi contorco dai dolori o giaccio impotente, stremato da un attacco di malaria, so perfettamente che cosa è accaduto: qualcuno mi ha gettato un malefizio. Quindi da solo, se ne ho la forza, o altrimenti con l'aiuto del villaggio e del clan, comincio a ricercare lo stregone responsabile. Questi, ex definitione, deve vivere e operare altrove, in un altro villaggio, in un altro clan o tribù. La nostra moderna sospettosità e ostilità verso l’Altro, verso il Diverso proviene proprio dal timore dei nostri bis-bisavoli che vedevano nell'Altro, nell'Estraneo un portatore di male, una fonte di disgrazie. Dolori, incendi, epidemie e siccità non sorgono spontaneamente dal nulla: deve per forza esserci stato qualcuno a portarli, a infliggerli, a diffonderli. Ma chi? Non certo i miei, i nostri, tutta gente fidata: la vita è possibile solo tra persone buone, e io sono vivo. Dunque i colpevoli sono gli Altri, gli Estranei. E così, cercando di vendicare i torti e le sconfitte subite, entriamo in conflitto con gli altri, ci facciamo guerra. Insomma, quando capita una disgrazia la sua causa non sta in noi, ma altrove: fuori della nostra comunità, lontano, negli Altri. (2000, pp. 163-164)
  • Il Sudan è il primo stato africano a conquistare l'indipendenza dopo la seconda guerra mondiale. Prima era stato una colonia britannica composta di due parti artificiosamente, burocraticamente messe insieme: il nord arabo-musulmano e il sud "negro"-cristiano (e animista). Tra questi due gruppi esistevano un antagonismo, un'inimicizia e un odio di vecchia data, visto che per anni gli arabi del nord avevano invaso il sud catturandone gli abitanti e vendendoli come schiavi.
    Come potevano, quei mondo in conflitto, convivere in un unico stato indipendente? Infatti non potevano, e proprio su questo contavano gli inglesi. A quei tempi i vecchi stati coloniali europei erano convinti che, pur rinunciando formalmente alle colonie, di fatto avrebbero continuato a governarle: in Sudan, per esempio, facendo da agenti conciliatori tra musulmani del nord e cristiani animisti del sud. Presto però queste illusioni imperialiste svanirono. Già nel 1962 in Sudan scoppiò la prima guerra civile tra sud e nord (preceduta da rivolte e insurrezioni nel sud). (pp. 170-171)
  • La prima guerra sudanese durò dieci anni, fino al 1972. Poi, per i dieci anni successivi, si instaurò una fragile pace provvisoria. Quando, nel 1983, il governo islamico di Khartoum tentò di imporre la legge islamica (sharia) a tutto il paese, cominciò la nuova e più terribile fase di questa guerra ancora in atto. Si tratta del conflitto più grande e più lungo della storia dell'Africa e, probabilmente, in questo momento anche del mondo intero; ma svolgendosi in una sperduta provincia del nostro pianeta e non minacciando direttamente né Europa né America, non suscita alcun interesse. Per giunta, a causa delle difficoltà di comunicazione e delle drastiche restrizioni di Khartoum, i teatri di questa guerra, i suoi vasti e tragici campi di morte sono praticamente irraggiungibili dai media e la maggior parte del mondo ignora completamente che in Sudan sia in atto un conflitto di proporzioni gigantesche. (p. 171)
  • Non so come sia cominciata questa guerra. È passato tanto di quel tempo! Una mucca rubata ai dinka dai soldati dell'esercito governativo, che poi i dinka si sono ripresi, provocando una sparatoria e dei morti? Più o meno le cose saranno andate così. Naturalmente la mucca non era che un pretesto: i signori arabi di Khartoum non potevano tollerare che pastori del sud godessero dei loro stessi diritti. La gente del sud non voleva che il Sudan indipendente fosse governato dai figli dei mercanti di schiavi. Il sud voleva la secessione, uno stato proprio. Il nord decise di distruggere i ribelli. Comciarono i massacri. Si dice che finora la guerra abbia causato un milione e mezzo di vittime. (p. 173)
  • [Sulla Seconda guerra civile in Sudan] Contro chi combattono tutti questi eserciti, questi reparti, contro chi questi fronti, queste scorriere e questi arruolamenti, così numerosi e operanti da tanti anni? Talvolta si combattono tra di loro, ma il più delle volte se la prendono con il proprio popolo, ossia con gente inerme come le donne e i bambini. Ma perché proprio con le donne e i bambini? È mai possibile che questi uomini armati siano animati da un viscerale antifemminismo? Naturalmente no: attaccano e depredano i gruppi di donne e bambini perché è a loro che viene diretto l'aiuto mondiale, è a loro che sono destinati sacchi di riso e farina, casse di gallette e di latte in polvere, alimenti che in Europa nessuno degnerebbe di un'occhiata ma che qui, tra il sesto e il dodicesimo grado di latitudine geografica, sono più preziosi dell'oro. Del resto non occorre neanche strappare con la forza quei tesori alle donne. Appena arriva l'aeroplano dei rifornimenti, basta circondarlo, prendere sacchi e casse e portarli, a braccia o in macchina, al proprio reparto. (p. 175)
  • [Sulla Guerra civile in Etiopia] Con l'aiuto di Mosca, Menghistu costruì il più potente esercito africano a sud del Sahara. Contava quattrocentomila soldati, possedeva razzi e armi chimiche. Contro di loro combattevano i partigiani dei monti settentrionali (Eritrea, Tigré) e del sud (Oromo) che, appunto nell'estate del '91, respinsero gli eserciti governativi fino ad Addis Abeba. Questi partigiani erano ragazzi scalzi, spesso bambini, laceri, affamati e male armati. Al loro arrivo gli europei cominciarono ad abbandonare la capitale, prevedendo una spaventosa carneficina. Accadde invece qualcosa di completamente diverso, qualcosa che potrebbe fornire la trama di un film insolito, intitolato Il crollo del grande esercito. Alla notizia che il suo capo si era dato alla fuga, quel potente esercito armato fino ai denti si sfaldò nel giro di poche ore. (pp. 192-193)
  • Menghistu lavorava giorno e notte. I beni materiali non gli interessavano, voleva solo il potere assoluto. Gli bastava regnare. (p. 193)
  • L'Etiopia è un paese dalla superficie pari a quelle di Francia, Germania e Polonia messe insieme. In Etiopia abitano più di sessanta milioni di persone, che tra qualche anno saranno più di sessanta milioni, tra qualche decina più di ottanta ecc. ecc.
    Forse, allora, qualcuno aprirà una libreria? Almeno una? (p. 195)
  • L'esperienza di questi americo-liberiani li porta a conoscere un solo tipo di società: quella schiavista, vigente a quell'epoca negli stati americani del sud. Quindi, al loro arrivo, il primo passo sulla nuova terra consisterà nel ricreare una società analoga, con la differenza che stavolta a farla da padroni saranno loro – gli schiavi di ieri – mentre gli abitanti trovati sul posto e conquistati saranno i loro schiavi.
    La Liberia è il prolungamento del sistema schiavista a opera degli schiavi stessi che, invece di eliminare un'ingiustizia, preferiscono conservarla, svilupparla e sfruttarla a proprio vantaggio. Si tratta evidentemente di una mentalità coatta, tarata dall'esperienza della schiavitù; di una mentalità "nata in schiavitù, incatenata dalla nascita", che non riesce neanche a concepire un mondo libero dove tutto siano liberi. (pp. 207-208)
  • Anzitutto gli americo-liberiani sostengono di essere gli unici cittadini del paese, negando ogni status e diritto al resto degli abitanti, vale a dire al novantanove per cento della popolazione. Secondo le loro leggi tutti gli altri non sono altro che tribesmen (membri di tribù), selvaggi e pagani senza cultura. (p. 208)
  • Non potendo differenziarsi dagli indigeni per il colore di pelle né per il tipo fisico, i coloni venuti dall'America cercano di sottolineare in altri modi la propria diversità e superiorità. Incuranti del clima umido e torrido che regna in Liberia, gli uomini indossano anche durante la settimana frac e spencer, la bombetta e i guanti bianchi. (p. 208)
  • Molto prima che gli afrikaner bianchi introducessero l'apartheid (il sistema di segregazione in nome della dominazione) in Africa meridionale, esso era già stato inventato e messo in pratica fin dalla metà del XIX secolo dai discendenti degli schiavi neri, padroni della Liberia. (p. 209)
  • [Su William Tubman] Era un signore piccolo, minuto, gioviale, sempre con un sigaro tra le labbra. Alle domande imbarazzanti rispondeva con un lungo e sonoro scoppi di risa, seguito da un attacco di rumoroso singhiozzo, seguito a sua volta da una crisi di soffocazione accompagnata da sibili. Sussultava, strabuzzava gli occhi pieni di lacrime. Spaventato e confuso, l'interlocutore taceva, senza osare insistere. Poi Tubman si scuoteva la cenere dal vestito e, ormai calmo, tornava a nascondersi in una fitta nuvola di fumo di sigaro. (p. 210)
  • Se Tubman aveva la passione del potere, Tolbert era affascinato dai soldi. Era la corruzione fatta persona. (p. 211)
  • Doe, come già Amin in Uganda, era appunto uno di questi bayaye. E, come Amin, vinse anche lui il suo terno al lotto entrando nell'esercito. Per lui poteva essere il vertice della carriera ma, come risultò in seguito, Doe mirava più in alto.
    Il colpo di stato di Doe in Liberia non consisté nella semplice sostituzione di un cacicco-burocrate con un semianalfabeta in divisa. Fu anche la cruenta, crudele e caricaturale rivoluzione delle masse oppresse e semischiavizzate della giungla contro gli odiati padroni: gli ex schiavi delle piantagioni americane. (p. 212)
  • Riguardo al suo governo, non c'è molto da dire. Governò il paese per dieci anni. Dieci anni di stagnazione. Mancava la luce, i negozi erano chiusi, sulle poche strade esistenti in Liberia non c'era più traffico.
    In effetti non aveva la idee molto chiare sui suoi compiti di presidente. Dotato di una faccia infantile e paffuta, si era comprato dei grandi occhiali montati in oro per darsi un aspetto grave e benestante. Pigro di natura, trascorreva giornate intere nella sua residenza, giocando a dama con i sottoposti, sentinelle della guardia presidenziale cucinavano sui focolari o facevano il bucato. Chiacchierava con loro, scherzava, ogni tanto se ne portava a letto qualcuna. Incerto sul da farsi e su come scampare alle vendette dopo avere ucciso tanta gente, non vedeva altra soluzione che circondarsi di uomini della propria tribù, i khran, fatti venire in massa a Monrovia. (p. 213)
  • Appena uno stato africano comincia a vacillare, possiamo stare certi che ben presto appariranno i warlords. In Angola, in Sudan, in Somalia, nel Ciad: sono ovunque, spadroneggiano ovunque. Che cosa fa un warlord? In teoria combatte contro altri warlords. Ma non è sempre così. Il più delle volte il signore della guerra depreda la popolazione inerme del proprio paese. Il warlord è l'esatto contrario di Robin Hood. Robin Hood toglieva ai ricchi per dare ai poveri. Il warlord toglie ai poveri per arricchirsi e nutrire la sua banda. Ci troviamo in un mondo dove la miseria condanna gli uni a morte e trasforma gli altri in mostri. I primi sono le vittime, i secondi i carnefici. Non ci sono vie di mezzo. (p. 221)
  • La domanda sempre più fondamentale del mondo odierno non è come nutrire la gente visto che, a parte le difficoltà organizzative e di trasporto, il cibo abbonda. La vera domanda è: che fare della gente? Che fare della presenza sulla terra di tutti questi milioni e milioni di persone, della loro energia non sfruttata, della forza che si portano dentro e che non sembra servire a nessuno? Qual è la collocazione di questa gente nella famiglia umana? Quella di cittadini con tutti i diritti? Di fratelli danneggiati? Di intrusi invadenti? (2000, p. 235)
  • L'Eritrea è il più giovane stato africano, un piccolo stato di tre milioni di abitanti. Mai indipendente, l'Eritrea fu prima una colonia della Turchia, poi dell'Egitto e, nel XX secolo, successivamente dell'Italia, dell'Inghilterra e dell'Etiopia. Nel 1962 quest'ultima, che già da dieci anni occupava militarmente l'Eritrea, la dichiarò sua provincia. Gli eritrei risposero con una guerra di liberazione, la più lunga nella storia del continente, in quanto durata trent'anni. Quando ad Addis Abeba regnava Hailè Selassiè, gli americani l'aiutarono a combattere gli eritrei. Ma quando Menghistu rovesciò l'imperatore, assumendo personalmente il potere, ad aiutarlo furono i russi. (pp. 264-265)
  • Le forze etiopi impiegavano comunemente il napalm. Per salvarsi, gli eritrei cominciarono a scavare rifugi, corridoi e nascondigli mimetizzati. Nel corso degli anni costruirono un secondo stato sotterraneo, nel senso letterale del termine: un'Eritrea nascosta e segreta, inaccessibile agli estranei, che potevano percorrere in lungo e in largo senza essere visti dal nemico. La guerra eritrea non fu, come gli eritrei stessi sottolineano con orgoglio, una bush war, l'uragano banditesco e sterminatore dei warlords. Nel loro stato sotterraneo avevano scuole e ospedali, tribunali e orfanotrofi, officine e fabbriche di armi. In quel paese di analfabeti, ogni combattente doveva saper leggere e scrivere. (p. 266)
  • Questo piccolo paese, tra i più poveri del mondo, possiede un esercito di centomila giovani, relativamente colti, dei quali non sa che fare. Il paese non ha industrie, l'agricoltura è in abbandono, le città in rovina, le strade distrutte. Centomila soldati si svegliano ogni mattina senza saper che fare, e soprattutto senza niente da mangiare. Ma la sorte dei loro colleghi e fratelli in borghese non è molto diversa. Basta girare per Asmara all'ora di pranzo. I funzionari delle poche istituzioni esistenti in uno stato così giovane vanno a mangiare un boccone nei bar e nei ristoranti del quartiere. Ma le folle dei giovani non sanno dove andare: non lavorano, non hanno un soldo. Girano, guardano le vetrine, sostano agli angoli delle strade, siedendo sulle panchine oziosi e affamati. (pp. 266-267)
  • Non avranno [gli africani] mai una loro storia compilata in modo scientifico e obiettivo, come si dice in Europa, poiché la storia africana non conosce documenti e scritture. Ogni generazione, udendo la versione che le veniva tramandata, l’ha modificata e continua a modificarla, trasformandola e abbellendola. Ma proprio per questo la storia qui, libera dal peso degli archivi e dal rigore dei dati, raggiunge la sua forma più pura e cristallina: quella del mito. Un mito dove invece dei dati e della misura meccanica del tempo – giorni, mesi, anni – vigono espressioni quali: "tempo fa", "molto tempo fa", "tanto tempo fa che nessuno più se ne ricorda", termini che consentono di collocare e di sistemare tutto nella gerarchia del tempo. Un tempo che non si svilupperà in modo lineare, ma assumerà la forma del moto terrestre: una forma rotatoria, uniformemente circolare. In una simile visione del tempo il concetto di sviluppo non esiste, sostituito dal concetto di durata. L’Africa è l’eterna durata. (2000, p. 271)
  • "Il deserto ti insegnerà una verità" mi disse una volta a Niamey un mercante ambulante. "E cioè che esiste qualcosa che si può desiderare e amare più di una donna: l'acqua". (2000, p. 272)
  • Tra quelle palme, quelle liane, quella boscaglia e quella giungla l'uomo bianco sembra un elemento spurio, incongruo, dissonante. Pallido, debole, la camicia madida di sudore, i capelli appiccicati, sempre tormentato dalla sete, da un senso di impotenza, dalla depressione. Sempre in preda alla paura: delle zanzare, dell'ameba, degli scorpioni, dei serpenti. Tutto ciò che si muove lo riempie d'orrore, di spavento, di panico.
    Per la gente del luogo, invece, è tutto il contrario: con la loro forza, la loro grazia e la loro resistenza, si muovono in modo libero e naturale al ritmo imposto dal clima e dalla tradizione, un ritmo rallentato, che non conosce fretta: tanto nella vita non si può avere tutto. Altrimenti agli altri che resterebbe? (2000, pp. 10-11)

Imperium

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  • Alla nostra immaginazione l'Urss appariva un organismo uniforme, monolitico, dove tutto era ugualmente grigio e cupo e, per giunta, monotono, fatto in serie. Lì nulla poteva esulare dalla norma stabilita, nulla poteva distinguersi o assumere caratteristiche individuali.
    Quindi mi recai nelle repubbliche non russe dell'Impero. Che cosa mi colpì soprattutto? Ebbene, malgrado la rigida corazza militaresca dell'autorità sovietica, a queste piccole ma antichissime nazioni era riuscito di conservare qualcosa delle loro tradizioni, della loro storia, del loro orgoglio, tenuto nascosto per necessità, della loro dignità personale. Vi scoprii un tappeto orientale steso al sole, che in molti punti conservava ancora gli antichi colori e attirava l'attenzione per la varietà dei suoi disegni originali. (p. 46)
  • Una persona semplice come me resta a bocca aperta davanti alla sontuosità e alla perfezione dell'antica arte georgiana. La cosa più fantastica sono le icone. Molto più antiche di quelle russe, le migliori icone georgiane nacquero assai prima di Rublëv. (p. 47)
  • Komitas è per gli armeni quel che Chopin è per i polacchi: il loro genio musicale. (p. 53)
  • Nel 1915 in Turchia cominciò il massacro degli armeni. Fu il maggiore eccidio della storia prima di Hitler, dove perse la vita un milione e mezzo di armeni. I soldati turchi trascinarono Komitas in cima a una roccia, dalla quale stavano per buttarlo giù. Lo salvò all'ultimo momento la figlia del sultano di Istanbul, sua allieva. Ma ormai Komitas aveva visto l'abisso e la sua mente era rimasta sconvolta. (p. 53)
  • [Su Padre Komitas] Nessuno può dire con certezza se fosse malato oppure no. E se avesse scelto il silenzio?
    Forse quella era la sua libertà.
    Non era morto, ma neanche viveva. (p. 53)
  • La storia degli armeni si misura in millenni. Siamo in quella parte del mondo che si usa definire la culla dell'umanità. Ci muoviamo tra le tracce più antiche dell'esistenza umana. (pp. 54-55)
  • Gli armeni hanno una misura del tempo diversa dalla nostra. Hanno vissuto il loro primo smembramento duemilacinquecento anni fa. Il loro rinascimento corrisponde al IV secolo della nostra era. Si sono convertiti al cristianesimo sette secoli prima di noi. Dieci secoli prima di noi hanno cominciato a scrivere nella loro lingua. Ma, come l'antico Egitto, come i sumeri e come Bisanzio, anche l'Armenia soffriva del tipico dramma di questa parte del mondo: la mancanza di una continuità storica, l'improvviso apparire di capitoli vuoti nel manuale di storia del loro paese. (p. 55)
  • L'attuale Repubblica Armena occupa appena un decimo dell'antica Armenia dell'Altopiano. Il resto sta in Iran e, soprattutto, in Turchia. (p. 55)
  • Gli armeni, dotati di una mentalità aperta e recettiva, hanno sempre tradotto tutto quello che capitava sottomano. (p. 58)
  • In passato l'Azerbajdžan era un concetto più geografico-culturale che non giuridico-statale. In realtà uno stato azerbajgiano centralizzato non è mai esisitito, ed è in ciò che la sua storia differisce da quelle della Georgia e dell'Armenia. Esistono anche altre differenze. Attraverso il Mar Nero e l'Anatolia, Georgia e Armenia mantennero i contatti con l'antica Europa e poi con Bisanzio. Da lì ricevettero il cristianesimo che, sul loro terreno, fece da baluardo contro l'espansione islamica. Invece sull'Azerbajdžan l'influsso dell'Europa fu debole, o tutt'al più secondario. (p. 64)
  • Per molti secoli l'Azerbajdžan fu una provincia dell'Iran. Dal 1502 al 1736 l'Iran viene governato dalla dinastia dei Salavidi, di origine appunto azerbajgiana. Sotto di essa l'Iran vive anni di magnificenza. Tuttavia la lingua azerbaijgiana non appartiene alla famiglia iranica, ma a quella turca. Non tutti si rendono conto che il ceppo turco comprende la famiglia linguistica più numerosa dell'ex Unione Sovietica. Uzbeki, tatari, kazaki, azerbajgiani, čuvasi, turkmeni, baskiri, kirghisi, jakuti, dolgani, karakalpaki, kumyk, oghuz, tuva, ujg'uri, karačai, chakasy, čulym, altaici, balcari, nogai, turchi, šorsi, karaimi, ebrei di Crimea e tofalar parlano lingue di ceppo turco. Un tartaro e un uzbeko, un kirghiso e un baskiro possono capirsi perfettamente, pur parlando ciauscuno la propria lingua. (p. 66)
  • Lo zar è considerato Dio, in senso strettamente letterale. Per centinaia d'anni, per tutta la storia russa. Solo nel XIX secolo un decreto zarista impone di togliere dalle chiese il ritratto dello zar. Un decreto zarista! Senza di esso nessuno avrebbe mai osato toccare quel ritratto-icona. [...] Nella misura in cui gli zar sono vicari di Dio, Lenin e Stalin sono vicari del comunismo mondiale. Anche loro sono degli eletti. Solo dopo la morte di Stalin comincia un processo di lenta laicizzazione del potere del Capo Supremo. Di laicizzazione e, insieme, di graduale limitazione della sua onnipotenza. Una limitazione che Brežnev lamentava. (p. 93)
  • La perestrojka ha coinciso con lo sviluppo della televisione nel paese. La televisione ha conferito alla perestrojka una risonanza finora mai goduta da nessun evento nella storia dell'Impero. (p. 99)
  • In Iran la rivoluzione contro lo scià cominciò come movimento democratico, un movimento liberale diretto contro la dittatura poliziesca. Ma l'Iran era uno stato plurinazionale, governato dai persiani che esercitavano il potere sulle numerose minoranze di arabi, azeri, beluci, curdi e così via. Queste popolazioni oppresse, sentendo che a Teheran si parlava di democrazia, tradussero all'istante quel motto in un motto indipendista, incitante a staccarsi e a creare propri stati indipendenti. Di colpo l'Iran si vide davanti lo spettro della disgregazione, della perdita di varie province importanti, del declassamento a stato monco. A quel punto, ecco farsi avanti il nazionalismo panpersiano: i pieni poteri passano al suo guardiano, il clero sciita con l'ayatollah Khomeini in testa. La parola democrazia sparisce dagli striscioni e la rivoluzione finisce in una serie di sanguinose spedizioni anti-azere, anti-curde e via dicendo, vinta dal potere autoritario. L'Iran mantiene immutate le sue frontiere. (p. 115)
  • Gli armeni! Devono per forza stare insieme. Si cercano per il mondo intero e, tragico paradosso del loro destino, quanto più la diaspora si aggrava e li divide, tanto più cresce in loro la nostalgia, il desiderio e il bisogno di stare vicini. Solo conoscendo questa caratteristica della natura armena si può capire quanto sia dolente per loro la questione del Nagorno Karabakh: abitare a poche decine di chilometri di distanza e non poter stare insieme! Eterno rovello, eterna piaga, eterno marchio. (p. 116)
  • Siamo in Georgia. Per rendersene conto non occorrono le scritte in alfabeto georgiano, basta guardarsi intorno. Paragonata all'Armenia, la Georgia è l'agiatezza: case migliori e più ricche, vignetti più grandi, belle mandrie di pecore e mucche, vaste piantagioni di tabacco, prati d'erba verde e succosa. (p. 122)
  • Il mondo di un abitante del Caucaso è chiuso, ristretto, limitato al proprio villaggio, alla propria vallata. Patria è ciò che si può abbracciare con un solo sguardo, che si può percorrere in un giorno. Il Caucaso è un ricchissimo mosaico etnico costellato da un numero infinito di piccoli, spesso microscopici gruppi, clan, tribù, raramente popoli (sebbene, per questioni di prestigio e di rispetto, qui si parli comunemente di "popolo" anche quando si tratta di piccole comunità). (p. 126)
  • In realtà nessuno sa veramente spiegare perché armeni e azeri si odino tanto. Si odiano e basta! Lo sanno tutti, lo hanno succhiato col latte materno. (p. 126)
  • Centomila abkhazi vogliono staccarsi dalla Georgia e formare uno stato a parte. Non c'è da stupirsi. L'Abkhazia è uno degli angoli più belli del mondo, una seconda Costa Azzurra, una seconda Monaco. (p. 128)
  • Alijev apparteneva agli uomini di Brežnev, una combriccola nota per l'alto grado di corruzione, per l'inclinazione al lusso orientale e a ogni genere di depravazione. Una corruzione praticata senza il minimo di imbarazzo, anzi con la massima protervia e la più sfacciata ostentazione. La colonia di blocchi abitativi di cui sopra, piazzata nel punto più centrale e rappresentativo della città, ne è appunto un esempio. Alijev distribuì le case secondo una lista da lui redatta, rimettendo personalmente le chiavi ai singoli prescelti. Il criterio che regolava le attribuzioni era semplice: gli appartamenti migliori toccavano ai parenti più stretti, poi venivano i cugini e la personalità di spicco del clan Alijev. Da queste parti, come migliaia di anni fa, i vincoli tribali restano sempre i più forti. (p. 141)
  • Dopo settantatré anni di bolscevismo la gente non sa più cosa sia la libertà di pensiero e la sostituisce con la liberta d'azione. E qui libertà d'azione significa libertà di uccidere. Ecco, in due parole, tutta la perestrojka, tutto il nuovo pensiero. (p. 142)
  • Che cos'è la scacchiera di Stalin? Quello ha combinato un tale rimescolio di popoli, li ha talmente spostati e trasferiti che ormai appare impossibile toccarne uno senza smuoverne o danneggiarne un altro. Esistono trentasei conflitti di frontiere, se non di più. Ecco cos'è la scacchiera di Stalin, la nostra peggiore sciagura. (p. 142)
  • Il destino degli armeni: secoli di persecuzioni e stenti, la diaspora, la vita errante, i pogrom. Tutto registrato nelle cronache. Non una pagina senza qualcuno che preghi per la sopravvivenza, che invochi la vita. In ogni pagina l'angoscia, in ogni verso timore e spavento. (p. 226)
  • L'occidentale gettato allo sbaraglio nel mondo sovietico sente continuamente il terreno sfuggirgli sotto ai piedi, fino a quando non gli viene spiegato che la realtà che vede non solo non è l'unica, ma probabilmente neanche la principale. Qui esiste tutta una serie delle più svariate realtà, intrecciate in un groviglio mostruoso e inestricabile, caratterizzato alla molteplicità logica: una stramba confusione di sistemi logici in contrasto tra loro, talvolta erroneamente definita illogicità, o alogicità, da quanti sono fermamente convinti che di sistemi logici ne esista uno solo. (p. 230)
 
Soldati armeni durante la prima guerra del Nagorno Karabakh
  • Per gli armeni un alleato è chi pensa che il Nagorno Karabakh sia un problema. Tutti gli altri sono nemici.
    Per l'azerbajgiano un alleato è chi pensa che il Nagorno Karabakh non sia un problema. Tutti gli altri sono nemici.
    Si resta colpiti dall'estremismo e dalla radicalità delle due posizioni. Non è possibile, stando tra armeni, dire: "Secondo me gli azerbajgiani hanno ragione," o, trovandosi tra azerbajgiani, dire: "Secondo me hanno ragione gli armeni". Non se ne parla nemmeno: quelli ti prendono in odio e ti ammazzano. Lasciarsi sfuggire un: "È un problema!" oppure un "Non è un problema!" nel posto sbagliato o tra gente sbagliata, equivale a rischiare lo strangolamento, l'impiccagione, la lapidazione, il rogo. (p. 241)
  • Tre piaghe, tre flagelli minacciano il mondo.
    La prima è la piaga del nazionalismo.
    La seconda, la piaga del razzismo.
    La terza, la piaga del fondamentalismo religioso.
    Le tre piaghe sono unite dalla stessa caratteristica, dallo stesso comun denominatore: la più totale, aggressiva e onnipotente irrazionalità. Impossibile penetrare in una mente contagiata da uno di questi tre mali. In quelle teste arde un sacro rogo in attesa delle sue vittime. Qualunque tentativo di fare un discorso pacato risulterà inutile. Quelli non vogliono discorsi, vogliono una dichiarazione. Vogliono che tu sia d'accordo, che tu gli dia ragione, che tu aderisca. Altrimenti per loro non sei nessuno, neanche esisti, visto che ti considerano solo in quanto mezzo, arma, strumento. Non esistono individui, esiste solo la causa. (pp. 241-242)
  • In passato i viaggiatori si temevano a vicenda e nello scompartimento regnava il silenzio; ora, con la glasnost', è tutto un chiacchierare. (p. 259)
  • Il cosiddetto uomo sovietico è soprattutto un essere mortalmente stanco per cui non c'è da stupirsi che non abbia la forza di rallegrarsi per la libertà appena riconquistata. È un fondista giunto al traguardo e stramazzato a terra, incapace perfino di sollevare il braccio in segno di vittoria. (p. 266)
  • Nel medioevo Novgorod era una città famosa, una sorta di Firenze o di Amsterdam del nord: dinamico centro commerciale e artigianale, sede fiorente di tutte le arti, soprattutto dell'architettura sacra e della pittura di icone. Vi regnava un sistema politico tutto particolare. Per quattrocento anni (dall'XI al XV secolo) Novgorod fu una specie di repubblica feudale indipendente, autonoma, la cui autorità suprema era esercitata da un'assemblea di cittadini e di liberi contadini del circondario. La popolazione eleggeva un principe che governava a suo nome e che poteva venire destituito in qualunque momento. Un sistema quanto mai insolito, considerata l'epoca e la zona geografica. [...] Novgorod era una città democratica, governata dal popolo, aperta al mondo, in continuo contatto con ogni parte d'Europa; invece Mosca, espansionista, impregnata di influssi mongoli e ostile all'Europa, stava lentamente entrando nella buia era di Ivan il Terribile. Se la Russia avesse seguito la via novgorodiana, sarebbe potuta diventare uno stato diverso da quello capeggiato da Mosca. Ma le cose andarono altrimenti. (pp. 286-287)
  • Nella storia contemporanea è la Russia ad aprire il XX secolo con la rivoluzione del 1905, ed è sempre la Russia a chiuderlo con la rivoluzione sfociata nella caduta dell'Urss del 1991. (p. 295)
  • Il medesimo processo di espansione del terzo mondo, che aveva causato il crollo degli imperi coloniali inglese, francese e portoghese, si faceva sentire anche all'interno dell'ultimo impero coloniale del mondo, l'Urss. Alla fine degli anni ottanta la popolazione non russa di questo Impero ammontava a circa metà della sua popolazione, mentre l'élite al potere era composta al novantacinque per cento da russi o da rappresentanti russificati delle minoranze etniche. Ormai era solo questione di tempo: si trattava di aspettare che la consapevolezza di questo fatto si trasformasse, per le minoranze in questione, in un segnale di via libera all'emancipazione. (pp. 297-298)
  • In un certo senso perestrojka e glasnost' sono dei polmoni artificiali innestati nell'organismo sempre più sofferente, anzi morente, dell'Urss, che le permettono di andare avanti per altri sei anni e mezzo. Dico questo perché i nemici di Gorbačëv lo accusano di essersi messo a capo di un'Urss prospera e di averla portata alla rovina. È vero il contrario: l'Urss era crollata da un pezzo e Gorbačëv ne ha allungato il più possibile la vita. (p. 301)
  • Secondo me la perestrojka emerge dalla concomitanza di due grandi processi cui è stata sottoposta la società dell'Impero:
    - la massiccia cura di disintossicazione dal terrore;
    - il viaggio collettivo del mondo dell'informazione.
    Chiunque non sia stato educato in un'atmosfera di bestiale terrore generalizzato e in un mondo di disinformazione avrà difficoltà a rendersi conto del problema.
    I fondamenti dell'Impero sovietico sono sempre stati il regime di terrore e la paura, sua inseparabile e tremebonda propaggine. Poiché con la morte di Stalin e di Beria il Cremlino sospende la politica del terrore di massa, si può dire che la loro dipartita segni l'inizio della fine dell'Impero. (pp. 301-302)
  • Gorbačëv deve sentirsi sempre più solo. Continua a essere immensamente popolare in Occidente. L'Occidente desidera andare d'accordo con i padroni del Cremlino, ma a condizione che si tratti di persone simpatiche, sorridenti, ben vestite, rilassate, serene, spiritose e gentili. Ed ecco che, dopo seicento anni di inutile attesa, spunta un uomo come Gorbačëv! Londra, Parigi, Washington e Bonn spalancano le braccia tutte contente. Che scoperta! Che sollievo! (p. 305)
  • La televisione ha contribuito considerevolmente alla caduta dell'Impero, non fosse che per aver mostrato i capi come semplici mortali, permettendo a tutti di vederli da vicino, di osservarli nell'atto di litigare, di innervosirsi, di sbagliare, di sudare e di vincere, ma anche di perdere: è bastato questo sollevarsi del sipario, questo ammettere il popolo nelle sale supreme e più esclusive, per dare il via a un salutare e liberatorio processo di dissacrazione del potere.
    Il conferire un carattere sacro al potere è sempre stato, infatti, uno dei canoni della cultura politica russa. Fino a metà del XIX secolo i ritratti dello zar, in quanto santo, erano appesi nelle chiese. Una tradizione che i bolscevichi sono stati ben felici di ereditare. (p. 308)

Il negus

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  • Il denaro ha un valore completamente diverso in un paese ricco o in un paese povero. Nel paese ricco è una banconota con cui gli acquirenti comprano merci. Un milionario sarà un acquirente con maggior potere d'acquisto, ma sarà pur sempre solo un acquirente. In un paese povero il denaro è una fitta siepe profumata e sempre in fiore che separa il ricco da tutto il resto, impedendogli di vedere la povertà circostante, di avvertire il lezzo della miseria, di udire la voce dei bassifondi. Il ricco sa perfettamente che ciò esiste, ed è orgoglioso della propria siepe. Chi ha i soldi ha le ali, è un uccello del paradiso ammirato da tutti. (p. 51)
  • [Sul Colpo di Stato in Etiopia del 1960] Era il 1960. Un anno terribile, amico mio. Un verme velenoso si era annidato nel frutto sano e polposo dell'impero, imprimendo alle cose un corso talmente tragico e dsitruttivo che, invece di produrre succo, il frutto produsse sangue. Ammainiamo le bandiere, chiniamo la testa e mettiamoci una mano sul cuore: oggi sappiamo che quello era il principio della fine, e che quanto accadde in seguito era assolutamente irreversibile. (F.U-H.; p. 66)
  • Germamè? Germamè, caro mister Richard, era uno di quei famosi sovversivi che, al rientro nell'impero, si mettevano le mani nei capelli non riuscendo a credere ai propri occhi. In segreto, naturalmente, perché in pubblico si mostravano leali e parlavano come il Palazzo si aspettava che parlassero. E sua maestà - non riesco proprio a perdonarglielo - ci cascò in pieno. (A. W.; p. 71)
  • [Su Germame Neway] Quell'uomo possedeva una fede ardente, il dono della persuasione, coraggio determinazione e perspicacia; tutte qualità che lo distinguevano dalla grigia massa servile e timorosa degli adulatori e degli yesmen pullulanti a Palazzo. (p. 73)
  • Asfa Wossen era un uomo debole, passivo e privo di opinioni personali. Tra lui e il padre esisteva un'antipatia reciproca e si mormorava che l'imperatore non fosse sicuro che si trattasse veramente di suo figlio: qualcosa, tra le date dei suoi viaggi e il giorno in cui l'imperatrice aveva dato luce il primogenito, non lo convinceva. (pp. 74-75)
  • La città rimase tranquilla. I negozi erano aperti, nelle strade regnava il trambusto di sempre. La maggior parte della gente ignorava l'accaduto e i pochi che avevano udito qualcosa non sapevano che cosa pensarne. Credevano che si trattasse di una faccenda di Palazzo e il Palazzo, da sempre inaccessibile, irraggiungibile, impenetrabile e incomprensibile, faceva parte di un altro pianeta. (p. 75)
  • Mi creda, mister Richard: in quel giorno del Giudizio il nostro leale e umile popolo diede a sua maestà una straordinaria prova di lealtà. Quando quei pazzi traditori abbandonarono il Palazzo dirigendosi verso il bosco, la popolazione, istigata dal nostro patriarca, si lanciò all'inseguimento. Non avevano carri armati né cannoni: ognuno afferrava al volo pietre, lance, pugnali e, in preda all'odio e al furore, si precipitava dietro ai fuggiaschi. Quella povera gente di strada, alla quale il nostro sovrano elargiva le sue elemosine, cominciò a spaccare le teste dei mascalzoni che volevano privarli del loro dio per sostituirlo con chissà quale altra esistenza. Senza sua maestà, chi avrebbe distribuito elemosine al popolo, chi lo avrebbe incoraggiato con parole di conforto? (p. 77)
  • In quegli anni circolavano due diverse immagini di Hailè Selassiè. Una, quella nota all'opinione pubblica internazionale, presentava l'imperatore come un monarca esotico ma capace, dotato di un'energia inesauribile, di una mente acuta e di una profonda sensibilità; un uomo che si era opposto a Mussolini, aveva riconquistato l'impero e il trono, e nutriva l'ambizione di sviluppare il proprio paese e di svolgere nel mondo un ruolo di rilievo. L'altra immagine, formata poco per volta dalla parte più critica, e inizialmente esigua, dell'opinione pubblica interna, lo mostrava come un monarca deciso a difendere il potere con ogni mezzo; ma soprattutto come un demagogo e un padre padrone che, con i fatti e con le parole, mascherava la corruzione, l'ottusità e il servilismo della classe dirigente da lui stesso creata e blandita. Le due immagini, come spesso succede, erano vere entrambe. Hailè Selassiè aveva una personalità complessa: per taluni piena di fascino, per altri odiosa; certuni lo adoravano, altri lo maledicevano. Governava un paese che conosceva solo i metodi più brutali per conquistare (o per conservare) il potere, e dove le libere elezioni erano sostituite da pugnali e veleni, e le libere discussioni da forche e fucilazioni. Lui stesso era un prodotto di quella tradizione, alla quale a suo tempo aveva fatto ricorso. Tuttavia si rendeva conto che in tutto ciò c'era qualcosa di stonato e di incompatibile con il mondo nuovo. Non potendo certo modificare il sistema che lo manteneva al potere (e per lui il potere veniva prima di ogni altra cosa), ricorreva alla demagogia, al cerimoniale e a quei discorsi sullo sviluppo così assurdi in un paese tanto povero e arretrato. Uomo simpatico, politico astuto, padre tragico e avaro patologico, condannava a morte gli innocenti e graziava i colpevoli: capricci del potere, tortuose manovre di Palazzo, ambiguità e misteri che nessuno riuscirà mai a decifrare. (p. 105)
  • Maggio, ossia l'ultima scadenza per il giuramento del governo Maconnen, era alle porte. Il protocollo imperiale comunicò i suoi dubbi circa il fatto che la cerimonia potesse aver luogo, visto che metà dei ministri era in prigione o era fuggita all'estero, oppure non si era più fatta viva a Palazzo. Quanto al primo ministro, gli studenti gli inveivano contro e lo prendevano a sassate, perché Maconnen non aveva mai saputo conquistarsi le simpatie del popolo. Subito dopo la promozione, si era gonfiato come un pallone divenendo trionfo e borioso, mentre lo sguardo gli si era fatto distante e altezzoso al punto che non vedeva niente e non si lasciava avvicinare da nessuno. Passava a testa alta nei corridoi e faceva qualche comparsa nei salotti, dai quali usciva scostante e inaccessibile come vi era entrato. Ovunque andasse, veniva venerato, assecondato, osannato e incensato come un dio. Ma, già allora era chiaro che Maconnen, odiato com'era da studenti e militari, non sarebbe durato a lungo. (L.C.; p. 132)
  • Sulle prime, i membri del Derg agirono nella massima segreteza, senza neanche sapere su quanta parte dell'esercito avrebbero potuto contare. [...] Avevano dalla loro operai e studenti, circostanza importante; ma la maggior parte dei generali e degli alti ufficiali, ossia quelli che comandavano e davano gli ordini, era contro di loro. (p. 142)
  • Il Derg stesso non era totalmente omogeneo: pur essendo tutti uniti nel voler liquidare il Palazzo e cambiare il sistema anacronistico e obsoleto che andava avanti per forza di inerzia, gli ufficiali non riuscivano a trovare un accordo sulla sorte del sovrano. (p. 143)
  • I membri del Derg erano uomini estremamente coraggiosi e, in parte, anche disperati, visto che (come in seguito confessarono), pur avendo deciso di contrapporsi all'imperatore, non credevano a una possibilità di riuscita. (p. 143)
  • Ricordo questo Mariam quando, ancora capitano, veniva a Palazzo. Sua madre faceva la domestica a corte. Non so chi gli avesse reso possibile frequentare l'accademia militare e diplomarsi. Era un tipo snello, minuto, che dava l'impressione di essere sempre teso, ma con una grande capacità di dominarsi. Conosceva a menadito la distribuzione interna del Palazzo, sapeva perfettamente chi fossero i vari personaggi e chi bisognasse arrestare affinché la corte smettesse di funzionare, perdesse forza e potere e si trasformasse in quel vuoto modellino architettonico che giace in abbandono sotto gli occhi di tutti. (E.; pp. 151-152)

La prima guerra del football e altre guerre di poveri

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Kwame Nkrumah, primo presidente del Ghana indipendente
  • Pensai che il modo migliore di raccontare l'Africa fosse quello di parlare di colui che in quel periodo fu la figura più significativa del continente, un uomo politico, un visionario, un tribuno e uno stregone: Nkrumah. (p. 21)
  • Lo scopo che si è prefisso fin da ragazzo è la liberazione del Ghana. Per raggiungerlo, però, bisogna prima diventare qualcuno. Essere qualcuno: ecco il primo obiettivo. A quel tempo il Ghana è una colonia. Un nero non ha possibilità di fare carriera. (p. 26)
  • Quando il premier va nei villaggi, dorme nelle capanne. A volte si trattiene per strada a chiacchierare fino a tarda notte. In quei casi non rientra in città e si ferma a dormire in una casa qualunque. Questo gli procura le simpatie generali. Così passa il suo tempo. (p. 30)
  • Parlava in tono fermo, chiaro e uniforme. Nkrumah è un oratore eccellente, da gestire parco ma incisivo. Perfino gli inglesi dicono che ascoltarlo è un piacere. È un uomo di media statura, ben fatto e gradevole. Ha un viso intelligente, la fronte alta e lo sguardo profondo e triste. Uno sguardo che rimane triste anche quando Nkrumah sorride. (p. 33)
  • L'uomo alto e magro non parlava come gli altri. Diceva che la nostra tribù non era sola, che esisteva una famiglia di tribù chiamata nation congolaise, che dovevamo essere tutti fratelli e che questo ci avrebbe dato la forza. Parlò a lungo, era calata la notte. L'oscurità aveva cancellato le facce. Non si vedevano che le parole dell'uomo. Erano chiare. Le distinguevamo perfettamente. (p. 41)
  • Ho già sentito parlare di Nasser, Nkrumah, Sékou Touré. Adesso sento Lumumba. Ma bisognerebbe vedere come li ascolta l'Africa, vedere la folla che va ai comizi: solenne, compresa, gli occhi febbrili. Bisogna avere i nervi saldi per soportare l'ovazione estatica che saluta l'apparizione di ognuno di loro. È bene mescolarsi alla folla, applaudire, ridere e arrabbiarsi con lei, sentire la sua pazienza e la sua forza, la sua dedizione e la sua minacciosità. Un comizio in Africa è sempre una festa popolare, gioiosa e piena di dignità come la festa del raccolto. (p. 43)
  • Nasser ha un eloquio duro e incisivo, è sempre dinamico, impulsivo, dominatore. Touré battibecca con la folla, la conquista con il suo buonumore, con il suo sorriso perenne, con la sua sottile noncuranza. Nkrumah è patetico, raccolto, con uno stile da predicatore che gli è rimasto addosso dai tempi dei suoi sermoni nelle chiese dei neri d'America. E la folla, inebriata dalle parole dei capi, nel suo entusiasmo si avventa sull'automobile di Gamal, solleva l'automobile di Sékou, si spezza le costole per toccare l'automobile di Kwame. (p. 43)
  • Ora che si è risvegliata, l'Africa ha bisogno di grandi nomi. Come simbolo, come collante, come ricompensa. Per secoli la storia di questo continente è rimasta anonima. Nello spazio di trecento anni i mercanti hanno deportato milioni di schiavi: chi può citare il nome di una sola vittima? Per secoli si è combattuto contro l'invasione bianca: chi può citare il nome di un solo combattente? Quali nomi evocano le sofferenze delle generazioni nere, quali nomi commemorano il coraggio delle tribù massacrate? L'Asia ha avuto Confucio e Buddha, l'Europa Shakespeare e Napoleone. Dal passato africano non emerge un solo nome che il mondo conosce, che l'Africa stessa conosca.
    Ed ecco che ora, quasi ogni anno, la grande marcia africana, come per rimediare a un irrecuperabile ritardo, scrive nella storia un nuovo nome: 1956, Gamel Nasser; 1957, Kwame Nkrumah; 1958, Sékou Touré; 1960, Patrice Lumumba. (pp. 43-44)
  • La biografia di quest'uomo si riassume in quest'unica formula: non fa in tempo. All'epoca in cui Kasavubu o Bolikango conquistano faticosamente i loro seguaci, Lumumba non è ancora all'orizzonte, o perché è troppo giovane, o perché sta in prigione. Ma gli altri pensano solo alla loro parrocchia, mentre Lumumba pensa a tutto il Congo.
    Il Congo è un oceano, un immenso affresco pieno di contrasti. Piccoli agglomorati di congolesi vivono sparsi nella giungla e nella savana; spesso non si conoscono e sanno poco gli uni degli altri. Sei persone per chilometro quadrato. Il Congo è grande come l'India. A Gandhi ci vollero vent'anni per attraversare l'India. Lumumba ha provato ad attraversare il Congo in sei mesi. Un'impresa impossibile. (p. 44)
  • Negli altri paesi, i leader hanno a disposizione la stampa, la radio, il cinema, la televisione. Hanno i loro staff.
    Lumumba non aveva niente di tutto ciò. Tutto apparteneva ai belgi, e il suo staff neanche esisteva. Anche se avesse avuto un giornale, in quanti avrebbero potuto leggerlo? Anche se avesse avuto un'emittente radiofonica, in quante case c'erano apparecchi radio? Bisognava attraversare il paese. Come Mao, come Gandhi, come Nkrumah e Castro. (p. 45)
  • Lumumba è sempre di un'eleganza raffinata. La camicia di un bianco abbagliante, il colletto inamidato, i polsini con i gemelli, la cravatta annodata alla moda, gli occhiali dalla montatura costosa. Questo non è lo stile popolare, è lo stile degli évolués cresciuti alla scuola degli europei. Quando Nkrumah va in Europa, indossa a scopo dimostrativo il costume africano; quando Lumumba va in un villaggio africano indossa, per la stessa ragione, gli abiti europei. Può darsi che non lo faccia con intenzione, ma è così che viene interpretata. (p. 45)
  • Lumumba è figlio del suo popolo. Anche lui è ingenuo e mistico, passa facilmente da un estremo all'altro, dagli scoppi di gioia alla disperazione muta. È una figura appassionante perché incredibilmente complessa. Niente in quest'uomo si presta a una definizione. Ogni formula gli va stretta. Irrequieto, caotico, testa calda, poeta sentimentale, politico ambizioso, anima elementare, arrogante e nello stesso tempo umile; convinto sino all'ultimo della sua verità, sordo alle parole altrui, assorto nella propria bellissima voce. (pp. 48-49)
  • La versione "scientifica" con cui l'afrikaner presenta l'apartheid al mondo è questa: i bianchi e i non bianchi appartengono a due razze diverse, la cui convivenza nello stesso paese presenta sempre il rischio, per i bianchi, di perdere il potere e, per i non bianchi, di subire un'ingiustizia. Da un lato i bianchi non possono accettare di concedere i diritti politici ai non bianchi, perché questo provocherebbe l'assorbimento della civiltà occidentale da parte di quella indigena. Dall'altro, poiché gli indigeni lavorano nell'industria dei bianchi, sarebbe ingiusto negare loro i diritti civili. Inoltre il non bianco ha lo stesso diritto del bianco di sviluppare la propria lingua e la propria cultura. Se si rendesse l'africano cittadino di uno stato europeo (ed è così che l'afrikaner considera il Sudafrica), invece di essere un vero africano diventerebbe un'imitazione dell'uomo europeo. In uno stato europeo l'africano non può ottenere né la parità dei diritti né il potere, cosa che invece è possibile nel suo stato africano. L'africano perciò deve avere un suo paese (homeland), un territorio da considerare proprio e dove possa raggiungere la posizione che le sue capacità gli permettono. Questo terreno natale dell'africano, all'interno dello stato europeo, sono appunto le riserve esistenti, cui però conviene cambiare nome. Se un africano lascia la sua riserva per venire a lavorare nella ditta di un europeo, sarà trattato come un operaio immigrato temporaneo, senza diritti civili né politici. Ciò gli permetterà di capire e ricordare che, allo scadere del suo contratto nel Sudafrica europeo, dovrà tornarsene alla sua riserva. Bisogna innalzare il livello delle riserve e ricordare che per un bel pezzo i bianchi vi eserciteranno un mandato fiduciario, poiché gli africani non hanno ancora raggiunto lo stadio di sviluppo necessario ad autogovernarsi. (pp. 83-84)
  • L'afrikaner è un bianco che però non si considera europeo. Anzi l'afrikaner disprezza l'europeo, o se ne vergogna. In effetti, dal suo punto di vista, gli europei rappresentano la parte compromessa della razza bianca, il suo punto debole, la sua frazione più molle e opportunista. Secondo l'afrikaner, l'europeo è liberale, disonora la razza bianca cedendo terreno ai neri in Africa, è senza morale poiché la domenica va al cinema e al ristorante e, quel che è peggio, è spesso comunista. Tra gli afrikaner fanatici dirsi "jou europeen!" (tu europeo!) è una specie di ingiuria o di rimprovero, come dire "buono a nulla". L'afrikaner può anche conoscere qualche lingua europea, ma eviterà accuratamente di parlarla. Interrogato in inglese, da un giudice del tribunale, l'afrikaner risponde solo nella sua lingua, l'afrikaans. Se risponde in inglese, verrà considerato un traditore dagli altri afrikaner. (p. 84-85)
  • Gli afrikaner sono una delle quattro popolazioni di provenienza europea stabilitesi su territori extraeuropei in seguito alle grandi conquiste coloniali nel periodo del capitalismo nascente. Le altre tre popolazioni sono l'americana, l'australiana e la canadese. La geneologia storica di tutte e quattro è comune, ma la loro situazione attuale è diversa. Americani, australiani e canadesi discendono dal ceppo britannico, gli afrikaner da quello olandese. Tuttavia la differenza principale è un'altra. Gli Stati Uniti, il Canada e l'Australia sono riconosciuti come paesi dell'uomo bianco, e questo dato non viene più messo in discussione. Nessuno pretende che gli Stati Uniti restituiscano il potere agli indiani. Anche in Canada e in Australia la "questione indigena" non rappresenta certo uno scottante argomento di attualità politica. In Sudafrica è diverso. Una parte dell'opinione pubblica considera il proprio paese come la nazione degli africani, un'altra lo considera la nazione dell'uomo bianco, e un'altra ancora una nazione mista di bianchi e neri, la cosiddetta nazione multirazziale.
    La differenza tra la condizione di un afrikaner e quella, per esempio, di un americano, si deve al fatto che, negli Stati Uniti, gli americani bianchi rappresentano una netta maggioranza, mentre in Sudafrica gli afrikaner bianchi sono una netta minoranza. Infatti entrambe le colonizzazioni, l'americana e l'africana (concomitanti nel tempo e identiche nelle modalità di appropriazione), si differenziano fortemente per il grado di violenza e di impeto espansionista, nonché, fattre importantissimo, per il grado di resistenza incontrario. (pp. 85-86)
  • Gli afrikaner sostengono oggi che il Sudafrica appartiene solo a loro, perché quando vi arrivarono non era di nessuno. Si tratta di una vecchia bugia divulgata da tutti i colonialisti dall'America fino all'Oceania. Vero è invece che il Sudafrica era un paese scarsamente popolato, e tale si è mantenuto anche oggi, nel secolo dell'esplosione demografica mondiale. I coloni quindi spaziavano su grandi estensioni e l'ideale dell'afrikaner è sempre stato di avere intorno a sé abbastanza terra da non vedere, dalle finestre di casa, il fumo del camino del vicino. (p. 88)
  • Nella famiglia dell'afrikaner la forza lavorativa è lo schiavo, comprato al mercato di Città del Capo o catturato nella guerra contro una tribù africana. Gli afrikaner, infatti, sono perennemente in lotta con gli africani. Di spazio in Sudafrica ce n'è quanto se ne vuole, di terra fertile meno. Oggi si stima che solo il quindici per cento di tutto il Sudafrica si presti alla coltivazione senza bisogno di grossi investimenti per l'irrigazione. Allo stesso modo che il punto debole dell'industria sudafricana sta nella mancanza di risorse petrolifere, così il punto debole dell'agricoltura sta nella mancanza d'acqua. (pp. 88-89)
  • Da un punto di vista organizzativo, il trek fu un movimento partigiano. Da un punto di vista ideologico, fu un movimento religioso. Il suo scopo era la conquista coloniale dell'Africa, l'appropriazione della terra africana, condotta però con i metodi della lotta partigiana. Gli afrikaner, fanaticamente religiosi, si definivano il popolo eletto cui Dio aveva assegnato il Sudafrica come nuova patria. In un certo senso, fu il viaggio verso la terra promessa, la crociata dei colonialisti afrikaner per purificare la terra santa dalla barbarie nera. Dal punto di vista della forma, il movimento dei trekker ricorda i moti sociali contadini dell'Europa medioevale la cui motivazione è sempre religiosa; ma nella sostanza e nel significato, si tratta di un movimento di tipo predatore e coloniale. (p. 90)
  • C'è chi nasce per comandare, che per servire. Non ci si può far niente, è l'ordine del mondo voluto da Dio. Chi si azzarda a cambiarlo è un eretico da lapidare. Il dogma della predestinazione dice anche che chi nasce nella fede è creatura superiore a chi nasce nel paganesimo; è più vicina alla salvezza, poiché su di essa si è posata la mano di Dio. Fu con questa credenza che gli afrikaner giunsero in Sudafrica. L'immagine del mondo, forgiata dal dogma della predestinazione, appariva loro in tutta la sua manicheista evidenza. Da una parte loro, gli uomini di fede; dall'altra i pagani. L'uomo di fede era bianco, il pagano nero. Così Dio, nella sua saggezza, aveva creato il mondo, prediligendo i bianchi e condannando alla dannazione i neri. Il nero non può cambiare pelle né scrollarsi di dosso il paganesimo, poiché Dio ha stabilito una volta per tutte l'ordinamento del mondo. (p. 93)
  • Il razzismo afrikaner non deriva esclusivamente dal desiderio di difendere la sua posizione privilgiata nella società coloniale, come accade invece per gli inglesi. Il razzismo è per lui un dogma della fede, e nella sua coscienza la fede è una conferma dell'esistenza dell'afrikaner stesso. Ogni invito a riconoscere qualche diritto civile agli indigeni viene preso dall'afrikaner non solo come un attacco alla propria posizione sociale, ma anche come un gesto di persecuzione verso la propria fede, un oltraggio alla propria chiesa, una bestemmia. (p. 94)
  • Ben Bella aveva forte individualità, dominava nettamente per l'ampiezza delle vedute e la profondità del pensiero. Il suo pensiero era coraggioso e fecondo, anche se spesso incoerente. Una personalità di rilievo, ma estremamente complessa e disuguale. (p. 112)
  • [Su Ahmed Ben Bella] Ha conferito all'Algeria il prestigio di primo stato del Terzo Mondo. Voleva farne un ponte tra l'Africa e l'Europa per aprire alla sinistra europea e ai partiti comunisti la via all'Africa e al mondo arabo. (p. 112)
  • Il socialismo di Ben Bella è stato un esperimento audace e originale. Semplificando, voleva fondare un'economia socialista tenendo la sovrastruttura islamica. L'opposizione gli rimprovera di averne parlato troppo e di aver fatto troppo poco. Rinfaccia al socialismo di Ben Bella di essere stato un socialismo verbale. (p. 113)
  • Nel mondo arabo non esiste la tradizione dei partiti politici intesi come forza sociale di punta e bene organizzata. È difficile costruire un partito del genere. Del resto, Ben Bella non si dedicò affatto a questo compito: il partito gli occorreva come facciata, per disporre di un gruppo di collaboratori, e tanto gli bastava. (p. 115)
  • Forse la caduta di Ben Bella preannuncia la fine dell'epoca dei grandi capi del Terzo Mondo che sono emersi dalla grama vita quotidiana dei loro paesi, ma che erano più dei leader che degli economisti. Perfino Nyerere e Sékou Touré hanno perso slancio e sono stati schiacciati dall'economia. Le difficoltà economiche incalzano, mancano i dirigenti, il commercio va male. (p. 117)
  • Mobutu aveva arrestato il presidente Kasavubu, autonominandosi presidente per cinque anni. L'aspetto più curioso e interessante della dichiarazione era proprio il termine di "cinque anni" che Mobutu si era assegnato.
    E nessuno trovava niente da ridere.
    Mobutu aveva ragione: da queste parti, un ufficiale e mille soldati rappresentano una potenza senza rivali. Chi può contrastarli? Quanti partiti al governo hanno la possibilità di disporre, nel momento del bisogno, di mille uomini fidati, fedeli a un'idea e soprattutto non in contrasto tra loro? (p. 128)
  • [Su Yakubu Gowon] È un uomo magro, bello e molto intelligente. Assomiglia a tutti i giovani ufficiali di qui: è modesto e semplice di modi. Durante entrambi i colpi di stato ha dimostrato un eccezionale coraggio e riflessi fulminei. [...] Governa dalla caserma, lascia raramente il suo ufficio e vive sotto stretta sorveglianza. (p. 144)
  • Gowon deve stare sempre in guardia.
    L'esercito è smembrato, decimato; è impossibile stabilire quali siano i reparti fedeli al nuovo regime e quali no. Finora le perdite maggiori sono avvenute proprio tra i militari, che si sono massacrati tra loro. Il corpo ufficiali, ormai ridotto alla metà, si compone di elementi giovanissimi, rabbiosi, pronti al litigio e dalla pistola facile. Durante il primo colpo di stato gli ufficiali ibo hanno massacrato gli ufficiali yoruba e haussa; nel secondo, sono stati gli ufficiali yoruba a massacrare gli ufficiali ibo.
    I sopravvissuti sono pochi.
    L'odio tribale, questa mostruosa e diabolica ossessione africana, è stato equipaggiato di armi automatiche e la falce della morte si abbatte su sempre nuovi ufficiali. Ognuno va a dormire senza sapere se vedrà l'alba. (pp. 144-145)
  • Tra le popolazioni africane, gli yoruba occupano una posizione esclusiva, poiché da secoli vivono nelle città. In Africa, continente rurale e contadino, le città yoruba rappresentano un fenomeno storico. L'organizazzione statale degli yoruba ricorda la Grecia antica delle città-stato. (p. 150)
  • Il sogno di ogni yoruba è quello di diventare o un feudatario, o un uomo d'affari. (p. 150)
  • Gli yoruba hanno una lingua difficilissima, con una struttura tonale il cui suono ricorda vagamente il cinese. (p. 151)
  • Tutta la cultura yoruba è intrisa di un'intensa sensualità, che gli yoruba hanno trasmesso alla cultura sudamericana, soprattutto brasiliana e cubana. (p. 151)
  • In Nigeria un ibo non voterà mai uno yoruba o un haussa, un haussa non voterà un ibo o uno yoruba, uno yoruba non voterà un ibo o un haussa. Quindi è il rapporto numerico a decidere e gli yoruba non oltrepassano il venti per cento della popolazione nigeriana. (p. 153)

Se tutta l'Africa

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Incipit

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I reportage raccolti in questo libro sono una relazione dei miei percorsi africani. Non sono andato in Africa in cerca di avventure, a caccia di elefanti o per trovarci i diamanti. Facevo il corrispondente dell'Agenzia stampa polacca e dovevo descrivere ciò che sentivo e che vedevo sul posto, ciò che vi succedeva. E a quell'epoca vi succedevano molte cose. Ho trascorso in Africa quasi sei anni del suo periodo più burrascoso e inquieto, colmo peraltro di belle - e talvolta troppo facili speranza. Si era alla svolta tra due epoche: la fine del colonialismo e l'inizio dell'indipendenza. Ho cercato di descrivere questo cambiamento, questo sconvolgimento, questa rivoluzione.

Citazioni

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  • Nkruma'h, Ben Bella, Kasavubu e Balewa sono passati, ma sono stati grandi personalità dell'Africa e i loro nomi non verranno dimenticati. (pp. 11-12)
  • In Africa mi appassionava l'esotismo della vita politica, mi interessava soprattutto il modo in cui la tradizione locale, il costume, l'ambiente influivano sullo stile politico, deformandone i meccanismi per ricrearli in nuove forme. (p. 12)
  • L'Africa, ora buffa, ora minacciosa, ora triste, ora incomprensibile, è sempre stata autentica, irripetibile, se stessa. L'Africa ha un suo stile, un suo clima, una sua individualità che attirano, incatenano, affascinano. (p. 12)
  • L'Etiopia ha un presente modesto, ma vanta un illustre passato nonché un imperatore, il che permette all'etiope analfabeta di guardare dall'altro in basso i popoli della terra che non possono vantare un imperatore in carne e ossa. Ci troviamo in un'Africa che ignora i complessi di inferiorità e i problemi relativi alla razza. Per quanto di costituzione smilza e minuta, Hailè Selassiè ha un'energia di ferro, è uno di quei grandi vecchi che stupiscono per la loro vitalità e chiarezza di idee. Come persona è straordinariamente simpatico: è sereno, accattivante e nel suo modo di fare c'è quel momento di timidezza e imbarazzo con cui i grandi della terra si conquistano la simpatia dei piccoli. (p. 33)
  • Il potere di Hailè Selassiè è assoluto: in Etiopia non esistono né partiti politici né sindacati e il parlamento ha un ruolo puramente simbolico e nominale in quanto non esistono neanche le elezioni. I due massimi poteri organizzati di questo regime tipicamente feudale sono un potente esercito e una potentissima Chiesa. L'imperatore, che senza dubbio la suprema mente politica del paese, esercita quindi il potere non solo in virtù del suo titolo ma anche grazie ai suoi alti valori personali. Hailè Selassiè nutre ambizioni panafricane e ambisce a venire considerato il numero uno di tutta l'Africa. (p. 34)
  • Tubman, che è ormai un anziano signore dai capelli bianchi, ha maniere gioviali e ama le barzellette. Sempre vestito in frac e bombetta e con un eterno sigaro tra le labbra, ha una voce profonda, rauca e dal forte accento americano. Politicamente è filoamericano, ma senza fanatismi anticomunisti. (p. 35)
  • Essendo figlio di un capo della grande tribù nigeriana dei pastori fulani, Ahidjo è un estraneo nel Camerun, dominato dal gruppo etnico dei bantu meridionali. Ma dietro Ahidjo c'è Parigi e questo ha il suo peso. (p. 38)
  • La Francia ha scelto come capi delle sue client-countries africane dei politici non solo leali nei confronti di Parigi, ma anche umanamente insignificanti e incapaci di un'opinione personale. (p. 39)
  • Youlou, piccola di statura, indossa sempre una sottana da gesuita sebbene non sia mai appartenuto a quest'ordine ma sia stato un semplice prete, peraltro ormai espulso dalla Chiesa per via delle sue propensioni gallanti. Sull'indice della mano destra Youlou porta un mostruoso anello, copia ingrandita dell'anello pontificale. (p. 39)
  • [Su Léopold Sédar Senghor] A suo avviso l'Africa rappresenta innanzitutto una comunità culturale, da lui definita con il termine di africanité, la cui principale caratteristica è la passion dans les sentiments. Oltre a questa comunanza culturale, la base dell'unità africana è notre situation commune de pays sous développés. L'unità appare indispensabile alla realizzazione di uno sviluppo economico che restituisca all'Africa quella piena dignità umana negata e mutilata dal colonialismo. (p. 40)
  • Adoula è un tipo strano: non guarda in faccia nessuno, tiene sempre gli occhi fissi sul piano del tavolo o sul pavimento e non sorride mai. Kasavubu è l'esatto contrario: un grassone gioviale e soddisfatto, con stampato in faccia un enigmatico sorrisetto. (p. 41)
  • La politica di Tsiranana è estremamente reazionaria e il presidente non ne fa certo mistero. (p. 42)
  • [Sulla Sierra Leone] La vita politica del piccolo paese (stretto tra la Guinea e la Liberia) si riduce da molti anni alla lotta per il potere tra due fratelli: il sudetto Milton Augustus e il fratello Albert Michael, di quindici anni più giovane, entrambi di professione infermieri. (pp. 42-43)
  • Se Obote governasse un paese normale, l'Africa si arricchirebbe di un leader audace e di grande rilievo. Purtroppo l'Uganda è un paese assurdo, in cui il settore che conta politicamente è formato da quattro regni feudali, mantenuti in vita grazie all'appoggio inglese e all'oscurantismo delle masse, che conducono una politica di sabotaggio contro il governo di Obote. Il premier ugandese, che ha le mani legate, deve quindi stare attento a muoversi con cautela, mostrandosi estremamente duttile e scegliendo con cura le sue parole. (pp. 43-44)
  • Il Ruanda è uno dei paesi africani più reazionari, il cui Stato rappresenta il bastione e il sostegno del cattolicesimo nella parte francofona del continente. In pratica si tratta di un piccolo paese teocratico, governato da un arcivescovo. Uno degli articoli della costituzione ruandese definisce la lotta contro il comunismo il dovere costituzionale di ogni cittadino. In Ruanda vive un monaco che è stato l'insegnante dell'intero corpo governativo. (p. 46)
  • Balewa è un uomo alto, grosso, dal modo di fare lento e solenne caratteristico di tutti i musulmani subsahariani, dai quali infatti proviene (è originario del Nord musulmano della Nigeria). Ha una faccia da contadino tagliata con l'accetta, e di stampo contadino è anche il suo conservatorismo, più pratico che intellettuale. Parla brevemente, senza addentrarsi in concetti filosofici, ma quello che dice è espresso in un modo estremamente determinato e che suscita rispetto. (p. 46)
  • Nasser è poco fotogenico: nelle foto il suo viso assume sempre un aspetto vagamente demoniaco. In realtà è un bell'uomo, robusto di costituzione atletica, sempre gentile e sorridente. (p. 52)
  • Succede sempre ogni volta che in una conferenza panafricana prende la parola la Somalia. La questione è ben nota: i somali sostengono che la vera e propria Somalia, o Grande Somalia, si compone di cinque Somalie minori: la Somalia italiana, la Somalia inglese, la Somalia francese, la Somalia etiopica e la Somalia keniota, delle quali soltanto due (l'italiana e l'inglese) si trovano entro le frontiere dello Stato somalo. La Somalia ha posto come principale obiettivo della sua politica estera la riconquista delle altre tre parti. Se dirigesse il suo attacco contro la Somalia francese, ultima ufficiale colonia africana della Francia, potrebbe contare sull'appoggio degli altri Stati africani; invece appunta tutto il suo ardore patriottico contro l'Etiopia e il Kenya, il che condanna i suoi sforzi al più completo isolamento: nessun paese africano vuole infatti creare un pericoloso precedente di revisione delle frontiere. A quel punto bisognerebbe rivedere anche tutte le altre frontiere: ma secondo quale criterio? (p. 52)
  • Dacko è un uomo elegante e alla moda che si muove con aria sicura di sé. Per i francesi rappresenta un problema in quanto fanno molta fatica a mantenerlo al potere. Infatti hanno dovuto sciogliere il parlamento dopo che questo ha negato due volte la fiducia al presidente; poi è stato attaccato da alcuni partiti avversi e i francesi hanno dovute arrestarne i capi. (p. 55)
  • La Mauritania si trova al confine tre due mondi: il Nord arabo e il Sud nero. La religione e i legami di sangue l'accomunano al Nord, mentre dal punto di vista economico-commerciale è sempre stata legata ai vicini del Sud, soprattutto al Senegal. (p. 56)
  • Il re della Libia è l'unico capo di Stato africano a non parlare nessuna lingua straniera; in compenso il suo palazzo è custodito da due compagnie di un esercito straniero, precisamente inglese. (p. 58)
  • Houphouët ha inferto duri colpi alle forze progressiste dell'Africa e nelle rivoluzioni ha svolto un ruolo più dannoso di molti altri famosi (o per meglio dire famigerati) nomi africani. L'annientamento delle forze progressiste di sinistra nell'ex Africa francese è soprattutto merito suo. Il presidente della Costa d'Avorio è un ideologo africano, organizzatori e promotore del neocolonialismo francese. (pp. 59-60)
  • In Africa sono noti il lusso e il fasto di cui si circonda Houphouët-Boigny. Oltre a varie residenze in Costa d'Avorio, possiede una villa nei dintorni di Parigi e un palazzo in Svizzera acquistato per la figlia di dieci anni iscritta a una scuola di quel paese. (p. 60)
  • Visto che la situazione africana è caratterizzata da due dati fondamentali, ossia, da una parte, la tendenza all'autonomia e, dall'altra, la sostanziale impossibilità di raggiungerla in modo completo, ogni centro politico extra-africano vi trova qualcosa che gli fa comodo. Per il blocco comunista questo qualcosa è l'irremovibile tendenza dell'Africa a rendersi indipendente; per l'Occidente, la sua impossibilità di ottenere un'indipendenza completa. (p. 72)
  • [Su Fulbert Youlou] [...] più che un protetto di de Gaulle, è uno strumento nelle mani del suo primo consigliere, M. Delarue, ex alto funzionario della Gestapo condannato dopo la guerra all'ergastolo per i crimini commessi durante l'occupazione nazista. (p. 73)
  • La tragedia del movimento di liberazione dello Zimbabwe (nome africano della Rhodesia meridionale) è la cronica mancanza di un leader di spicco. Dal tempo della dinastia dei magnifici matabele, sterminata negli anni dell'aggressione di Cecil Rhodes, nel paese non è apparsa una sola vera e propria personalità politica. (p. 77)
  • Nelle sue affermazioni Nkomo è molto battagliero nel tono, ma poco nella sostanza. Il sogno politico di Nkomo è sempre stato che un bel giorno Londra convincesse il governo dei coloni di trasferirsi in Canada. (p. 79)
  • Nkomo è un debole e i deboli sono spesso ostinati: Nkomo si è ostinato nei suoi calcoli filobritannici, il che gli ha valso una certa considerazione e indulgenza da parte di Londra, sensibile al fatto che Nkomo volesse indipendenza, ma solo previo consenso della regina e del parlamento. (p. 80)
  • [Su Joshua Nkomo] Sinceramente anticolonialista, è in un certo senso più un attivista popolare che non un faccendiere governativo. (p. 80)
  • Mugabe è un giovane estremamente intelligente e presuntuoso. Una volta mi disse di essere stato invitato in Jugoslavia, ma che non ci sarebbe andato perché aveva posto come condizione di essere trattato come un VIP e che Tito venisse a riceverlo all'aeroporto. (p. 81)
  • In Africa poche cose dipendono esclusivamente dall'Africa. (p. 82)
  • Se i territori che compongono il Sudan si fossero potuti sviluppare liberamente, oggi questo paese neanche esisterebbe: la zona settentrionale farebbe parte dell'Egitto e quella meridionale apparterrebbe al Congo e all'Uganda. L'Egitto sarebbe diviso dal Congo e dall'Uganda dalla frontiera naturale del Sahara e dei bacini dell'Alto Nilo, frontiera che oggi divido lo Stato sudanese nelle sue parti settentrionale e meridionale. (p. 96)
  • La guerra attualmente in atto nel Sudan meridionale sta scavando una fossa capace di diventare la tomba dell'unità africana. (p. 97)
  • Sono stato nel Sud nel 1960. Mi sono fermato a Wau e a Giuba, capitali di due province meridionali di cui poi ho percorso qualche centinaio di chilometri in macchina. Erano gli anni del regime di Abbud. Ho visto i campi di concentramento dove i prigionieri vivevano sulla nuda terra, senza un tetto, morendo per la fame e per il sole.
    La parte meridionale del Sudan è una delle zone più arretrate dell'Africa (gli argomenti degli attivisti del Sud, secondo i quali il suo mancato sviluppo sarebbe colpa degli arabi del Nord, in quanto tutte le risorse verrebbero destinate allo sviluppo del Nord, sono inaccettabili). Tutto il Sudan è uno dei paesi più arretrati dell'Africa e da questo punto di vista al Nord si sta male come al Sud, se non peggio. (p. 112)
  • In tutta l'Africa non esiste un luogo più sinistro del Sudan meridionale. (p. 113)
  • Il Sud del Sudan è un mondo fatto di ostilità, di complessi, di fanatismo e di claustrofobia. L'indipendenza non ha cambiato la situazione. La borghesia di Khartoum e poi il regime reazionario dei generali non hanno mai provato a risolvere in modo umano la questione del Sud. A ogni malcontento Abbud rispondeva con le armi, armi usate non solo al Sud, ma anche contro i suoi oppositori del Nord. (pp. 114-115)
  • Malgrado i suoi settantacinque anni, Hailè Selassiè è un uomo di inesauribile energia, dalla mente lucida e dalla profonda sensibilità. (p. 119)
  • L'Etiopia è il più vecchio tra gli Stati indipendenti dell'Africa. È un paese bello e montuoso ma estremamente povero e arretrato, per cui i nemici dell'Africa, indicando l'Etiopia, dicono malignamente "Tra duemila anni l'Africa indipendente sarà tutta così!" (p. 120)
  • L'OUA è nata come un'organizzazione di compromesso, senza una forma né una direttiva precisa. Tutto è stato posto sotto l'insegna della più totale discrezionalità: facoltativa la votazione, facoltativa l'esecuzione delle leggi, facoltativa la decisione se partecipare o non partecipare ai dibattiti. Penalizzata dalla mancanza di un potere esecutivo, l'organizzazione è stata impotente fin dall'inizio. (p. 120)
  • Malgrado le opinioni sfavorevoli, finora nessuno se n'è allontanato: si tratta dell'Organizzazione dell'unità africana e lo slogan dell'unità è ancora troppo forte perché un governo si azzardi ad attaccarlo apertamente. (p. 121)
  • [Su David Dacko] È un giovanotto vestito con un frac di buon taglio e con il petto attraversano dalla fascia della Legion d'onore. Il suo nome non è mai stato famoso: Dacko governava un paese povero, sterile e privo di importanza dal punto di vista mondiale. Solo recentemente, in uno dei suoi recessi sono stati scoperti giacimenti di diamanti ed è subito fiorito il contrabbando. (p. 127)
  • L'Alto Volta è il paese dell'eterna siccità, l'acqua è più rara del pane, per cui quei chilometrici lavori idraulici hanno colpito la fantasia popolare molto più dei tappeti e dei Luigi XV fatti venire da Parigi. (p. 128)
  • Yaméogo era un personaggio sostanzialmente poco simpatico. In Africa era considerato un venduto e perfino i suoi conterranei ne parlavano con antipatia. Per dire che cosa siano le elezioni in Africa basti un esempio: un mese prima della caduta di Yaméogo, nell'Alto Volta si erano svolte le elezioni alle quali, secondo i dati ufficiali, Yaméogo avrebbe ottenuto il 99,93% dei voti. I francesi a casa loro prendono le elezioni molto sul serio, ma nelle colonie organizzano di queste buffonate. (p. 129)
  • Di per sé Smith non è il male peggiore della Rhodesia. Smith occupa una posizione centrale nel proprio partito, il Rhodesian Front, per il quale votano quasi tutti i rhodesiani bianchi, ma nel partito esiste anche una forte ala fascista i cui slogan sono: campi di concentramento e graduale sterminio dei neri. (p. 129)
  • Oggi in Rhodesia vige il terrore assoluto. La polizia applica i medesimi principi del Sudafrica: spara su qualsiasi accenno di manifestazione prima ancora che si sia radunata una folla. Gli africani lo sanno e non osano farsi avanti. Ecco perché il mondo parla spesso della Rhodesia mentre in Rhodesia regna un quasi totale silenzio. (p. 130)
  • La Rhodesia è un bellissimo paese: ha un clima fresco, ottime strade, un'industria sviluppata e moderna e terre in gran parte fertili. I bianchi non hanno la minima intenzione di andarsene perché da nessun'altra parte si troverebbero bene come qui. Inoltre le ultime tre generazioni bianche sono nate in Rhodesia e la considerano la propria patria. (p. 130)
  • Il dottor Banda è un razzista à rebours: è un nero, ma il suo razzismo si appunta contro i neri. Le cose peggiori sull'Africa non le dice Smith, ma il dottor Banda. Stravagante eccentrico d'altri tempi, va in giro con la bombetta, un panciotto con la catena d'oro e un ombrello che sbatte regolarmente in testa al suo interprete ogni volta che questi travisa qualche parola. Il sogno del dottor Banda è che la regina d'Inghilterra venga in visita nel Malawi. (p. 131)
  • L'economia del Malawi, staterello indebitato fino al collo, resterà congelata per anni perché il presidente vuole una nuova capitale per dormire sonni tranquilli. (p. 131)
  • Nkruma'h ha condotto una politica interna impossibile, nel senso che ha voluto costruire il socialismo in un paese le cui effettiva classe dominante è la borghesia. Il Ghana si è sempre distinto dalle altre colonie africane per il fatto di essere un paese ricco in cui la borghesia, i commercianti e i coltivatori di cacao rappresentavano da tempo una classe forte, abbiente e influente. (p. 132)
  • Nkruma'h è un personaggio straordinario, un uomo fuori del comune, ma purtroppo è innamorato della propria grandezza e questo l'ha accecato portandolo alla rovina. Si considerava il Messia di tutta l'Africa, vedeva se stesso come presidente non solo del Ghana, ma di tutta l'Africa. (p. 132)
  • Il Kenya è un paese dai profondi e aspri conflitti politici e di classe. (p. 134)
  • L'Uganda ha vissuto per anni impelagato in conflitti interni e partecipando raramente alla grande politica africana. Ogni volta che sono andato a Kampala sono rimasto colpito dalla sua atmosfera provinciale: una provincia peraltro bellissima, visto che vi sono i più bei panorami di tutta l'Africa. (p. 135)
  • I baganda rappresentano un terzo della popolazione ugandese. Appartengono al gruppo bantu, sono intelligenti, benestanti e possiedono le migliori terre dell'Uganda. Gli altri regni e le altre tribù dell'Uganda hanno sempre dovuto versare loro un tributo. (p. 135)
  • Non si può dire che Obote, presuntuoso com'è, sia una persona simpatica. Però è un abilissimo giocatore, un dialettico e un grande sofista politico. È un sincero nazionalista africano, sebbene la complicata situazione interna dell'Uganda gli abbia impedito di assumere una posizione panafricana. (p. 136)
  • Il Togo, paese piccolo ed estremamente povero, vive di aiuti esterni. In Togo il valore delle importazioni è di due volte superiore a quello delle esportazioni: come può uno Stato del genere essere indipendente? (p. 138)
  • Micombero si è autoproclamato presidente per sette anni, superando Mobutu che si era candidato per cinque. (p. 139)
  • Si tratta di un paese enorme, il nono al mondo per numero di abitanti nonché massima potenza del continente africano. La Nigeria, la cui popolazione è numericamente superiore a quella di tutti gli altri paesi dell'Africa occidentale messi insieme, ha sotto ogni punto di vista un peso qualitativamente maggiore rispetto a quello del Congo. La sua popolazione rappresenta un ricchissimo e variegato mosaico etnico. L'etnografo americano Murdock calcola che entro i confini della Nigeria vivano quattrocentosedici gruppi etnici. (pp. 154-155)
  • Gli hausa abitano la regione più vasta della Nigeria, ossia il Nord, che esercita una posizione dirigente sull'intera federazione. [...] Gli hausa sono ottimi artigiani e mercanti ambulanti, un popolo che si distingue per la sua grande onestà e disciplina nonché per la profonda religiosità musulmana. A Lagos i vigili notturni e i guardiani di banche sono tutti hausa. Qui hausa è sinonimo di onestà: un hausa preferisce morire di fame piuttosto che toccare la roba altrui. Sono modesti, gentili e ospitali. (p. 155)
  • Gli ibo sono detestati in tutta la Nigeria, che li invidia per il loro talento, la loro perspicacia e per le sviluppate capacità in ogni campo. La maggior parte degli studenti è ibo, la maggior parte dei funzionari è ibo. Ovunque occorra una qualificazione professionale, lì c'è un ibo. (p. 155)
  • La caratteristica degli yoruba è di rappresentare l'elemento più urbanizzato dell'Africa: le città yoruba erano grandi e famose già molto prima della colonizzazione britannica. (p. 156)
  • Gli yoruba, boriosi e sempre pronti alla rissa, trattano con palese antipatia tutte le altre tribù. Hanno i più begli abiti e le più belle donne di tutta la Nigeria. Sono molto tradizionali e nello stesso tempo molto borghesi. Sostanzialmente scansafatiche, credono fermamente nella possibilità di fare soldi dal nulla e, soprattutto, di farli senza lavorare. (p. 156)
  • Oggi la Nigeria possiede la borghesia più sviluppata di tutto il continente; una borghesia che, come quella francese degli inizi del XIX secolo, è fortemente pervasa di elementi feudali e di aspirazioni aristocratiche. In nessun'altra parte dell'Africa si può trovare un paese così snobisticamente aspirante al riconoscimento aristocratico. (p. 157)
  • [Su Ahmadu Bello] Questo personaggio domina tutta la recente storia della Nigeria. Era un uomo alto e corpulento, dal modo di fare autoritario, imperiale. La prima cosa che colpiva nel suo comportamento era l'estrema sicurezza di sé. Era privo di dubbi e di complessi: per lui in politica non esistevano cose impossibili, non esisteva l'opinione altrui, non esistevano nemici. Governava il Nord con il terrore e il Sud con la corruzione. Disprezzava la gente del Sud ritenendo che dei politici di quella regione si potesse fare quello che si voleva purché si permettesse loro di rubare, teoria che metteva in pratica con immancabile successo. Il Sud era più sensibile del Nord al denaro: i politici nigeriani corrotti erano gente del Sud. (p. 170)
  • Il Sardauna [Abubakar Tafawa Balewa] era un fanatico musulmano con grandi ambizioni panislamiche. [...] Quest'uomo dinamico e pieno di energia dedicava gran parte del suo tempo a convertire all'islamismo gli infedeli. Affermava di averne convertiti trecentocinquantamila e prometteva di convertire l'intera popolazione della Nigeria. (p. 171)
  • Per l'Occidente la caduta di Balewa rappresenta una grossa perdita in Africa. Grazie alla sua posizione di grande potenza la Nigeria di Balewa era la forza attiva e trainante della destra africana. (p. 172)
  • Da un punto di vista tecnico, a nominare Gowon capo dello Stato sono stati i giornalisti. Così vanno le cose in questo mondo. (p. 175)
  • L'Europa si è abituata a considerare l'Africa come un oggetto. Un oggetto da scoprire, poi da conquistare, poi da dividere e infine da sfruttare. (2012, p. 248)

Shah-in-Shah

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Studenti dell'Università di Teheran abbattono una statua dello scià durante la Rivoluzione iraniana
  • Khomeini conduce una vita ascetica: si nutre di riso, yogurt e frutta, abitando in una sola stanza spoglia e senza mobili, eccetto un giaciglio sul pavimento e una pila di libri. (p. 15)
  • [Su Ruhollah Khomeyni] Parla senza gesticolare, le mani poggiate sui braccioli della poltrona. Siede rigido, senza un movimento della testa o del corpo; di tanto in tanto aggrotta l'alta fronte e solleva le sopracciglia ma, a parte questo, non un muscolo vibra nel volto deciso e inflessibile di quest'uomo profondamente ostinato, dalla volontà ferma e irriducibile, immune da ripensamenti e forse anche da dubbi. Una faccia immutabile, scolpita una volta per tutte, che non tradisce emozioni né umori, che nulla esprime se non una continua attenzione e un'intensa concentrazione interiore. Solo gli occhi sono costantemente in movimento: il loro sguardo vivo e penetrante percorre il mare delle teste ricciute, misura la profondità della piazza e la distanza dei suoi margini, ispeziona meticolosamente lo spazio, quasi alla ricerca di una persona precisa. Parla con voce piatta e monotona, dal ritmo lento e regolare: una voce potente ma priva di note alte, aliena da ogni brillantezza e splendore. (pp. 15-16)
  • [Su Reza Pahlavi] È profondamente convinto della sua missione e sa dove vuole arrivare (per dirla con la sua innata brutalità, vuole mettere al lavoro la folla ignorante e costruire un forte stato moderno davanti al quale – dice – tutti se la facciano addosso dalla paura). Ha la mano di ferro prussiana e la sbrigativa efficienza dell'aguzzino. Il vecchio Iran apatico e sonnolento (per ordine dello scià da questo momento in poi la Persia si chiamerà Iran) trema fin nelle fondamenta. (p. 32)
  • [Su Reza Pahlavi] Per punire i cosiddetti disenzienti, li obbliga a presentarsi quotidianamente alla polizia. Nei ricevimenti le signore dell'aristocrazia svengono di paura quando quel colosso arcigno e inavvicinabile le squadra con occhio severo. Reza Khan conserva finché è al potere molte abitudini dell'infanzia contadina e dell'adolescenza in caserma. Vive a palazzo, ma continua a dormire per terra; indossa sempre l'uniforme, mangia nello stesso piatto con i soldati. È uno di loro, però è anche avido di terra e denaro. Approfittando del suo potere, accumula un patrimonio sconfinato. Diventa il feudatario numero uno, padrone di quasi tremila villaggi e dei duecentocinquantamila contadini a essi assegnati; detiene azioni industriali e partecipazioni bancarie, riceve tributi, calcola, addiziona; basta che l'occhio gli cada su una bella foresta, una valle verdeggiante, una piantagione fertile perché foresta, valle e piantagione diventino sue; infaticabile, insaziabile, accresce continuamente i suoi beni, accumula e moltiplica la sua pazzesca fortuna. Guai a chi si avvicina al confine delle sue terre. (pp. 33-34)
  • [Su Reza Pahlavi] Accanto alla crudeltà, all'avidità e alle stravaganze, il vecchio scià ha anche i suoi meriti, come quello di salvare l'Iran dalla dissoluzione che minacciava lo stato dopo la Prima guerra mondiale. Inoltre ha cercato di modernizzare il paese costruendo strade e ferrovie, scuole e uffici, aeroporti e nuovi quartieri nelle città. Eppure il paese resta povero e apatico: così, alla morte di Reza Khan, il popolo esultante festeggia a lungo l'avvenimento. (p. 34)
  • Il sovrano adorava leggere libri che trattavano di lui e sfogliare gli album pubblicati in suo onore. Amava molto anche presenziare all'inaugurazione di statue e ritratti che lo raffiguravano. Non bisognava cercarli lontano. Bastava fermarsi a caso in un posto qualsiasi e guardarsi intorno: lo scià appariva dappertutto. (p. 36)
  • I rapporti tra Mossadeq e gli scià Pahlavi (padre e figlio) non sono mai stati buoni. Mossadeq ha una formazione di stampo francese: liberale e democratico, crede in istituzioni quali parlamento e libertà di stampa e deplora lo stato di dipendenza in cui versa la sua patria. (p. 38)
  • [Su Mohammad Mossadeq] Tutte le sue speranze sono svanite, i calcoli si sono rivelati errati. Ha cacciato gli inglesi dai campi petroliferi sostenendo che ogni paese ha diritto di disporre le proprie ricchezze, ma dimenticando che la forza ha sempre la meglio sul diritto. L'Occidente ha decretato il blocco dell'Iran e il boicottaggio del petrolio iraniano, facendone un frutto proibito per tutti i mercati. Mossadeq contava che gli americani lo sostenessero e lo aiutassero nel conflitto contro gli inglesi. Ma gli americani non gli hanno teso la mano. (pp. 40-41)
  • Le sedi della Savak erano ignote. Non aveva una centrale, era sparpagliata in tutta la città (e in tutto il paese), si trovava ovunque e in nessun posto. (p. 66)
  • L'Iran apparteneva alla Savak, ma la Savak agiva come un'organizzazione clandestina: appariva e spariva, cancellava le sue tracce, non aveva indirizzo. Certe sue sezioni erano invece ufficialmente riconosciute. Stampa, libri e film subivano la sua censura (fu la Savak a proibire Shakespeare e Molière, le cui opere criticavano i difetti dei re), spadroneggiava nelle università, negli uffici, nelle fabbriche. Era un mostruoso cefalopode che avvolgeva ogni cosa, si insinuava in ogni spiraglio, incollava ovunque le sue ventose, frugava, fiutava, grattava, scavava. Annoverava sessantamila agenti, senza contare i tre milioni di informatori (così almeno si calcola) che denunciavano la gente per i più svariati motivi: il denaro, salvezza personale, posti di lavoro, promozioni. La Savak era libera di comprare la gente o di torturarla, di distribuire impieghi o di recludere nei sotterranei. Stabiliva chi fossero i nemici da annientare. Le sue erano condanne senza revisioni né appelli. L'unica persona a cui quell'istituzione dovesse render conto del suo operato era lo scià: gli altri non contavano niente. (pp. 66-67)
  • Un iraniano in patria non può leggere i libri dei suoi migliori scrittori (che vengono stampati solo all'estero), non può vedere i film dei suoi migliori registi (proibiti nel paese), non può ascoltare la voce dei suoi intellettuali (condannati al silenzio). Lo scià lascia i sudditi liberi di scegliere tra Savak e mullah, e quelli ovviamene scelgono i mullah.
    Quando si parla della caduta di una dittatura (e il regime dello scià è stato una dittatura particolarmente brutale ed efferata) c'è poco da illudersi che con essa svanisca di colpo, come un brutto sogno, anche l'intero sistema. Finisce di esistere fisicamente, ma le sue conseguenze psicologiche e sociali permangono per anni, sopravvivendo in comportamenti inconsapevoli. Una dittatura che annienta intellighenzia e cultura lascia dietro di sé terre incolte, dove l'albero del pensiero faticherà molto a rinascere. (p. 79)
  • La vera passione, l'hobby della sua vita è l'esercito. Una passione e un hobby non del tutto disinteressati. L'esercito è sempre stato il principale e poi anche l'unico sostegno del trono. Una volta dissolto l'esercito, lo scià smette di esistere. (p. 82)
  • Agli occhi dell'iraniano medio, la Grande Civiltà, ossia la Rivoluzione dello Scià e del Popolo, si configura soprattutto come una Grande Rapina praticata dall'élite. Chiunque ha il potere ruba. Chi occupa una carica e non ruba si fa il vuoto intorno, viene sospettato di essere una spia mandata a scoprire quanto rubino gli altri, per poi riferirlo al nemico, avido di informazioni del genere. (pp. 87-88)
  • È difficile farsi un'idea del fiume di soldi che affluisce nelle casse dello scià, della sua famiglia e di tutta l'élite cortigiana. I parenti dello scià intascano tangenti dai tre ai quattro miliardi di dollari, ma il grosso del capitale si trova nelle banche estere. Primi ministri e generali prendono bustarelle dai venti ai cinquanta milioni di dollari. Per le cariche inferiori le tangenti sono più modeste, ma non per questo inesistenti, anzi. Con l'aumento dei prezzi aumentano anche le tangenti: la gente si lamenta di dover sacrificare una parte sempre maggiore dei propri guadagni al moloch della corruzione. (p. 88)
  • Perseguitato dal despota, espulso dal paese, era diventato l'idolo e l'anima stessa del popolo. Distruggere il mito di Khomeini significava distruggere qualcosa di sacro, annientare le speranze degli umiliati e degli offesi. (p. 140)
  • Khomeini, per molti versi, era un individuo fuori della norma, una personalità fortissima, dotata di grande magnetismo, di vero carisma, e le masse iraniane lo seguivano con fede cieca. (p. 181)

Stelle nere

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  • Lumumba era una fiamma ardente, sempre in preda dalla passione: qualcuno lo ha definito una freccia incoccata su un arco teso. (p. 69)
  • Quando un negro si vergogna, chiude gli occhi. Al suono della parola "Ciombe" li chiude tutta l'Africa.
    In Polonia, Ciombe non viene giudicato in modo corretto. Lo consideriamo un traditore. Ciombe non è un traditore per la semplice ragione che non ha mai tradito nessuno. Non ha tradito il popolo: lo ha sempre odiato. Non ha tradito Lumumba: ha sempre che l'avrebbe bruciato sul rogo. Ciombe è sempre stato contro l'unità e la libertà, per cui non ha dovuto tradire neanche questi ideali. Ciombe è sempre stato quello che è: un mascalzone. Ma se nella mascalzonaggine esiste una qualche forma di grandezza, lui l'ha raggiunta. Eccellente politico, Ciombe supera di una spanna tutti i mobutu, i kasavubu e i kalongi messi insieme ed elevati alla decima potenza. (p. 77)
  • L'Africa ride di Mobutu perché è una figura comica. (p. 77)
  • Mobutu ha sempre avuto fifa di tutto. (p. 78)
  • Di Ciombe l'Africa non ride, l'Africa lo odia. Ciombe irrita il nervo più sensibile del Continente Nero, ossia il separatismo. L'intero neocolonialismo punta sulla speranza che i giovani governi africani siano discordi, instabili, divorati da ondate di antagonismi tribali, e Ciombe va incontro a questa speranza. Ciombe è l'ideologo della divisione, dello spezzattamento del continente. (p. 78)
  • I neri saranno disposti a sostenere Ciombe? Mai! L'unico disposto a farlo potrebbe essere don Fulbert Youlou, il presidente del Congo Brazza, ma non è una persona di cui meriti parlare. (p. 79)
  1. Da Il cinico non è adatto a questo mestiere, traduzione di Maria Nodotti, Edizioni e/o, Roma, 2006, p. 63.
  2. Da Il cinico non è adatto a questo mestiere, pp. 62-63.
  3. Da Osservare e raccontare, Internazionale, n. 515, 21 novembre 2003, p. 48.
  4. Da Un mondo due civiltà, Internazionale, n. 431, 5 aprile 2002, p. 6.
  5. Da Incontro di civiltà, Internazionale, n. 567, 26 novembre 2004, p. 29.
  6. Da A Warsaw Diary, Granta, 15, primavera 1985.
  7. Da Il tempo dell'odio, Internazionale, n. 362, 24 novembre 2000, p. 22.

Bibliografia

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  • Ryszard Kapuściński, Ebano, traduzione di Vera Verdiani, Feltrinelli, Milano, 2009. ISBN 978-88-07-81706-9
  • Ryszard Kapuściński, Ebano, traduzione di Vera Verdiani, Collana I Narratori, Feltrinelli, Milano, 2000. ISBN 88-07-01569-2
  • Ryszard Kapuściński, Imperium, traduzione di Vera Verdiani, Feltrinelli, Milano, 2017. ISBN 978-88-07-88331-6
  • Ryszard Kapuściński, Il negus: splendori e miserie di un autocrate, traduzione di Vera Verdiani, Feltrinelli, Milano, 2008. ISBN 978-88-07-81742-7
  • Ryszard Kapuściński, La prima guerra del football e altre guerre di poveri, traduzione di Vera Verdiani, Feltrinelli, Milano, 2014. ISBN 978-88-07-88494-8
  • Ryszard Kapuściński, Se tutta l'Africa, traduzione di Vera Verdiani, Feltrinelli, Milano, 2018. ISBN 978-88-07-89097-0
  • Ryszard Kapuściński, Shah-in-Shah, traduzione di Vera Verdiani, Feltrinelli, Milano, 2004. ISBN 88-07-81778-0
  • Ryszard Kapuściński, Stelle nere, traduzione di Vera Verdiani, Feltrinelli, Milano, 2015. ISBN 978-88-07-03132-8

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