Gianni Mura
Gianni Mura (1945 – 2020), giornalista e scrittore italiano.
Citazioni di Gianni Mura
modifica- Consiglierei Birobiro del Corinthias, vien via per 500 milioni. E poi si può far sponsorizzare dalla Bic.[1]
- [Su Gianni Brera] Ha alfabetizzato il tifoso di calcio con la sua rubrica della posta: stufo di Mazzola e Rivera, parlava più di Leopardi e Manzoni.[2]
- Ho perso il conto dei miei padroni, secondo le missive. Agnelli, Moratti, Berlusconi, Sensi, Della Valle, Ferlaino, perfino Mantovani ai tempi della Samp. Quasi rimpiango i tempi in cui arrivavano le cartoline postali, rigorosamente anonime, con su scritto: "cambia mestiere, di calcio non capisci niente". Meglio ignorante che prezzolato. In questa identificazione dell'attività più sputtanata agli occhi, si fa per dire, dell'opinione pubblica, tra giornalisti e arbitri vincono i politici. Un grato pensiero e via di corsa.[3]
- Il fondo, come spiega il nome, consiste nell'arrivare in fondo. Chi ci riesce è un fondista, chi si ferma a metà strada è un mezzofondista, chi non parte è un messicano.[4]
- [Sugli arbitri] Mi erano più simpatici quando, in A almeno, guadagnavano meno di un cardiochirurgo, ma mi sforzo di pensare a quelli delle serie inferiori, molto più a rischio, anche fisicamente, e molto meno ricompensati. Se non ho voglia di sforzarmi, penso che in Italia giornalisti e arbitri sono gemellati dalle certezze del tifo: servi e corrotti, giacchette nere (ora variopinte) e pennivendoli, infami.[3]
- Sono contrario alla moviola in campo. Dopo questa captatio benevolentiae, posso divagare. Mai pensato in vita mia di fare l'arbitro. Il medico sì, e anche l'archeologo, il cuoco, il pianista, l'allevatore di conigli, il fruttivendolo, il fiorista. Da giovani si cambia spesso idea.[3]
- Ultima considerazione: da cinquant'anni sento dire che la simulazione fa parte del gioco. Non è vero: fa parte dell'imbroglio, esattamente come truccare le carte o pilotare gli appalti. Quando i calciatori italiani la smetteranno di simulare, non dico un rigore, ma anche una gomitata non presa, un fallo non subìto, gli arbitri italiani arbitreranno con più serenità.[3]
- Uno dei più grandi responsabili dello sfacelo del giornalismo sportivo è stato Aldo Biscardi. E con lui, tutte le trasmissioni simili al Processo del lunedì che sono nate successivamente. Biscardi ha trasformato il giornalista sportivo da firma in faccia.[5]
Epoca
modificaDa Compagno centravanti
Epoca nº 1268, 25 gennaio 1975, pp. 24-25.
- [Sull'Associazione Calcio Perugia 1974-1975] In questa bella città c'è una bella squadra di calcio. Campionato di Serie B. L'obiettivo, alla partenza, era quello di non retrocedere in C. Invece sta arrivando la promozione in A. Caratteristiche della squadra: l'allenatore, Ilario Castagner, trentaquattro anni, è il più giovane del settore professionistico; il centravanti, Paolo Sollier, ventisette anni, è il più impegnato politicamente.
- [Su Paolo Sollier] A Cossato, un paesino di quattromila abitanti, aveva scritto una lettera aperta ai tifosi, spiegando perché si rifiutava di firmare autografi. Non se l'avessero a male, ma l'autografo era un segno di divismo e lui si sentiva esattamente uguale agli altri.
- Ho visto Sollier segnare un magnifico gol all'Atalanta e rispondere agli applausi levando il pugno chiuso. Ma più d'ogni cosa m'ha impressionato il suo modo di comportarsi in campo. Gioca da centravanti arretrato e lo si trova in ogni zona del campo, in continuo movimento. Non protesta mai, non fa scene, se lo atterrano dà per primo la mano a chi lo ha steso. Chi abbia pratica dei campi di calcio, a questo livello, sa quanto sia difficile trovare un atleta che rifugga dalla tentazione (ormai cronica) di recitare, sul grande palcoscenico della domenica.
Guerin Sportivo
modificaCitazioni in ordine temporale.
- [Sullo stadio delle Alpi] A Torino, dove è costato il doppio del preventivato [...], lo stadio è nuovo e bisogna battezzarlo. Così l'Acqua Marcia, e non dirmi che dovrebbe farsi ribattezzare, costruttrice dello stadio, non s'è presa la responsabilità di scegliere il nome, ma ha affidato il compito a un équipe interdisciplinare di Roma, che si chiama S3 Acta. Potrei osservare [...] che pure la S3 Acta farebbe bene a scegliersi un nome [...]. Costoro, tutti professionisti in Scienze organizzative (non chiedermi cosa vuol dire) [...], ci hanno pensato un bel po' sopra e hanno partorito una rosa di cinque nomi: Agorà, Des Alpes, Eracles, Zeus e Summit. [...] perché tre nomi greci, uno francese e uno inglese che non c'entra un cavolo? Des Alpes è un nome da albergo di Claviere e poi non è che l'esclusiva delle Alpi ce l'abbia il Piemonte. Tutti gli altri nomi vanno male per uno stadio ma vanno bene per un rasoio, un'auto, un profilattico, una discoteca. [...] pare che passerà Des Alpes. Non è possibile prenotare una suite. Ma saranno contenti i portieri.[6]
- A me Mourinho non ha mai dato l'immagine dell'allenatore. Non somiglia a nessuno di quelli del presente né del passato, tolto forse Helenio Herrera, molto più modesto di Mourinho [...] e comunque svantaggiato, il Mago rispetto a Mourinho, da un apparato televisivo gracile, inadeguato. Mourinho ha l'aria del condottiero, del duce, del capitano di ventura, di John Wayne ma solo quando vincono i soldati blu. Mourinho non predica l'aggressione degli spazi. Li occupa. Molti colleghi (in genere sotto i 40 anni, bisogna capirli o almeno provarci) sono affascinati da Mourinho, che effettivamente è bravissimo a incantare i serpenti, a maggior ragione le bisce d'acqua dolce. Oh, che grande comunicatore. Sì, ma cosa comunica? Uh, finalmente uno che parla chiaro in un mondo di sepolcri imbiancati. Parlerà chiaro, ma solo pro domo sua.[7] Mourinho [...] non consente le mezze misure, le tinte sfumate. O con me o contro di me.[8]
- [Sugli ultras] [...] leggo i loro blog, quasi tutti terrificanti per la quantità d'odio che fanno circolare; leggo i loro striscioni, ascolto i loro cori. Terrificante è pure la scarsa conoscenza della lingua italiana [...]. Il buon senso no, il gusto per una civile convivenza no. Chi dà a una curva il diritto di stabilire se il calciatore Y è un uomo o no? Chi gli dà il diritto di controllare con chi Y va a cena e magari anche con chi va a letto? Cos'è questo talebanismo da custodi della purezza? Cosa sono questi ossessivi richiami all'identità e all'onore, molto pericolosi se maneggiati male? Quanto valgono i cori "Milano siamo noi" (o Roma, Genova, Torino, Verona)? Sì, siete anche voi, la passione aiuta fino a che non diventa un cappio, un giustizialismo da quattro soldi. Siete voi, come lo sono quelli che hanno fondato un club, ne hanno segnato la storia, come lo sono quelli che nella città ci lavorano o sperano di poterci lavorare, quelli che tirano su le case, quelli che spazzano le strade, quelli che guidano i tram, quelli che fanno il caffè, quelli che vendono i giornali. C'è un razzismo schifoso, ed è basato sul colore della pelle. C'è un razzismo stupido, basato sul colore delle maglie. Per cui l'altro (o uno dei tuoi, giudicato indegno) è un bersaglio da irridere, un nemico da abbattere, uno di un'altra fede, quindi un infedele. [...] Si parla tanto di integralisti islamici, ma di quelli nostrani no, il silenzio delle società e della società li aiuterà a crescere.[9]
la Repubblica
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- [Parlando di Silvio Berlusconi] S'è sparsa voce che ce l'ho con lui, mica vero. Anzi, sta contribuendo, un po' alla volta, a chiarire l'identikit dell'allenatore del Milan. Devotamente leggendo l'accademia di Brera, venerdì, ho appreso che, propostagli la candidatura-Bagnoli, Berlusconi ha obiettato "è comunista". Chissà se è vero, certo mette malvolentieri la cravatta.[10]
- [Su Arrigo Sacchi] Ha una strana faccia, sospesa fra il giovane degli occhi e della pelle e il vecchio dei capelli, grigi e pochi. [...] pare più anziano in divisa da allenatore, maglietta e calzoncini. Toni heribertiani (urla molto, quando allena), e, dalla tribuna, sembra un contabile del Minnesota. Strano tipo [...][11]
- Io da Berlusconi preferirei non imparare nulla su come si vive, e in particolare a consumare i pasti mediamente in 7' 42".[12]
- [Su Arrigo Sacchi] Era e resta un uomo che brucia di idee e fervore. Alle solite, Sacchi ha predicato umiltà dal suo pulpito mistico.[13]
- A Scirea, studente a Coverciano, un collega aveva chiesto qualche mese fa un' occhiata sul futuro. Mi basta continuare a essere quello che sono e chiedo solo un po' di salute. Tutto questo non ha più senso, solo il dolore ha un senso. Tutti noi, che abbiamo frequentato Scirea per lavoro, l'abbiamo amato e rispettato, il contrario era impensabile. Domani ci sarà, sui campi, un minuto di silenzio per ricordarlo. Un minuto è poco, ma vorrei che fosse davvero di silenzio. Senza applausi, senza cori: a lui non sarebbe piaciuto, Gaetano non era di quelli che battono le mani ai morti. Avrebbe abbassato la testa, come si usa nei paesi, ancora, e avrebbe pianto. E solo questo per lui possiamo fare, ed è poco, nulla per la sua vita così bella e chiara, per la sua morte così brutta e assurda.[14]
- [Dopo la vittoria della Generazione di fenomeni al campionato europeo maschile di pallavolo 1989] [...] non ricordo un così radicale salto in avanti di una squadra.[15]
- [Sul campionato di Serie A 1989-1990] Proprio Maradona ha già definito meno bello questo scudetto, rispetto al primo arrivato sotto il Vesuvio. Meno bello per le polemiche, i sospetti, le risse verbali e no che l'hanno caratterizzato. Il Milan si sente scippato, il Napoli legittimo vincitore, il tempo smusserà gli spigoli ma intanto la Lega Lombarda ha calcolato circa 50 mila voti in più, perché naturalmente [...] il discorso calcistico s'è allargato e infiammato nei soliti rimbalzelli Nord-Sud. Questo campionato è stato tutto il contrario di quel che doveva e voleva essere. Colpa anche di un calendario troppo fitto, con quasi tutti i mercoledì occupati, e il nostro calcio non è ancora attrezzato, nella testa e negli organici, per reggere tre partite in una settimana.[16]
- [Sulla Juventus Football Club 1989-1990, dopo la vittoria della Coppa UEFA] La gente juventina grida due nomi, Dino e Stefano. La gente festeggia tutta la Juve ma ci tiene a isolare i due attori più cari: uno in panchina, uno che ha centrato il piccolo slam con la valigia in mano, un altro in campo, a parare tutto quello che c'era da parare. Non c'è tristezza in questi cori, dell'addio di Zoff si sapeva da tempo, ma intanto deve essere una bella soddisfazione per lui vedere alzare dal suo capitano questa coppa: due traguardi su tre, qualcuno in questa stagione ha fatto meglio?[17]
- [Dopo la vittoria della Generazione di fenomeni al campionato mondiale maschile di pallavolo 1990] Ho fatto un tifo disperato, da voyeur, sarà vero che la pallavolo è molto televisiva ma è più bello sentire il rumore delle schiacciate da bordo campo, le frasi sibilate a rete, vedere le occhiate e le scie di sudore che rigano il parquet. Quando a Lucchetta è spuntato un tentacolo al posto del braccio sinistro ha capito che era fatta, e poi Bernardi ha messo giù quella maledetta palla del 16-14. [...] Grazie ragazzi, lo ripeto. Per la gioia che mi avete buttato addosso, per gli anni che mi avete levato. Ho seguito la pallavolo dei vostri zii, se non dei vostri padri, quando i tecnici erano Anderlini, Federzoni, quando i giocatori erano dilettanti, come Roncoroni che avrebbe fatto il cardiochirurgo, De Angelis l'avvocato, Mattioli l'allenatore. Quando si andava in Bulgaria, vent'anni fa, e si poteva perdere anche col Belgio, si finiva a Yambol (posto terrificante) a giocare con la Mongolia e il Venezuela per conquistare un quindicesimo posto che non importava nulla a nessuno. Allora, perdere 3-0 con le squadre dell'est era normale, già bravi a tenerli in campo più di un'ora. È cambiato tutto, non il fascino del gioco.[18]
- [Sulla Juventus Football Club 1990-1991] [...] come la Fiat crea posti di lavoro al sud (qualche migliaio), la Juve ne crea in città (qualche decina). Da un esame del nuovo assetto juventino, mi sembra manchino: un datore di luci, un coreografo, uno chef che prepari i flan d'asparagi [...] a Montezemolo, un sociologo della comunicazione, un art director (mai capito a che serva, ma ormai ce l'hanno tutti). A scanso di equivoci, preciso che non ironizzo su Enrico Bendoni, anzi buon lavoro: non ha solo una faccia simpatica da batterista, ma anche qualche idea. Però, un 7 di solidarietà a Morini: uno s'addormenta direttore sportivo e la mattina dopo si risveglia team manager.[19]
- Chissà com'è venuto in mente ad Adriano Galliani di imbastire quella sceneggiata sul campo, che ha richiamato alla memoria quella dell'emiro kuwaitiano ai mondiali dell'82. Peccato che Galliani non sia un emiro, ma un industriale brianzolo, nonché l'amministratore delegato del Milan e il vicepresidente della Lega. La responsabilità del ritiro della squadra è tutta sua. Non erano d'accordo né Sacchi né i giocatori né Ramaccioni, che di regolamenti capisce e temeva sanzioni disciplinari che sicuramente arriveranno. [...] Il guaio di certe farse è che non fanno ridere. E i primi a giudicare sono stati molti tifosi del Milan. Che vergogna, hanno detto. D'accordo, inutile aggiungere altro.[20]
- La Repubblica prima e il Giornale poi hanno aperto sulle pagine sportive un inizio di discussione sugli Europei. È difficile pretendere dall'Uefa una fermezza che non hanno organismi più rappresentativi. Ma è impossibile far finta di nulla. Per i massacratori, avere la Jugoslavia in campo in Svezia non è un traguardo sportivo, è anche un segnale di accettazione politica. Come non è un fatto sportivo che il ct Osim e la sua famiglia siano minacciati di morte, che i giocatori croati e sloveni che si rifiutano di giocare in una nazionale che non rappresenta più quasi nessuno, e tanto meno una nazione, siano ugualmente minacciati. Contro la Jugoslavia dovrebbero rifiutarsi di giocare le squadra del suo girone. Ma non succederà. Però potrebbero giocare col lutto al braccio, come Pannella. O ritardare l'inizio della partita. O pretendere un minuto di silenzio. Non ci sono molti giorni per preparare qualcosa ma qualcosa va fatto (ho più speranze nel pubblico che nelle squadre).[21]
- [Sul campionato europeo di calcio 1992] Grazie alla Danimarca, di cuore e di testa. Perché molti dei giocatori li hanno richiamati dalle vacanze, dove facevano vita allegra e, si spera, sesso. Perché hanno corso anche nei supplementari, con uno zoppo in attacco. Perché era l'unica nazionale senza "italiani" [...] e non se ne poteva più di questo metter le mani sulle partite degli altri, come se Olanda-Germania fosse Milan-Juventus. Perché siamo stati costretti a tifare per i danesi. Perché i tifosi danesi non fischiano gli inni degli altri, non accoltellano gli altri, non conoscono il tifo contro, in cui noi siamo specializzati. Perché non dev'essere facile giocare a pallone sapendo di avere una figlia all'ospedale con la leucemia, ed è tutto più difficile quando la storia finisce sui giornali (grazie Vilfort per la dignità). Grazie a nome di quelli che credono alle favole e sono chiamati sognatori, poco realisti, moralisti a volte.[22]
- [Sulla finale della UEFA Champions League 1992-1993] La vittoria del Marsiglia si chiama difesa e fuorigioco: strano che il Milan sia caduto tante volte in un trappolone che ha brevettato e perfezionato a Milanello. [...] Al Marsiglia è bastato ostruire i corridoi laterali, senza nemmeno l'ansia di contrattaccare, e mettere in mezzo la Maginot nera (Angloma, Boli, Desailly). Il centrocampo? Da saltare. L'attacco? S'arrangiassero. È stata una lezione di praticità, non di grande strategia, e la considerazione aumenta il rammarico.[23]
- [Su Beppe Grillo] Quando dice che i giornali sbagliano a titolare "Montagna assassina" invece di "Alpinista pirla", gli rispondo che le montagne (i fiumi, i vulcani, i mari) non hanno parenti né avvocati e dunque non hanno mai querelato nessuno. Che i giornali sbaglino è vero. Avrebbero dovuto occuparsi, molto prima di lui, delle linee calde, della carriera di Biagio Agnes, dell'acqua minerale che costa più del petrolio, dei medicinali pericolosi. Penso che Grillo non faccia satira, ma buon giornalismo (di costume e malcostume).[24]
- [Dopo Juventus-Inter 1-0 del 26 aprile 1998] Povera Juve, con tutta 'sta gente in malafede che vede ombre sul suo scudetto. Come si permettono? Forse è tempo di precisare che su Ronaldo non c'era rigore, Iuliano voleva solo aiutarlo a non cadere, e naturalmente i gol di Bierhoff e Bianconi non erano gol, e non bisogna credere ai numeri, secondo cui la Juve è la squadra più fallosa del campionato ma, in rapporto al numero delle scorrettezze, con la minor percentuale di ammoniti ed espulsi. Ho deciso di essere solidale con questa squadra tartassata dagli arbitri, tutti in buonafede, al massimo con disturbi di vista che colpiscono i meno giovani, gli internazionali. Boggi, Messina, Collina, Cesari, Rodomonti, infine Ceccarini. Gente al culmine della carriera, che non ha bisogno di chiedere favori, né di farne. Un'epidemia. Preoccupante, su vasta scala. Infatti il campionato ha la febbre, sta malissimo. Per contro la Juve sta bene, ha praticamente vinto il suo scudetto numero 25, non è una novità che la Juve vinca uno scudetto. Forse i suoi dirigenti farebbero bene a chiedersi come mai tante persone al disopra o al di sotto della mischia (né juventine né interiste) solo adesso, solo quest'anno dicono che la credibilità del campionato è ai minimi termini. Sicuramente, ed esco dall'ironia delle prime righe, i dirigenti della Juve hanno vinto lo scudetto ma hanno perso un'occasione per dimostrarsi sportivi, un po' o tanto potevano sceglierlo loro. Cosa costava dire: per l'Inter c'era un rigore, mica potevamo fischiarlo noi dalla tribuna, e comunque a calcio negli scontri diretti abbiamo giocato meglio noi. Non costava nulla. Ma non l'ha fatto nessuno, né Chiusano né Bettega né Moggi. Tutti con la stessa faccia, la stessa arroganza nemmeno un po' annacquata. Parlavano le facce, le espressioni, non le parole di giocatori, Peruzzi in particolare. Perché sarà vero che conta solo vincere, ma conta anche il modo. E in nessun campionato che io ricordi c'erano stati tanti episodi a favore della Juve come in questo, e il rischio vero è che solo questi episodi si ricordino, e non anche i meriti della squadra, spesso in emergenza, e di Lippi (anche lui allineato e coperto, nella circostanza). Se il calcio in Italia è ancora uno sport, un minimo di sportività è indispensabile in tutti quelli che se ne occupano, dai tifosi ai giornalisti, dai calciatori ai dirigenti. Quelli della Juve non hanno dato un buon esempio [...][25]
- [Sul campionato di Serie A 1997-1998] Questo, il venticinquesimo in un secolo, potrebbe essere uno degli scudetti più belli della Juve. Per chi lo ha sofferto in campo lo è senz'altro. Ha ragione Lippi quando dice che forse non aveva la squadra più forte, ma la più continua, la più disposta alla sofferenza e alla lotta. Ci sono valori interni che non è il caso di discutere. Ci sono meriti obiettivi, quando si strappano risultati con una difesa (rotto il migliore, Ferrara) di Birindelli e Iuliano, Pessotto e Tacchinardi. Così come ci sono meriti del tecnico [...]. Ma è stato proprio Lippi, da buon toscano che non ama i giri di parole, a parlare di merda tirata sulla squadra, che la metà bastava, e a correggere poi il vocabolo in fango. Merda o fango (facciamo mango, un bel frutto maturo) è chiaro che gli schizzi vanno addosso anche agli innocenti. Che c'entra Peruzzi, se Rodomonti non vede un gol e Ceccarini non fischia un rigore su Ronaldo, che fa il giro del mondo e in tutto il mondo dicono che è rigore? Peruzzi non c'entra nulla. Ma un errore arbitrale, se danneggia tizio va a favore di caio, e siccome tutti gli errori arbitrali in questo campionato sono andati a favore della Juve, con una densità impressionante, eccessiva, ecco esplodere gli schizzi di mango. Si possono fare tanti discorsi, ma non si può far finta che nulla sia successo. [...] Io penso che, più di tutti, questo sia lo scudetto di Marcello Lippi, che ridisegna secondo quanto gli mettono a disposizione i dirigenti. Che avranno molte doti, ma non quella della simpatia. Che non è indispensabile per vincere, ma può servire ad evitare palate supplementari di mango, e poi basta così, a persone navigate è inutile spiegare quando tira il vento. Però, una riflessione. Non è il primo o secondo scudetto della Juve, è il venticinquesimo, e quindi bisognerebbe esserci abituati. Se da tante parti, non solo dagli interisti, sono nate tante proteste e tanto forti, un minimo di ragione ci sarà pure. Questo resta un bellissimo campionato con qualche zona d'ombra e uno scudetto che forse sarebbe arrivato lo stesso ma qualche zona d'ombra ce l'ha. Fra qualche anno non se ne ricorderà più nessuno, ma oggi solo questo si può dire.[26]
- Per un mendicante di bel calcio come mi definisco (la definizione è ripresa da Eduardo Galeano), uno come Ortega è un infiltrato, forse un raccomandato (in effetti, gioca sempre), è una barzelletta che non fa ridere, fa più danni della grandine ed è scelta da condannare quella di avergli dato la maglia numero 10 dell'Argentina.[27]
- Un bilancio quasi definitivo dei mondiali non passa soltanto per il bello ma anche per il brutto. Belli sono gli stadi, in assoluto e se pensiamo ai nostri. Bella è la mancanza di violenza. Tanti si sono scandalizzati (veh, che maniere) per quell'Again 1966 che ha salutato gli azzurri a Daejeon. In Italia, invece, si usano anche i morti per provocare i vivi, e notoriamente si va allo stadio con mogli e bambini piccoli. D'accordo, arbitri e soprattutto guardalinee non sono il massimo. Però che bello veder battere centinaia di calci d'angolo senza che piova di tutto su chi li tira.[28]
- [Sulla finale della UEFA Champions League 2002-2003] La Juve ha avuto il solito carattere, ma meno gioco. Il Milan lo stesso carattere, ma più gioco. La vittoria ai rigori è, a rigor di logica, ineccepibile.[29]
- [Kaká] Uno dei più belli [tra i brasiliani che hanno giocato in Italia] da vedere in azione. Sempre a testa alta (come Falcão, ma con maggiore ritmo), nel tiro ricorda un po' Rivelino. Ormai ai brasiliani atipici ci siamo abituati, la sua atipicità è un'altra. Dimostra che un brasiliano può essere un campione senza esser nato povero. Promette di trasformarsi in trequartista alla Platini, con diversa velocità d'esecuzione. Per ora si può definire un attaccante mascherato. È molto intelligente, sa quando prolungare l'azione individuale e quando servire il compagno. Dà il meglio arrivando lanciato agli ultimi 20 metri, sembra patire la marcatura stretta. Già a pochi mesi dal suo arrivo a Milanello di lui circolava un'immagine molto positiva: ragazzo molto serio, più maturo della sua età. I rischi che si smarrisca sono pochissimi. Ha tutto per diventare una stella mondiale (se non lo è già). Se al Milan inseguono Ronaldinho sono matti. Il vero affare è blindare Kaká (e ogni anno a Natale ricordarsi di chi l'ha segnalato).[30]
- Cassano non è uno da mezze tinte né da 6. O 3 o 9.[31]
- [Dopo la partita Inter-Milan 2-1 del 23 dicembre 2007] [L'Inter] Ha vinto nel modo che piace al più sadico dei tifosi: in rimonta e per un clamoroso errore degli avversari.[32]
- L'ultima considerazione riguarda il Torino. Mi sfugge il motivo per cui non abbia giocato in maglia granata contro il Napoli in maglia azzurra. Mi resta la certezza che quella maglia arancione a righe nere è la più brutta in assoluto vista su un campo di calcio.[32]
- [Sulla tessera del tifoso] [...] Mi sembra di vedere una limitazione alla libertà individuale. Detto in altri termini, e per puro comodo, immaginiamo di dividere i tifosi in bravi e cattivi. I cattivi identificati, in teoria, sono già soggetti a Daspo, quindi schedati e controllati. Ma che bisogno c'è di schedare quelli bravi? Questo è il punto. Mentre i bagarini continuano a fare buoni affari e se ne fanno un baffo del biglietto individuale, mentre i non cattivi, fino a prova contraria, ma un po' agitati si muovono comunque, poi si vedrà, vorrei che qualcuno mi spiegasse perché un cittadino incensurato, senza precedenti specifici, non è libero di muoversi nel suo paese e di andare allo stadio pagando un biglietto e basta, come si fa nel resto del mondo. Se poi delinque, ci pensi la polizia. Trattare i bravi da cattivi, tanto sappiamo che sono bravi, non è fascismo, è piuttosto una gestione abbastanza ottusa del potere. Si seppellisce così, senza un fiore, la domenica della brava gente che i coltelli li usa solo in trattoria, prima o dopo la partita. Si colpiscono i diritti di una stragrande maggioranza per limitare gli eventuali danni di un' esigua minoranza. Se questo è normale, ditelo voi. A me non pare. Se la libertà di movimento passa per una schedatura (questo è, né più né meno), a me pare condizionamento di libertà. C'è per caso un costituzionalista che ha qualcosa da dire?[33]
- [Dopo la partita Inter-Sampdoria 0-0 del 20 febbraio 2010] È molto pericoloso, anche per l'Inter, l'atteggiamento di Mourinho, che non è un ingenuo e quindi deve sapere che si rischia a camminare in una polveriera sempre col cerino in mano. Molti speravano che aiutasse il nostro calcio a guadagnare in maturità, in cultura. Invece, siamo tornati ai tempi dei Borgia, sai che bell'affare.[34]
- I veri capitani possono morire o anche scegliere di morire, ma dimenticarli è impossibile.[35]
- Mennea ha passato più di un terzo della sua vita sui campi d'allenamento, anche a Capodanno. Era un asceta, sopportava carichi di lavoro che altri atleti avrebbero rifiutato prima ancora di cominciare. E durare vent'anni, per uno sprinter, è una specie di miracolo. Ma lo è ancora di più il restare affezionato a una vita ripetitiva, ore e ore d'allenamento per limare qualcosa, ore di isolamento e di sacrifici: dieta perenne, il suo maestro e allenatore Vittori gli vietava anche l'acqua minerale gassata, solo liscia doveva essere. E non parliamo degli altri grandi e piccoli piaceri della vita. Però nessuno ha mai sentito Pietro lamentarsi di quegli anni. Fedele al ruolo che s'era ritagliato: l'atleta-asceta, l'atleta-monaco o fachiro, l'atleta-soldato. Perché era nero dentro e sapeva che nella vita e nello sport, tanto più uno sport come il suo, nessuno ti regala nulla, tutto quello che puoi vincere te lo devi guadagnare col sudore, la fatica, il lavoro. Noi italiani, ci ha fatto pensare di essere i più veloci al mondo. A lui la fatica, a noi la gioia.[36]
- Di [Mennea] dicevano che avesse un brutto carattere, che vedesse nemici dappertutto. Ne aveva, in effetti, a cominciare da quelli che tuonano contro il doping e poi lo fanno entrare dalla porta di servizio, per continuare con quelli che pensano solo alle medaglie e ai guadagni e non hanno capito che c'è una rivoluzione culturale da fare, cominciando dalla scuola, dall'etica, e che non c'è solo lo sport di vertice ma anche lo sport per tutti, e che comunque non ci si deve aiutare mai con farmaci proibiti. «Perché la fatica non è mai sprecata. Soffri, ma sogni». Parole sue. A fare da eco, il nostro silenzio: che sia pieno di rispetto, d'ammirazione, di qualcosa che vorrebbe essere un «grazie» tardivo, forse inutile, ma per Pietro Mennea da Barletta doveroso e dolente, adesso che la corsa è finita.[36]
- Giacomo Losi nel campo dei ricordi ha il numero 3, ma andrebbero bene anche il 2, il 5 e il 6. Tutti i ruoli della difesa li ha coperti, semmai c'è da chiedersi come riuscisse, lui alto 1.68, a marcare giganti come John Charles.[37]
- Quanti ebrei avrà salvato Bartali e anche non ebrei destinati ai lager? Più di 300, dicono, coi documenti falsi. Ma lui ne nascondeva in casa, rischiava la pelle e sì, è stato un eroe, uno degli ultimi eroi popolari espresso dal ciclismo. Il più puro, credo.[38]
- [Su Antonella Bellutti] Lei, a Sydney, mi ha fatto venire in mente L'Angélus di Millet, ha posato la bici come si poteva posare nel campo una vanga o un forcone, e c'era, o almeno mi è parso, una preghiera di silenzio in mezzo a quel casino festante. E poi quel sorriso esitante, un sorriso da bucaneve che fatica a fiorire. E poi tutti quei capelli che saltano fuori dal casco. In genere le cicliste su pista portano capelli corti. Tre rimandi solo per i capelli: un quadro di Klimt, Il vento dell'est di Pieretti-Gianco, Giovanna d'Arco.[39]
- Era la tenacia, Gimondi. L'ostinazione, la cocciutaggine, che dicono tipica dei bergamaschi, la dignità, anche.[40]
- Andrea Agnelli è certamente uomo calato nel presente, ma credo che a volte rimpianga i tempi in cui avrebbe potuto chiamarsi Andrea III, così come c'erano Enrico IV, Carlo V e Luigi XII. Un bell'editto e si vietava l'ingresso nella capitale ai villani, ai bifolchi, ai questuanti, alle meretrici. Con l'Atalanta e la Champions non si può fare, o non ancora, ma come cantava Nicola Arigliano «è solo questione di tempo». Oppure, come canterebbe Marco Masini, «perché lo fai?». [...] Perché l'Atalanta è in Champions e la Roma no? Perché l'Atalanta è arrivata terza in campionato, ha fatto più punti della Roma e non ha rubato il posto a nessuno. Perché le regole d'accesso sono queste, almeno finché non cambieranno in peggio. Come quando si decise che non solo chi aveva vinto il campionato poteva partecipare, ma anche la seconda, la terza, la quarta in classifica. Per le più ricche di storia, di tifosi e di quattrini [...] è prevista una rete di sicurezza, un cammino quasi garantito mentre i villici sul campo insistono a cercarsi un posto al sole. Più che un'uscita, quella di Andrea Agnelli è un'entrata a gamba tesa su quel che sopravvive dell'idea di sport.[41]
- [Su Vincenzo Nibali al Tour de France 2014] Ha vinto da finisseur a Sheffield, da scalatore sui Vosgi, sulle Alpi, sui Pirenei, ha vinto a nord, a est, a sud.[42]
- Le undici di mattina, e come aperitivo Anquetil mette in tavola una bottiglia di whisky e una di vecchio Calvados. Servez- vous.[42]
la Repubblica, 4 maggio 1988.
- Ho gli occhi per vedere come gioca il Milan, non all'italiana, ma questo non è un riferimento al modulo tattico, piuttosto all'impostazione mentale. Come se il fattore-campo non esistesse.
- [Su Arrigo Sacchi] È un fanatico, un paranoico della vittoria (Silvius dixit), un ginnasiarca, uno che ci marcia, uno che ci crede? In panchina, ha atteggiamenti da raptus agonistico, sembra seduto sui carboni ardenti. Gli occhi, che sono piccoli e vivaci, mobilissimi, spesso coperti da Rayban agghiaccianti (chi ricorda "Nick manofredda"?) hanno convinto Berlusconi che l'omarino valeva il rischio.
- Per Sacchi, semplicemente, l'avversario non esiste, non è da prendere in considerazione. Chi impone il suo gioco non ha da preoccuparsi di quello altrui, chi si diverte giocando diverte chi guarda, chi si diverte giocando non soffre lo stress, chi gioca meglio vince.
la Repubblica, 10 luglio 1990.
[Sul campionato mondiale di calcio 1990]
- Non sono l'Argentina e l'Italia ad aver perso il mondiale. Prima, e in modo molto più vistoso, l'hanno perso gli arbitri, la Fifa (parola d'ordine: tutto bene) e il molto illustre signor Joseph S. Blatter.
- Codesal finisce sulla lista nera degli argentini ma l'anagramma del suo cognome (c'è saldo del caso) dovrebbe far capire che in una sera gli argentini hanno pagato con gli interessi tutti i regali precedenti, specie quelli con Urss e Jugoslavia. Arrivo a dire che, in questo mondiale, avrebbe vinto la squadra provvista di un Chiarugi, per stare a un esempio di Lo Bello padre. Sarà la mondovisione, sarà che Blatter gli ha fatto una capa tanta, fatto sta che gli arbitri hanno punito severamente falli mai esistiti, bastava un bel volo e la punizione era assicurata. Codesal ha espulso Monzon per un fallo da ammonizione e ha concesso un rigore molto molto dubbio, peraltro ignorandone un altro, pure non clamoroso, di Matthaeus su Calderon. Ma già prima, secondo me, aveva concesso il rigore del 3-2 all'Inghilterra quando nessuno del Camerun aveva sfiorato Lineker e aveva ammonito Milla per proteste. Giustamente, ma avrebbe anche dovuto sentire il dovere di tutelare le sue caviglie.
- Un conto è la prevenzione del gioco duro, un conto il killeraggio degli arbitri. In altri termini, ho il forte sospetto che, per salvare il calcio, la Fifa lo stia strangolando ed è come buttare via il bambino con l'acqua sporca. Direttive ferree, arbitraggi ridicoli, in molti casi, e discutibili in altri. La regolarità del gioco non dipende solo dagli interventi fallosi e dal modo di punirli, ma anche dalla credibilità dell' arbitro e dal suo rapporto fiduciario con i giocatori. Non è accettabile, per esempio, che un Kohl continui a zompare su chi effettua un normale contrasto come fosse l'educatore che sorprende il ragazzino con un giornale porno. Non è accettabile moralmente, anche se il regolamento lo prevede, che un Roethlisberger, enfant chéri del molto illustre signor Blatter, ammonisca uno jugoslavo perché sta a otto metri anziché a nove dal pallone e dopo 6' lo butti fuori per un normalissimo, quasi banale fallo su Maradona. Perché questo significa falsare la partita, obbligare una squadra a giocare in dieci per 90' a quasi 40 gradi.
- Questo è stato un mondiale con poco pressing [...] e sostanzialmente corretto: meritato il premio Fairplay agli inglesi. Ma troppe volte s'è visto l'arbitro lontano dall'azione e scarsamente sintonizzato coi guardalinee. Penso che il doppio arbitro sarebbe una buona idea, almeno da sperimentare, perché non si può pretendere da ultraquarantenni che corrano come ventenni. Altra cosa poco logica, da parte della Fifa: rispedire a casa gli arbitri dei paesi che hanno superato gli ottavi: un buon arbitro come Petrovic, fuori la Jugoslavia, poteva tornare utile. A parte un rigore non concesso all'Italia, di veramente bravo ho visto un arbitro solo, nella seconda fase: il brasiliano Wright. Un po' poco. Ma per la Fifa son tutti bravi, altrimenti non sarebbero venuti ad arbitrare qui. È questo il vero guaio.
la Repubblica, 18 luglio 1994.
- Ha vinto il Brasile. Ha vinto ai rigori. Grazie lo stesso. L'Italia perde con dignità una finale brutta e noiosa, condizionata dalla voglia di non prendere gol (subito d'accordo anche il grande Brasile, sia chiaro) e da un caldo spaventoso. Mi piacerebbe invitare i signori del calcio a ragionare sul bene che può fare al calcio una finale così, ma è inutile: ragionano col conto in banca, non con la testa. E così la partita del secolo si riduce a una serie di vorrei ma non posso, di slanci frenati, di errori dovuti all'annebbiamento da fatica.
- Brucia perdere così, ma il Brasile nell'arco del Mondiale ha sicuramente giocato e divertito più dell'Italia. Ieri ha fatto qualcosa in più, non molto, ma è stato più pericoloso sotto porta. Giusto così, tutto sommato. Sacchi non si porterà addosso l'etichetta di fortunello (vincendo ai rigori, non gliela toglieva nessuno) e la soddisfazione di avere comunque mostrato una squadra vera ce l'ha. Non era la squadra che ci aspettavamo, né quella che si aspettava lui: di grandissimo gioco, solo mezz'ora con la Bulgaria (tritata poi dalla Svezia). Non era la squadra che domina, che impone il suo gioco, ma sa adattarsi, sa lottare, sa sgobbare con una umiltà e una intensità (uso due sostantivi cari a Sacchi) che raramente hanno diritto di cittadinanza nelle grandi squadre. Grazie lo stesso, e poi non è un male che abbia vinto il Brasile, paralizzato a lungo dalla paura di vincere, dopo ventiquattro anni di digiuno. E adesso chi darà più dell'asino al povero Parreira?
- Fa un certo effetto vedere Carlos Dunga, pettinato da marine, alzare la quarta Coppa del Mondo per il Brasile, Dunga ritenuto inutile dal Pescara, Dunga che passa la coppa ad altri scartati dal nostro campionato, come Branco e Mazinho, forse anche Aldair e Taffarel. Tutta gente che nell'82 non sarebbe stata nemmeno convocata, nell'82, quando Baresi e Massaro non fecero che panchina. È un Mondiale senza nuovi grandi personaggi, senza goleador irresistibili, senza registi di talento continui, senza portieri che fanno miracoli. Bisogna dirlo. Bisogna aggiungere che è stato un Mondiale con tanto pubblico e nessuna violenza, piuttosto corretto anche sul campo, correttissima nella sua bruttezza tesa questa finale.
- Non è vero che i rigori sono una lotteria, richiedono anche abilità e lucidità. I nostri rigoristi erano più cotti dei brasiliani, tutto qui. Appena ho visto Baresi avviarsi a calciare il primo rigore, ho detto a Bocca "tira alto", ma subito Pagliuca ha rimesso le cose a posto. Qui hanno sbagliato Massaro e Baggio, quattro anni fa con l'Argentina Donadoni e Serena. Il Brasile era l'unica americana contro sette europee e ha ribadito che da questa parte del mare le europee non vincono mai. L'Italia esce l'ultimo giorno come il primo, sconfitta. Con l'Eire a testa bassa, stavolta a testa alta. La differenza è questa, e non è poi da buttar via. In mezzo c'è tanta fatica, tanta sofferenza, tante contrarietà e l'ostinazione di prolungare un sogno il più a lungo possibile, è arrivato fino a undici metri dalla felicità. Grazie lo stesso.
la Repubblica, 18 settembre 2000, p. 46.
- Il nuoto è esaltante ai massimi livelli, ma per arrivare a quei livelli richiede allenamenti pesantissimi, vasche e vasche in solitudine, all'alba, in un'acqua che sa di cloro, che irrita gli occhi.
- [...] il nuoto è noioso, ripetitivo e dà sempre l'idea di essere quello che è: uno sport. A calcio, a tennis, a basket, anche a pallanuoto si gioca. Il nuoto, si fa. Assente il gioco, assente la fantasia, resta il dubbio fascino del lavoro paziente, di settimane e mesi per abbassare il proprio limite [...]
- Non credo si troverebbero tanti ventenni che nuotano per cinque giorni e si rilassano la domenica pescando trote nelle cave. Si troveranno, sempre più, tante famiglie con bambini troppo grassi, o troppo gracili, o con la spina dorsale un po' così, e il nuoto farà bene a questi bambini, poi cresceranno e troveranno qualche altra attività più interessante. Il nuoto è uno sport-ponte che porta ad altri sport, e questa è una ricchezza rispetto ad altri, come il calcio, che portano in una sola direzione.
repubblica.it, 23 ottobre 2000.
[Su Pelé]
- Pelé è sempre stato nero e mai nessuno si è permesso di fare il verso delle scimmie, quando giocava lui, né di trattarlo male per il colore che aveva e che ha. Nel 1977 l'Onu gli ha conferito il titolo di Cittadino del mondo. Pelé è stato e continua a essere il calcio.
- A guardarlo infagottato nella tuta Pelé non aveva nulla di speciale, né i muscoli né la statura. In campo sapeva fare tutto, per scienza infusa. Nessuno gli aveva insegnato nulla.
- Non capitava spesso, in Italia, di veder giocare Pelé. Non c'erano tutte le tv di oggi. In genere, bisognava aspettare i mondiali. Basiamoci su '58 e '70, Pelé è sempre uguale. Tecnica meravigliosa, velocità, dribbling. Forte coi due piedi, forte di testa, forse sarebbe stato bravo anche come portiere (ruolo scelto da suo figlio). Ugualmente abile nella conclusione come nell'assist e di un'intelligenza calcistica totale: sapeva sempre quello che bisognava fare, e lo faceva meglio degli altri. In Brasile il suo nome compare in più di cento canzoni (in Italia, in una del Quartetto Cetra).
- Pelé sarebbe certamente venuto a giocare per una squadra italiana (Juve, Milan o Inter, di qui non si scappa) se il governo brasiliano non l'avesse definito patrimonio nazionale vietandone l'esportazione. Lui non aveva ancora 20 anni. Ed è un simbolo da più di 40. Chi ama il calcio ama Pelé, per quello che ha fatto e per come s'è conservato. Disponibile, simpatico, molto alla mano, esattamente come quando giocava.
la Repubblica, 2004; ripubblicato in repubblica.it, 15 giugno 2020.
- Riva non ha mai amato i giornalisti. Poteva rispettarli (è il caso di Brera) o sopportarli (era il caso mio). Ma la sua specialità era dribblarli. Non essendoci telefonini, ai campioni si faceva la posta sotto casa. Per Riva, la casa di Fausta, la sorella che gli ha fatto da madre. O era in ritardo l'aereo dalla Sardegna, o Gigi era appena uscito e chissà quando sarebbe rientrato. Nell'attesa, spesso inutile, Fausta faceva un caffè, mi mostrava i quadri (paesaggi) che dipingeva suo marito, gli album di ritagli su Gigi calciatore.
- Scopigno era un bel terzino destro, paragonato a Maroso. Era nel Napoli e chiuse la carriera (rottura legamenti) dopo uno scontro con Sivori. È morto il 26 settembre del '93 e non ci fu a ricordarlo nessun minuto di silenzio, nemmeno a Cagliari. Il nostro calcio faceva già abbastanza tristezza allora.
- [...] se uno mi chiedesse di stringere Riva (Giggirrivva) in due parole, dovrei ricorrere allo spagnolo: hombre vertical.
la Repubblica, 23 agosto 2011.
[Su Mario Corso]
- Mai stato bugiardo, Corso ha ammesso di non averlo letto tutto, ma, con grande piacere, solo le parti che lo riguardavano. Ora si può discutere se sia più importante ispirare un libro o leggerlo. Oppure si possono rivedere dei gol di Corso (nell'Inter, 94 in 502 partite), belli e beffardi anche a distanza di mezzo secolo. O, ancora, ricordare che a Milano un paio di generazioni pendenti a sinistra ha affiancato la bandiera nerazzurra a quella rossa solo perché nell'Inter c'era Corso. Tanti campioni, ma Corso era il più diverso, nel senso che tutto sembrava tranne un grande giocatore. Un fil di ferro con le orecchie a sventola, pochi capelli, un'aria ciondolona, i calzettoni abbassati sulle caviglie (a cacaiola, avrebbe chiosato Brera). Era il suo omaggio a Sivori, che con dribbling e tunnel lo entusiasmava. Quando Corso se lo trovò di fronte, gli fece un tunnel.
- Corso era il più diverso, ancora, per questi motivi: vocina chioccia, occhi di chi s'è appena alzato dal letto, numero 11 sulla schiena ma non era un'ala sinistra, anzi spesso giocava sulla destra per avere più porta davanti con l'unico piede buono, il sinistro. «Meglio uno buono che due scarsi». Centrocampista non era di sicuro, punta nemmeno. Oggi lo chiameremmo trequartista. Difficile trovare chi gli somigli. In parte Giggs. Non aveva un ruolo definito ma valeva il prezzo del biglietto. Era un 10 targato da 11. Coi giornalisti parlava pochissimo, in spogliatoio molto, e stava terribilmente sulle scatole al Mago [Helenio Herrera]. Che ogni anno lo metteva in testa all'elenco di quelli da cedere e ogni anno Angelo Moratti gli diceva che non era il caso.
- Era fatto così: indisponente quando, sotto il sole, in campo giocava nella zona d' ombra. Ma sempre con un colpo a sorpresa nascosto da qualche parte, da vero prestipedatore.
- E bisogna essere grati a Corso, perché la foglia morta sopravvive ancora in un mucchio di cannonate, spingardate, siluri, missili, fucilate. È una presenza gentile e lieve, va dove la porta il vento così come Corso andava dove lo portava l'estro. Insofferente agli schemi, anarchico, imprevedibile, lunatico, geniale, per noi Mario Corso era la libertà, ma non lo sapevamo.
repubblica.it, 7 maggio 2012.
- [Sulla Juventus Football Club 2011-2012] C'è un dato interessante, nella Juve di Conte. Ha sempre avuto un possesso di palla superiore agli avversari, piccoli e grandi. [...] Il lavoro di Conte è stato fondamentale, perché alla Juve non ha portato solo questo scudetto, che non è poco. Ha dato un gioco, che già pare più europeo che italiano. Ha dato o ridato orgoglio di appartenenza. [...] Conte aveva fatto giocar bene le sue squadre, ma in B. Innamorato del 4-2-4 l'ha mandato in soffitta quando ha capito che Pirlo non ci rientrava. Ha adottato spesso il 3-5-2, che protegge di più la difesa. Forse pensa al 4-3-3, ma sono dettagli. Non sono dettagli invece una squadra mai morta e molto aggressiva, in particolare all'inizio di ogni tempo, né la gran quantità di tiri in porta [...]. E nemmeno la disponibilità a fare il suo gioco e a non subire quello altrui.
- [Sul campionato di Serie A 2011-2012] Penso che senza un giocatore con le caratteristiche di Pirlo questo scudetto forse la Juve non l'avrebbe vinto. O forse sì, ma proviamo per un attimo a immaginare come sarebbe stato, senza Pirlo, il gioco della Juve. Pirlo è un gol della Juve o un autogol del Milan o tutt'e due le cose insieme? Ognuno decida, io sono per la terza opzione. Al di là dei colori delle maglie e del tifo, è la riprova che un giocatore di classe fa sempre comodo, specie se il suo gioco esalta quello dei compagni.
- [Sulla Juventus Football Club 2011-2012] Portiere a parte, la Juve non ha una difesa di grossi nomi, eppure è di gran lunga la meno battuta. Ha realizzato gli equilibri tra i reparti che sono una delle cose più utili e difficili da ottenere. Il centrocampo è forte, Marchisio nella prima metà del campionato e Vidal nella seconda si sono segnalati come incursori d'area oltre che nel recuperare palloni. Gli attaccanti, spesso alternati, non figurano nelle parte alta della classifica dei goleador. Il più prolifico, Matri, ha segnato meno della metà di Ibrahimovic. Però non è detto che nel gioco di Conte sia la punta centrale a dover fare la parte del leone. Altri dettagli: Vidal da oggetto misterioso a insostituibile, Vucinic più dinamico. Hanno risposto alle attese gli acquisti più illustri, ma anche quelli meno: Giaccherini, Caceres. È molto migliorato De Ceglie, Bonucci si distrae meno. È una squadra ringiovanita ma già matura.
repubblica.it, 15 ottobre 2012.
[Su Beppe Viola]
- Forse amato più da morto che da vivo, e non parlo di famiglia, amici (ne aveva tanti), ma di attenzione, rispetto, riconoscimenti ufficiali. Era consapevole del distacco, per non dire emarginazione, derivanti dal suo modo "altro" di essere giornalista sportivo.
- So che ai funerali c'era un mare di gente, anche facce famose dello sport e dello spettacolo, ma soprattutto facce di gente qualunque, molti del triangolo in cui aveva piantato le tende dalla nascita (piazza Adigrat, via Sismondi, via Lomellina), ma tanti fuori, alcuni ai margini (clanda, zanza, nel gergo della strada). Lettera significava menagramo, ricotta affare, bevuto arrestato. Sacco era mille lire, scudo cinquemila, deca diecimila (oggi, decaffeinato), marengo ventimila, gamba centomila, testa un milione.
- Certo, Beppe era "uno della tv", ma guai a chiamarlo dottore. Era anche un instancabile osservatore, frequentatore di bar, osterie, pasticcerie, salumerie. Sempre cose pesanti.
- Nel meticciato culturale il talento emergeva, quando c'era. Questo spiega perché Beppe sia stato giornalista di carta stampata, radiocronista, telecronista, autore di testi per cabaret e canzoni, sceneggiatore, partendo da un innato senso dell'umorismo e da una cultura classica (mai laureato, ma quanti libri in casa sua) e insieme popolare. Posso aggiungere: la persona più generosa che abbia mai incontrato, quasi sempre con problemi economici ma sempre disposto a dare le ultime mille lire a uno che stava peggio. Molti dicono che è arrivato molto presto, troppo per essere capito subito. Invece no, è arrivato quando doveva arrivare, in quegli anni, e se n'è andato troppo presto.
- Beppe era lo sport senza piedistallo, ma anche la spalla di due guru (Gualtiero Zanetti e Gianni Brera) non particolarmente portati per la tv. Beppe toccava i tasti giusti, dava i tempi. Ma era giudicato poco telegenico: la cravatta sembrava lo strangolasse, sudava per tre, non era abbronzato. Anche suo nonno aveva la passione del gioco: carte. Il padre, cavalli. Beppe tutt'e due. Dei cavalli sbagliati ("le bestie") non ha mancato uno. Era molto bravo a scopa d'assi, quasi come Pantera Danova, nelle partite con Pizzul e Facchetti. Sembrava svagato, ma sul lavoro non sgarrava. Sembrava pigro e ha sgobbato come un mulo tutta la sua corta vita.
repubblica.it, 20 dicembre 2012.
[Su Gianni Brera]
- E scrivevi come vivevi, da persona piena di umori e di amori, con una cultura larga e profonda che andava dalla pesca degli storioni all'uso del verso alessandrino. E le invenzioni, Giovanni, i neologismi. Ne hai inventate di parole.
- E tu con coscienza e scrupolo artigianale (ma io non dimentico tutti i libri che hai in casa) avevi inventato una lingua viva, piena di venature, di rimandi, come uno che aveva letto Runyon ma anche Folengo. Eri nato con l'atletica e il ciclismo, sapevi raccontare gli uomini e le strade.
- Io non sarò il tuo erede, Giovanni. Siamo onesti, come te non c'è stato nessuno e non ci sarà più nessuno. Mica solo per lo sport. Se c'è un libro di gastronomia da salvare, è "La pacciada", che hai scritto tu con Luigi Veronelli. Che adesso starà bevendo in memoria tua. Se si vuol capire qualcosa di ciclismo, degli anni eroici del ciclismo, bisogna leggere "Addio bicicletta", l'hai scritto tu un sacco di anni fa. E pochi letterati da Strega e da Campiello avrebbero descritto il paese di Coppi come hai fatto tu.
- Sei morto come auguravi ai tuoi eroi sportivi, assunti in cielo su un carro di fuoco. Non sei morto di cuore né di fegato né di polmone, Giovanni, tu che fumavi cento sigarette al giorno e non parliamo di quello che hai bevuto, oppure parliamone, e parliamo del culo che ti sei fatto sgobbando fra le stanghe della Olivetti (il computer mai, avevi ragione tu, non fa rumore, ti cambia le parole già in testa) più di cinquant'anni.
la Repubblica, 22 febbraio 2013.
[Su MasterChef Italia]
- Mica si può saziare la voglia di umiliazione della platea spaccando un'ottantina di piatti nell'imitazione di Gordon Ramsay, chef molto stellato e molto sopravvalutato, assai più popolare per la sua dirompente cafonaggine televisiva che per le sue ricette. Ramsay, per inciso, sputa nelle pentole, spiaccica uova sulle giacche degli esaminandi, ha un linguaggio da bullo attaccabrighe.
- La sua parte [quella di Gordon Ramsay nella versione americana del talent], quella del cattivo, il copione l'ha riservata a mister Joe Bastianich. Bruno Barbieri, forse perché bolognese, è il meno contundente del trio, è come il poliziotto buono dei telefilm americani, quello che offre una sigaretta durante l'interrogatorio. Carlo Cracco, il più bello del reame (sarà meglio l'inquadratura della camera 3 o della 4?) è quello che, inarcando luciferinamente le sopracciglia, leva la sigaretta prima che sia accesa.
- Tempo di crisi o no, c'è qualcosa di eccessivo nel diluvio di trasmissioni sul cibo, nessuna delle quali fa cultura sul cibo, come tanto tempo fa Ave Ninchi e Luigi Veronelli, ma solo audience. Giudizio critico su Masterchef: mappazzone, digestione a rischio.
rep.repubblica.it, 30 dicembre 2017.
- [Su Gualtiero Marchesi] Detestava esser chiamato chef, non gli farò questo torto. Nemmeno gli piaceva esser chiamato maestro, ma lo è stato. Un grande maestro. Di quelli che non hanno bisogno d'una cattedra per insegnare. Di quelli che hanno una cultura vasta (pittura, musica, scultura). Che hanno belle idee. L'ultima di Gualtiero era una Casa di riposo per cuochi, dove i vecchi cuochi potessero portare la loro esperienza ai giovani cuochi. Sorgerà a Varese. Ancora una volta Milano non ha capito, Milano sta a guardare.
- [Su Nanni Svampa] "Certe tue traduzioni sono migliori delle mie canzoni". Se a dirlo è Georges Brassens, è detto tutto, o quasi. Da aggiungere: il cabaret, quando era una cosa seria, e la canzone dialettale milanese gli devono molto.
- [Su Daniel Viglietti] Amico di Victor Jara e Violeta Parra, figlio di musicisti, chitarrista e compositore, è considerato l'espressione più alta della canzone uruguayana. Quando fu incarcerato, si formò a suo sostegno un movimento d'opinione che comprendeva Sartre, Mitterand, Niemeyer, Cortázar. Undici anni in esilio tra Argentina e Francia. Poi il trionfale ritorno a Montevideo (1984). Ha sempre cantato dalla parte degli ultimi.
La fiamma rossa. Storie e strade dei miei tour
modificaIncipit
modificaLa fiamma rossa (la flamme rouge) è una bandierina triangolare che segnala gli ultimi mille metri di corsa. È comparsa per la prima volta nel Tour de France del 1906 e da allora non solo è rimasta sulle strade del Tour, ma si è moltiplicata su quelle dl Giro, della Vuelta, delle classiche, insomma fa parte di un alfabeto universale delle due ruote. La fiamma rossa può essere una marcia trionfale o un calvario. Dipende da come ci si arriva. Quell'ultimo chilometro da percorrere può essere pedalato a tutta forza in salita (per abbreviare l'agonia, diceva Pantani) oppure con più calma, amministrando lo sforzo, o, ancora, con l'angoscia di non chiudere entro i limiti del tempo massimo.
Citazioni
modifica- Nella maggior parte dei casi, comunque, la fiamma rossa è l'ingresso nel territorio dove tutto è possibile. È la zona dei sogni.
- La fiamma rossa è un punto preciso, fermo, e ancora tutto può cambiare, muoversi, ribaltarsi. IL rosso è il colore della passione, in senso etimologico. Nella vita ordinata, ai semafori, è il colore che ferma. Nel ciclismo scatena.
- [Il Mont Ventoux] Era una montagna che negava la vita. Solo pietre bianche e ghiaioni e lui [Tom Simpson] è andato a finire proprio lì. Lui, che amava la vita, lo dicono tutti, e il mare, e gli alberi, lui, che in Corsica dissodava il terreno attorno alla futura casa, e gli piaceva il Lago di Garda, e raccontare barzellette, e fare il pioniere.
- [Sulla morte di Tom Simpson sul Mont Ventoux] Un uomo morto è più vero di tutte le verità a posteriori.
- Aveva una bella storia Simpson, una storia che non gli sopravvive. Adesso è un cadavere scomodo.
- Morire è come aprire una porta e chiudersela dietro: chi è senza chiave non entra.
- Il Ventoux è una bruttissima bestia che non somiglia a nessun'altra salita. È unico.
- Il Ventoux non è Pirenei, non è Alpi, anche se tecnicamente può considerarsi una propaggine delle Alpi Marittime. È una sentinella della pianura, un avamposto maligno e calvo che nei secoli ha entusiasmato solo Petrarca. È un bubbone che i corridori eviterebbero volentieri.
- Adesso il mio atteggiamento è più duro perché di doping, di questo doping, si muore. Al di là dei motori truccati, muoiono i ciclisti, muore il ciclismo.
Citazioni su Gianni Mura
modifica- Alla fine dei suoi racconti sulle vite degli amici persi scriveva sempre: ti sia lieve la terra. Paola [la moglie] l'ha vestito con i jeans, una polo, un golf e scarpe sportive. Non era tipo da cravatta, ma era elegantissimo nella sua semplicità da Mura. Io invece vorrei che la terra diventasse dura, ferrosa, respingente. Che ci restituisse Gianni che credeva nella libertà e che la poesia è un po' come la Provenza: non sei tu che ci entri, al chilometro tale, ma è lei che ti viene incontro, che s'annuncia con i colori dei campi di lavanda e di girasole. E che voleva bene alle fisarmoniche appoggiate su una sedia. Diceva che sono l'unico strumento che si dilata. Dimenticava il suo cuore. (Emanuela Audisio)
- Gianni era un talento puro. I suoi racconti dal tour de France resteranno vette rare, e non solo quelli. Aveva cuore, talento, ego, spigoli, genio e generosità. Molti lo definiranno una volta di più "l'unico erede di Brera", che peraltro adorava e aveva ben conosciuto, ma per me Mura era Mura: aveva il suo stile, la sua originalità, la sua musica, la sua utopia. Per chi ha amato la letteratura sportiva, e per chi ha creduto anche in tempi non sospetti che lo sport potesse essere epica, Gianni è stato un amico, un faro, un punto di riferimento. Un compagno di strada e di sogni. Oggi questo paese perde un grande uomo e un irripetibile scriva. Sono molto triste. (Andrea Scanzi)
- Ho imparato anche da Gianni Mura che al Tour mi chiedeva: "Cosa hai visto, mi racconti?" E quando dovevi riferire a Mura sentivi che dovevi farti acuta e sincera perché la responsabilità era enorme. (Alessandra De Stefano)
- Lo avevo quasi convinto a scrivere un libro che raccontasse a modo suo la grande transizione del giornalismo, dalle linotype al digitale, dalla sua Olivetti 32 all'iPad, dalla carta a Instagram.
Si capiva da che parte stava: un giorno in Francia un quotidiano giapponese fece una pagina su di lui: era l'ultimo inviato con una macchina da scrivere (e faceva anche un discreto rumore). Doveva raccontarlo ancora una volta a tutti noi, fratelli, figli e lettori suoi, con una risata: «Vogliono farmi sentire come l'orso marsicano, la foca monaca: ma come scriverete sul pc se manca la luce?».
Il titolo del libro era pronto: "Ci siamo divertiti".
Ma ora è finita. (Giuseppe Smorto) - Mura ha significato per me, credo per molti di noi, un riferimento alto e costante, sia pensando alla qualità dello scrivere, sia al significato dello sport, sia alle storie di chi con lo sport traccia una via, una avventura preziosa. Ci conoscemmo quando ero un ragazzo, grazie a Beppe Viola. Lavoravamo nelle stesse stanze di viale Arbe a Milano, in quello che Beppe definì "il marchettificio" perché si trattava di guadagnare il pane scrivendo per chiunque chiedesse pezzi di varia umanità. Era un appartamento trasformato in ufficio, c'era una piccola cucina dove mettevamo su delle moka in continuazione, dove mettevamo in tavola roba varia e unta in arrivo da improbabili rosticcerie limitrofe, dove Beppe, Gianni e Sergio Meda soprattutto giocavano a carte arrabbiandosi moltissimo. Avere attorno gente così è stato un privilegio e un onore per me, visto che si impara meglio da chi sa cosa significa non accontentarsi, non piegarsi, non metterla giù dura. E chi ha ricevuto da Gianni una quantità straordinaria di racconti e storie sa benissimo di cosa sto parlando. Parole scelte, se possibile, sempre. Era una persona non sempre facile; era una persona per bene. (Giorgio Terruzzi)
- Per Gianni Mura il primo giorno di primavera è stato l'ultimo. Niente fiori, niente mare di Ischia e vino gelido con le pesche. Fine della corsa per un grandissimo giornalista che ha amato lo sport del pedale più di ogni altra cosa. Ha amato il ciclismo di memoria, più che di cronaca, nonostante fosse sempre sul pezzo, sempre sulla notizia, come pochi altri. (Pier Augusto Stagi)
- Vi chiedo, ovunque voi siate, di stappare una bottiglia per lui, e levare il bicchiere, così come stanno facendo i suoi amici. Una delle cose più tremende di questi giorni è che non si possono fare i funerali. Il suo sarebbe stato — e sarà, appena possibile — pieno di cose da mangiare e di cose da cantare. Se conoscete qualche canzone di Endrigo cantatela per lui, era il suo preferito. Basta anche qualche verso. Basta un sorso, un pensiero, un ringraziamento, una pedalata sulle Alpi francesi o sui Pirenei, e Gianni Mura sarà di nuovo insieme a noi. Per sempre insieme a noi. (Michele Serra)
Note
modifica- ↑ Citato in Marco Pastonesi e Giorgio Terruzzi, Palla lunga e pedalare, Dalai Editore, 1992, p. 27. ISBN 88-8598-826-2
- ↑ Citato in Mario Pagliara, "Un artista in un ambiente di artigiani". Milano ha ricordato Gianni Brera, Gazzetta.it, 17 novembre 2012.
- ↑ a b c d Citato in Arbitri e giornalisti gemellati dal tifo, L'arbitro, dicembre 2014, p.16.
- ↑ Citato in Marco Pastonesi e Giorgio Terruzzi, Palla lunga e pedalare, Dalai Editore, 1992, p. 90. ISBN 88-8598-826-2
- ↑ Dalla conferenza "Narrare lo sport" all'Università Luiss Guido Carli di Roma; citato in Gianluca Modolo, Lo sport raccontato da Gianni Mura tra calcio, ciclismo e il mestiere di cronista, reporternuovo.it, 19 marzo 2012.
- ↑ Da Santi nomi!, Guerin Sportivo nº 12 (787), 21-27 marzo 1990, p. 51.
- ↑ Cfr. locuzione latina: «Cicero pro domo sua» («Cicerone [che parla] per la propria casa»). Cfr. voce su Wikipedia.
- ↑ Da Furbinho non mi manchi, guerinsportivo.it, 11 dicembre 2010.
- ↑ Dalla parte di Milanetto, dalla rubrica Murales; Guerin Sportivo nº 9, settembre 2011, pp. 36-37.
- ↑ Da Il piccolo re delle telenovelas, la Repubblica, 25 gennaio 1987.
- ↑ Da E un giorno Sacchi giocò in difesa, la Repubblica, 3 luglio 1987.
- ↑ Da La rivoluzione del Sor Capanna, la Repubblica, 15 maggio 1988.
- ↑ Da Gigante Milan alla ribalta, la Repubblica, 7 settembre 1988.
- ↑ Da la Repubblica, 5 settembre 1989, p. 37.
- ↑ Da Libertà e sport in cima al mondo, la Repubblica, 24 dicembre 1989.
- ↑ Da Addio, campionato amaro..., la Repubblica, 29 aprile 1990.
- ↑ Da Ai ragazzi di Zoff anche la coppa bis, la Repubblica, 17 maggio 1990.
- ↑ Da Vent'anni dopo, non più clandestini..., la Repubblica, 30 ottobre 1990.
- ↑ Da Ora ci manca l'art director, la Repubblica, 2 dicembre 1990.
- ↑ Da Bisogna saper perdere, la Repubblica, 22 marzo 1991.
- ↑ Da Almeno il lutto al braccio, la Repubblica, 24 maggio 1992.
- ↑ Da Quanti grazie per una sorpresa, la Repubblica, 27 giugno 1992.
- ↑ Da Illusioni da grande slam, la Repubblica, 28 maggio 1993.
- ↑ Da Pagliacci e avvoltoi, la Repubblica, 5 dicembre 1993.
- ↑ Da L'importante è anche come si vince, la Repubblica, 28 aprile 1998.
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- ↑ Da la Repubblica, 13 giugno 2002.
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- ↑ a b Da All'Inter il derby del fair play ora, è campione d'inverno, la Repubblica, 24 dicembre 2007.
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- ↑ Da Il razzismo? Non è un problema per i presidenti delle società di calcio, rep.repubblica.it, 28 gennaio 2018.
- ↑ Da Antonella Bellutti: "Ho conosciuto i miei limiti andando da sola in bici", repubblica.it, 7 marzo 2019.
- ↑ Da Addio a Gimondi, il lottatore che non si arrese mai, rep.repubblica.it, 16 agosto 2019.
- ↑ Da La barba di Moscardelli campione di sincerità, la Repubblica, 8 marzo 2020.
- ↑ a b Citato in Emanuela Audisio, Le molliche di Gianni Mura uno scrittore fra i giganti, la Repubblica, 16 aprile 2020, p. 37.
Bibliografia
modifica- Gianni Mura, La fiamma rossa. Storie e strade dei miei tour, Minimum Fax, Roma, pp. 464, ISBN 9788875211905
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