Emanuela Audisio

giornalista e scrittrice italiana

Emanuela Audisio (1953 – vivente), giornalista sportiva e scrittrice italiana.

Citazioni di Emanuela Audisio modifica

  • Missing. A 50 anni Roberto Baggio è fuori: dal gioco, dal calcio, da ogni falò delle vanità. Ha smesso da oltre dieci anni di misurare il mondo con le righe del campo. Non rilascia interviste, non parla di calcio, non presenzia. Gli è riuscita la magia di scomparire dal palcoscenico, di evitare l'invenzione della nostalgia, niente più c'era una volta in America. Se n'è andato senza avere conti in sospeso con i ricordi, fedele all'idea che un addio è un pallone che non torna indietro.[1]

la Repubblica modifica

  • Abbandonando il suo adorato hockey per il tennis non aveva scelto il suo divertimento preferito, ma aveva abbracciato una fede. Bjorn in svedese vuol dire orso. Come soprannome parve poco, allora gliene aggiunsero altri: Ice Borg, Computer, Robot. Veniva dal profondo nord quindi nessuno si preoccupò della sua scarsa loquacità, della sua fredda umanità, e del fatto che fuori campo pareva sempre un po' assente. Quando gli parlavano del mondo, delle cose che succedevano, lui ringraziava. Con molta educazione.[2]
  • [Dopo l'improvvisa morte di Gianni Mura] Alla fine dei suoi racconti sulle vite degli amici persi scriveva sempre: ti sia lieve la terra. Paola [la moglie] l'ha vestito con i jeans, una polo, un golf e scarpe sportive. Non era tipo da cravatta, ma era elegantissimo nella sua semplicità da Mura. Io invece vorrei che la terra diventasse dura, ferrosa, respingente. Che ci restituisse Gianni che credeva nella libertà e che la poesia è un po' come la Provenza: non sei tu che ci entri, al chilometro tale, ma è lei che ti viene incontro, che s'annuncia con i colori dei campi di lavanda e di girasole. E che voleva bene alle fisarmoniche appoggiate su una sedia. Diceva che sono l'unico strumento che si dilata. Dimenticava il suo cuore.[3]
  • Bravo, dicevano tutti, e con una seconda battuta di servizio ancora più forte della prima, più simile a McEnroe che a Borg, ma uno che spesso ha dei vuoti spaventosi. Poco svedese, appunto, poco paziente, uno che non aspetta gli sbagli degli altri, semmai li precede. Sottorete un ottimo giocatore, uno dalle partenze accelerate, ma dai difficili inseguimenti. E il tennis ad alti livelli, si sa, spesso vuol dire anche rincorrere. "Ha un difetto: rispetta troppo gli altri, sta troppo ai loro voleri" diceva di lui Erik Bergelin, l'allenatore figlio dell'ex coach di Borg. E voleva dire che Edberg, intraprendente sul campo, non lo era altrettanto nella testa. Ai giovani capita spesso di non avere fiducia in sé ed era esattamente il male di cui soffriva questo figlio di poliziotto cresciuto a Vastervik in un club di tennis senza spogliatoio. L'improvvisa e rapida crescita di Becker inoltre lo aveva spiazzato, rubandogli i riflettori. Becker era più giovane, più estroverso, più mimico, più tutto. a Edberg non restava che giacere lì come un ordigno inesploso in attesa di una maturazione.[4]
  • [Sulla finale di Wimbledon 1980 Borg - McEnroe] Borg con la sua riservatezza e determinazione ricordava quello che il paese desiderava essere, McEnroe con la sua inquietudine e paranoia lo teneva fermo a quello che era. Così il 5 luglio dell'80 si giocò la finale. Tutti ricordano l'eccitazione: non era solo tennis, era qualcosa di più profondo. Nelson Mandela riuscì a convincere le sue guardie a Robben Island a procurargli una radio in modo da poter ascoltare la cronaca, Andy Warhol si alzò presto nella casa di sua madre, sulla 66esima, per non perdersi la diretta.[5]
  • Con tutto il rispetto Pietro, meglio tu. La tua schiena piegata, le tue gambe storte, la tua stoffa ruvida. E quelle mani che litigavano con il traguardo, quasi a volerlo raddrizzare. Meglio quella tua curva affamata che sbucava nella felicità. Per noi sarà sempre perfetta così.[6]
  • C'è chi di notte con il sacco a pelo ha dormito in piazza. Vengono a vedere il tormento di un popolo che si vuole bene, senza poter andare d'accordo. E per chi viene dal nord, da città e case ovattate, al riparo dai fulmini, dai temporali e dal sangue che scorre troppo velocemente in vena, il Palio sembra non togliere mai il piede dall'acceleratore, con tutta la sua disperazione, il suo indispensabile sollievo. Mentre in altre parti i giovani si ribellano ai genitori e a una soffocante tradizione, qui per i giorni del Palio la gioventù torna a casa e cerca di non mancare. I tempi cambiano, ma le piccole patrie restano. Un peccato che non invecchia. Al riparo dagli anni, dalla storia e dalla contestazione i peccati di Siena e del suo Palio sembravano non invecchiare mai. Troppo veniali per essere presi sul serio.[7]
  • Con i suoi mille metri di percorso, con curve che richiedono torsioni particolari il Palio per i cavalli è un'ammazzata. Calcolando anche che possono girare a quarantotto chilometri orari. Nel galappo ad esempio c'è un momento in cui la bestia tocca con un anteriore solo: la pressione è spaventosa. La prima cosa a rompersi è il nodello, che corrisponde alla nostra prima falange, la seconda è lo stinco, la terza è lo scheletro, che se ne va per conto suo. Finora nessuno si è preoccupato di creare un cavallo da Palio, morfologicamente adatto a sopportare le tremende pene della piazza.
  • [Su Andre Agassi] Era il David Bowie della racchetta. Capellone e diverso. Si truccava, si smaltava le unghie, giocava con i pantaloncini jeans, scartati da McEnroe e anche senza mutande (a Parigi). Ora con "Open", in Italia, è il caso letterario dell'anno: 130 mila copie vendute (50 mila negli ultimi tre mesi). Aveva la ribattuta più veloce del mondo, ora vince con un'onda lunga e lenta, ma sempre implacabile. Un long-seller, visto che negli Usa l'autobiografia è uscita tre anni fa. Non facevi in tempo a servire, che già ti aggrediva da fondo campo, ora invece ti conquista in 493 pagine, insomma ce ne mette, non ha più fretta.E in un anno è salito in cima. Era il kid di Las Vegas: pazzo, scatenato, eccessivo. Un vandalo, con la racchetta e senza. Sfasciava certezze, veloce come una pallina della roulette. Ciuffo rosa da moicano e orecchino.[8]
  • [Sulla finale di Wimbledon 1980 Borg - McEnroe] Fino a quel momento il tennis era stato un gioco: obbedienza, tradizione, aristocrazia. Roba seria, da adulti, protestare non era elegante. Borg era imperturbabile, Buster Keaton con la racchetta. Ci teneva alle abitudini. Alloggiava sempre allo stesso albergo, ogni sera regolava il condizionatore su 12 gradi, dormiva nudo e senza lenzuola. Le sue pulsazioni al risveglio non superavano mai i 50 battiti al minuto. Credeva che un qualsiasi cambiamento avrebbe alterato il suo equilibrio. Anche il borsone veniva preparato con maniacalità: le magliette, la fascia per capelli, i calzini.[5]
  • Forse furono i suoi occhi un po' strabici, forse fu colpa dei suoi lunghi capelli biondi: ma il passo da ragazzo a mito fu breve. [...] Era diventato cittadino del mondo, aveva abbandonato per questione di tasse la Svezia nel '75 e si era stabilito a Montecarlo. Era diventato il padrone del tennis mondiale. Aveva inventato e vinto con uno stile inedito: il rovescio a due mani. Aveva rivoluzionato tutte le regole del gioco, erigendo tra sé e l'avversario una linea Maginot. Borg non sbagliava mai, Borg ribatteva tutte le palle, Borg restava ore sul campo piuttosto che uscirne vinto, Borg usava fino alla noia e fino all'usura la rotazione chiamata top spin. Uccise tutti i pronostici.[2]
  • Ha corso in velocità anche l'ultima curva. Ha lottato e sofferto in silenzio. Era orgoglioso, non chiedeva sconti, e ha nascosto a tutti la sua malattia Pietro Paolo Mennea correva storto, ma sapeva stare dritto. E far volare come Modugno togliendo il respiro.[6]
  • I Beatles prima di finire consumati da se stessi sono durati dieci anni, Borg otto, McEnroe anche lui otto (ma da quest'anno ha iniziato a cigolare). E nessuno di loro aveva conosciuto la gloria a diciassette anni. Se lo chiedevano ieri parecchie persone vedendo Becker [...]. Per la Puma che lo sponsorizza, scarpe e racchette, dandogli mezzo miliardo, sono domande da non farsi. "Lo abbiamo sotto contratto fino all'87. Abbiamo anche Maradona. Ma per ora non c'è lotta: guadagna di più e ci rende di più Becker". Ma questo giovane Frankeinstein costruito da Tiriac e da Bosch è cresciuto sul campo che il padre architetto gli aveva costruito dietro casa ha anche dei momenti in cui si svuota o in cui la carica gli viene a mancare. Soprattutto se costretto a giocare in doppio lui che soffre le interruzioni, i momenti senza sprint, nessun da incalzare palla dopo palla.[9]
  • I duecento metri mondiali di Mennea per noi sono stati rabbia e poesia, talento e geometria, insofferenza e razionalità. E la sua maniera di correrli ci ha sempre fatti restare appesi al finale, meglio di un film giallo: ce la farà o sarà preso prima del traguardo? E lui lì ad arrancare, almeno così sembrava, e invece ecco che lui spuntava dalla curva, ecco che quando lo davano per finito lui cominciava a mangiare i metri e lì veramente cominciavano a scoppiare i cuori, anche quelli più introversi. E lui che finalmente aveva combattuto e vinto il mostro interno che lo azzannava alzava il dito. Non come il padrone che reclama una sua proprietà, ma come uno schiavo che si libera delle catene e mostra orgoglioso il frutto della sua liberazione. Non era un'Italia atletica quella di Mennea: jogging, esercizio fisico, palestra non andavano ancora di moda. E non era un'Italia mentalmente attrezzata ad affrontare alla pari gli avversari. Con Mennea qualcosa cambiò: il suo record dimostrò che non eravamo solo un paese pieno di talenti, spesso incompiuti, ma che avevamo anche la scienza e l'applicazione per costruire un primato che sarebbe durato quasi vent'anni. Lo sprint non era più Little Italy. In questo Mennea è stato e continua ancor oggi ad essere la nostra diversità. Ci ha fatti correre, soffrire, vincere. E soprattutto vivere controvento la nostra fragilità.[10]
  • Il Palio è come molte fiabe: meglio non trovarsele mai contro.[11]
  • Il Palio è in fondo una corsa di cavalli, ma molto in fondo.
  • [...] il Palio è religione e bestemmia.[11]
  • [Sul Palio di Siena] Il resto è un orgasmo da un minuto e mezzo che dura ed è preparato da una vita. Un sentir troppo caldo sotto le coperte.[12]
  • [Sul Palio di Siena] Il resto è una serie di immagini che non sembrano aver nesso tra loro, ordinate in rapida sequenza, come i passaggi improvvisi delle scene in un film. La luce del sole è ancora forte. Una fanfara di trombe e di tamburi che fa sporgere la gente avanti avidamente. Sessantamila persone. [...] Il suono del campanone, ossessivo, un suono cupo, lugubre, da quando un fulmine ne ha modificato il timbro. [...] Il resto è l'animale che striscia la testa per terra quasi rovesciandola, emettendo un gemito pietoso che pare di vedere uscire dalla bocca, i denti digrignanti; ed è come accorgersi all'improvviso che anche le bestie possano esprimere tensione, sofferenza, voglia di libertà in un palio fatto da loro ma non per loro. [...] Il resto sono le finestre di una stessa casa che ti indicano: se nasci a destra sei di una contrada, se a sinistra di un'altra. I vestiti da mezzo quintale [...]; le stanze che ti vengono aperte quando il sole si è abbassato e ricche di asgalani, bandiere ricamate a mano e una storia che non è cresciuta nei musei ma a Piazza del Campo, una conchiglia di nove spicchi a ricordo del governo dei Noverchi. Il resto è la storia con la maiuscola che si incrocia con la minuscola: le banche, gli uffici che avanzano e occupano il centro, il popolo che se ne va, costretto, fuori le mure, ma dentro di sé porta la vecchia contrada.[12]
  • Il suo corpo diventò un investimento per 60 prodotti industriali. Il nome Borg faceva vendere racchette, scarpe, maglie, cereali, occhiali da sole, lozioni abbronzanti, blue-jeans, liquori, radio, registratori, macchine da cucire.[2]
  • La vita un po' fa sempre male. Borg l'ha incontrata tardi, verso i ventisette anni. Solo allora si è accorto che il mondo non era più riducibile a quel rettangolo che per tanto tempo gli aveva fatto da casa. Fino a quel momento un omone con gli occhi azzurri, Lennart Bergelin, aveva fatto da paraurti tra il giovane Bjorn e l'esistenza.[2]
  • [Su John McEnroe] Le sue partite erano assoli di jazz, musica sconsacrata.[5]
  • [Sulla rivalità Borg-McEnroe] Lo svedese era ordinato, dentro e fuori. McEnroe era l'opposto: incapace di far tacere le voci nella sua testa. Forse Borg meditava prima di colpire la palla, McEnroe invece pensava mentre la colpiva.[5]
  • Mennea ci ha divisi, come Coppi e Bartali, si è fatto odiare per le sue polemiche, per le sue contorsioni mentali, perché non ci voleva apatici e indifferenti, ma anzi ci voleva sentire schierati sulla sua pelle. Mennea non è stato il campione freddo che produce record per gli sponsor e per l'audience, ma l'uomo che per vincere ha bisogno di tutti, che è eternamente in lotta con la vita, con il grande nemico. Mennea non capiva come il suo grande avversario Borzov potesse sorridere ai blocchi di partenza. Come fa a essere così sereno?, chiedeva. Per lui davanti c'era solo la sofferenza, la smorfia di fatica, il lavoro atavico per uscire dal buio della caverna.[10]
  • [Su Pietro Mennea] Non si era mai visto un ragazzo del sud sfrecciare così veloce, uno che dietro non aveva né piste, né tradizione, ma solo tanta fame. Gliela leggevi in faccia: era magro, tirato, con la smorfia di chi patisce una condanna. Ruvido, sempre in salita, a lottare contro il destino. Conosceva la misura della fatica. Un fisico normale, non un superuomo.[6]
  • [Su Pietro Mennea] Per noi resterà sempre quel bianco sgraziato, ingobbito dalla fatica, che sembrava scivolare malamente fuori dalla curva e che un giorno ne riemerse rubando il tempo al mondo. [...] Per noi resterà sempre il piccolo italiano che ce la fece contro il mondo e che per diciassette anni, tanto è durato il suo record nei duecento, ci ha permesso di fare bella figura con gli altri. Gli altri avevano i belli, i felici, i vincenti. Quelli che arrivavano sul traguardo perché il destino aveva deciso così. Noi avevamo questo ragazzo del sud, di Barletta, mai amico di nessuno, mai in pace con se stesso, che per correre non aveva nemmeno una pista, che di sé parlava in terza persona come Cesare. Avevamo il "nero bianco", come lo definirono. Un atleta dai muscoli di seta, dalla volontà di ferro, e dalla rabbia feroce. In anni in cui il pianeta era dominato dai campioni scientifici dell'est, dagli afroamericani fisicamenti strepitosi, Mennea si mise in mezzo, si caricò l'Italia sulle spalle, anche borbottando, e lavorando come una bestia ci portò lassù, in cima alla velocità, perché tutti potessimo guardare la terra dall'alto in basso. Grazie a Mennea, correvamo.[10]
  • Pietro sfidò gli sprinter americani, li batté e ribatté, Little Italy non esisteva più. Loro erano magnifiche statue nate per correre, Pietro uno sgorbio con muscoli di seta.[6]
  • [Sul record del mondo sui 200 m di Pietro Mennea] Quel giorno l'Italia scoprì un altro Coppi. Veniva dal meridione, era magro, un po' storto, molto contorto. Figlio di un sarto. Suo padre tagliava abiti, lui si cucì l'atletica addosso. Corsei primi cento in 10" 34 e i secondi in 9" 38. Una progressione strepitosa: dai 100 ai 150 metri alla velocità di 40 chilometri orari. Quell'anno l'Italia capì che correre alla Mennea era una scienza. Il professor Vittori studiava la formula, Pietro Paolo la realizzava. Trent'anni dopo un record così neorealista, made in Italy, non sembra più possibile.[13]
  • Questo giovanotto, che subito dopo aver battuto gli avversari scodinzola alla ricerca di una carezza da parte del suo allenatore Bosch, può essere a volte goffo, ma sul campo suda e si muove con un senso dello spazio scenico che hanno solo i grandi lottatori ed i grandi attori. Non diverte, ma esalta. Ed è inutile chiedersi quanto durerà. Becker è già durato.[14]
  • Strano paese la Svezia: dove le estati assomigliano a dei pallidi inverni [...]. Davvero strano paese: noto agli inizi degli anni Sessanta per avere in Europa il più alto tasso di suicidi, le galere più libertarie e la sessualità meno depravata e adesso notissimo per avere una squadra di tennisti robusta.[14]
  • Un Peter Pan con la racchetta. Ogni volta che giocava a Wimbledon, la Bbc imbavagliava i microfoni di campo, come i vittoriani coprivano le gambe dei pianoforti. Tom Hulce per la parte di Mozart nel film Amadeus di Forman confessò di essersi inspirato a McEnroe. Sir Ian McKellen nel provare Coriolano per la Royal Shakespeare Company usò McEnroe come modello per il capo ribelle. Un monello imbronciato e lentigginoso, uno in cui si rispecchiava la nuova società. Rispettare le convenzioni non era più un obbligo.[5]
  • Wimbledon era il tempio, dove ancora si distingueva tra gentiluomini e giocatori.[5]

Note modifica

  1. Da Baggio, il campione diverso rimasto tra noi con la sua assenza, Repubblica.it, 13 febbraio 2017.
  2. a b c d Da Passioni, successi e tristezze dell'imperatore del tennis, 8 febbraio 1989.
  3. Da Gianni Mura il nostro caro campione, 22 marzo 2020, pp. 30-31.
  4. Da Edberg vince in Australia e la Svezia cambia faccia, 10 dicembre 1985.
  5. a b c d e f Da La sfida di McEnroe il tennis ribelle degli anni Ottanta, 13 novembre 2005.
  6. a b c d Da Il monaco della velocità, 22 marzo 2013.
  7. Da Ha vinto Benito il solitario, 17 agosto 1989, p. 17.
  8. Da La racchetta dello scrittore/1 - Agassi: "Vi racconto la mia vita di campione fragile", 28 settembre 2012.
  9. Da Becker non vale ancora per due, 22 dicembre 1985.
  10. a b c Da Mennea. Il campione controvento, 8 dicembre 1999.
  11. a b Da Fiabe, segreti e vittorie. Tutti i segreti del palio, 15 agosto 1991, p. 20.
  12. a b Da L'Onda travolge il sogno di record del grande Aceto, 17 agosto 1985, p. 32.
  13. Da Magia Mennea, quando Bolt era un bianco, 8 settembre 2009.
  14. a b Da La squadra in biondo, 24 dicembre 1985.

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