Anna Zafesova

giornalista russa

Anna Zafesova (1969 – vivente), giornalista russa.

Citazioni

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  • [Sulla prima guerra cecena] Con questa guerra Boris Eltsin sperava forse di risolvere molti problemi. Ma pare che ne ricaverà di ben peggiori. Ieri un sondaggio d'opinione ha rivelato che il presidente è ora preceduto nella classifica della popolarità da Javlinskij e dal duce Zhirinovskij. E il 65% dei russi è contro la guerra.[1]

La Stampa, 12 luglio 1994

  • Durante la campagna elettorale Kuchma aveva ripetuto che l'Ucraina dovrebbe «rinunciare all'autoisolamento e ripristinare tutti i legami con la Russia» e che non si poteva «costruire l'indipendenza sulla base degli umori antirussi». L'ex premier, che parla a fatica l'ucraino, ha promesso di dare al russo lo status di lingua ufficiale.
  • Se Kravciuk aveva fatto tutto per far dimenticare il suo passato comunista, il 56enne Kuchma non nasconde di avere alle spalle una gloriosa carriera sovietica.
  • Il suo programma economico, che gli ha portato anche numerosi voti comunisti, parla di riforme di mercato moderate con forti privilegi al settore statale. È contrario alla compravendita della terra e vorrebbe mantenere una conquista del socialismo come la sanità e l'istruzione gratis.
  • [Su Aljaksandr Lukašėnka] Definito lo «Zhirinkovskij bielorusso» per il populismo e la stravagante campagna elettorale (aveva inscennato un attentato contro se stesso) Lukascenko ha trionfato grazie alle sue rivelazioni sulla corruzione dei vertici di Minsk. Il suo programma: gestione statale dell'economia e no alla privatizzazione. Come Kuchma dichiara che la priorità della sua politica sarà l'amicizia con la Russia. Ma la sua imprevedibilità potrebbe creare problemi al Cremlino.
  • [Su Sergej Adamovič Kovalëv] [...] seguace negli anni del comunismo dell'accademico Sakharov, era stato incarcerato per 10 anni nel Gulag per «propaganda antisovietica», perché voleva portare in Russia la democrazia. Ora ritorna al dissenso, dopo essere stato il primo a denunciare senza pietà l'orrore della guerra in Cecenia. Ha passato un mese a Grozny, sotto le bombe dell'aviazione russa, a chiedere di cessare il fuoco, di cominciare a trattare con i ribelli, a raccontare a tutto il mondo la morte di donne e bambini in quella che il Cremlino si ostinava a definire come «affare interno della Russia» e «operazione contro le formazioni di banditi».[2]
  • Per la missione cecena i democratici russi hanno incoronato Kovaliov «coscienza della Russia» e l'hanno candidato al premio Nobel per la pace. Il ministro della Difesa russo Graciov invece l'ha definito «nemico del Paese».[2]

Sul massacro di Samaški, La Stampa, 18 aprile 1995

  • Fino a qualche giorno fa Samashki, un piccolo villaggio ceceno vicino a Grozny, non si trovava nemmeno sulle mappe più dettagliate. Ma oggi, dopo un'operazione militare delle truppe russe, Samashki è diventato un nome che passerà alla storia, come My Lai nel Vietnam: 250 morti, 180 dispersi e decine di feriti e di profughi, tutti o quasi tutti civili.
  • Il comando russo ha impedito l'accesso al villaggio non solo ai giornalisti e ai deputati della Duma, ma perfino ai medici e alla Croce Rossa. Solo due giorni fa la tv russa è riuscita a trasmettere alcune immagini della strage: case bruciate o ridotte in rovina, cadaveri mutilati, con il cranio spaccato o il ventre squarciato, buttati nel fango accanto ai corpi delle capre e delle mucche dei contadini. Pare che la furia omicida degli attaccanti fosse tale da non aver risparmiato neppure le bestie.
  • Il comando russo aveva posto agli anziani del villaggio un ultimatum: consegnare le armi e arrendersi, un'ora e mezzo per riflettere. Ora i sopravvissuti dicono che nel villaggio non c'erano guerriglieri ceceni e nemmeno armi. Ma i comandanti russi non hanno neppure aspettato la scadenza che loro stessi avevano fissato e dopo un'ora Samashki è diventato un inferno di fuoco.
  • Ravid, 53 anni, ricoverata ora in ospedale con il corpo e la faccia trafitti da schegge, racconta che i militari aprivano le porte delle cantine, dove gli abitanti si erano rifugiati dalle bombe, e gettavano dentro delle granate. Dopo aver fatto così il giro del villaggio, hanno costretto i superstiti a uscire dai rifugi. «Portavano via gli uomini», racconta Ravid, «oppure li fucilavano sul posto. Mia figlia piangendo ha chiesto di non uccidere suo padre. Ma i soldati hanno riso, l'hanno cosparso di benzina e trasformato in una torcia sotto i nostri occhi».
  • Le donne cecene, fuggite dal villaggio che non esiste più, raccontano che i soldati russi erano quasi tutti ubriachi. Ma ci sono testimonianze ancora più inquietanti: i soldati sarebbero stati affiancati da uomini in borghese, mascherati, ancora più spietati dei militari, che avrebbero lasciato nel loro accampamento un'enorme quantità di siringhe usate. Qualcuno parla di mercenari reclutati tra i delinquenti, altri di reduci da un'altra guerra spietata, l'Afghanistan.
  • [Sulla crisi degli ostaggi in Kizljar-Pervomajskoje] La parte svolta da Mosca in questa drammatica storia si fa sempre più misteriosa. A Pervomajskaja a trattare con i terroristi non è arrivato nessun responsabile federale con poteri sufficienti a prendere decisioni importanti. Tutta la responsabilità per la vita e la morte degli ostaggi grava sui dirigenti locali del Daghestan, che però non possono parlare a nome dei militari russi e dare garanzie sufficienti a Raduev.[3]
  • [Sulla crisi degli ostaggi in Kizljar-Pervomajskoje] Oltre al prezzo delle vite umane ci sarà da pagare anche il prezzo politico: manifestazioni in tutto il Daghestan, chiedendo di rinunciare all'assalto per salvare gli ostaggi, tra i quali ci sono numerosi daghestani. Se moriranno nella battaglia il Cremlino potrebbe farsi un altro nemico nel Caucaso.[4]
  • [Sulla crisi degli ostaggi in Kizljar-Pervomajskoje] Si è scoperto [...] che l'uso dei missili multipli «Grad», che hanno raso al suolo il villaggio, serviva soprattutto a «scopo psicologico» In questo modo, ha spiegato orgogliosamente Barsukov tra le risa dei giornalisti, i ceceni «avrebbero saputo che avevamo a disposizione armi potenti».[5]
  • [Sulla crisi degli ostaggi in Kizljar-Pervomajskoje] Kulikov ha difeso la scelta di usare la forza con il pretesto che i ceceni avevano cominciato a fucilare gli ostaggi. Ma alla domanda quanti ne sono stati fucilati e da chi, ha risposto che le esecuzioni «non hanno trovato conferma».[5]
  • [Sulla crisi degli ostaggi in Kizljar-Pervomajskoje] Gli ostaggi [...] avevano già capito che per i russi sterminare i guerriglieri era più importante che salvare loro e hanno preferito seguire i ceceni. Ma non sono complici dei terroristi, come aveva insinuato sabato il generale Barsukov, comandante dell'operazione, parlando di presunti ostaggi che avrebbero seguito Raduev «con entusiasmo».[6]
  • [Su Aleksandr Koržakov] Ha conosciuto Eltsin, all'epoca membro del Politburo del pcus, nel 1985, quando è diventato capo della sua sicurezza e da allora ha legato inestricabilmente il suo destino a lui. Guardia del corpo, amico, infermiere, partner a tennis, consigliere, Korzhakov ha esteso la sua influenza sul proprio capo al punto da trasformarsi da un potere occulto in un uomo politico pubblico che commentava e decideva problemi chiave della Russia.[7]
  • [Su Aleksandr Koržakov] Era diventato una potenza che incuteva terrore. Qualunque alto dirigente, dal direttore della tv al ministro dell'Agricoltura, doveva, prima di essere nominato da Eltsin, passare nell'ufficio di Korzhakov.[7]
  • [Su Michail Barsukov e la crisi degli ostaggi in Kizljar-Pervomajskoje] In quell'occasione Barsukov, nominato solo di recente capo dell'Fsb - servizio federale di sicurezza, l'ex Kgb - aveva spiegato che non c'erano più ostaggi vivi e che quindi i terroristi andavano distrutti. Pervomajskoe è stato raso al suolo, la maggioranza dei ceceni è riuscita a fuggire e circa la metà degli ostaggi è perita sotto i missili russi.[8]
  • [Su Michail Barsukov] Era stato proprio lui a guidare nell'ottobre del '93 il bombardamento della Casa Bianca, puntando una pistola alla tempia del comandante delle truppe speciali che si era rifiutato di assaltare il Parlamento ribelle. Eltsin lo aveva ricompensato come si deve: un appartamento, la nomina a generale dell'esercito, con tanto di stella d'oro tempestata di diamanti.[8]

Sulla crisi degli ostaggi in Kizljar-Pervomajskoje, La Stampa, 10 gennaio 1996

  • Tremila ostaggi è un'intera città in mano ai guerriglieri ceceni. Questo è stato per i russi il risveglio dalle festività natalizie. A sette mesi dalla tragedia di Budionnovsk, che aveva troncato 150 vite e scosso l'intero Paese, tutto si ripete nei dettagli in un'altra città russa, fino all'altro ieri sconosciuta.
  • In tarda mattinata finalmente il capo dei terroristi si è messo in contatto con le truppe russe: «Sono arrivati i "lupi"». Poi si è presentato: Salman Raduev, 28 anni, comandante del battaglione «Lupo solitario» noto per il suo fanatismo e la sua crudeltà, ex prefetto di Gudermes, e soprattutto genero del presidente ceceno Dzhokar Dudaev. Ha avanzato una sola richiesta: il ritiro immediato delle truppe russe dalla Cecenia e da tutto il Caucaso. In caso contrario Raduev ha promesso di uccidere uno a uno i 3 mila ostaggi in mano sua. E nel pomeriggio ha tenuto fede alla parola uccidendone due.
  • [...] stavolta sembra chiaro che Boris Eltsin non scenderà a trattare con i ribelli, come aveva fatto il premier Cernomyrdin all'epoca di Budionnovsk. A pochi mesi dalle elezioni il Presidente russo non può permettersi debolezze.
  • In effetti, è difficile spiegare come 400 uomini armati abbiano potuto superare decine di posti di blocco in una zona che pullula di truppe russe. [...] Lo spionaggio militare russo ha fatto una rivelazione inquietante: il 23 dicembre tutti gli organi competenti russi erano stati informati che i «lupi» stavano preparando l'assalto a Kizliar. Nessuno ha mosso un dito.

Su Džochar Dudaev, La Stampa, 11 gennaio 1996

  • Per i russi rimarrà sempre un mostro spietato. Per i ceceni, l'uomo che li ha condotti alla libertà.
  • Quelli che lo conoscono dicono che Dudaev è divorato da un'unica passione: l'ambizione di essere il numero uno, sempre. Per questo è diventato maestro di lotta libera e cintura nera di karate, ha fatto una carriera brillante diventando infine un presidente fuorilegge. E tale vuole rimanere a tutti i costi, quando ormai perfino i suoi fedeli ceceni preferirebbero sbarazzarsi del loro esuberante capo.
  • Dudaev è «inafferrabile» perché nessuno lo vuole catturare. Dietro alla sua ascesa ci sono troppi misteri che portano a Mosca, a cominciare da montagne di armi «regalate» a Dudaev dai russi in ritirata, fino alle esportazioni illegali di petrolio, impossibili senza i russi.

Sulla crisi degli ostaggi in Kizljar-Pervomajskoje, La Stampa, 12 gennaio 1996

  • È tuttora un mistero chi e perché abbia ordinato di bloccare il convoglio, gettando nuovo olio sul fuoco. Le trattative sono arrivate a un punto morto. I ceceni non si fidano più dei russi, i russi dei ceceni. Per giunta gli accordi raggiunti con i dirigenti del Daghestan, sul tragitto del convoglio e le garanzie di sicurezza, vengono subito smentite dal comando federale.
  • A un certo punto Raduev, esasperato, si è rifiutato di parlare con i negoziatori locali, pretendendo un contatto diretto con il premier russo Cernomyrdin, che aveva risolto con la cornetta in mano l'analoga crisi di Budionnovsk, 7 mesi fa. Ma Mosca ha detto di no.
  • Il comandante dei terroristi è apparso alla tv russa per dettare le sue condizioni: via libera per i suoi 250 uomini, scortati da giornalisti stranieri, da rappresentanti della Croce rossa e deputati della Duma. [...] Ma quello che appariva sullo schermo non era più un temibile guerrigliero che decide la vita e la morte di centinaia di persone, ma un uomo evidentemente spaventato.

Sulla crisi degli ostaggi in Kizljar-Pervomajskoje, La Stampa, 14 gennaio 1996

  • Secondo il complesso e rigido codice d'onore dei popoli caucasici, il capo dei terroristi con il suo raid nel territorio daghestano e il sequestro non solo dei comuni nemici russi, ma anche di caucasici, ha offeso un popolo imparentato con quello ceceno. Molti abitanti del Daghestan sostengono la causa dell'indipendenza cecena, ma non vogliono un massacro sulla propria terra.
  • Raduev aveva anche chiesto di sostituire gli ostaggi con alcuni politici, tra cui Javlinskij, Gaidar e il generale Alexandr Lebed, il quale ieri ha fatto una controproposta. Il generale, uno dei favoriti alle prossime presidenziali, vuole avere da Eltsin il comando di tutte le truppe concentrate attorno a Pervomajskaja e carta bianca per agire. In cambio promette di risolvere il problema. In altre parole, di fare Raduev a pezzi. Eltsin per ora non ha accettato i servigi del generale.
  • Raduev è in trappola e se ne rende conto. Anche se torna sano e salvo a casa, non lo aspetta una corona d'alloro. Ieri il comandante delle forze di Dudaev, Aslan Maskhadov, ha promesso che il comandante dei terroristi verrà processato secondo le leggi dell'Islam per la sua maldestra e tragica sortita.

Su Aleksandr Ivanovič Lebed', La Stampa, 14 giugno 1996

  • Squillano le trombe, rullano i tamburi, i cadetti della scuola Suvorov marciano sulla piazza. Alexandr Lebed, in alta uniforme, guarda soddisfatto questi ragazzi diciassettenni, magri, brufolosi, i baffi appena spuntati. E le mamme dei soldati bambini, acceccate dai gradi d'oro di generale che splendono al sole, spingono i figli: «Fatti una foto con lui e ricordati che da grande devi essere così».
  • [...] forse il più carismatico candidato alla presidenza russa.
  • Le stesse cose le diceva Eltsin nel '91, e ha vinto. Certo, parlava anche di democrazia. Ma i tempi sono cambiati e la ricetta di Lebed è un'altra, molto semplice: ordine, ordine, ordine. Una parola magica che in Russia può essere tutto, dittatura compresa. Per Lebed significa cacciare i burocrati corrotti, mettere dentro ladri e banditi e fissare delle regole del gioco rispettate da tutti.
  • A lui, militare di carriera che ha indossato l'uniforme dell'Armata Rossa a 18 anni e l'ha abbandonata solo ora, a 46, la parola «liberalismo» non dice niente.
  • Forte della sua esperienza di 30 anni in caserma, Lebed è convinto che tutto dipenda da un ordine, da come e chi lo dà. E la provincia, gli orfani di uno Stato padre che puniva, ma difendeva anche, lo accetta e lo acclama come la sua speranza.
  • [...] questo generale con la faccia da Schwarzenneger che sembra uscito da un film americano della guerra fredda non dimostra aggressività, ma un buon senso quasi casalingo condiviso dai suoi elettori.
  • Un generale pacifista e dal cuore tenero. Nel tempo libero gioca con i suoi bobtail e prima di dormire si immerge nel mondo allegro e spensierato di «La mia famiglia e altri animali» di Gerald Durrell.

Sulla crisi degli ostaggi in Kizljar-Pervomajskoje, La Stampa, 16 gennaio 1996

  • L'operazione militare - anzi, ormai si può parlare di distruzione - di Pervomajskoe è stata ordinata in nome loro, per la loro salvezza. Ma loro, gli ostaggi, non la volevano. Ormai temevano più i soldati che sarebbero venuti a liberarli, che i terroristi di Salman Raduev.
  • Sei giorni e sei notti a morire di paura e di freddo. Fame no, gli abitanti di Pervomajskoe avevano fatto le scorte per l'inverno e le cantine erano piene di ogni ben di Dio. Ma il freddo della steppa coperta dalla neve (nei giorni scorsi la temperatura si è mantenuta attorno ai 10 gradi sotto zero) era onnipresente. Le donne e i bambini - una ventina in tutto - trascorrevano la notte nella moschea locale, stesi per terra. Gli uomini invece dormivano nei pullman, con il vento che soffiava dai finestrini rotti, e le bombe dei terroristi sotto i sedili. I ceceni li tenevano pronti a funzionare come «scudi umani», facendoli scendere al minimo segno di pericolo.
  • Domenica sera, quando hanno capito che l'assalto era imminente, gli ostaggi si sono cinti la testa con foulard bianchi, per farsi riconoscere nel buio. Ma i terroristi hanno rinunciato allo «scudo umano» e hanno messo i loro prigionieri nei sotterranei delle case. Al sicuro dalle pallottole, ma non dalle bombe.

Sulle elezioni presidenziali in Russia del 1996, La Stampa, 24 gennaio 1996

  • Boris Eltsin comincia la sua campagna presidenziale con una nuova immagine, un nuovo stile ormai evidente. Una voltafaccia clamoroso da presidente democratico a «falco» nazional-patriottico che si sta consumando sullo sfondo della tragedia di Pervomajskaja, forse la più grave e drammatica sconfitta di Eltsin. E dopo l'esordio del Presidente in questo inedito ruolo, i suoi ultimi sostenitori liberali rompono con lui, lasciandolo senza sostegno.
  • Il cambio di rotta sembra ormai compiuto: la campagna elettorale di Eltsin si baserà, come ha detto Egor Gaidar, su slogan «nazional-imperiali». E sulla ricerca di un accordo con i comunisti.
  • [...] per gli ex alleati Eltsin ormai è uguale a Ziuganov e Zhirinovskij. E quest'ultimo paradossalmente è l'unico che applaude la nuova linea del Presidente. «Se va avanti così non potremo più criticarlo», ha commentato ieri. E c'è già qualcuno che sospetta che Zhirinovskij in realtà stia giocando in coppia con il Cremlino e che all'ultimo momento ritirerà la sua candidatura invitando i suoi elettori a votare per Eltsin.
  • [Sulla seconda guerra cecena] Una follia, dicono quelli che hanno già combattuto in Cecenia nel '94-96. Le truppe russe non sono riuscite ad avere la meglio in una guerra che per i ceceni era una battaglia per l'indipendenza e che ha coinvolto tutto il popolo. Difficile che oggi qualcosa sia cambiato, sia in Cecenia che nell'esercito russo: c'è voluto un mese, 7 mila uomini delle truppe scelte e numerose perdite per cacciare 2000 guerriglieri islamici dal Daghestan, due settimane fa.[9]
  • [Sulla seconda guerra cecena] Per il momento il comando russo sembra dare la preferenza alla «soluzione jugoslava»: da 20 giorni la Cecenia viene bombardata metodicamente e i missili russi puntano non solo sui guerriglieri, ma anche e soprattutto sulle infrastrutture della repubblica.[9]
  • [Sulla battaglia di Groznyj] Grozny ha le ore contate. I militari russi hanno deciso che la capitale cecena deve arrendersi o morire e hanno posto agli abitanti un ultimatum: lasciare la città entro sabato prossimo oppure contare solo sulla sorte.[10]
  • [Sulla seconda guerra cecena] I generali russi spiegano che [le bombe incendiarie] vengono usate in regioni poco popolate contro presunte basi dei terroristi. Ma esperti militari parlano già di una violazione dei trattati internazionali: l'uso delle bombe incendiarie è vietato nelle zone abitate da civili.[11]
  • [Sull'incidente del K-141 Kursk] Sembra un film e invece è un dramma che si sta consumando in queste ore nelle gelide acque del Mare di Barents. Un incidente gravissimo, il più serio degli ultimi anni, e ancora avvolto nel più fitto mistero. [...] Cosa sia accaduto, di preciso non si sa. Dall'andamento dell'incidente si può solo dedurre, dicono gli esperti, che si è trattato di qualcosa di talmente improvviso che l'equipaggio non ha fatto in tempo nemmeno a segnalare l'emergenza al comando.[12]
  • [Sull'incidente del K-141 Kursk] Qualcuno spera che l'annuncio che tutto è finito sia un'altra bugia del comando: già venerdì circolavano voci che le autorità avrebbero dichiarato l'equipaggio morto sabato, giorno dell'arrivo dei soccorritori occidentali, per non farli avvicinare al sottomarino.[13]
  • [Sulla battaglia di Groznyj] «Ricostuire Grozny oggi è impossibile». Questo è il verdetto del rappresentante plenipotenziario di Mosca in Cecenia, Nikolaj Koshman, per la capitale appena «liberata» dalle truppe russe. Un primo soppraluogo ha dimostrato che la città è praticamente un «cumulo di rovine» e si farebbe prima a radere al suolo quel poco che è rimasto in piedi e ricostruirla da zero, piuttosto che restaurarlo. Ma il governo russo - che non ha badato a spese per distruggere Grozny - oggi non ha i soldi per ricostruirla, e Koshman ritiene questa operazione «inopportuna».[14]
  • [Sulla battaglia di Groznyj] Dalle macerie della città condannata alla morte [...] cominciano a riemergere i suoi abitanti, quelle decine di migliaia di disperati che hanno trascorso gli ultimi quattro mesi nei rifugi cercando di mettersi in salvo dagli incessanti bombardamenti. Molti non sono sopravvissuti: i soldati russi che stanno rastrellando la città hanno tirato fuori dai sotterranei numerosi cadaveri: morti di stenti o di ferite.[14]
  • Kuchma, impacciato ex direttore della fabbrica che produceva i temibili missili SS-20, si è guadagnato il potere nuotando come un pesce nelle acque torbide degli intrighi della nomenclatura postsovietica e dei clan mafiosi. È ucraino che ha dovuto imparare la sua lingua per governare un paese nella ricerca di un'identità, dopo aver reciso il cordone ombelicale che lo legava da tecento anni a Mosca. La Russia ancora non riesce a credere di aver perso l'Ucraina, e Kuchma ha abilmente giocato su due tavoli, chiedendo all'Ovest l'adesione alla Nato, e lusingando le frustrazioni panslaviste del Cremlino.[15]
  • [Sull'incidente del K-141 Kursk] Dopo l'esplosione che ha devastato la prua del vascello facendolo precipitare sul fondo, si è sviluppato un incendio che ha divorato l'aria respirabile ancora prima dell'acqua che stava invadendo lo scafo. Otto ore di agonia: è il massimo che gli esperti russi concedono a quelli dei 118 uomini del Kursk che non sono morti subito. Otto ore in cui l'equipaggio ha lottato.[16]
  • [Sull'incidente del K-141 Kursk] Gli uomini del Kursk venivano da quella Russia rurale dove mandare il figlio a fare il militare è ancora un sogno e non una maledizione. I loro sono funerali di campagna, dove la scorta d'onore mandata dal comando inciampa nel fango di strade che non hanno conosciuto l'asfalto e non riesce a marciare a passo d'oca in piccoli cimiteri in mezzo ai campi.[16]

Sull'incidente del K-141 Kursk, La Stampa, 28 ottobre 2001

  • In un groviglio gigantesco ed inestricabile di rottami si riconosce a fatica quella che era l'ammiraglia della marina russa e oggi è il sarcofago più costoso della storia: il Kursk, ritornato dal mare per raccontare il segreto della morte di 118 marinai.
  • Nessun soccorso sarebbe servito, dicono le immagini della devastazione arrivate ieri sui teleschermi russi. Centotrentacinque secondi tra la prima esplosione, qualla che ha fatto perdere la rotta al Kursk, e la seconda, che ha staccatto quasi di netto la prua: non sarebbero bastati per scappare, la metà dell'equipaggio è stata disintegrata in due minuti. I sopravvissuti sono invece morti di asfissia.
  • Il mistero della morte del Kursk, riemerso e prosciugato dall'acqua, rimane. Sui suoi fianchi neri chiazzati di grigio si vedono fori e graffi, ma sono pochi per spiegare il disastro. Lo scafo, a parte lo squarcio della prua, appare in buone condizioni: lo stemma russo sul ponte di osservazione – intero, rotti solo i vetri degli oblò – è ancora di un rosso vivido, con le insegne dorate nitide.

Su Aleksandr Ivanovič Lebed', La Stampa, 29 aprile 2002

  • Il parà che era entrato al Cremlino facendo innamorare di sé mezza Russia, e che era apparso da protagonista nelle vicende cruciali del decennio eltsiniano, aveva molti elettori, ma ben pochi amici.
  • Sembrava un Eltsin dei tempi migliori e corretto: un vero «muzhik» russo, brusco e forte, che dice pane al pane, un figlio del popolo che non ha paura dei potenti, con la mano e la battuta pesante. Con il nasio rotto in una rissa, i modi brutali («Vi spezzerò la spina dorsale», aveva promesso ai suoi oppositori a Krasnojarsk), un'espressione perennemente minacciosa sulla tonda faccia da contadino e un sorriso raro ma improvvisamente timido, per i politologi era un rozzo figlio della caserma, per i liberali un «Pinochet russo», per il popolino «uno dei nostri», facile alla rabbia, ma con una personale idea di giustizia. Nonostante l'immagine del cattivo, paradossalmente, questo generale che si era guadagnato le mostrine in Afghanistan, nel corpo più rude e fiero dell'ex Armata Rossa, i paracadutisti, cercava la pace.
  • Patriota ma non nazionalista, militare ma pacifista, con una reputazione immacolata, un eroe che parlava la lingua della gente semplice e che due giorni dopo il primo turno delle elezioni si era ritrovato al Cremlino: segretario del Consiglio di sicurezza, consigliere presidenziale, presidente della commissione di nomina degli alti gradi dell'esercito, in cambio di 15 milioni di voti da regalare a Eltsin.

Su Achmat Kadyrov, La Stampa, 7 luglio 2003

  • Corpulento, con la voce roca da fumatore incallito, in testa il colbacchino di astrakhan grigio che non si toglie quasi mai, come un simbolo della sua autorità religiosa e gerarchica, Akhmat Kadyrov si sente pronto per estirpare il terrorismo radicale nella sua repubblica, ma è un kamikaze anche lui.
  • Quasi tutti gli attacchi suicidi degli ultimi mesi hanno come bersaglio questo cinquantenne con modi da padrone. Il muftì sa di essere in pericolo e si nasconde a Mosca, dove trascorre più tempo che in patria, mentre a Grozny si ripara in una casa fortificata e si circonda di guardie del corpo.
  • Nella prima guerra cecena Kadyrov, muftì di Gudermes, era uno dei leader più irriducibili del separatismo, che aveva proclamato la Jihad contro i soldati russi. La sua sorprendente «svolta a U» nella seconda guerra non sembra una folgorazione, ma piuttosto un calcolo: la guerriglia nazionalista della prim'ora veniva sostituita da fondamentalisti finanziati da centri di estremismo internazionali.
  • La sua gestione della Cecenia – dove di fatto governa già come presidente, per ora nominato da Mosca – viene vista dai connazionali come un regime di corruzione e nepotismo basato sui kalashnikov russi.
  • Kadyrov jr. è [...] uno dei personaggi più odiati della Cecenia: commandante di una milizia privata di 4000 uomini che faceva paura alla popolazione civile quasi quanto i soldati russi, si dice che avesse un carcere personale dove rinchiudeva e torturava gli oppositori di suo padre.[17]

Su Educazione siberiana di Nicolai Lilin, Ilgiornale.it, 12 maggio 2009

  • Diciamo che l'infanzia che lui racconta, in un contesto di povertà ed emarginazione, è anche credibile. Così come è probabile che conducesse allo sbocco naturale della prigione. Anche una certa realtà di bande giovanili è possibile. È la parte sulla mafia che non convince. [...] Rappresentanti della mafia russa ne ho conosciuti. Chi è un killer non va certo a raccontarlo in giro.
  • Che cosa vuol dire siberiana? Tutto e niente. Ha visto sull'atlante quanto è grande la Siberia? E poi non esiste un'etnia siberiana, ma solo delle minoranze autoctone che con questo libro non c'entrano niente.
  • La parola "urca", già usata nel linguaggio carcerario e non solo, e che si trova per esempio anche in Solgenitsin, è un sostantivo che definisce i forzati o meglio i criminali professionisti. Oggi non è più un termine molto usato.

Su Educazione siberiana di Nicolai Lilin, La Stampa, 23 giugno 2009

  • Secondo Lilin, gli Urca sarebbero una minoranza etnica «discendente degli antichi Efei» che viveva di caccia e rapina e che dalla Siberia venne deportata in Transnistria negli anni '30, quando era parte della Romania (sarebbe stata annessa all'Urss nel 1940, nella spartizione dell'Europa tra Stalin e Hitler). Così i comunisti avrebbero popolato «l'impero romeno», come lo chiama lo scrittore, di criminali russi sconfiggendo le cosche locali. «Assurdo», ride Pavel Polian, storico russo che da 25 anni studia le deportazioni di comunismo e nazismo: «Si deportava in Siberia, ma non dalla Siberia, meno che mai in Moldova. E gli Efei non sono mai esistiti».
  • Secondo Lilin l'esistenza stessa degli Urca era un segreto del regime. Una comunità quasi estinta, che aveva lasciato un segno profondo, vincendo da sola la guerra del 1992, quando la Moldova in preda a bollenti spiriti postsovietici ha invaso la provincia separatista. In Educazione siberiana si narra del trionfo dei «siberiani», riusciti a far esplodere uno dei due cinema di Bendery pieno di militari. Marian Bozhesku, ricercatore ucraino autore di Transnistria 1989-1992, lo studio più esaustivo sul conflitto, dice di non averne mai sentito parlare. «Per noi il ricordo della guerra è ancora vivissimo, abbiamo combattuto disperatamente, dire che sono stati i criminali a vincerla è ridicolo», s'indigna Denis Poronok, che ha la stessa età di Lilin, 31 anni, e contesta la «versione di Nicolai»: «Il cinema esploso è una fiaba, e nel '92 a Bendery c'erano quattro sale, non due».
  • Bendery è una città piccola, 80 mila abitanti dove tutti si conoscono. Conoscono anche Nicolai (anche se all'epoca portava un altro cognome), si ricordano i suoi genitori e il nonno Boris, «grande persona, ha lavorato fino all'ultimo», dice un coetaneo dello scrittore. Si frequentavano quando erano ventenni, è stato anche a casa sua: «Non c'erano icone, né armi, nessun oggetto "siberiano". Lui era uno curioso, leggeva molto». Nulla di criminale? «Mai sentito che fosse stato in galera, anzi si diceva che a un certo punto si fosse arruolato nella polizia».

Su Anna Stepanovna Politkovskaja, It.gariwo.net, 5 ottobre 2012

  • I quattro spari nell'ascensore del numero 8 di via Lesnaya hanno avuto un'eco molto più forte in Europa e nel resto del mondo, mentre in Russia il sesto anniversario dell'omicidio è stato segnato più modestamente dall'autorizzazione, da parte del comune di Mosca, di installare sulla sede della redazione della Novaya Gazeta una lapide in memoria di Anna.
  • Il nome di Politkovskaya in patria rimane largamente sconosciuto. In Europa la sua sorte, e quella dei suoi colleghi, è una delle prime domande che vengono rivolte a chi parla di Russia. Sembrava quasi che avesse ragione Vladimir Putin che, nel commentare la sua morte senza nemmeno esprimere il minimo di cordoglio richiesto dall'educazione, diceva che era "una sconosciuta", in un mondo dove i lettori e gli spettatori sembravano accontentarsi della propaganda governativa.
  • Anna Politkovskaya ha svolto il suo lavoro negli anni più bui della Russia post-comunista, combattendo contro l'indifferenza, il razzismo che da fenomeno di sottocultura di periferia diventava quasi una retorica ufficiale, la violenza e il conflitto come strumento di politica, mentre una dopo l'altra le voci del dissenso venivano fatte tacere o si tacitavano.

Sulla crisi del teatro Dubrovka, Lastampa.it, 23 ottobre 2012

  • La presa degli ostaggi nel teatro della Dubrovka era una tragedia diversa da tutte le altre tragedie russe. Fino a quel momento la guerra nel Caucaso era stata lontana. [...] Stavolta la guerra era arrivata nella Mosca bene, aveva colpito in pieno quella nascente borghesia che si era appassionata alla neonata moda dei musical ed era andata al primo spettacolo del genere nato in casa, a sfidare i prodotti di Broadway.
  • Tra i 916 ostaggi c'erano la figlia di un ex ministro, attori, cantanti, imprenditori, turisti occidentali (75 persone), che avevano pagato un biglietto costoso e che non prendevano mai la metropolitana. Era gente i cui figli non venivano mandati a combattere nel Caucaso. Era gente alla quale certe cose non potevano succedere.
  • Era il primo atto terroristico con i cellulari e gli ostaggi mandavano sms ai parenti. Tutti, o quasi, a Mosca conoscevano qualcuno che aveva i loro cari lì dentro. Ammazzare i ceceni nel cesso all'improvviso non sembrava più una soluzione.
  • La maggior parte delle vittime morì già in ospedale, oppure nelle ambulanze dove venivano accatastati in pile, come cadaveri, dopo essere stati lasciati senza soccorso per ore. Il ministro della Salute annunciò trionfante che il gas era "un segreto di Stato", e i suoi inventori – con un decreto altrettanto segreto – vennero insigniti di alte onorificenze. I parenti delle vittime l'anno scorso sono riusciti a dimostrare al Tribunale di Strasburgo che i loro cari – tra cui numerosi bambini – sono morti per colpa del governo russo.
  • [...] perché nessuno dei 35 ceceni riuscì a far brillare nemmeno un ordigno, visto che il gas non aveva un effetto immediato e alcuni terroristi aprirono anche il fuoco contro le teste di cuoio che irrompevano nell'edificio? Perché le "vedove nere" avevano in tasca biglietti di ritorno se era una missione suicida? Sia alcuni ceceni che esponenti delle autorità a un certo punto si fecero sfuggire che le bombe erano senza innesco, per evitare la strage. I ceceni contavano su una trattativa in diretta tv, e di fuggire per tornare a casa. Pensavano che il Cremlino non avrebbe accettato un massacro a Mosca. Si sbagliavano. I tempi erano cambiati. Alla Dubrovka lo Stato russo si riappropriò del suo storico diritto di uccidere i suoi cittadini per dimostrare la propria forza.
  • [Sull'annessione della Crimea alla Russia] Stavolta Mosca non ha intenzione di praticare la strada di protettorati formalmente indipendenti, come in Ossezia del sud, Abkhazia o Transinistria, ma procede direttamente all’annessione, allargando il proprio territorio per la prima volta dal collasso dell’Unione sovietica.[18]

Su Vladimir Putin, Ilfoglio.it, 7 marzo 2014

  • Come ha fatto quest'uomo che non credeva in nulla e non si fidava di nessuno a finire nella trappola della propria propaganda e ad abitare, secondo Angela Merkel, "in un altro mondo"? Ossessionato dall'efficienza, ha però dimenticato di aver imparato – cosa tutt'altro che scontata per un sovietico – la regola fondamentale del feedback, senza il quale il funzionamento di ogni sistema (un governo, un'azienda, un servizio segreto) si inceppa perché non pensa più a essere operativo, ma solo a soddisfare i superiori.
  • Ogni volta che si tratta di scegliere tra il dialogo e la prevaricazione, il timido e controllato Putin opta per la seconda. Lo fece con la Cecenia. Lo fece al bivio cruciale del 2003 quando doveva accettare di co-gestire il potere con opposizioni e oligarchi, e scelse invece di incarcerare Khodorkovsky e bandire per la prima volta i liberali dalla Duma. Lo fece con i dissidenti nel 2012. Fino alle Olimpiadi, il suo trionfo supremo, consacrato non solo dalla propaganda addomesticata ma dai media internazionali. Colpire la sua autostima proprio quel giorno è stata forse la peggiore delle idee degli ucraini insorti.
  • Non avendo mai creduto in nulla, non riesce a credere che qualcuno sia così stupido da credere in qualcosa, meno che mai nella libertà. L'unica cosa in cui crede, perché funziona e perché in qualcosa deve pur credere, è il potere.

Su Vladimir Putin e il putinismo, Ilfoglio.it, 14 marzo 2014

  • I metodi ai quali ricorre sono quelli sovietici, presi di peso dai manuali del Pcus e del Kgb. Ma il messaggio è opposto. Il pantheon putiniano fa l'operazione inversa a quella della perestroika, dimentica Lenin per osannare Stalin come "nation-builder" e riesumatore dei valori conservatori dopo la sbornia rivoluzionaria. L'Urss si proponeva di esportare il nuovo, il progresso come lo vedeva, l'emancipazione delle donne e delle classi subalterne, l'industria, la scuola per tutti. Putin difende il vecchio, e ha intuitivamente ragione John Kerry quando lo accusa di usare una logica da Ottocento. Per Putin non è una critica, ma un complimento: l'"altro mondo" nel quale lo accusa di vivere Angela Merkel è fatto ancora di potere militare, territori da annettere, popoli da conquistare.
  • Il vero obiettivo è il Grande Impero Continentale Europeo, un progetto "euroasiatico" che i russi porteranno avanti guidati da un "Uomo del Destino" in quella che è "una guerra contro gli Stati Uniti". Prima che Washington applichi la tecnica del "golpe nazista" in altri paesi, e con l'aiuto dei nazionalisti europei, spinti dall'odio che "immigrati, musulmani e Lgbt provano verso gli abitanti autoctoni".
  • Mentre in Europa si cerca di ragionare sugli interessi di Putin in Crimea, cercando di trovare una motivazione anche sbagliata ma comunque razionale del suo agire, per Mosca è solo un lembo di terra simbolico in uno scontro globale. Perfino la retorica panslavista, così cara a un altro zar che piace a Putin, quell'Alessandro III che diceva che gli unici alleati della Russia sono l'esercito e la flotta, passa in secondo piano, anche perché quasi tutti gli slavi sono ormai scappati verso la Nato proprio per evitare la "fratellanza" invadente di Mosca. Non si tratta di territori, accessi al mare e gasdotti, ma di valori, e quindi non c'è nulla su cui mediare e negoziare, è una "contraddizione antagonista" direbbe quel Marx che a Mosca a quanto pare è stato archiviato.
  • Nicola I cercava un'alleanza conservatrice presentendo la fine delle monarchie sotto la spinta del 1848, oggi Putin si ispira a lui e si propone come lo zar che offre protezione dal caos dell'individualismo liberale. Non è casuale che una delle frasi più frequenti dei suoi elettori è "con Putin siamo al sicuro". Anche quando faticano a spiegare da quali minacce.

Su Anna Stepanovna Politkovskaja, Lastampa.it, 7 ottobre 2016

  • Quando Anna Politkovskaya venne uccisa, 10 anni fa, nel giorno del compleanno del presidente russo, Putin disse che era «poco conosciuta in patria». Era vero, ed è vero oggi. Dieci anni dopo, il paesaggio mediatico in cui l’inviata in Cecenia della Novaya Gazeta pagò il suo lavoro con la vita, appare un paradiso della libertà di stampa. Oggi le voci critiche sono quasi tutte esiliate nella Rete, e l’inviato del Primo canale tv dopo una conferenza stampa viene beccato (da un cronista della Novaya, guarda caso) a urlare al telefono con i suoi superiori: «Ditemi che linea ideologica devo prendere, porca p...!».
  • Lo spazio di manovra si sta restringendo anche su Internet: l’ente di controllo Roskomnadzor blocca i siti a migliaia, e ci sono già stati precedenti di utenti finiti in tribunale per un repost “estremista” (che può essere anche l’annuncio di una manifestazione non autorizzata dell’opposizione) o una foto su Facebook giudicata «attentato all’ordine costituzionale», come nel caso di una ragazza che si è espressa per il rovesciamento di Putin. In Russia è vietato - o può essere considerato vietato, a discrezione di attivisti, poliziotti e giudici zelanti che interpretano le leggi approvate negli ultimi anni - parlare bene degli omosessuali, raccontare un caso di suicidio, criticare la chiesa ortodossa e ovviamente mettere in discussione lo Stato, Crimea inclusa.
  • Il dominio della censura diretta e indiretta ha il suo peso, ma pensare che i russi sono quello che gli viene mostrato in tv in fondo è offensivo per loro stessi. Il problema è che i russi vedono in tv quello che vogliono vedere.
  • Oggi la domanda «cosa sarebbe successo se Sakharov e Solzhenitsyn avessero avuto Internet?» ha trovato la risposta: niente. I russi hanno la piena libertà di installare modem e parabole, e scoprire che non è vero che in Europa non si può uscire per strada senza venire violentati dai migranti, che nelle scuole occidentali i bambini non vengono costretti a praticare l’omosessualità, che non ci sono affamati che muoiono nelle strade a causa della crisi economica.

Su Servitore del popolo, Ilfoglio.it, 18 dicembre 2016

  • È la prima vera success story dell'Ucraina tre anni dopo la rivoluzione sul Maidan. Il mix di satira politica e comicità tradizionale, con un cast di splendidi caratteristi (imperdibile Stanislav Boklan nel ruolo del primo ministro logorato dal potere) e un ritmo incalzante, ha stracciato i record di ascolti.
  • I politici, gli oligarchi e i deputati vengono tutti derisi senza pietà, e sono molto riconoscibili. La sceneggiatura copia direttamente dai tg, omettendo solo la guerra con la Russia, e i nazionalisti hanno criticato "Il servo del popolo" perché girato in russo.
  • I creatori della serie sperano che insegni anche un modello di comportamento positivo: l'onestà e il buon senso del giovane presidente rendono gli intrighi e le ruberie dei potenti comiche e stupide, rompendo la tradizione sovietica di subire senza poter cambiare nulla.

Su Matteo Salvini, Rollingstone.it, 26 giugno 2018

  • Matteo Salvini è uno che si sa muovere, bisogna ammetterlo. Oltre ad aver fatto l'Opa più riuscita della storia, scalando con il 17% dei voti prima la sua coalizione, poi il governo formato in coalizione con il primo partito italiano, e infine l'Italia, ha scoperto e brevettato un modo di governare facile ed efficiente, e pure divertente, per lui e per gli altri. Governa su Twitter. E su Facebook.
  • Ora anche le tv devono accodarsi, ai tweet, e anche senza avere lo smartphone tutti possono essere al corrente dell'ultima replica di Salvini. Che twitta non da un account del Viminale, ma dal suo profilo personale, dove si qualifica innanzitutto "leader della Lega". In mezzo ad annunci di comizi elettorali, foto con gli ammiratori e consigli su come capire i cani, si trovano i tweet che annunciano come Salvini cambierà il Paese: polizia davanti alle scuole, immigrati in mare, flat tax domani, no, oggi, togliamo a Saviano la scorta, ai bambini i vaccini, ai rom i figli. Furio Colombo "fa schifo", Emmanuel Macron è un "chiacchierone" (cosa farà il giorno che incontra il presidente francese, non potrà evitare per sempre i summit e i negoziati europei?), prima gli italiani, ma non tutti, arrestiamo gli equipaggi delle navi che soccorrono i migranti appena mettono piede sul suolo italiano.
  • Ha capito meglio di chiunque altro come funziona il mondo mediatico, e ufficializzato il distacco definitivo della realtà dal mondo virtuale. La verità non lo turba minimamente: vola in Libia a proporle di ospitare campi profughi che il governo di Tripoli ha già rifiutato e si fa fotografare con i marinai italiani che coordinano i soccorsi ai migranti spacciandoli per quelli che "difendono la nostra sicurezza". Promette cose che il governo, almeno il ministro dell'Economia, non mette nemmeno nell'agenda del 2022. Annuncia provvedimenti che non è in grado di fare. Pontifica di vaccini, di scrittori, di calciatori. Insulta chi gli sta antipatico. Insomma, si comporta come l'uomo qualunque armato di un account Twitter. E funziona.
  • Salvini ha capito, e messo in atto come nessuno prima, la vera regola della modernità: perception is reality. Non serve essere, basta dirlo. Chi vuole convincere l'elettore/lettore con argomenti razionali perde solo tempo, tanto domani si parlerà d'altro. Nessuno si ricorda più dello scandalo sul censimento dei rom, durato 24 ore, ma tutti si ricorderanno che Salvini è andato giù duro con i rom. Non è cambiato nulla? Non ha importanza, però almeno si è sfogato contro di loro.
  • Non servono più dibattiti, studi, esasperanti e lunghe operazioni per trovare consenso e mediare i più disparati interessi: nel mondo on demand di Facebook, dove è l'utente a scegliersi la community e gli interessi di suo gradimento, e chi non la pensa come te si oscura con un click, il politico deve dire le stesse cose che si dicono nelle chat.

Rollingstone.it, 29 giugno 2018

  • I migranti vivono accanto a noi, in una realtà spesso problematica. Ma il modo in cui li vediamo e giudichiamo è influenzato dai media, tradizionali e non, fino a distorcere il quadro reale.
  • I migranti scendono dai barconi ogni giorno sui teleschermi, e non stupisce che nella percezione degli italiani gli stranieri ormai compongano, in base ai vari sondaggi, da un quarto a un terzo della popolazione. In realtà, sono l'8%, contando tutti i non italiani, e appena il 6% se si parla di "extracomunitari", dai cinesi agli americani e agli svizzeri. La stragrande maggioranza ha un permesso di soggiorno, e un lavoro. Ma dai monitor viene raccontata tutta un'altra storia.
  • Anche per numero di fake news riguardanti gli stranieri l'Italia è sopra la media europea, anche se per numero di fatti segnalati la Germania e la Svezia, Paesi con una presenza di immigrati molto più cospicua, sono in cima alla classifica.
  • Ora l'Unione Europea si sta spaccando su una crisi migratoria che non esiste, ma che ha portato al cambiamento di governo in Italia e fa vacillare Angela Merkel. L'immigrazione è un problema reale, falsarne, intenzionalmente o no, la percezione paradossalmente può solo complicarne la soluzione.

Rollingstone.it, 17 luglio 2018

  • I tempi dei vertici di svolta tra Reagan e Gorbaciov, con scenografie sontuose e solenni firme di accordi di disarmo, sono ormai lontani. Alla vigilia dell'incontro a Helsinki perfino il segretario di Stato Mike Pompeo ammetteva di non sapere di cosa avrebbero parlato i due presidenti, mentre democratici e repubblicani a Washington esprimevano timori che a fare affidamento al suo vantato talento di negoziatore Trump sarebbe caduto facile vittima dei trucchi di Putin, molto più esperto e dotato di un maggiore sangue freddo.
  • Ovviamente, è possibile che nelle due ore trascorse a quattr'occhi (solo con i rispettivi interpreti) nel palazzo presidenziale di Helsinki la strana coppia avesse stipulato un cruciale patto segreto di cui verremo a sapere nei prossimi giorni o mesi, e che Trump abbia rivenduto a Putin l'Alaska ceduta dagli zar agli americani. Formalmente però il risultato è stato pari a zero, nemmeno un foglio di carta pieno di buone intenzioni da firmare sotto gli occhi delle telecamere.
  • Un incontro tra due pragmatici disincantati, ed entrambi non hanno nessun problema ad ammettere che "non si aspettavano molto" dal summit con l'avversario. Con poche attese è facile non restare delusi, e i tempi in cui George W. Bush guardava Putin negli occhi per "vedere la sua anima" appaiono di un'ingenuità quasi commuovente.

Sulle Brigate del Web, Rollingstone.it, 3 agosto 2018

  • Dentro, [la sede dell'Internet Research Agency] sembrava un ufficio qualunque, stanze con scrivanie e pc, piene di giovani smart, con capi settore, macchinette del caffè, memo, riunioni e training per i 400 dipendenti. Un'altra circostanza che si può affermare con una qualche certezza è il nome del loro datore di lavoro: Evgheniy Prigozhin, 57enne pietroburghese con alle spalle una movimentata carriera che include 9 anni di prigione per rapina, truffa e sfruttamento di prostituzione minorile, studi da farmacista e la fondazione di un impero di ristorazione partito da un banchetto di hot dog. Oggi porta orgogliosamente il titolo di "cuoco di Putin", figura nella lista nera degli oligarchi moscoviti sotto sanzioni degli Usa e viene associato dagli analisti a due delle armi più elusive e potenti del Cremlino: la "fabbrica dei troll" di Pietroburgo e la compagnia Wagner, una società di contractor privati che ha fatto il lavoro sporco per i militari russi nel Donbass, in Siria e ora anche in Africa.
  • Mentre i troll di destra – i più numerosi – ricorrono alla retorica più classica dei trumpiani, con grande enfasi sull'immigrazione e l'islam, quelli di sinistra simpatizzano per Bernie Sanders, postano video di afroamericani pestati dalla polizia e usano un linguaggio simile al moviment BlackLivesMatters. Il loro obiettivo – che denota dietro alla profilazione dei target un lavoro analitico serio – non è tanto convincere gli afroamericani a votare per Trump quanto a persuaderli a non votare Hillary, a restare a casa, fomentando la loro frustrazione. La terza categoria degli account sono i "hashtag gamers", impegnati a rilanciare hashtag di varia natura, mentre i "news feed" si spacciano per aggregatori di news locali, attingendo spesso a piene mani da fonti di propaganda russa come RT o Sputnik, e contribuendo a intrecciare la rete fasulla in quella degli account autentici, di influencer famosi come di comuni mortali (Twitter ha notificato a più di 1400000 utenti che hanno interagito a loro insaputa con i troll russi). Infine, i meno numerosi ma forse i più pericolosi, sono i "fearmonger", gli spacciatori di paura, una pattuglia piccola ma agguerrita che rilancia bufale spaventose, come la notizia che i tacchini del giorno del Ringraziamento sono stati contaminati con la salmonella.
  • I tempi delle spie russe mascherate da The Americans sono finiti, ma su Internet le barbe finte virtuali possono ancora funzionare per qualche mese, e chissà quanto si sono divertiti i troll pietroburghesi a impersonare nello stesso giorno l'operaio bianco del Midwest arrabbiato e la donna afroamericana abusata, passando dalla maschera di un militante liberal della East Coast a quella di un redneck favorevole all'uso delle armi contro gli immigrati, e dall'attivista nero che twitta contro la polizia al poliziotto che twitta in difesa del suo diritto a sparare ai neri. Ogni troll, secondo le testimonianze dei pochi pentiti, gestiva circa 10 account, e in turni di 12 ore al giorno scrivere post a nome dei suoi vari alias su Facebook, Twitter, Instagram o il social russo Vkontakte, e inviare decine di commenti alle bacheche altrui e ai siti dei giornali anglosassoni.

Sulle Brigate del Web, Rollingstone.it, 9 agosto 2018

  • Il troll russo è il nuovo cattivo perfetto, invisibile e onnipotente al punto da decidere l'esito delle elezioni americane. Chi si permette solo un emoticon di scetticismo viene bollato subito come complice di Putin, normalmente dagli stessi media e dagli stessi politici che quattro anni fa – quando i troll russi fecero la loro prima massiccia comparsa sul web internazionale, per difendere la Russia che invadeva l'Ucraina – snobbavano le denunce sulle fake news made in Russia come propaganda antiputiniana (magari finanziata da Washington o da Soros). Ora è argomento di studio di magistrature, commissioni parlamentari e università di tutto il mondo, e stanno apparendo le prime "pistole fumanti", come il rapporto sugli account collegati alla "fabbrica dei troll" di Pietroburgo, o l'indagine della polizia postale italiana sugli account della campagna Twitter per l'impeachment di Mattarella.
  • I troll pietroburghesi, che battono sui tasti per 12 ore al giorno in cambio di circa 700 euro mensili pagati da Evgheny Prigozhin, il "cuoco di Putin" che come secondo hobby gestisce anche la compagnia di contractor che combatte le guerre del Cremlino, hanno brevettato e portato su scala industriale quello che milioni di utenti già facevano, e continuano a fare, di propria spontanea volontà, e gratis.
  • Il pericolo dei troll russi è che cavalcano e manipolano l'opinione pubblica senza i vincoli e le inibizioni imposti da una democrazia, esattamente come lo facevano i loro predecessori comunisti sovietici. Possono essere, con una certa fatica, afferrati per mano, e incriminati perché svolgono un lavoro dai contenuti precisi per conto di una potenza straniera, e probabilmente l'introduzione di nuove leggi e regole che ne proibiscono o ne limitano l'attività è questione solo di tempo. Resta da capire cosa fare di chi svolge la stessa attività all'interno del proprio Paese, negli interessi di un partito o di un candidato, o magari anche gratis e pensando di fare la cosa giusta. Un tempo non lontano gli idealisti del liberalismo sognavano l'arrivo di un mondo di libertà globale al grido "se Solzhenitsyn avesse avuto Facebook". Ora si chiedono con sgomento cosa avrebbe potuto fare con un account Twitter in mano Goebbels.

Sul trattato INF, Rollingstone.it, 26 ottobre 2018

  • L’assurda escalation finisce solo con Mikhail Gorbaciov, che nel 1987 insieme a Ronald Reagan firma il trattato che mette al bando in quanto tali tutti i missili di corto e medio raggio. L'incubo è finito, il braccio di ferro tra russi e americani diventa una faccenda di due superpotenze, e l'Europa smette di essere un teatro di guerra destinato a essere sacrificato per primo. La foto di Reagan e Gorbaciov che firmano il trattato entra subito nei libri di storia. E forse lì rimarrà, perché Donald Trump ha annunciato di voler disfarsi del trattato firmato trent'anni fa, con la scusa che i russi lo stanno violando, installando nell'enclave baltica di Kaliningrad missili – dotabili di testata nucleare – in grado di colpire la Polonia e, con un certo sforzo, anche Berlino.
  • L'apocalisse nucleare apparentemente non spaventa il Cremlino, e Putin dichiara allegramente che in caso di attacco atomico non avrà esitazione a ordinare il contrattacco: "noi russi, in quanto martiri, andremo tutti in paradiso, mentre il nemico creperà e basta". D'altra parte, il presidente russo aveva già in passato dimostrato di non avere il tabù sull'uso dell'atomica dei suoi predecessori: aveva messo in allerta i missili russi all'epoca dell'annessione della Crimea, e non teme il rischio che il mondo intero possa cessare di esistere perché "un mondo senza la Russia non ha senso", ha dichiarato in uno dei film agiografici che gli dedica la tv russa.
  • Se il bluff di Trump non funziona, l'alternativa sarà un mondo dove tutti tornano liberi di armarsi allegramente. In fondo conviene a tutti, iraniani, cinesi, americani, nordcoreani, russi e indiani. L'unica a perdere sarebbe l'Europa, che non ha intenzione di armarsi, e quindi tornerebbe nel suo ruolo di bersaglio. I russi – nonostante il rischio di uno sforzo bellico che rischierebbe di sfinire l'economia che già paga il prezzo delle sanzioni e della guerra in Siria (negli anni Ottanta era l'Afghanistan) – non perderebbero l'occasione di ripuntare i missili su Germania, Francia, Italia e Regno Unito, e il Pentagono non perderebbe l'occasione di piazzargli dei contromissili che probabilmente Polonia e Paesi Baltici sarebbero lieti di ospitare per tutelarsi dall'invadente vicino orientale. A quel punto, per sentirsi definitivamente tornati nel 1984, non resterà che tornare alla lira, con Sting in sottofondo.

Sulle elezioni presidenziali in Ucraina del 2019, Ilfoglio.it, 22 aprile 2019

  • Il primo gesto di Vladimir Zelensky è di gettare una bomba nel cortile del vicino russo, e infatti il Cremlino si rifiuta clamorosamente di congratularsi per la vittoria con il nuovo presidente ucraino. Il primo russo a congratularsi "con l'Ucraina e gli ucraini" è invece Alexey Navalny, che fa subito sua l'immagine del Davide che batte il Golia del potere di Zelensky e sottolinea il messaggio dirompente che arriva dal paese ex fratello: a Kiev si tengono elezioni libere, a Mosca no.
  • L'assordante risultato elettorale è figlio di speranze impossibili da realizzare in tempi brevi: l'Ucraina detiene il triste primato del paese più povero d'Europa e la campagna contro la corruzione che ha reso popolare il personaggio televisivo e politico di Zelensky dovrà essere condotta in un complesso sistema di clan politici, oligarchici e regionali, dove il negoziato è d'obbligo (e infatti Poroshenko ha già offerto all'ex nemico il suo sostegno ottenendo in cambio la promessa di un ministero).
  • I media russi hanno seguito da vicino la campagna elettorale, ma la direttiva di ridicolizzare il paese scappato da Mosca ha avuto un effetto boomerang: nel raccontare che gli ucraini sono talmente malridotti da aver eletto un pagliaccio hanno inavvertitamente rivelato ai russi l'esistenza di elezioni vere, nelle quali uno sfidante può criticare il potere e i giornalisti interrompono il capo dello stato perché ha sforato il cronometro durante il confronto finale.
  • Attaccare Zelensky con la consueta propaganda russa sui "nazisti ucraini" sarà difficile: un presidente di origini ebraiche e di lingua russa toglie a Putin il monopolio sull'identità nazionale e dimostra che si può essere etnicamente russi e avere come modello politico l'Europa e la democrazia. Un'alternativa che sia Putin sia Navalny dimostrano di aver capito subito.

Su Volodymyr Zelens'kyj, Ilfoglio.it, 15 settembre 2019

  • L'ossessione per l'o-ne-stà è uno dei tratti che, insieme alla carriera nello spettacolo, ha fatto guadagnare a Zelensky il titolo di "Grillo ucraino": "Lo votano le babushke analfabete, quelle che non leggono nemmeno la scheda elettorale, ma guardano la tv", è l'obiezione sdegnata che si sente in molti salotti dell'intellighenzia. Il 73 per cento alle presidenziali – e il 43 per cento alle politiche – però non può essere composto solo da vecchiette con il foulard in testa.
  • Da Kiev la Russia appare lontana, e mentre i media russi parlano in continuazione di Ucraina (ovviamente male), gli ucraini se ne interessano poco, considerandola una sorta di Mordor popolato da orchi da lasciare nel passato. Il rapporto con la storia è forse una delle differenze cruciali tra i due paesi ex fratelli: l'Ucraina trae dal suo passato tragico – dai mongoli ai polacchi, dalla carestia imposta da Stalin all'eccidio nazista degli ebrei a Babij Jar – una voglia di futuro che lo lasci alle spalle, la Russia è ancora nel pieno della sindrome posttraumatica della fine dell'Urss.
  • Senza l'Ucraina la Russia non sarà mai più un impero, ma soltanto un grande paese asiatico.
  • La guerra nel Donbass sembra non esistere tra le verande dei ristoranti dove, avvolti nell'onnipresente profumo del caffè appena macinato, si discute di limonate artigianali e ostriche dal primo allevamento nazionale, a Odessa. Un po' come in Israele, dove il lungomare di Tel Aviv sembra esistere in una dimensione parallela, e come in Israele la guerra è sempre a portata di mano.
  • Il background del presidente non aiuta l'umiltà: oltre ad avere come mestiere quello di incantare il pubblico, qualità necessaria ma anche pericolosissima per un politico, è anche un imprenditore di successo. Il suo teatro Kvartal-95 è un vero impero, con le facce dei suoi attori affisse ovunque per Kiev, tra pubblicità e locandine: produce spettacoli live, film, serie, e dà lavoro a 10 mila persone. È una componente essenziale del successo del personaggio Ze, un self-made man, uno dei nostri ragazzi che ce l'ha fatta, dai teatri studenteschi al palco principale della nazione, ma esempi anche recenti mostrano che un businessman abituato a una catena di comando verticale fa fatica a funzionare negli schemi multidimensionali della politica. Da presidente Zelensky ha assunto toni più sobri, e interpreta il presidente vero senza alcuna concessione alla comicità del suo personaggio televisivo, forse per evitare di cadere nel ridicolo di un capo di stato che fino a sei mesi fa si vedeva a lanciare tortini vestito da donna nei suoi spettacoli comici. Anche le sue proposte più populiste, come l'abbassamento delle tariffe sul gas, eterno dolore ucraino, sono state accantonate.

Su Ucrainagate, Linkiesta.it, 26 settembre 2019

  • Prima esporti la democrazia. Bacchetti regimi autoritari, applichi sanzioni a chi non ci sta, mentre mandi aiuti, armi e manualetti su come costruire in 10 passi uno Stato di diritto ai governi filooccidentali, rimandandoli a settembre se saltano un passaggio. E poi telefoni al leader del tuo più fedele seguace nell'Est Europa per dirgli che, adesso che ha imparato a masticare un po' di democrazia, dovrebbe ordinare ai suoi magistrati di incastrare il figlio del tuo avversario alle prossime elezioni. Altrimenti gli togli gli aiuti militari che gli permettono di tenere a bada una potenza ostile che ha già occupato militarmente un pezzo del suo territorio. Poi lo incontri, e nel nel mezzo di uno scandalo che potrebbe portarti all'impeachment, gli dici che dovrebbe parlare con il capo di questa potenza ostile, e «Risolvere i vostri problemi» .
  • Zelensky aveva sognato e combattuto per questa stretta di mano con Trump, una consacrazione del suo ruolo di leader, e una sponda vitale nella guerra contro Putin. Ha ottenuto questa occasione, un breve appuntamento a margine del vertice dell'Onu a New York, in un momento in cui probabilmente avrebbe preferito darsi malato. La sua espressione mentre Trump lo tratta da scolaretto, gli dice severo "devi combattere la corruzione" e infine gli suggerisce di "parlare con Putin per risolvere i vostri problemi" è degna di una delle sue commedie: deluso, annoiato, arrabbiato.
  • La prima vittima dell'UkraineGate è il neopresidente ucraino, finito nei guai al suo primo test di alta diplomazia. Se dice no a Trump si mette contro l'uomo più potente del mondo, dal quale dipende in buona parte la sopravvivenza del suo Paese, con il rischio di trovarselo nemico per altri cinque anni. Se dice sì si mette contro metà del mondo, screditandosi per sempre come complice di una nefandezza.
  • [Sull'Ucraina] Non solo è il più grande Paese europeo per estensione, ma è l'unica democrazia vera del mondo post sovietico (con l'ovvia eccezione dei Baltici ormai entrati nell'UE), e la più grande spina nel fianco del Cremlino. È il Paese più filo europeo d'Europa, sceso in piazza nel 2014 per fare la rivoluzione in nome del sogno dell'UE. E Zelensky non è un «Nostro figlio di puttana» messo dagli americani, è un presidente eletto (il sesto dall'indipendenza nel 1991) a furor di popolo proprio per combattere la corruzione.
  • Con la sua telefonata Trump ha messo in discussione il principio cardine che l'America, e l'Occidente, predica al mondo cosiddetto "emergente": fai come me e potrai diventare come me.

Su Volodymyr Zelens'kyj, Linkiesta.it, 15 ottobre 2019

  • La sua carriera, dal cabaret studentesco di provincia a capo dello Stato più grande d'Europa, grazie a una serie televisiva nella quale ha interpretato il presidente per poi diventarlo nella realtà, merita un biopic da Oscar. Uscendo dalla fiction, in sei mesi della sua presidenza il Pil è cresciuto, la moneta nazionale si è rafforzata, la tradizionale divisione Est-Ovest del Paese è stata dimenticata, 35 ostaggi ucraini sono tornati a casa dalle prigioni russe, il Parlamento ha approvato in regime turbo riforme apparentemente impossibili come l'introduzione del mercato dei terreni agricoli, chieste da anni dall'Unione Europea e dal Fondo Monetario, e il negoziato sulla pace nel Donbass è stato scongelato. Un dettaglio importante: Vladimir Zelensky è un populista.
  • In un Paese parte del territorio del quale è stato invaso, non ha mai parlato di "invasione". Ha invocato la tutela delle minoranze, linguistiche, etniche e religiose. Non ha mai menzionato la madonna né tirato fuori un rosario, dichiarando di volersi tenere laicamente distante da tutte le religioni. Non ha evocato complotti inesistenti. Non ha parlato di vaccini, Ufo, deep state, Bilderberg, scie chimiche, immigrati, protezionismo, radici e radioso passato, ma di investimenti esteri, di stimoli fiscali per sanità, istruzione, ambiente e innovazione, di apertura dei mercati, di riforma della giustizia, di Europa e di futuro, ha ordinato di "lasciare in pace" gli omosessuali che "sono liberi di fare quello che vogliono" e menzionato la parità gender.
  • Zelensky è il populista supremo, un'evoluzione senza precedenti della specie politica. Non è un politico che utilizza spin doctor, esperti di pubbliche relazioni e addetti stampa per cucirsi addosso un'immagine. È un attore e produttore che prima ha creato l'immagine del presidente ideale per il piccolo schermo e poi l'ha fatta eleggere capo dello Stato. È lo spin al cubo.
  • Il procedimento Zelensky è stato l'opposto di quello di Trump e Salvini. Alla domanda su quale ideologia preferisce, il presidente ucraino risponde: "Una sola: tutto quello che divide il Paese va evitato". Invece di estremizzare l'opinione pubblica, sdoganando discorsi emarginati nel "locker room talk", come lo chiama Trump, nei bar e nelle cucine, nella "pancia", espandendo i limiti del lecito fino a fagocitare l'elettore moderato, il comico ucraino rispolvera la vecchia regola che le elezioni si vincono al centro. Evita accuratamente i discorsi che possono irritare i due estremi dell'elettorato ucraino – i nazionalisti di Leopoli e i nostalgici sovietici di Donetsk – offrendo al resto del Paese una proposta buonista di futuro, crescita e pace, raccontata con un buon senso da zia Pina.

Sulla pandemia di COVID-19 in Italia, Linkiesta.it, 27 febbraio 2020

  • Il coronavirus ha diviso l'opinione pubblica italiana secondo linee preesistenti e prevedibili. I sovranisti amplificano il pericolo e danno la caccia all'untore cinese, i populisti alimentano complottismi e sfiducia nelle autorità, i liberal dicono che l'influenza stagionale fa più vittime e vanno a pranzo al ristorante cinese. E poi ci sono le prese di posizione assunte per reagire ad altre prese di posizione, come quelli che deridono le mascherine perché se le mettono i parlamentari di destra. Finora non abbiamo quasi mai parlato della malattia, abbiamo parlato solo della sua percezione.
  • Il panico da COVID-2019 – da distinguersi dall'epidemia reale – ha mostrato quello che sappiamo già, ma non abbiamo ancora compreso e realizzato fino in fondo: nel mondo mediatico in cui viviamo i nostri comportamenti sono dettati dalle narrative. Chi forgia le narrative governa (o insidia il governo).
  • L'associazione del virus all'"untore" asiatico ha portato alla tranquillizzante logica dell'isolamento: chiudiamo i voli con la Cina e il virus non atterrerà in Italia. Il "paziente 1" di Codogno mostrava sintomi associabili al coronavirus, ma era italiano, come probabilmente anche l'ignoto per ora "paziente 0", ed è stato rimandato a casa, dopo aver infettato mezzo pronto soccorso. Probabilmente è stato un caso sfortunato, che poteva accadere a Cosenza o a Cortona quanto a Codogno, ma il fatto che sia successo proprio nella provincia del Nord, quella operosa, benestante, organizzata e tradizionalista, colpisce pesantemente la narrativa del sovranismo italiano che la vede come il cuore e il modello del Paese, un luogo dove rifugiarsi dalla depravazione della globalizzazione.
  • È la prima epidemia ai tempi dei social e dei media globali. La prima epidemia ai tempi del populismo. E le misure per contenerla sono in buona parte dettate non tanto dalle esigenze sanitarie, quanto dall'ansia della politica rispetto alla psicosi dell'opinione pubblica, o perlomeno la seconda pesa nelle decisioni quanto la prima.
  • Se accettiamo la necessità, per il bene comune, di limitare la libertà di movimento e di assemblea, non possiamo difendere nello stesso tempo la libertà di dire idiozie.
  • Nel mondo animale, le epidemie eliminano gli esemplari più deboli e rafforzano con gli anticorpi quelli più resistenti. Vale anche per le epidemie di panico. E in un mondo sempre più globale e complesso, i più resistenti non sono quelli più robusti, ma quelli più capaci di adattarsi ai cambiamenti, di adottare comportamenti razionali, di mantenere la disciplina, di soppesare rischi e benefici invece di farsi prendere da emotività tribali, di cooperare con gli altri, di non soccombere al contagio.

Sugli emendamenti alla Costituzione della Federazione Russa del 2020, Linkiesta.it, 11 marzo 2020

  • Gli ottimisti ipotizzavano una transizione di potere soft verso un gruppo di giovani tecnocrati moderati, i pessimisti una soluzione "asiatica", con lo spostamento di Putin nella poltrona del Consiglio di Stato, una sorta di padre della patria sul modello del collega del Kazakistan Nursultan Nazarbaev. Ma alla fine si è preferito evitare "giri complicati". Putin non ci tiene più a salvare la faccia di "democratico" di fronte all'Occidente, e ora che Donald Trump gli ha fatto sapere che non verrà nemmeno alla parata per l'anniversario della vittoria sul nazismo a maggio – e il Cremlino giudica amici e nemici in base alla lista degli invitati a questo appuntamento – fingere è definitivamente inutile.
  • Il golpe costituzionale cancella la Russia dalla lista delle democrazie, perfino quelle "illiberali" o "ibride". E la rende definitivamente una scheggia impazzita, un loose cannon il cannone slegato che rotola pericolosamente sul ponte della nave.
  • Questa non è una ricetta da grande potenza, è un biglietto per il Venezuela, molto prima del 2036.

Sulla pandemia di COVID-19 in Russia, Linkiesta.it, 14 marzo 2020

  • Che in Russia non ci siano casi di coronavirus è una delle tante fake news prodotte dall'epidemia sui social. Soltanto venerdì sono stati scoperti 11 casi nuovi, portando il numero dei contagi a 45 persone: due cinesi, un italiano e 42 russi, di cui 41 hanno portato il virus dall'estero. La dinamica della diffusione sembra seguire gli stessi modelli che altrove: un caso isolato, poi una manciata di casi, poi raddoppiano in un giorno e arriva il primo contagio interno, non "importato" dall'estero.
  • Come sempre, cercare la pagliuzza nell'occhio del vicino vantandosi delle proprie virtù non è stata una buona tattica. Mentre la polizia deportava studenti cinesi e multava un moscovita che aveva violato la quarantena per scendere a buttare l'immondizia, intercettato da una delle numerose telecamere di sicurezza, il virus girava indisturbato. Le numerose segnalazioni da diverse regioni di casi sospetti non hanno trovato per ora conferma, ma Mosca, Pietroburgo e la regione di Perm' contano già diversi contagi, tra cui anche giovanissimi.
  • Il tradizionale fatalismo russo si mischia a una fondamentale ignoranza, in un mix micidiale. Giornali e televisioni sono pieni di personaggi che sostengono tutto quello che abbiamo detto/ascoltato anche noi: «È soltanto un'influenza», «Colpisce solo i vecchi», «È un'invenzione dei media». Il "paziente uno" era stato tenuto insieme agli altri pazienti, senza alcuna precauzione, e gli stessi medici e infermieri avevano espresso scetticismo verso il pericolo, fino a che i compagni di sventura del ragazzo si erano ribellati e l'hanno costretto all'isolamento. I 150 confinati in quarantena dicono che i medici che li visitano non hanno mascherine né guanti, e i criteri diagnostici sono vaghissimi: il Moscow Times riferisce di pazienti provenienti dai Paesi Bassi o dalla Germania che, nonostante sintomi preoccupanti come tosse e febbre, sono stati liquidati dai dottori come "non corona" perché non erano rientrati dai Paesi della black list. I pochi (per ora) casi di panico vengono derisi nei social, avere paura è considerato non elegante.
  • In un regime impegnato in questo momento in una operazione di ribaltamento costituzionale, qualunque misura più restrittiva rischia di provocare sospetti di natura politica: dopo che, il 10 marzo, la Duma ha permesso a Vladimir Putin di ricandidarsi per altre due volte alla presidenza, il coronavirus potrebbe essere un buon pretesto anche per reprimere le proteste. Ma il vero pericolo è costituito dallo stato disastroso della sanità: negli ultimi decenni i posti letto negli ospedali sono stati quasi dimezzati, e i tagli degli ultimi due anni hanno portato a un'epidemia di scioperi e proteste degli operatori sanitari e dei pazienti. Nel caso di un'epidemia, il sistema rischia di collassare.

Sulla pandemia di COVID-19 in Italia, Linkiesta.it, 21 marzo 2020

  • La quarantena 4.0 ha fatto fare all'Italia in dieci giorni quello che non si era riuscito a fare in dieci anni. Il futuro viene testato direttamente in beta-versione. Il tabù sul lavoro a distanza, imposto da dei datori di lavori convinti che il lavoro a casa equivale a non fare nulla, è stato ucciso dal coronavirus.
  • Da un popolo di Fantozzi, avvitati alla scrivania e sommersi da montagne di carte e timbri, siamo diventati smart come californiani. Abbiamo scoperto i vantaggi di un'organizzazione flessibile, e ci siamo anche resi conto di quanto tempo perdevano in pause caffè con pettegolezzo davanti alla macchinetta, in riunioni spesso inutili, e ovviamente nel tragitto per raggiungere la sede di lavoro e tornare indietro. Il problema è che il nostro sistema resta fantozziano.
  • I settori che rimangono offline sono numerosissimi, e ogni giorno vanno a lavorare – e a rischiare il contagio – migliaia di operai, agricoltori, artigiani, meccanici, addetti ai trasporti, assicuratori, bancari, idraulici ed elettricisti, netturbini, conducenti di mezzi pubblici, addetti di lavanderie e imprese di pulizia, badanti, muratori e imbianchini. Applaudiamo dai balconi i medici (meriterebbero che ci mettessimo in ginocchio), ma come sempre ci dimentichiamo di loro, quando non li insultiamo vedendoli per strada.
  • Non possiamo continuare a dire che dopo il Covid-19 non saremo mai più gli stessi, mentre nello stesso tempo speriamo che tutto tornerà come prima. Anzi, speriamo di no. Se poi proprio abbiamo bisogno di demagogia, anche i vecchietti non potranno che beneficiare di una diffusione di servizi che li renderanno più accuditi e meno soli, anche a epidemia finita.

Sulla pandemia di COVID-19 in Russia, Linkiesta.it, 26 marzo 2020

  • «Non uscite di casa». Vladimir Putin è l'ultimo dei grandi leader internazionali ad aggiungersi alla quarantena globale, dopo aver visitato il giorno prima l'ospedale allestito appositamente per i malati di Covid-19 alla periferia di Mosca. Bardato in una tuta gialla di protezione totale, con tanto di respiratore, ha ispezionato le stanze scintillanti della nuova struttura e si è fatto spiegare dal giovane primario che l'epidemia in Russia rischia di seguire non lo scenario cinese, ma quello italiano. Cioè catastrofico. E così, dopo settimane in cui la propaganda russa ha provato a sminuire il pericolo del virus come "semplice influenza", con misure di contenimento lente e parziali – nelle stesse ore in cui Putin si infilava la tuta gialla, il comune di Mosca introduceva un divieto fondamentale come quello di fumare i narghilè nei locali – al Cremlino ha prevalso la prudenza.
  • Valutare la diffusione reale del Covid-19 è difficile, anche perché le autorità hanno già silenziato per «fake news» diversi giornali e social che riportavano casi di contagi e morti non riportati dalle statistiche ufficiali. Impossibile quindi capire dove finisce il panico e inizia la censura, ma le numerose testimonianze con nome e cognome dei malati ricoverati nella struttura dedicata di Mosca non sono meno inquietanti: molti vengono tenuti all'oscuro dei risultati delle analisi e delle terapie cui vengono sottoposti, e spesso i pazienti con polmonite già conclamata condividono le stanze con soggetti potenzialmente sani richiusi in quarantena.
  • In Russia [...] le mascherine sono sparite da almeno un mese, insieme a grano saraceno, pollame e conserve, spazzate via nei giorni scorsi da una popolazione che ricorda ancora bene le carenze alimentari del socialismo.

Sulla pandemia di COVID-19 in Russia, Linkiesta.it, 2 aprile 2020

  • Ora i moscoviti vivono secondo più o meno le stesse regole degli italiani: possono uscire per necessità urgenti di salute, per visitare il negozio alimentare più vicino o la farmacia, per portare fuori il cane (in un raggio di 100 metri invece di 200, ma a Mosca praticamente ogni isolato ha almeno un po' di verde) e buttare i rifiuti. In compenso, possono abbandonare la città per andare in dacia, forse perché in caso di eventuale malattia o ricovero non ricadranno più nelle statistiche cittadine.
  • Uno dei motivi per cui il governo russo aveva rinviato a lungo il lockdown era stata proprio l'enorme difficoltà di farlo rispettare in una megalopoli di quasi 15 milioni di abitanti. Nessuno si fida dell'autodisciplina civica, in un Paese dove la ricca tradizione di giocare al nascondino con uno Stato repressivo si somma a una elevatissima percentuale di smanettoni digitali.
  • Nel dibattito degli ultimi giorni sulla presunta efficienza anti-epidemica degli autoritarismi rispetto alle democrazie, la Russia è una buona dimostrazione del contrario. Vladimir Putin ha prima ignorato il coronavirus, poi ne ha sminuito il pericolo, infine ha chiuso negozi e ristoranti e mandato tutti i russi in ferie pagate di una settimana.
  • La quarantena con tracciamento può essere una soluzione efficace in un sistema dove esiste la fiducia reciproca tra governo e cittadini, e istituzioni a guardia dei diritti, ma non in un Paese autoritario dove potere e popolo giocano a guardie e ladri e nessuno si fida di nessuno.

Sul Giulietto Chiesa, lastampa.it, 26 aprile 2020

  • A Giulietto piaceva litigare. Non era mai stato nel mainstream. Forse era questo il suo tratto dominante. Mai per motivi privati, soltanto per prese di posizione politiche che lui trovava incompatibili.
  • Era una contraddizione perenne, Giulietto Chiesa. Il corrispondente anticomunista di un giornale comunista, il primo a meritarsi la borsa di ricercatore in quella roccaforte della sovietologia americana che era il Kennan Institute di Washington. Era inviso agli apparatchik di Breznev quando era all’Unità e ai liberali di Eltsin quando era passato a La Stampa, già con la reputazione di miglior esperto di Unione Sovietica non solo nel campionato italiano.
  • Ha scritto libri, firmato reportage, interviste e analisi che hanno fatto scuola, uno scoop dietro l’altro. Ma non era nato giornalista e non era riuscito a diventarlo fino in fondo: restava un politico, uno che non racconta il mondo, lo vuole cambiare. Voleva essere il paladino della verità, il fustigatore degli ingiusti, il crociato di una missione, non il suo cronista.

Sulla pandemia di COVID-19 in Russia, Linkiesta.it, 21 maggio 2020

  • Ai Paesi amici, o aspiranti tali, Mosca manda ventilatori autocombustibili, mascherine e test che le autorità russe pubblicizzano come tra i migliori al mondo. Al Cremlino però si fidano di più dei "badge antivirus", come quelli sfoggiati da numerosi deputati della Duma: enormi spilloni di plastica che dovrebbero creare intorno a chi li porta una cupola d'aria disinfettata.
  • Le stronzate che girano in Internet in Russia sono teoricamente passibili di multa per diffusione di fake news sul Covid-19, ma quelle per ora vengono applicate soprattutto ai medici che denunciano la carenza di dispositivi di protezione e l'occultamento dei dati reali sulla mortalità.
  • I servizi fotografici sui primi pazienti dell'ospedale speciale di Kommunarka – quello dove Vladimir Putin fece la sua memorabile comparsa in veste anticontagio gialla – colpivano per la quantità di tute sportive firmate e facce lisciate dal botox. Il coronavirus ha contagiato diversi membri del governo, a partire dal neopremier Mikhail Mishustin, numerosi deputati e governatori, ha mandato in ospedale star dello spettacolo e oligarchi, e ha decimato il clero ortodosso dei monasteri e delle chiese più "in" di Mosca.

Sulla pandemia di COVID-19, Linkiesta.it, 22 maggio 2020

  • Quello che nei due decenni precedenti succedeva soltanto per i grandi fatti come l'11 settembre o lo tsunami – quando tutto il mondo seguiva con il fiato sospeso la stessa storia, condivideva le stesse immagini, sussultava sincronizzato nello stesso momento – ai tempi del coronavirus è diventato un fenomeno cronico.
  • Se i primi reportage da Wuhan venivano ancora letti con la curiosità che si poteva avere verso qualcosa di esotico – quando dicevamo ancora «solo i cinesi possono farsi confinare in casa senza fiatare» – da quando il virus si è palesato in Europa, il concetto di "estero" e "locale" si è definitivamente fuso in qualcosa di unico e unificato.
  • Abbiamo tutti cercato mascherine e guanti, tamponi e test, partecipato alle stesse raccolte di beneficenza per i medici in prima linea, e l'unica cosa nella quale abbiamo mostrato fortissime differenze nazionali sono stati i beni spariti per primi nell'accaparramento pre-lockdown: lievito per gli italiani, grano saraceno per i russi, carta igienica per gli anglosassoni.
  • La realtà, meno visibile, è che si è trattato dell'epidemia più globale della storia. I virus sono sempre stati globali, ma se un tempo impiegavano anni a viaggiare con carovane, mercenari e marinai, oggi prendono l'aereo. Ma, per la prima volta nella storia, anche la risposta è stata globale. Abbiamo risparmiato mesi se non anni a organizzare la risposta all'epidemia, copiandoci i lockdown a vicenda, stilando protocolli e mandando aiuti.
  • Può darsi che per un periodo viaggeremo o commerceremo di meno. Ma la pandemia-2020 è stata il primo evento interamente globale della nostra storia, più delle Olimpiadi o dell'incendio di Notre-Dame. Non l'abbiamo soltanto visto insieme, l'abbiamo vissuto insieme, co-partecipato e com-passionato, sperimentando per la prima volta sulla nostra pelle e non solo negli slogan il fatto di coabitare lo stesso mondo. Provare a riportarlo alla condizione precedente sarebbe come tentare di trasformare una zuppa di pesce di nuovo in un acquario.

Sugli emendamenti alla Costituzione della Federazione Russa del 2020, Linkiesta.it, 3 luglio 2020

  • Migliaia di russi hanno scoperto [...] di aver già "votato", con i loro nomi già segnati nelle liste degli elettori che avevano votato. I bollettini precompilati, e gli arresti degli scrutatori che avevano osato contestarli, come le migliaia di segnalazioni di pressioni esercitate da direttori di fabbriche, presidi scolastici, primari ospedalieri sui dipendenti pubblici non hanno nemmeno fatto più notizia.
  • Ufficialmente, il 68% dei russi è andato alle urne (o ai carrelli del supermercato) per esprimersi a favore con il 78% dei voti, due punti in più delle elezioni presidenziali del 2018. La popolarità di Putin non può che crescere, e diverse regioni hanno segnato percentuali dell'80-90%, nonostante perfino i sondaggi ufficiali registrino ogni mese un nuovo minimo storico dei consensi al Cremlino.
  • Non è più un leader simil-occidentale, per quanto "illiberale": con il voto gratta e vinci è entrato nel club dei dittatori di failed state africani e asiatici, e dei líder máximo sudamericani. Un finale deludente per lui e per tutti gli esperti internazionali che per un ventennio hanno dedicato pagine e copertine al fenomeno putiniano e al carisma del leader forte. La risposta al quesito sollevato vent'anni fa in una memorabile riunione a Davos, «Who is Mr. Putin?» è «uno che organizza gratta e vinci ai seggi per rimanere al potere per 36 anni».
  • Il Cremlino voleva confermare la legittimità del leader in un voto che sarebbe stato un plebiscito da acclamazione, ma non ha fatto che darle un colpo fatale. Nel momento in cui invece che "zar" o "capo" i social lo chiamano "nonno" non è più un dittatore carismatico che incute paura insieme a rispetto, ma uno che invece di comprare mascherine e pagare sussidi di disoccupazione spende miliardi di rubli per organizzare parate in piazza Rossa.

Su Aleksej Naval'nyj, Linkiesta.it, 21 agosto 2020

  • Ogni volta che un nemico del regime di Putin si beve un tè (si mangia un sushi o un borsch) avvelenato, o incontra un killer ceceno, la risposta del Cremlino è sempre la stessa: nessuno ne viene danneggiato più di Putin stesso, che non vuole certo screditarsi come assassino, quindi il mandante è da cercare tra gli oppositori che vogliono creare dei martiri, oppure il diretto interessato semplicemente ha esagerato con sostanze per tenersi su di morale.
  • Navalny è diventato talmente pericoloso che i danni di immagine da un suo avvelenamento sono diventati per qualcuno all'interno del regime putiniano meno rilevanti dei benefici dalla sua eliminazione.
  • Chiedersi chi volesse Navalny morto è inutile. Resta da chiedersi perché si è deciso di procedere proprio adesso. La congiunzione astrale è quanto mai sfavorevole al Cremlino: mentre viene lanciata un'operazione "ibrida" per salvare il regime di Alexandr Lukashenko (che accusa Navalny di essere la mente anche dell'opposizione bielorussa), diverse regioni russe si preparano al voto di inizio settembre, una tornata elettorale che Navalny si preparava a utilizzare per dare un'altra spallata al putinismo in crisi.

Linkiesta.it, 24 agosto 2020

  • [Sull'incidente del K-141 Kursk] Fu la prima grande tragedia del ventennio putiniano e conteneva già tutti i tratti distintivi che si sarebbero poi visti al teatro Dubrovka e a Beslan, nella guerra in Cecenia, in Georgia, in Ucraina e in Siria: negazione dei fatti e disinformazione, inefficienza di un sistema obsoleto e povero, unita all'ambizione di grandeur e alla paranoia verso il mondo esterno, e singolare disprezzo verso le vite dei comuni mortali.
  • Per ora Putin non è rimasto troppo screditato dai suoi oppositori che hanno bevuto tè al polonio o incontrato dei killer ceceni: ogni volta, per il presidente, è stato un problema in meno, e il clamore e le fiaccolate di protesta dei liberal non hanno che contribuito ad accrescere l'alone diabolico di cui i russi in fondo si compiacciono.
  • [Sulle proteste in Bielorussia del 2020-2021] Se in tutta la Bielorussia non si riesce a trovare nessuno che ha votato Lukashenko, mentre decine di migliaia di persone che scendono in piazza urlando «Vattene», vuol dire che l'80 per cento ottenuto dal dittatore è stato truccato. Qualche volta bisogna credere ai propri occhi. Se sembra un'anatra, è un'anatra.

Su Donald Trump, Linkiesta.it, 2 novembre 2020

  • C'era una volta un presidente americano che l'intellighenzia progressista considerava reazionario, guerrafondaio, ignorante, l'espressione del lato più retrogrado dell'America, il punto più basso che la democrazia americana avesse toccato, colui che deludeva l'amore che il mondo aveva per gli Stati Uniti mentre regalava occasioni da gol a chi li aveva sempre detestati. Si chiamava George W. Bush, e aveva teorizzato in un suo discorso sullo stato dell'Unione l'esistenza dell'Asse del Male, un conglomerato di nazioni che minacciavano la pace nel mondo mentre opprimevano i propri cittadini.
  • Senza nemmeno menzionare gli ostacoli all'indagine sul Russiagate, in cui ovviamente Trump era più interessato a proteggere sé stesso, il mondo negli ultimi quattro anni è diventato per tanti versi più comodo per l'autoritarismo russo. Trump ha permesso a Putin di tornare a puntare le sue testate nucleari sull'Europa, rompendo il trattato Inf sul bando dei missili a corto e medio raggio: è vero che ha dato la colpa ai russi, che non avevano rispettato i patti, ma il risultato è stato quello di concedere a Mosca la possibilità di fare quello che il trattato le vietava di fare.
  • Trump ha ridotto al minimo l'aiuto all'Ucraina, trattando un Paese cruciale per il futuro della democrazia nell'Est Europa – o, al contrario, per il sogno postimperiale di Putin – come una nazione del Terzo Mondo da ricattare con gli aiuti militari in cambio di un'indagine (non importa quanto fondata) contro il figlio del suo avversario Joe Biden. E questa è, forse, la sua colpa più grave.
  • Arrogante, irresponsabile, bugiardo, egoista, aggressivo, narcisista, infantile, irrispettoso della legge e indifferente alle buone maniere, insensibile al conflitto d'interessi e impudente nel difenderli: la lista dei difetti del presidente americano potrebbe continuare a lungo, ma quasi tutte le sue qualità negative non sono considerate tali dagli autocrati non occidentali. Anzi, nel mondo là fuori, oltre l'Occidente, spesso vengono viste come virtù.

Sulle elezioni presidenziali negli Stati Uniti d'America del 2020, Linkiesta.it, 10 novembre 2020

  • Putin non telefona a Joe Biden, in compenso tiene una videoconferenza con Bashar al-Assad (argomento la "catastrofe umanitaria in Siria", da risolvere "senza ingerenze esterne") e si intrattiene a lungo per telefono con Recep Tayyip Erdogan, con il quale concorda la creazione di un gruppo di lavoro sul Nagorno-Karabakh. Il messaggio è chiaro: io ho i miei interlocutori, con i quali ci spartiamo il mondo senza bisogno dell'America, e ho intenzione di andare avanti così.
  • Anche Alexandr Lukashenko non scrive a Biden, né gli telefona, forse perché non glielo passerebbero, visto che l'Occidente non riconosce le elezioni che l'hanno mantenuto al potere in Belarus. In compenso, lo deride in pubblico, racconta al suo popolo in rivolta «la farsa delle elezioni americane», paragonandola ovviamente alla regolarità del voto bielorusso, che gli assegna l'80% in qualunque condizione, anche quando tutto il Paese scende in piazza contro di lui.
  • I propagandisti del Cremlino si affrettano a catalogare un nemico della Russia, un "radicale di sinistra" quanto i democratici americani, che vogliono far precipitare l'America nel caos. In assenza di una posizione ufficiale, i media del regime russo ripetono le narrazioni in stile Steve Bannon, che non a caso aveva molti contatti a Mosca: Biden e Harris consegneranno gli Stati Uniti al "socialismo" (accusa particolarmente commuovente da parte di un Paese, guidato dal suo presidente, che rimpiange ancora l'Unione Sovietica), l'America verrà venduta ai neri, ai musulmani e alle femministe, il Paese è sull'orlo della guerra civile, Mosca resta l'unica roccaforte dei valori tradizionali che l'Occidente degradato ha cancellato.
  • Biden oggi appare la realizzazione dell'incubo che il Cremlino aveva vissuto quattro anni fa con Hillary Clinton, con in più la necessità di segnare una cesura rispetto alla presidenza precedente, e di ribadire che l'America faro della libertà e dei diritti è tornata. Esattamente il sistema che il putinismo aveva contestato, e con il quale aveva clamorosamente rotto con l'annessione della Crimea nel 2014 e la scommessa su Trump nel 2016. Biden per Mosca è un presidente prevedibilmente scomodo, espressione di un'idea politica e valoriale che il Cremlino considera l'opposto dei propri ideali.

Sulle proteste in Polonia del 2020-2021, Linkiesta.it, 27 dicembre 2020

  • C'è qualcosa di stranamente simmetrico nelle proteste che sono esplose quasi contemporaneamente in Bielorussia e in Polonia. Mentre la prima è l'ultimo frammento dell'impero comunista a ribellarsi al passato autoritario, in una sorta di 1989 avvenuto con più di trent'anni di ritardo, sognando un balzo nel futuro, la seconda sta combattendo un ritorno al passato, dopo essere stata il Paese più all'avanguardia nella trasformazione post-comunista, per tanti versi una vetrina dell'integrazione europea nell'Est.
  • Nessuno avrebbe pensato che nel 2020, nell'Unione europea, le donne si sarebbero trovate a gridare «io sono mia» e a dover rivendicare la libertà di «non essere un'incubatrice» come recitano i cartelli in piazza. Nessuno avrebbe potuto credere che un governo appartenente alla stessa Europa dove ormai perfino baluardi conservatori come l'Irlanda hanno ceduto avrebbe deciso di togliere anche l'ultima scorciatoia per abortire. E nessuno avrebbe potuto immaginare la violenza della rivolta che ne sarebbe scaturita: manifestazioni, blocchi di strade, assedi alle sedi delle istituzioni e alle chiese.
  • Una «rivoluzione», dicono le donne in piazza. «È una guerra», è lo slogan con cui l'opposizione di centrosinistra si è presentata in Parlamento. Ma soprattutto, è la vittoria dell'Europa, in quell'Est che molti bocciano come il traditore del sogno europeo.

Sulle proteste in Bielorussia del 2020-2021, Linkiesta.it, 27 dicembre 2020

  • Non è una rivoluzione soltanto al femminile, anzi: è dal 1989 che nell'Est Europa non si vedeva una protesta più trasversale, che coinvolgesse uomini e donne, vecchi e giovani, capitale e provincia, intellettuali e operai. Ma la rivoluzione di Minsk ha un volto di donna, per parafrasare il titolo del romanzo di un'altra bielorussa celebre, la scrittrice premio Nobel Sviatlana Aleksievič.
  • Sono state le donne belarusse a fare da scudo umano a una rivoluzione non violenta che rischiava di diventare un massacro, sono state loro a conferire alla rabbia un tocco di ironia, a trasformare la frustrazione della repressione in coraggio e speranza.
  • Lukašėnka predica una sorta di femminicidio politico. Le bielorusse hanno risposto spazzando via tutti i pregiudizi sulla docilità delle donne dell'Est.

Su Aleksej Naval'nyj, Linkiesta.it, 18 gennaio 2021

  • Navalny non sarebbe quello che è – un politico, un oppositore, un rivoluzionario – se avesse scelto il ruolo di esule di lusso: doveva essere lui a rovesciare il regime, con le sue mani.
  • Invece di nascondersi, Navalny ha spinto Putin allo scontro, e il Cremlino è andato nel panico. Mentre il presidente – che non chiama mai Navalny per nome [...] – faceva sapere che il "blogger" e il "paziente berlinese" era un personaggio insignificante al soldo degli americani, i suoi giudici inventavano per il suo nemico sempre nuove accuse e minacce, fino a spiccare un mandato di cattura retrodatato su una condanna condizionale che, oltre a essere stata ritenuta politicamente motivata dalla Corte di Strasburgo, era pure scaduta.
  • Navalny ha dimostrato di non avere paura, e un dittatore che non fa paura non è più Colui-che-non-può-essere-nominato. Anche se uccide o rinchiude il nemico, ha già perso.

Su Aleksej Naval'nyj, Linkiesta.it, 3 febbraio 2021

  • Navalny a questo punto non è soltanto il russo più famoso insieme a Putin, non è solo il suo principale avversario, ma è l'uomo sul quale il Cremlino si sta giocando la sua sopravvivenza. La svolta appare senza ritorno: ignorati tutti i rischi di diplomazia e immagine, la sera dopo la sentenza i poliziotti in tenuta da Guerre Stellari hanno manganellato e stordito con l'elettroshock i manifestanti scesi nelle vie centrali di Mosca e Pietroburgo a protestare, incuranti delle telecamere come dei clacson indignati delle auto che passavano.
  • Putin ha bruciato i ponti con i moderati e l'Occidente, e sicuramente vorrà farla pagare all'uomo che ha mostrato a tutto il mondo il lusso pacchiano del suo palazzo segreto e che nell'aula del tribunale ha sostenuto che il presidente russo sarebbe entrato nella storia come "Vladimir l'Avvelenatore di mutande".
  • È evidente che Navalny a questo punto uscirà dalla prigione solo con un cambio di regime. Ma quando disegna sul vetro della sua gabbia in tribunale un cuoricino per la moglie Yulia in lacrime e le grida «Non essere triste, andrà tutto bene» mentre viene portato via in manette, probabilmente conta non solo di entrare nella storia russa come un eroe, ma anche di uscire vincitore nella sua sfida a Putin.

Su Aleksej Naval'nyj, Linkiesta.it, 22 febbraio 2021

  • Nei media tradizionali controllati dal governo è al secondo posto, ma rispetto a zero è un progresso vertiginoso ed è forse la vittoria più brillante di Navalny: una notorietà globale, che in patria ha abbattuto il muro della censura, superando quella barriera che divide la Russia che sta in Internet dalla Russia che guarda la televisione, due Paesi diversi di cui il primo potrebbe anche essere quello che conta, anche se quello nel quale si vincono le elezioni è il secondo. Se ci saranno ancora elezioni, anche per finta.
  • La "rottura con l'Europa", minacciata dal capo della diplomazia Sergey Lavrov, la proposta di togliere la cittadinanza russa ai dissidenti avanzata dal regista di corte Nikita Mikhalkov, i diecimila manifestanti arrestati che hanno fatto traboccare le carceri, i processi per i retweet e i licenziamenti per i flashmob di protesta: l'Unione sovietica non solo è definitivamente tornata, ma per alcuni parametri surreali è stata perfino superata. E l'espulsione dei diplomatici europei che hanno seguito i cortei dell'opposizione e il rifiuto di ottemperare all'ordine della Corte europea di Strasburgo di liberare Navalny sono una pietra miliare sulla strada verso una nuova cortina di ferro che Mosca sta innalzando pur di non mettere in discussione un sistema politico che non vuole tollerare più nemmeno un minimo di contraddittorio.
  • Navalny ha sfruttato tutte le debolezze del Cremlino per estremizzare lo scontro, e dettarne l'agenda, i linguaggi, le parole d'ordine: è lui il più grande spettacolo della Russia, e tutto quello che dice, fa e scrive diventa slogan in piazza, meme sui social e perfino rap.
  • Scegliendo di diventare la vittima di Putin invece che rimanere in esilio Navalny ha deciso di diventare un boccone troppo grande per il Cremlino da mandare giù, esponendo la fragilità di un regime che ha mostrato paura di fronte a una protesta che qualsiasi democrazia avrebbe considerato ordinaria amministrazione, e spingendolo a uno sforzo repressivo che probabilmente va ben oltre le sue possibilità economiche e politiche. Se il suo calcolo si rivela corretto, sarà la prima volta che una rivoluzione è partita da YouTube.

Su Joe Biden, Linkiesta.it, 18 marzo 2021

  • Dare dell'assassino al presidente di un Paese non è banale, è una dichiarazione di guerra, ma soprattutto verrà vissuta dall'inquilino del Cremlino come un'umiliazione, un'offesa, una mancanza di stima.
  • [Sulle proteste nella Federazione Russa del 2021] Decine di migliaia di attivisti e manifestanti in tutta la Russia sono stati arrestati, indagati, condannati, in un evidente intento di intimidire e impedire la prosecuzione delle proteste. Per chi nonostante tutto vorrebbe ancora fare politica, per esempio alle elezioni della Duma a settembre, gli oppositori più in vista rischiano condanne che gli impediranno di candidarsi, e per tutti gli altri è in arrivo il blocco già annunciato di Twitter e potenzialmente di tutti gli altri social occidentali, soprattutto YouTube.
  • Joe Biden ha detto soltanto una cosa che tutti sapevano già.
    La domanda è semmai perché ha scelto di essere così poco diplomatico? Non si tratta soltanto di una presa di posizione nell'ambito della missione di rendere l'America great again come faro del mondo libero. È un segnale agli alleati, a quell'Europa pezzi importanti della quale stanno flirtando con Mosca. Ma innanzitutto è un segnale di solidarietà all'opposizione russa, di una forza come non si era vista da decenni.

Su Aleksej Naval'nyj, Linkiesta.it, 13 maggio 2021

  • È il primo vero politico 2.0, probabilmente su scala globale, e segue lo stesso percorso del suo coetaneo Volodymyr Zelensky: l'uomo diventato presidente dell'Ucraina in un'elezione trionfale in cui era difficile distinguere se gli elettori avessero mandato al governo il famoso attore comico o il suo personaggio del presidente per caso della sua serie tv Servo del popolo.
  • Come Vladimir Lenin aveva brevettato l'idea di un partito che nasceva da un giornale «agitatore, propagandista e organizzatore collettivo», così Navalny è un nativo digitale, impossibile da immaginare in un mondo senza Internet.
  • Il problema delle elezioni non sono solo i politici, sono soprattutto gli elettori; e Navalny non solo forgia il linguaggio – anche chi non lo ama finisce spesso per copiare i suoi modi di dire, la sua terminologia, la sua comunicazione – ma parla come il suo popolo, come Putin nel 1999, ed è l'opposto di Putin come Putin vent'anni fa lo era di Eltsin.
  • Non un ex del regime precedente, come Eltsin e Putin. Non un oligarca che era stato l'uomo più ricco del Paese, come Khodorkovsky. Non un intellettuale come Kasparov o un liberale come Nemtsov. Niente di tutto ciò. Semmai, un borghese, un professionista che non si atteggia a intellettuale, che parla un inglese spedito ma non ricercato, e che vive in mezzo al popolo che rappresenta, in un caseggiato multipiano uguale a decine di altri sparsi nell'immensa periferia della capitale. Ecco la sua forza.
  • Navalny è privo di molti dei tratti caratteristici del populista classico. Non ha nostalgia di un passato glorioso, sogna semmai un futuro normale: il suo discorso è tutto rivolto alla «splendida Russia del futuro» che invoca di continuo, mentre il rimpianto per il passato lo lascia al suo avversario al Cremlino.
  • È contrario a invasioni e imperialismi: ha appoggiato la rivoluzione europea Maidan a Kiev e condannato la guerra nel Donbass, una presa di posizione che all'epoca aveva pagato con la perdita di un terzo dei suoi follower. Eppure oggi i suoi seguaci scendono in piazza con il finora sacrilego cartello «La Crimea non è nostra».
  • Non incute paura o timore reverenziale; anzi, fa ridere e ride insieme al suo pubblico, in quella risata che seppellisce la paura. Ha imparato da Harry Potter che avere paura del nemico lo rende più temibile, e ride perfino nelle aule del tribunale: ride circondato di poliziotti e giudici, ride con le manette ai polsi, e sorride dolcemente mentre disegna per sua moglie che piange un cuoricino sul vetro della gabbia dell'imputato. Ecco un altro gesto che diventerà un meme, una gif e un manifesto nel giro di pochi minuti.

Su Aljaksandr Lukašėnka, Affarinternazionali.it, 10 novembre 2021

  • Che il ponte aereo dalla Siria e dalla Turchia per importare profughi, essenzialmente curdi iracheni, da lanciare poi contro il filo spinato al confine polacco e lituano, sia opera del regime di Aleksandr Lukashenko lo dimostra [...] la clamorosa chiusura dei consolati bielorussi ordinata da Baghdad, nel tentativo di fermare l'esodo e dietro le richieste di Bruxelles e di Washington. Ma basta guardare i video dal confine per accorgersi del marchio di fabbrica del regime di Lukashenko, di quella rudimentale brutalità che non si preoccupa né di usare degli sventurati come carne da macello, né di farsi incastrare dai video che gli stessi migranti postano per mostrare i militari bielorussi che li minacciano sparando in aria, o che li dirottano dai posti di blocco verso la foresta, costringendoli a forzare la frontiera polacca invece di attraversarla pacificamente.
  • Questa crisi artificiale è organizzata secondo il tipico schema di Lukashenko, che da 27 anni ormai ricorre alle provocazioni con scenari molto simili, tirando il sasso e nascondendo (nemmeno troppo) la mano, allo scopo di far infuriare uno dei suoi grandi vicini, ora l'Europa, ora la Russia.
  • Se la Bielorussia riesce a invadere la Polonia e la Lituania da profughi, scatenando una crisi umanitaria, il voto di protesta di destra in quei Paesi potrebbe spingere i loro governi a rinunciare a combattere la dittatura di Minsk.
  • Nonostante sporadici tentativi di giocare su due tavoli con l'Europa, tutto quello che fa Lukashenko è ormai rivolto a Mosca. La crisi del suo regime dopo le "elezioni" del 9 agosto 2020 e della repressione violenta della protesta in piazza, ha distrutto qualunque speranza di un negoziato con l'Occidente.

Sulla crisi russo-ucraina del 2021-2022, Affarinternazionali.it, 29 novembre 2021

  • La Russia ha tutto l'interesse a che il mondo si accorga dei movimenti di truppe, per fare sfoggio di muscoli e far pesare il suo ruolo nella maniera che secondo Mosca più si addice a una grande potenza, con un'intimidazione sfacciata. Zelensky, che può mancare di esperienza come politico ma sa benissimo come influenzare l'opinione pubblica, reagisce logicamente mostrando di non soccombere all'intimidazione, per non fare il gioco del suo avversario.
  • Lo scontro sull'intervenire o meno in Ucraina dunque esiste, è vero, almeno nella retorica, e in un contesto dove l'inquilino del Cremlino si mostra sempre più spesso non soltanto il committente, ma anche il consumatore principale della propaganda, non è escluso che non sia soltanto retorica. Le basi teoriche per giustificare un'invasione russa sono già state create: un territorio sottratto alla Russia, un popolo "fratello" che soffre sotto il giogo degli occidentali, una minaccia militare presentata come sempre più diretta (Putin ha menzionato di recente il rischio di manovre e basi Nato in territorio ucraino) e un progetto neoimperialista e postsovietico che senza l'Ucraina non sarebbe fattibile.
  • Gli scettici dicono che la Russia non sarebbe in grado di invadere l'Ucraina – con 45 milioni di abitanti in stragrande maggioranza ostili a un ritorno alla Russia, e un esercito molto più preparato rispetto a sette anni fa, quando l'offensiva dei "volontari" russi nel Donbass venne bloccata. comunque non reggerebbe il prezzo politico, diplomatico, umano e militare di una guerra. Ci sono dubbi anche sul fatto che Aleksandr Lukashenko, per quanto in difficoltà, si presti a fare da piazza d'armi per le truppe russe.

Su Vladimir Putin, Affarinternazionali.it, 18 dicembre 2021

  • La nostalgia per l'Urss è diventata l'ideologia ufficiale del regime, nascendo da giochi di marketing innocenti come il ritorno ai sapori delle caramelle dell'infanzia e il recupero delle vecchie commedie e cartoni animati, ed evolvendo in un recupero a 360 gradi dei codici culturali e politici, con al centro la glorificazione della vittoria sul nazismo come principale successo sovietico, base fondante per le rivendicazioni "geopolitiche" di Mosca nel nuovo millennio.
  • L'ideologia e la propaganda di Mosca negli ultimi vent'anni hanno [...] mischiato in maniera molto paradossale il rimpianto per i fasti sovietici con quello per la monarchia dei Romanov, in un mix di Stalin e Nicola II che non sarebbe piaciuto a nessuno dei due. Ma la nostalgia dell'Unione Sovietica resta il legame più forte che accomuna Putin e il suo gruppo dirigente con il suo elettorato, il cui nocciolo duro – sparita la maggioranza putiniana – resta proprio quello dei loro coetanei, di chi ha vissuto lo shock della sparizione di un Paese, un impero, un sistema, e più che il benessere economico (inesistente) ne rimpiange le certezze e la grandeur, e la fatica dell'adattamento a quello che è venuto dopo.
  • Se Boris Eltsin non si fosse fatto artefice e promotore del divorzio tra i componenti del fatiscente impero comunista probabilmente l'attuale presidente guiderebbe ancora la sua Volga a Leningrado.

Sulle elezioni parlamentari in Russia del 2021, Linkiesta.it, 25 dicembre 2021

  • Le elezioni alla Duma del settembre 2021 hanno mostrato che, in una situazione in cui la realtà virtuale creata dalla propaganda essenzialmente televisiva non riesce più a garantire un consenso maggioritario, la ricerca di una legittimazione elettorale viene abbandonata.
  • I meccanismi di controllo del voto – come la presenza di osservatori internazionali e le videocamere nei seggi – sono stati smantellati, gli scrutatori indipendenti e i giornalisti sono stati cacciati, spesso con l'aiuto della polizia, e alle tecniche di brogli già collaudate si è aggiunto il voto elettronico, che ha assegnato la vittoria al partito governativo Russia Unita perfino nelle circoscrizioni più ribelli di Mosca e Pietroburgo. Ma il vero filtro è stato posizionato all'ingresso della competizione elettorale: praticamente tutti i candidati dell'opposizione liberale sono stati esclusi dalla corsa, o perché arrestati e/o incriminati, o semplicemente perché bollati come "estremisti", in base alla nuova legge che priva del diritto a presentarsi alle elezioni chiunque abbia partecipato alle attività delle organizzazioni di Alexei Navalny, anche soltanto con una donazione o un repost sui social.
  • In pochi mesi – sostanzialmente dall'arresto di Alexei Navalny al suo ritorno in patria dopo il tentativo di avvelenamento, il 17 gennaio 2021 – la Russia ha compiuto un'involuzione antidemocratica di una rapidità sconvolgente: in meno di un anno, votare, manifestare in piazza e protestare attraverso i media è diventato da difficile che era quasi impossibile. Una retromarcia brusca e brutale, che l'Occidente ha osservato costernato e impotente.
  • Quello di Putin è ormai un regime personalistico dove la corte prevale sul sistema – come testimoniano le nomine delle guardie del corpo del presidente a governatori e consiglieri – e la cui ideologia, con numerosi punti di contatto con quella del sovranismo europeo, è troppo fragile e arretrata per poter diventare un'alternativa all'invecchiamento strutturale, culturare e demografico della Russia.
  • [Sull'invasione russa dell'Ucraina del 2022] Sono le stesse bugie che raccontano i media dall'altra parte del confine, per convincere i russi che a) non si tratta di una guerra, b) anche se fosse una guerra, è giusta e preventiva, c) magari non si chiama guerra, ma è un trionfo: gli ucraini si stanno arrendendo a battaglioni. È la stessa narrazione usata da sempre dall'Unione sovietica, per tutte le sue guerre di invasione, dalla guerra contro la Finlandia iniziata da un falso attacco contro i sovietici nel novembre 1939, alla guerra "preventiva" in Afghanistan nel 1979, raccontata come "operazione di aiuto internazionalista", per non parlare delle invasioni in aiuto ai regimi "fratelli" in Ungheria nel 1956 e in Cecoslovacchia nel 1968. Una fede quasi magica nelle parole, e l'insistenza della propaganda putiniana sulla sua terminologia diventa a sua volta un ulteriore motivo di scontro con l'occidente che si rifiuta di riconoscere che i bombardamenti di Kyiv e Kharkiv abbiano come obiettivo la "liberazione" dell'Ucraina dalla "oppressione del governo nazista".[19]

Sulla crisi russo-ucraina del 2021-2022, Affarinternazionali.it, 7 febbraio 2022

  • Ogni giorno gli esponenti della Russia si trovano a smentire sempre nuove rivelazioni e indiscrezioni pubblicate sui giornali internazionali, che hanno come fonte governi e servizi di intelligence occidentali, soprattutto statunitensi e britannici: dalle accuse di voler organizzare un colpo di Stato per insediare a Kiev un governo fantoccio, all'ipotesi di video fake che i russi dovrebbero utilizzare per giustificare un intervento nel Donbass a difesa dei russofoni, fino a scenari apocalittici di attacchi nucleari. Rivelazioni e accuse che appaiono talvolta anche poco credibili, ma che nel frattempo hanno ottenuto un ribaltamento dei ruoli: mentre il silenzio di Vladimir Putin riguardo alla risposta all'ultimatum della Nato si prolunga, alcuni dei suoi sottoposti sembrano scegliere toni più prudenti, aggiungendo alla solita retorica aggressiva giustificazioni e rassicurazioni.
  • È evidente che il tempo gioca contro Putin, sia sul terreno dove il disgelo complica i movimenti di truppe, sia nella guerra dei nervi dove l'effetto sorpresa è stato ormai stemperato da settimane in cui gli alleati occidentali hanno risposto alle minacce russe scoprendo una serie di carte.
  • In questa partita a poker giocata sulla minaccia di una guerra in Europa, Putin ora si vede costretto o ad andare fino in fondo, senza avere le risorse militari, economiche e politiche necessarie, oppure a fare retromarcia, accettando il negoziato sulla sicurezza che Biden gli propone. L'obiettivo è quello di dirottare le paure del Cremlino dal luogo nevrotico postimperiale dell'Ucraina verso una ricerca paziente e circostanziata di un'intesa su missili, basi, arsenali e controlli reciproci. Di spostare il dialogo con Mosca dal piano della propaganda mediatica a quello della diplomazia.

Sulla crisi russo-ucraina del 2021-2022, Ilfoglio.it, 23 febbraio 2022

  • Il silenzio della Russia, dei russi, è assordante. La ragione, in parte, l'ha mostrata il giorno prima lo stesso Vladimir Putin, inscenando il surreale spettacolo del suo Consiglio di sicurezza, trasmesso contrariamente al solito in tv. Il terrore si leggeva sui volti dei reggenti del suo regime – ministri, capi dei servizi, presidenti delle camere e del governo – che, movenze esitanti e voci balbettanti, venivano apostrofati gelidamente dal presidente se sbagliavano a recitare il loro ruolo. Un messaggio per i suoi sudditi: se i ricchi e potenti, gli amici di Putin da una vita, gli inamovibili e impuniti, tremano come scolaretti di fronte al leader supremo, che li osserva con un malcelato sorriso di soddisfazione, i russi comuni non possono nemmeno osare alzare la testa.
  • La paura segna il distacco dagli ucraini meglio di qualunque disquisizione putiniana sulla fratellanza dei popoli: a Kiev si sono abituati a tenere i loro politici sotto il ricatto permanente di una rivolta sul Maidan, i russi evitano qualunque spigolo ancora prima che sorga.
  • È una impotenza imparata che fa risprofondare i russi nella paura preventiva sovietica, e li rende timidamente complici della dittatura. E gli renderà molto più difficile emergerne. Molti ucraini russofoni in questi giorni stanno scegliendo di parlare d'ora in poi soltanto la lingua statale, e molti fanno sempre più fatica a scagionare i cittadini russi dalle responsabilità del loro governo. Mosca non ha rimediato alla sindrome postimperiale scegliendo di diventare una superpotenza culturale, sull'esempio del Regno Unito, e ha condizionato l'uso della lingua e della cultura russi all'adesione a un mitico "mondo russo" unito nei valori del putinismo. Il risultato è stato ovviamente l'opposto: le nuove generazioni georgiane, moldave o ucraine preferiscono studiare inglese. E a voltare le spalle agli ex fratelli maggiori, con i quali condividono sempre meno passato e nessun futuro.

Intervista di Rocco Bellantone sull'invasione russa dell'Ucraina del 2022, Lanuovaecologia.it, 3 marzo 2022

  • Da questa guerra potrà emergere una nuova Russia che dovrà ripartire, rinnegando il nazionalismo e questo revanscismo post imperiale di matrice un po' sovietica e un po' monarchica e rivedendo il suo rapporto con il mondo in una chiave più pacifica e più europea.
  • L'intenzione del governo russo è di non far restare più nulla dell'informazione indipendente. Hanno oscurato la stazione radio L'Echo di Mosca, una radio che pur non essendo totalmente indipendente dal Cremlino dal punto di vista della proprietà era comunque riuscita a restare una tribuna più o meno aperta a tutti. Non era successo nemmeno con i golpisti comunisti nell'agosto del 1991.
  • C'è il rischio che si sviluppino scontri attorno ai reattori nucleari funzionanti e se questo accadesse le conseguenze sarebbero devastanti. Alcune di queste centrali si trovano attorno a città affacciate sul fiume Dnepr, uno dei maggiori d'Europa. Contaminarlo significherebbe contaminare più Paesi, non solo l'Ucraina.

Intervista di Marco Biscella sull'invasione russa dell'Ucraina del 2022, Italiaoggi.it, 12 marzo 2022

  • Vladimir Putin è una persona fuori dal mondo: basti pensare alla brutalità di voler bombardare un paese, di bombardare i civili, senza preavviso, senza una dichiarazione di guerra, senza un negoziato, senza niente: totalmente a sorpresa. Il suo piano è bombardarla perché ritiene che l'Ucraina sia roba sua e la vuole riportare a casa. Non è un caso che per il Cremlino i corridoi umanitari dovrebbero essere aperti solo verso la Russia e la Bielorussia. Chi vuole salvarsi da questa guerra, per Putin deve andare in Russia, dove diventerà un ostaggio o un prigioniero
  • L'accerchiamento è un pretesto ideologico su cui insiste da qualche anno e fa finta di non tenere conto del fatto che la Nato confina già con la Russia tramite la Polonia, i paesi baltici e soprattutto la Norvegia dal 1949, tra l'altro in una zona strategica, a poche decine di chilometri da basi di sottomarini della flotta russa del nord, quella flotta che dovrebbe attaccare gli Stati Uniti in caso di guerra nucleare.
  • In pratica [Vladimir Putin] vuole smembrare l'Ucraina, inglobandone una parte direttamente e trasformando l'altra in una sorta di Stato fantoccio.
  • Putin va ascoltato non tanto per le sue intenzioni, ma per le sue motivazioni, perché è un narcisista. Ama fare in tv linee dirette con i russi che durano ore, gli piace parlare, spiegare esplicitamente le sue ragioni, la sua visione del mondo, i suoi rancori. Ma come confermano i diplomatici che lo incontrano, Putin esprime anche in privato ciò che sostiene in pubblico. Infatti anche davanti a loro ripete che la Nato lo accerchia, che l'Ucraina non è uno Stato e che a Kiev è in atto un golpe nazista... Detto questo, un conto sono le bugie di Stato, un conto è sostenere che dica sempre la verità, perché non è così.
  • La Russia ha smesso di essere un regime autocratico, è una dittatura, un totalitarismo, dove non si può più chiamare guerra la guerra, dove i residui di espressione libera sono stati liquidati. Si vive senza i social, senza la possibilità di esprimersi liberamente.
  • È un errore drammatico, dal suo punto di vista: ha fatto un passo molto più lungo della gamba, che senza alcun dubbio segnerà la fine del suo regime. Come e quando, lo vedremo: il sistema collasserà sotto il peso della devastazione economica oppure sotto il peso di una protesta popolare, anche se ci vorranno anni prima che osi sfidare la repressione? O sotto il peso di una sconfitta militare come quella che si sta profilando?

Sulla giornata della vittoria e pobedobesie, Lastampa.it, 9 maggio 2022

  • Il 9 maggio è diventato la vera festa nazionale russa, molto più del 12 giugno che segna la fondazione della Russia post sovietica. [...] Il tripudio di bandiere e adesivi, manifesti e concerti, con bambini vestiti in uniformi d'epoca e fatti marciare in formazione a Z, e panini e torte pasquali con i simboli della "operazione militare speciale" in Ucraina, sembrano veramente sintomi di un impazzimento nazionale.
  • Uno degli aspetti più paradossali [...] è che il culto della Vittoria in realtà non esisteva nell'immediato dopoguerra, quando il 9 maggio non era nemmeno un festivo. Per vent'anni la parata della vittoria del 1945 è rimasta l'unica, per venire replicata nel ventesimo anniversario, e poi altri vent'anni dopo. L'ossessione della parata annuale, sempre più sontuosa, minacciosa e costosa (inclusi i lanci di missili speciali per disperdere le nuvole in caso di rischio pioggia), è un culto militarista voluto da Putin che, nonostante non avesse mai fatto un giorno in caserma, «non perde mai l'occasione di farsi fotografare accanto a un carro armato», ironizza lo storico Mark Galeotti sul Times. Ma anche la religione laica della vittoria nasce soltanto negli anni '70, in epoca brezhneviana. [...] L'introduzione del culto della vittoria era funzionale dunque non soltanto a dare a una nazione in crisi qualcosa di cui andare fiera, ma anche a giustificare la presenza di una gerontocrazia stalinista al governo.
  • Quella che oggi sogna di tornare al 1984 non è la nuova Russia postsovietica, che deve ancora nascere, reinventandosi un nuovo mito fondante: la Vittoria del 1945 – unico frattempo di storia sovietica che si era salvato dal collasso del sistema – non potrà più esserlo, dopo quello che è stato fatto in suo nome alle città ucraine.

Intervista di Maurizio Stefanini sull'invasione russa dell'Ucraina del 2022, Liberoquotidiano.it, 6 settembre 2022

  • Non abbiamo prove per dire che il Cremlino stia ammazzando i suoi oligarchi. Per ciascuna di queste morti esiste una spiegazioni ufficiale o semiufficiale. Quanto poi possa convincere che uno era depresso ed è andato di matto, uno è affogato nella sua piscina, uno era malato, non lo so.
  • Quella di Anna Politovaskaja non è una morte misteriosa, ma un omicidio. Hanno fatto 40 processi, si sa perfettamente chi l'ha uccisa. Non abbiamo la conferma in sede giudiziaria di chi sia il mandante, ma non si può chiamarla "morte misteriosa". A parte che è stata uccisa in modo estremamente pubblico, è stata una esecuzione. Certo, se si fa una lista "come si muore sotto Putin" viene fuori un po' di tutto. Oppositori di Putin, oligarchi, ammazzatine criminali, gente che è morta perché ha deciso di buttarsi giù dalla finestra...
  • Che molti giornalisti si siano accorti adesso che in Russia c'è violenza e c'è un regime dittatoriale è un problema di questi giornalisti. Chi si occupa di Russia ne ha scritto, e non solo chi si occupa di Russia.
  • Quella è una élite molto anti-occidentale nella sua retorica ma totalmente filo-occidentale nei comportamenti. Gente che costruiva la propria carriera in virtù dell'Occidente. Comprava case in Francia o in Italia, o yatch che poi parcheggiavano nel Mediterraneo oppure sull'Atlantico. Erano ovviamente persone che tenevano soldi all'estero e non in Russia, mandavano i figli a studiare in scuole inglesi, mandavano le mogli e le amanti a vivere a Londra o a Parigi, compravano squadre di calcio all'estero. Avevano tutta l'intenzione di godersi i frutti di una ricchezza accumulata in Russia e altrove, e di entrare possibilmente nel jet set occidentale. E sono persone a cui la guerra ha distrutto e sta distruggendo la fonte della loro ricchezza e quello che era il loro obiettivo di vita e il loro futuro. Quindi che molte di queste persone potrebbero essere depresse a un punto tale o da darsi a comportamenti pericolosi o a suicidarsi è abbastanza plausibile.
  • [Su Dar'ja Dugina] Non è stato un incidente e non era depressa. Poi, chi la ha uccisa, è totalmente un altro discorso. Notiamo che all'improvviso tutti hanno smesso di parlarne. La propaganda russa ci aveva detto che aveva identificato questa presunta killer ucraina, poi è saltato fuori un suo complice, poi si è scoperto che il complice era legato ai separatisti del Donbass e all'improvviso si è smesso di parlarne. La cosa più probabile è che Mosca abbia tirato fuori una spiegazione della sua morte che messa insieme in fretta e furia doveva accusare i servizi segreti di Kiev. Sul resto, non sappiamo più o meno niente. L'ipotesi che sia stata uccisa o da un regolamento di conti interno all'estrema destra russa o da qualche gruppo dei servizi segreti russi nell'ambito di una strategia della tensione ovviamente sono ipotesi molto plausibili, ma probabilmente la verità la sapremo solo a regime finito.

Conversazione con Alessandro Catalano sull'invasione russa dell'Ucraina del 2022, Huffingtonpost.it, 30 settembre 2022

  • Non tutti [i russi] sono contrari alla guerra perché ritengono di essere dalla parte del torto: alcuni riconoscono le ragioni dell’Ucraina, altri vorrebbero annettere l’Ucraina ma non sono pronti a pagarne il prezzo, altri ancora cominciano a rendersi conto delle conseguenze interne ma non s’interrogano sulle ragioni. Fare analisi più dettagliate è in questo momento impossibile, ma quello che emerge da tutti i sondaggi è una percentuale più o meno costante del 25-30% di persone a favore della guerra, poi c’è un altro 30% di chi non è né contro né a favore e un 30% di contrari.
  • Da un lato mi rendo conto che, passati sei mesi di una guerra atroce, è curioso che i cittadini russi continuino ad andare in vacanza in Europa, a fare shopping come se nulla fosse; dall’altro trovo altrettanto sbagliata una punizione collettiva e non riesco a capire quale metodo bisognerebbe adottare per fare una selezione. Il visto turistico per molti rappresenta il solo modo di scappare. Si sta parlando di creare visti umanitari per persone a rischio, un progetto dai nobili intenti, ma di difficile realizzazione, perché la richiesta di un tale visto non sfuggirebbe certo alla polizia. Comunque mi rendo anche conto che gli episodi di aggressioni di turisti russi agli ucraini, che si sono verificati in molte città europee in queste ultime settimane, saranno anche pochi, ma hanno un grande valore simbolico. Si tratta però di questioni che andrebbero discusse con grande cautela, alle quali ora si aggiunge anche il problema dei russi che fuggono dalla chiamata alle armi. Si tratta di una situazione delicata, anche in relazione alla difficoltà di ottenere asilo da parte dei dissidenti scappati all’inizio della guerra.
  • L’opposizione russa è molto eterogenea e va da coloro che sono blandamente putiniani fino a persone che augurano all’Ucraina una vittoria militare che distrugga la Russia nella sua forma post-imperiale. Molti di questi emigrati, comunque, dopo sei mesi senza accoglienza, visti e permessi di soggiorno temporanei saranno costretti a tornare in Russia, dove diventeranno vittime o complici del regime, ma questa è un’eventualità che non giova né agli ucraini né agli altri europei, perché il giorno in cui in Russia cambierà il regime – e prima o poi cambierà – se vogliamo ricostruire una Russia europea, la dovremo ricostruire con queste persone.
  • In Italia c’è sicuramente una deformazione del sistema mediatico che consente a personaggi assolutamente improbabili di costruire carriere sostenendo le tesi più assurde e provocatorie. Io personalmente ho rifiutato e rifiuto inviti ai talk show perché mi è capitato diverse volte di essere invitata insieme a propagandisti russi, ho il mio codice professionale deontologico. E questi personaggi sono pericolosi, perché, per quanto, anche come Memorial, ci sforziamo di denunciare che in Russia i diritti umani sono minacciati e che siamo di fronte a una dittatura, quando poi uno di questi presunti "esperti" se ne esce con qualche affermazione infondata di grande effetto, si trova sempre qualcuno pronto a dire: "ma guarda, sta dicendo cose interessanti, tutto sommato mi trovo d’accordo". Che è poi quello che è successo quando abbiamo concesso ampio spazio ai no-vax.
  • Vogliamo solo informazioni che confermino i nostri pregiudizi, l’idea astratta ci siamo fatti di un paese che non fa parte della nostra esperienza immediata. Questo spiega la forte resistenza ad accettare il racconto degli insuccessi dell’esercito russo in Ucraina, cosa che adesso dopo la mobilitazione "parziale" è ancora più evidente.
  • Rispetto al tema militare ho l’impressione che resti molto forte l’idea dell’armata invincibile, poi ovviamente in Italia prevale un’idea un po’ letteraria della Russia, rafforzata dall’esperienza della Seconda guerra mondiale e dal retaggio comunista. Eppure le condizioni disastrose dell’esercito russo erano già note da tempo a chi si occupa di questi temi, pensiamo alle guerre in Cecenia (1994 e 1999), in Georgia, nel Donbass nel 2014 e in Siria, dove le truppe russe hanno faticato molto di fronte a eserciti meno numerosi o addirittura di fronte a guerriglie poco organizzate. In tutte queste occasioni ha usato la tecnica che abbiamo visto usare anche in Ucraina: massiccio uso di artiglieria e bombardamenti, cioè sostanzialmente non stiamo parlando di una conquista, ma di una distruzione sistematica, accompagnata da un comportamento brutale nei confronti della popolazione civile. Di fatto, la Russia ha in realtà pochissimi reparti ben attrezzati e ben addestrati, tutto il resto è un esercito di stampo sovietico, inefficiente, povero e colpito dalla corruzione.
  • Sì, le sanzioni funzionano. Tra l’altro non ne abbiamo ancora visto fino in fondo gli effetti, per esempio l’embargo petrolifero scatta a pieno regime soltanto a fine anno, siamo quindi ancora in una fase transitoria. Ma c’è anche un altro aspetto importante, la Russia è un paese estremamente arretrato tecnologicamente, come lo era già l’Unione Sovietica e, ancora più lontano nel tempo, l’Impero russo. In Russia la produzione di automobili è calata del 97%; la Russia non ha più la possibilità di produrre missili, aerei e armi perché le componenti estere erano essenziali, soprattutto per quanto riguarda l’elettrotecnica. Esiste certamente la possibilità di aggirare le sanzioni tramite l’India o la Cina, però è poco probabile che questi paesi vogliano compromettersi aiutando espressamente la Russia. Del resto, non fanno certo beneficenza, in cambio vogliono soldi e le entrate di Putin saranno sempre più basse perché noi compreremo sempre meno energia.
  • Continuare a sostenere l’Ucraina ha senso da un punto di vista strategico perché, rispetto al rischio dell’aumento delle bollette per un inverno, cosa che si può compensare in vari modi, molto maggiore sarebbe il rischio strategico di una Russia che ti minaccia con le armi atomiche. Ormai la minaccia atomica non è più un tabù, i propagandisti russi spesso invitati nei programmi italiani ne parlano apertamente e l’ex presidente Medvedev lo ribadisce ormai quotidianamente. Anche se la guerra si fermasse e la Russia conquistasse una serie di territori ucraini, questo implicherebbe comunque un consistente aumento delle spese militari, di sicurezza e di intelligence per tutti i paesi europei, cosa che peraltro è già avvenuta.
  • Ogni tanto si dice che, se la respingiamo, la Russia cadrà nelle braccia della Cina, ma ciò è vero per una Russia autoritaria come quella odierna, non per una Russia democratica ed europea. Quindi, se si vuole strappare la Russia all’orbita cinese, l’unico modo è aiutarla a diventare europea. Ma la strada è lunga, anche perché il giorno in cui, non sappiamo come e non sappiamo quando, in Russia cadrà il regime di Putin, bisognerà evitare che si ripeta la situazione di trent’anni fa, quando è stata proclamata la fine della storia e poi, dopo trent’anni, si è invece scoperto che i russi si sono rivelati più sovietici dei sovietici.
  • Nel putinismo non si intravede chi potrebbe realizzare [un rovesciamento di palazzo], perché si tratta di un regime personalista, non c’è un partito con un politbjuro che ha delle correnti, dei falchi e delle colombe, dei rappresentanti dell’industria, dei militari, delle forze di intelligence, tutte cose che c’erano invece in Unione Sovietica. Quello di oggi è un sistema politico molto più primitivo, molto più rudimentale, una specie di corte con dei clan che combattono per la propria ricchezza e la propria sopravvivenza.

Sull'invasione russa dell'Ucraina del 2022, Affarinternazionali.it, 25 novembre 2022

  • Mentre Kyiv mette in atto campagne di crowdfunding per i sacchi a pelo termici per i suoi soldati, Mosca preferisce arruolare il Generale Inverno nella sua campagna per terrorizzare i civili: i bombardamenti delle centrali elettriche e di riscaldamento, agli impianti idrici e alle reti di distribuzione hanno come obiettivo quello di lasciare gli ucraini al buio e al freddo, e costringere Kyiv a trattare un compromesso territoriale che l'esercito russo non riesce a conquistare sul terreno.
  • Praticamente in tutto il territorio ucraino si applicano black out programmati, necessari per risparmiare energia, ai quali si aggiungono gli spegnimenti d'emergenza, che scattano quando il sistema è sovraccarico. Mentre l'antiaerea ucraina viene rifornita di nuovi sistemi di produzione occidentale, resta l'incubo di un altro raid missilistico massiccio dei russi, che rischierebbe di aumentare il danno e colpire infrastrutture appena rimesse in funzione.
  • A livello militare, gli aspetti meteorologici colpiscono entrambe le parti in misura più o meno identica. Sia gli ucraini che i russi sono stati addestrati alle "guerre invernali" fin dall'esperienza sovietica, e una gelata renderebbe in realtà il terreno molto più praticabile per i mezzi pesanti rispetto al fango della mezza stagione. È vero che entrambi gli eserciti hanno combattuto ferocemente in autunno per consolidare le linee in previsione dell'inverno, ma è abbastanza improbabile che la neve e il freddo "congelino" le ostilità.
  • Putin non può vincere, ma deve mostrare al suo popolo di non aver perso, e il modo più plateale per farlo è quello di infliggere un danno enorme alla popolazione civile ucraina. Un'arma che Kyiv e i suoi alleati occidentali non vogliono e non possono utilizzare contro la Russia. Il ricatto dei civili al buio e al freddo, invece di spingere Zelensky al compromesso – come vorrebbe Putin – lo incentiva a incalzare la Russia per non lasciarle spazi di manovra. E il disastro militare, diplomatico e organizzativo (oltre che morale) di una guerra persa spinge il Cremlino a nuove ritorsioni contro l'Ucraina.

Sull'invasione russa dell'Ucraina del 2022, Affarinternazionali.it, 6 dicembre 2022

  • Secondo un sondaggio "riservato", condotto dal Servizio federale di protezione russo, il 55 per cento dei russi è a favore di un negoziato con l'Ucraina, e soltanto un quarto vorrebbe proseguire la guerra. Se questi dati del raccolti dal corpo speciale che si occupa della sicurezza della presidenza russa fossero veri, significa che la guerra che Vladimir Putin aveva iniziato in buona parte come doping per la sua popolarità in declino sta segnando invece un divario senza precedenti tra l'opinione pubblica della società e il Cremlino.
  • La mobilitazione ha segnato una rottura del patto sociale che il putinismo aveva proposto per più di vent'anni: delegare le decisioni politiche al Cremlino in cambio di un maggiore benessere economico e dell'immagine di una Russia great again trasmessa dalla propaganda televisiva. La prima parte di questo patto era stata violata dalla riforma delle pensioni nel 2018, la mobilitazione ha rotto la seconda clausola, e la reazione dei russi è stata immediata: oltre al milione di persone, che nei giorni immediatamente successivi sono scappate dalla Russia, il consenso alla guerra – e quindi a Putin, un presidente che sulle guerre ha costruito il suo capitale politico – è crollato.
  • Anche tra i "russi buoni" che condannano la guerra molti non sono pronti ad abbracciare le ragioni dell'Ucraina, o a desiderare la sconfitta del proprio Paese, e molti sono terrorizzati dal caos che potrebbe scaturire da un regime change. Ma se gli intellettuali – essenzialmente in esilio – che danno una diagnosi brillante e spietata del fallimento russo sono comunque molti, i leader del dissenso che stanno riflettendo su soluzioni per uscirne sono pochissimi.

Su Il'ja Jašin, lastampa.it, 10 dicembre 2022

  • Se negli anni precedenti i leader del dissenso venivano accusati di reati comuni - Mikhail Khodorkovsky era stato condannato a 10 anni per evasione fiscale, Alexey Navalny per "truffa" -, la dittatura militare imposta da Vladimir Putin dopo l'invasione dell'Ucraina non si prende più nemmeno il disturbo di cercare pretesti. L'articolo 207.3 del codice penale della Federazione Russa infatti punisce la «diffusione di fake sull'esercito russo», cui nel caso di Yashin si aggiunge l'aggravante del «motivo di odio politico».
  • «Io non ho paura e anche voi non dovete averne», è stato il mantra che Yashin ha ripetuto ai suoi sostenitori. In aula ha riso, scherzato e gesticolato dalla sua gabbia di vetro, e ha concluso il suo ultimo discorso da imputato chiedendo ai dissidenti di «non dimenticare di sorridere, perché se ci scordiamo la gioia della vita loro avranno vinto». Del resto, il 39enne politico era andato incontro alla condanna consapevolmente: come il suo amico e mentore Alexey Navalny, ha preferito la prigione al silenzio e alla fuga.
  • L'esilio è stato la scelta di centinaia di migliaia di oppositori, giornalisti e intellettuali russi, ma Yashin ha deciso invece per il martirio in pubblico.

Sulla battaglia di Soledar, Affarinternazionali.it, 17 gennaio 2023

  • La conquista di Soledar – una cittadina di 10 mila abitanti prima della guerra, praticamente distrutta dall'artiglieria russa – rappresenta per il comando russo un valore più propagandistico che strategico: è la prima avanzata in sei mesi, da dare in pasto a un'opinione pubblica (e a un comandante supremo) cresciuti nel ricordo sovietico dei trionfali annunci dei progressi territoriali dell'Armata Rossa contro i tedeschi.
  • È vero che la vittoria ha sempre molti padri, ma lo scontro pubblico che ha visto un attore tutto sommato privato come il fondatore del gruppo Wagner Evgeny Prigozhin sfidare il ministero della Difesa russo è qualcosa che non ha precedenti sia per forma che per contenuto.
  • Prigozhin attacca pubblicamente i vertici militari russi, diffonde video dove i suoi soldati lanciano insulti al capo dello Stato Maggiore Valery Gerasimov, e rivendica polemicamente il merito esclusivo della conquista di Soledar. Comportamenti impensabili nelle gerarchie di uno Stato, dove questo tipo di lotte resta sempre sotterraneo, e non coinvolge entità esterne, meno che mai quelle che fanno ricorso esplicitamente a un'ideologia paracriminale come i Wagner.
  • La Russia postcomunista ha ereditato dalla tradizione politica tardo-sovietica la regola di non dare ai militari troppa autonomia, e il sistema privilegia la promozione di yesman come Gerasimov, uno degli uomini che ha firmato un piano di invasione dell'Ucraina palesemente fallimentare.
  • Il consenso sul fatto che l'invasione dell'Ucraina sia stato un errore è abbastanza diffuso, molto meno condivisa è l'idea che la guerra vada fermata, e nello schieramento di chi vorrebbe vincerla – rendendosi conto che una sconfitta della Russia comporterebbe la fine del regime nel quale hanno finora prosperato – si fa sempre più strada il sentimento che non saranno Putin e i suoi generali a portare la vittoria.
  • Uno dei lati forti che Putin offriva al suo elettorato era uno Stato forte e monolitico che il presidente rappresentava, ma il patto diabolico firmato con un’armata di galeotti ha messo in crisi questa percezione.

Su Vladimir Putin, Affarinternazionali.it, 23 febbraio 2023

  • La guerra ha consolidato definitivamente un modello di potere da monarchia quasi assoluta.
  • Putin non ha un piano, meno che mai un piano B, e sta cercando di navigare a vista tra l'impossibilità fisica di vincere sull'Ucraina e l'inammissibilità di una marcia indietro che vede come la fine del suo regno. Cosa che paradossalmente potrebbe non essere vera: i russi, la nomenclatura come il popolo, sono talmente spaventati e spiazzati da una guerra che sta andando verso il disastro, da essere probabilmente pronti ad acclamare chiunque li riporti almeno al 23 febbraio dell'anno scorso.
  • Una ritirata potrebbe rinviare la resa dei conti, liberando le risorse repressive che Putin potrebbe usare contro i suoi critici, e quelle economiche che servirebbero a ricomprare il consenso della popolazione.

Su Volodymyr Zelens'kyj, Ilfoglio.it, 24 febbraio 2023

  • In patria, dopo un anno di bombe, sangue, buio e freddo ha il 94 per cento dei consensi, all'estero è una superstar globale, con i politici che litigano per una cena con lui, e l'entusiasmo che suscita quando passa per Washington, Londra e Bruxelles ricorda quasi quello di un'icona del rock. Il suo volto viene stampato sulle t-shirt, la sua felpa "I'm Ukrainian" va a ruba, e il colore Pantone della moda dell'Ucraina in guerra è il verde Zelensky (che poi in ucraino significa appunto "verde"). È un presidente, un comandante in capo, un'icona, è l'uomo più amato e più minacciato del mondo, e quando compie 45 anni, il 25 gennaio scorso, gli ucraini sui social gli regalano un titolo che vale più di un Nobel e di un Oscar insieme, "naikrashiy", il migliore.
  • È proprio con Zelensky che l'Ucraina si è compiuta definitivamente come quella "anti Russia" – per usare la terminologia putiniana – che metteva in crisi il cuore di tenebra dell'ex impero sovietico, rappresentando un'alternativa democratica ed europea alla nostalgia risentita dalla quale la dittatura di Mosca attingeva la sua legittimazione. Era l'antidoto a quella che molti, nello spazio postsovietico, percepivano ancora come una condanna a ripetere la storia, e il cambio generazionale che Zelensky ha rappresentato è diventato visibile a tutto il mondo con la guerra, con un governo democratico di quarantenni che parlano inglese a organizzare la resistenza contro l'invasione di un regime di settantenni che ripetono i cliché della propaganda sovietica.
  • Oggi, gli ucraini imbracciano i fucili, si rifiutano di parlare russo e cacciano dal tempio del monastero delle Grotte di Kyiv i religiosi ortodossi rimasti fedeli a Mosca, in una profezia che si è avverata al contrario: paradossalmente, è stata la guerra a realizzare il sogno di una Ucraina che entrava in Europa e che si sedeva da pari al tavolo delle nazioni occidentali. Il momento in cui Zelensky pronuncia "Slava Ukraini" al Parlamento europeo e si morde le labbra per non piangere quando l'emiciclo gli risponde in coro "Heroyam slava" non poteva essere inventato da nessuna sceneggiatura, ma è parte di quel sogno che sembrava impossibile quando gli elettori avevano votato un comico che avrebbe guarito gli abitanti del più grande e più povero paese europeo da un complesso di inferiorità postcoloniale.
  • È il suo genio comunicativo ad averne fatto l'uomo "most wanted" dai russi, e i suoi appelli serali girati con il telefonino – tanto criticati in tempi di pace dai giornalisti ucraini che si vedevano estromessi da un presidente populista che cercava un dialogo diretto con il suo popolo, bypassando le élite – sono già nei manuali di storia accanto agli appelli radio di Churchill e Roosevelt. È stato saggio, dicono i suoi estimatori a Kyiv, ad aver lasciato mano libera ai militari, concentrandosi su quello che sa fare meglio: creare una narrazione da offrire ai suoi combattenti e all'opinione pubblica internazionale. Ha costruito il sogno della resistenza e della vittoria, nel quale si mischiano miti antichi e moderni, linguaggio alto e pop, ideali europei e retaggi sovietici: è sua la proprietà del mito della "guerra patriottica" della nazione che si erge contro l'invasore, che Putin ha invano cercato di privatizzare, della resistenza partigiana e dell'unità nazionale, della strage di Bucha che rievoca la memoria di Babyn Yar e abbina a quel ricordo atroce proprio i russi che urlano agli "ucronazisti".
  • Un giorno, la sua incredibile storia verrà raccontata in film interpretati da attori che rincorrerano l'Oscar per aver impersonato un attore diventato presidente diventato storia.

Sulla decapitazione di Serhij Pataki, Lastampa.it, 13 aprile 2023

  • Quello che fa raggelare nel video della decapitazione con un coltello di un soldato ucraino per mano di militari russi non è nemmeno il suo grido di dolore, né la sbrigativa efficienza dei boia, né l'evidente normalità del massacro compiuto di cui il comando è al corrente. A rendere il video davvero una nuova frontiera dell’orrore è il fatto che non si tratta di un "leak": non è una denuncia degli ucraini per screditare gli invasori, è uscito sui canali della propaganda russa, ed è stato ripostato e commentato (positivamente) proprio da chi ne esce devastato senza possibilità di redenzione, i russi stessi.
  • "Gole profonde" da Mosca spiegano che la decapitazione è stata compiuta dal gruppo Wagner, e che il video è stato pubblicato intenzionalmente, per incoraggiare gli ucraini a torturare a loro volta i prigionieri russi, fermando così l'emorragia di militari di Mosca che si arrendono al nemico (3 mila soltanto a marzo, secondo Kyiv). È evidente che l'esecuzione sia stata compiuta, filmata e diffusa per terrorizzare.
  • In un Paese dove le maestre denunciano i bambini (e i bambini le maestre) per un disegno pacifista, dove il leader dell'opposizione in cella perde 8 chili in 15 giorni perché torturato con la fame, la Tv inneggia alla bomba atomica, gli intellettuali decantano Stalin e i giudici tolgono i figli ai dissidenti, il limite dell'orrore è stato sfondato da tempo. Il paragone con l'Isis regge nella furia con la quale la Russia resuscita il suo passato più oscuro, cancellando con le sue mani ogni residuo rispetto o empatia che poteva suscitare.

Intervista di Lorenzo Santucci, huffingtonpost.it, 13 aprile 2023

  • È evidente che il rapporto tra il regime putiniano e i suoi cittadini non è più un patto sociale tra governo ed elettori, ma il popolo viene considerato carne da macello. Un po’ come in Eritrea.
  • A luglio gli ucraini hanno fermato l’avanzata russa, in autunno riprendono parte dei territori occupati con l’intenzione di non fermarsi. Putin mobilita 300mila persone ma adesso gliene servono degli altri, senza sapere che fino hanno fatto questi uomini. Questa nuova massa umana verrà gettata nel Donbass, dove l’esercito ucraino è bloccato impedendogli di muoversi come e dove vorrebbe, probabilmente verso sud.
  • Che ci sia uno scontento di dimensioni colossali è evidente, nessuno è contento di questa guerra, anche chi ci guadagna. Possono essere bestie, ma non scemi. Secondo me non esiste un piano chiaro dei russi, lo si vede nelle dichiarazioni che fanno. Parlano di schiacciare l’Ucraina, un Paese che per loro non esiste, ma oltre le parole credo che ci sia la consapevolezza che non sono obiettivi raggiungibili. Cercano di portarsi a casa il Donbass per spacciarla come una vittoria, non a caso Putin parla di guerra per la liberazione del Donbass. Se anche Prigozhin sostiene che con questi uomini e mezzi avrebbe bisogno di un annetto o due per prendere l’intera regione, forse ha una visione più realistica del ministero della Difesa.
  • Il problema è che si tratta di una monarchia e questa guerra non si combatte per risultati, ma per vantarsi davanti allo zar. Lo scontro tra Wagner e Difesa serve per conquistarsi un posto al sole vicino a lui.
  • La guerra sta distruggendo la Russia e la loro ricchezza, li sta rendendo dei paria, resteranno dei criminali a prescindere da quello che succederà a Putin. Credo che alla nomenklatura putiniana piacerebbe risolvere la situazione, ma è estremamente preoccupata che poi il sistema si sfaldi, portando a una guerra di tutti contro tutti. È una lotta a chi spinge prima l’altro nel baratro ed è difficile dire cosa accadrà dopo Putin. Non si sa chi possa succedergli, aprendo così vere e proprie guerre intestine laceranti.
  • Nella Wagner ci sono dei criminali che evidenziano quanto la Russia si stia avvicinando a uno Stato fallito. Se Prigozhin viene considerato una guida, dimostra quanto il Paese è caduto in basso. [...] È un brigante dal grilletto facile, intelligente e che sa adulare le persone così come organizzare e preparare le truppe, ma pur sempre brigante. Per lui non vedo un futuro nel dopo Putin. Prigozhin esiste grazie a Putin. L’establishment russo è abbastanza efficace nell’eliminare personaggi simili, una volta che Putin non sarà più al potere

Sulla ribellione del Gruppo Wagner, Huffingtonpost.it, 24 giugno 2023

  • È vero che nella storia russa i colpi di Stato sono stati portati avanti anche da piccoli gruppi militari, ma Putin dovrebbe richiamare soldati dall’Ucraina per fermare la Wagner, sguarnendo così il fronte. A meno che non voglia bombardare le proprie città: uno scenario che, oltre a essere inquietante, non so dove possa portarlo.
  • I media italiani fanno fatica a chiamare le cose con il loro nome. Quello in corso è un golpe.
  • Putin ne esce malissimo in qualunque caso. Mettiamo il caso che Prigozhin arrivi a Mosca, Putin è morto almeno politicamente. Se invece riuscisse a fermarlo, ha avuto comunque un golpe in casa. Anche perché Prigozhin è il frutto del sistema putiniano, ovvero la sostituzione dello Stato con una corte. È un ex criminale diventato ricco grazie agli appalti ricevuti, che si è costruito il suo esercito di galeotti perché Putin ha avuto l’idea geniale che un esercito privato potesse aiutarlo.
  • [«E se dietro tutto questo ci fosse lo zampino dell’Occidente, che ha soffiato sul fuoco delle divisioni interne per rovesciare il regime di Putin?»]
    Ne dubito. Forse Prighozin qualche contatto lo ha anche cercato, ma credo con più probabilità che si sia sentito con Kiev. Questo è più probabile. Se vuole andare a Mosca, deve inevitabilmente sentire i nemici della Russia.
  • Pochi giorni fa c’è stato un attacco di droni alle porte di Mosca, di cui si è parlato poco perché ormai sono ordinaria amministrazione fin quando non colpiscono un bersaglio. Ma questi in particolare sembravano diretti contro la base della divisione carrista dell’esercito russo, quella che normalmente interviene nel caso di un golpe a Mosca. Mi chiedo: è una coincidenza che rientra nella logica della guerra o un tentativo di mettere fuori gioco la più probabile linea di difesa nel caso di un colpo di Stato? Per Kiev è naturalmente un’opportunità. La domanda è se stanno guardando ciò che accade con i popcorn in mano o se ci sia qualcosa di più su un loro coinvolgimento.

Intervista di Paolo Galli sulla morte di Evgenij Prigožin, Cdt.ch, 24 agosto 2023

  • [«La morte di Prigozhin è da leggere come la fine della Wagner?»] Significa proprio questo. Anche perché pare che, sullo stesso aereo di Prigozhin - altra notevole imprudenza -, ci fosse anche Dmitry Utkin, ovvero "IL" Wagner, il comandante che avrebbe contribuito alla fondazione della compagnia, dandole il suo indicativo di chiamata. E allora la Wagner è stata decapitata, ormai a livello militare, ma anche organizzativo e finanziario. Qualcuno ha preso la decisione di interrompere l’esistenza di questa compagnia, e ciò dopo vari tentativi di addomesticarla, di comprarla. Ora è stata decapitata. La Wagner non ci sarà più, perlomeno non nella forma che conosciamo. E questa è un’ottima notizia per l’Ucraina. I mercenari della Wagner rimasti senza i loro capi confluiranno ora in altre compagnie di mercenari, tra cui anche quelle degli amici di Putin, a cominciare da quella Redut che pare stia reclutando molto attivamente gli ex-wagneriani. Altri si daranno alla libera professione.
  • Tutto l’entourage di Putin se ne rende conto: qualcuno chiuderebbe il conflitto il prima possibile, altri lo spingerebbero verso l’escalation, ma tutti si stanno convincendo del fatto che Putin è un problema, e non la soluzione. Un aspetto che Prigozhin stesso aveva portato in superficie in maniera plateale, persino brutale, come è nel suo personaggio.
  • Le sue peculiarità erano uniche, era un personaggio pubblico ancor prima che inventasse la Wagner. Aveva già conquistato lo spazio mediatico. Credo che il "prossimo" Prigozhin si muoverà in modo più prudente, meno pubblico e che non si fermerà a 200 chilometri da Mosca.

Sulla morte di Evgenij Prigožin, Ilfoglio.it, 25 agosto 2023

  • È incredibile come un uomo diventato famoso grazie alla produzione di fake news e bande di mercenari in Africa, venga ora rimpianto perfino da molti di quegli oppositori liberali russi che l’avevano denunciato per le sue truffe con gli approvvigionamenti alimentari dell’esercito e delle scuole, e per i ricatti e le minacce ai dissidenti.
  • È l’uomo che ha girato filmati di fucilazioni e decapitazioni dei nemici (in Siria ancora prima che in Ucraina), e che ha reso (quasi) normale ammazzare un “traditore” a martellate in testa, pubblicare il filmato e minacciare di mandare una copia del martello (dipinto anche di vernice rossa per un effetto pulp) al Parlamento europeo. L’ascesa di Prigozhin ha significato esattamente questo, il rifiuto da parte della Russia perfino delle apparenze di una appartenenza all’Europa, per diventare una sorta di dittatura di quelle che si vedevano negli anni 70 in Africa e Sudamerica, con i militari indistinguibili dai signori della guerra e i politici come capibanda.
  • Il problema è che la morte clamorosa di Prigozhin non è un passo verso il ripristino della legge e dello stato: è una esecuzione punitiva in stile mafioso, volutamente plateale, e lascia la Russia in mano a una guerra di cosche esattamente come il tentato golpe dei Wagner due mesi prima, lanciato più per spodestare i generali del ministro Shoigu che per cambiare veramente il potere.
  • [Sugli attentati in Daghestan del 2024] L'attacco, a quanto pare, faceva parte di un piano molto più vasto: ieri sera erano ancora in corso sparatorie intense sia a Derbent che nella capitale Makhachkala, e l'impressione era più quella di una operazione paramilitare che di un blitz di un singolo commando terroristico. Un'altra brutta sorpresa per il Cremlino, in una emergenza che rischia di incendiare una repubblica cruciale per l'invio delle reclute al fronte ucraino.[20]
  • Su richiesta di molti lettori, La Stampa ha ripubblicato l'articolo del 2009 sulle invenzioni nella "autobiografia" di Lilin. Un avvertimento che facevo all'epoca e che mi sembra ancora più importante oggi: il mio obiettivo non era smascherare un abile personaggio che ha capito molto rapidamente cosa chiedeva il pubblico, ma parlare di noi. Del nostro establishment culturale e mediatico, della superficialità e dell'ignoranza, che rendono anche l'intelligenzia facile preda di fake news (termine all’epoca ancora sconosciuto).[21]

Sulla morte di Aleksej Naval'nyj, lastampa.it, 16 febbraio 2024

  • È accaduto. Vladimir Putin si è spinto fino alla linea che molti credevano non avrebbe osato superare. Alexey Navalny è morto nel carcere polare in qui era stato mandato per vent'anni, è stato ucciso, se non direttamente dai suoi carcerieri - forse non sapremo mai le circostanze del decesso – dalle torture cui era stato sottoposto, in un girone costruito tutto per lui dell'inferno del Gulag russo.
  • La morte di Alexey Navalny segna un punto di non ritorno: non è stato ucciso soltanto un uomo, un politico, un dissidente, ma l'unica voce che parlava di un futuro possibile, della «splendida Russia del futuro», opposta all'esaltazione del più macabro passato russo.
  • Perfino all'epoca comunista, Brezhnev e Andropov sapevano che alcuni nemici del regime – Sakharov, Solzhenitsyn, Sharansky – erano intoccabili, che ucciderli in carcere avrebbe portato un danno reputazionale che l'Unione Sovietica non voleva subire, ansiosa di presentarsi come uno Stato civile, pacifico ed evoluto. Putin e i suoi uomini non vogliono avere una reputazione, almeno non di quel tipo: preferiscono che di loro si sappia che non hanno pietà, che non scendono a compromessi, che i loro nemici verranno «ammazzati anche nel cesso».
  • È un messaggio funesto per tutti gli oppositori in carcere: se è stato ucciso il dissidente più celebre della Russia, conosciuto in tutto il mondo, vincitore del premio Sakharov dell'Unione Europea e dell'Oscar per il documentario che racconta il suo calvario, osservato speciale di governi e ong internazionali, non c'è nessuna speranza per i suoi seguaci, per gli attivisti comuni, per i dissidenti meno in vista. La Russia non teme nulla e non si ferma di fronte a nulla, è questo che Putin vuole far sapere a tutto il mondo. Il Cremlino non esita a uccidere l'altra Russia: non vuole che ci sia un Mandela, un Walesa, un Havel russo, un volto e un nome che testimoni l'alternativa, e che possa un giorno fare da garante alla transizione dalla dittatura verso la democrazia.

Sulla morte di Aleksej Naval'nyj, lastampa.it, 19 febbraio 2024

  • Alexey Navalny era più di un politico, di un leader, di un personaggio mediatico: era la vittima che si era ribellata al tiranno, il prigioniero che rideva in faccia ai carcerieri, "l’uomo-che-era-sopravvissuto" all’avvelenamento, l’Harry Potter che doveva vincere nel finale. Già l’idea che milioni di persone avevano personificato la loro ultima speranza in un detenuto sepolto in un Gulag siberiano, e non viceversa, rende il grado di depressione cui era giunta l’opposizione. Che ora diventa disperazione.
  • La protesta in Russia si paga con la vita, e a conquistare la libertà saranno solo quelli che rischiano e osano.
  • Non a caso molti ucraini prendono in giro ferocemente i "russi buoni", ricordando loro che non sono stati capaci di ribellarsi in massa né all’arresto di Navalny, né alla guerra, preferendo la fuga o il silenzio. Il vittimismo, arte in cui l’intellighenzia russa ha sempre raggiunto vette letterarie sublimi, minaccia di sommergere tutti [...].

Sulla morte di Aleksej Naval'nyj, it.gariwo.net, 20 febbraio 2024

  • La domanda "perché Aleksej Naval'nyj è tornato in Russia?", a farsi arrestare, a morire in carcere, continua a venire fatta da molti, in Russia e all'estero, da chi lo seguiva da anni e da chi scopre il suo messaggio soltanto dopo la sua morte. La risposta è semplice: perché era un politico, e sapeva che il diritto a diventare un leader e un modello non si guadagna nei salotti degli intellettuali liberali europei, ma nelle piazze, nelle aule del tribunale, dietro le sbarre.
  • La disperazione – come di-sperazione, assenza di speranza nel suo significato più letterale – dell'opposizione russa è travolgente, e mostra una profonda sfiducia in se stessi: già il fatto che per milioni di persone la speranza era rappresentata da un uomo isolato in un carcere di massima sicurezza, e non viceversa, offre una misura della condizione devastata e devastante della protesta.
  • A uccidere Naval'nyj è stato Putin. Ma a permettergli di farlo sono stati quelli che "tutti capiscono tutto", quelli che "non mi interesso di politica", quelli che "tanto da noi non dipende nulla", quelli che "tengo famiglia", "devo pagare il mutuo" e "mica vado in piazza a rischiare l'arresto per quelli lì che tanto sono tutti uguali". A ogni azione corrisponde una reazione, una legge che in politica vale anche per l'assenza di un'azione. A ogni passaggio della drammatica storia di Naval'nyj, e della tragica discesa della Russia nella dittatura, qualche migliaio in più in piazza, qualche punto percentuale in più alle elezioni, qualche sussulto di protesta più intenso avrebbe fatto la differenza, come aveva fatto la differenza la folla che nel 2013 aveva invaso il centro di Mosca un'ora dopo la prima condanna di Aleksej al carcere, costringendo il Cremlino a commutargli la sentenza in condizionale, il mattino dopo.
  • Un Giusto può salvare una nazione, se questa fa uno sforzo per salvarsi. Il silenzio assordante sulla invasione dell'Ucraina e la dittatura putiniana della maggioranza dei russi, inclusi molti liberali, ha consegnato la sorte della libertà della Russia del futuro in mano agli ucraini: visto da oggi, è più probabile che il regime del Cremlino cada sotto i colpi di una crisi al vertice provocata dall'esercito di Kyiv e dalle pressioni occidentali, che grazie a una rivolta della popolazione. Uno scenario – per ora lontano e faticoso da raggiungere – che lascerebbe i russi di nuovo vittime, e non padroni del loro destino, in quella rassegnazione a subire che ha segnato buona parte della loro storia.
  • La meravigliosa Russia del futuro sognata da Naval'nyj non potrà nascere senza assumersi le proprie responsabilità, ammettere i propri errori, imparare le lezioni e pagare le colpe. Ma oggi, se a qualunque latitudine si chiede a un passante il nome di un politico russo che non sia Putin, la risposta non sarà Lavrov, Shoigu, Volodin o Medvedev o un altro dei cortigiani del Cremlino. La risposta sarà "Naval'nyj".

lastampa.it, 29 febbraio 2024

  • Sede del primo conflitto armato postsovietico già nel 1992, la Transnistria era diventata una pistola puntata alla testa della Moldova, dell’Ucraina – nel caso di una sua caduta in mano alla Russia si aprirebbe un secondo fronte a sud-ovest, minacciando Odessa – e dell’Europa.
  • La Transnistria è una striscia di terra lungo la frontiera con l’Ucraina, non confina con la Russia, rendendo impossibile una invasione di terra. Per trasportare truppe con gli aerei bisognerebbe sorvolare il territorio ucraino – dove gli aerei russi ultimamente vengono abbattuti quasi tutti i giorni – oppure la Romania, un Paese Nato. Il contingente russo di stanza in Transnistria verrebbe bloccato dall’esercito ucraino dall’altra parte del confine. Senza contare che se 220 mila dei quasi 500 mila cittadini della enclave non riconosciuta hanno la cittadinanza russa, 350 mila però possiedono un passaporto moldavo, e possono a loro volta invocare soccorsi da Chishinau.
  • Tra due settimane [Putin] deve riconfermare il suo quinto mandato presidenziale, e sa che il suo elettorato è nostalgico dell’impero: un’altra annessione, seppure probabilmente solo sulla carta, potrebbe far dimenticare l’impantanamento dell’esercito in Ucraina, e mostrare che Mosca non ha intenzione di fermarsi.

Intervista di Diana Mihaylova sulla morte di Aleksej Naval'nyj, mowmag.com, 22 febbraio 2024

  • Se uno vuole fare politica, la fa in loco, non dall'esilio. Abbiamo tanti esempi di altre opposizioni in esilio: russa, ma anche iraniana e di altri Paesi. Sono opposizioni che possono scuotere l'opinione pubblica occidentale e possono anche far arrivare delle idee al loro Paese, ma la politica si fa in loco.
  • Ha dimostrato che la Russia non ha remore e non presta attenzione a quello che si pensa all’estero, non ha remore né verso la comunità internazionale, né in particolare verso quella occidentale. In passato l’Unione Sovietica non uccideva i suoi grandi dissidenti, perché sapeva che avrebbe pagato un caro prezzo, anche reputazionale; ma oggi l'impressione è che la Russia di Putin non abbia nessun problema con la propria reputazione, perché lasciar morire in carcere un uomo che ha preso il Premio Sacharov del Parlamento europeo, chiaramente è una sfida esplicita all’opinione pubblica internazionale. È come dire: "non me ne importa niente delle vostre condanne e delle vostre sanzioni".
  • Non abbiamo mai saputo nello specifico in cosa consistessero questi legami [tra Putin e Salvini]. Abbiamo avuto delle ipotesi, alcune indiscrezioni, sospetti, ma mai nulla di concreto. Che un legame ideologico esista, l'abbiamo visto se non altro dalle dichiarazioni fatte da Salvini, per esempio sul fatto che su Navalny, ha espresso fiducia verso i giudici russi che "indagheranno e faranno chiarezza", che oltretutto, non stanno nemmeno indagando, perché la vicenda di Navalny è in mano ai servizi segreti e non certo in quelle dei giudici. Però, d’altra parte, credo che sia anche molto positivo il fatto che, nel frattempo, la Lega abbia sentito anche il bisogno di partecipare, comunque, alla manifestazione per la memoria di Navalny. La Russia ha oltrepassato dei limiti oltre i quali persino chi in realtà - persone e forze politiche - condivide il suo operato, non riesce più a farlo in pubblico perché diventa troppo imbarazzante.
  • [Sulle elezioni presidenziali in Russia del 2024] Queste non sono vere elezioni, quindi è totalmente irrilevante chi viene ucciso prima o dopo. [...] i candidati alle elezioni sono tutti stati concordati con Putin e sono dei putiniani, fondamentalmente. Per quanto riguarda gli altri oppositori, certo ci sono tantissimi oppositori, il problema è che la maggior parte si trova in carcere oppure all'estero.
  • [Sui paralleli tra Aleksej Naval'nyj e Julian Assange] No, non c’è alcun parallelismo. Uno è un politico che si battuto contro la corruzione, l’altro invece una persona che ha rivelato dei documenti segreti, ma non ci sono similitudini. L’unico aspetto in comune è solo il carcere, di entrambi, ma le vicende sono diverse.

Sulla morte di Aleksej Naval'nyj, quotidiano.net, 29 febbraio 2024

  • Ricordo che Alexei Navalny per le autorità russe resta un estremista condannato a quasi 20 anni di carcere. I suoi movimenti sono stati dichiarati illegali e con questi anche i loro simboli, persino il semplice punto esclamativo che compare nei loro account social o la ‘n’ che indentifica appunto Navalny. Utilizzarli è considerato esibizione di insegne terroristiche e punibile con il carcere. Per questo i siti di opposizione stanno ricordando a chi vuole andare ai funerali di non portarsi dietro volantini, magliette, o qualunque altra simbologia politica che possa provocare la repressione da parte delle forze dell’ordine.
  • Mi pare evidente che chi parteciperà ai funerali correrà un altissimo rischio di venire schedato, arrestato dalla polizia o addirittura incriminato. Il Cremlino teme una manifestazione fisica molto visibile. Anche da morto Navalny rimane il simbolo del più forte movimento di opposizione attualmente in Russia.
  • [Su Julija Naval'naja] Ha detto che Putin ha ucciso suo marito, ma ha anche detto che sta portando avanti una guerra criminale. Non si è limitata a rimanere nel suo ruolo di vedova e denunciare Putin perché non voleva restituirle il corpo. Ha fatto un discorso molto politico, ha affermato che Putin ha ucciso suo marito come uccide gli ucraini in guerra, questo è già passibile di discredito delle forze armate. Sebbene Putin abbia poche remore, arrestare una persona che due giorni prima ha parlato al Parlamento Europeo è un po’ pesante. Francamente, poi, non so quanto per Yulia abbia senso ripetere quello che ha fatto suo marito e consegnarsi come una martire del regime russo. Se però il regime russo non l’arresta, è come se dicesse che la teme.

Sull'attentato al Crocus City Hall, lastampa.it, 23 marzo 2024

  • Beslan, Dubrovka, il settembre nero del 1999 a Mosca. Le riprese terribili dall'interno del centro Krokus-City fanno ricordare i momenti più neri della recente storia russa. Il ritorno del terrorismo, nel cuore della Russia, pochi giorni dopo la proclamazione di Vladimir Putin come non solo vincitore delle «elezioni» presidenziali, ma anche come dell'unico politico russo, che governa un Paese di esecutori e sottoposti, fa esplodere quella immagine di controllo totale che il Cremlino aveva proposto come una delle sue principali conquiste.
  • La scenografia della strage di Krokus ricorda tanto Beslan e soprattutto Dubrovka, la presa di ostaggi nel teatro, un altro attacco alla Mosca benestante e indifferente a una tragedia lontana. Ma a vedere le immagini dei commandos che sparano contro le guardie e il pubblico, senza – almeno da quello che si sa per ora – nessuna minaccia, rivendicazione o richiesta – viene in mente semmai la strage del Bataclan. Gli uomini entrati al Krokus non volevano negoziare o mostrare il proprio messaggio, volevano uccidere il maggior numero di persone nel minor tempo possibile, fare terrorismo nel senso più stretto della parola, seminare terrore, totalmente indifferenti a chi sarebbero state le loro vittime. Più che Beslan, o Dubrovka, l'attacco di ieri sera ricorda il raid di Hamas contro Israele, in una festa della violenza.
  • Oggi, una strage a Mosca, se attribuita agli ucraini o a dei "partigiani" russi – e che il commando del Krokus era fatto di professionisti lo si è visto dalla sua mostrosa efficacia - può sicuramente far nascere nei russi una rabbia vera, che potrebbe giustificare una nuova chiamata alle armi che molti temono come imminente. Sarebbe però anche un colpo grave all'immagine del regime, che si propone come l'unico in grado di difendere i russi dalle minacce esterne e interne, e che si fa sfuggire, in una città piena di telecamere e poliziotti, un commando armato fino ai denti che riesce a dileguarsi nel nulla.

Sull'attentato al Crocus City Hall, lastampa.it, 25 marzo 2024

  • La propaganda continua a ripetere il mantra della "traccia ucraina" nella più terribile strage terroristica mai vissuta dalla capitale russa, ma i moscoviti sembrano credere più alle immagini che alle parole, e le facce dei presunti killer che la tv gli sta mostrando sono così simili a decine di altre facce che vedono tutti i giorni. Tassisti, spazzini, muratori, camerieri, venditori al mercato, il "tagiko collettivo" all'improvviso da fonte di irritazione e disprezzo diventa una minaccia. La polizia sta facendo raid a tappeto negli ostelli e nei convitti degli immigrati, le direzioni di molti centri commerciali stanno chiedendo agli affittuari di presentare le liste di tutti i dipendenti originari dall'Asia Centrale, non solo tagiki, ma anche kirghizi, kazakhi, uzbeki. In Russia è tornata la grande paura del terrorismo, che assume subito il volto del diverso, dello straniero, del musulmano.
  • La possente macchina della sicurezza russa, abituata a manganellare i ragazzi con le magliette di Navalny, e arrestare pensionati che scrivono sui social, fallisce clamorosamente di fronte a una minaccia vera e terribile.
  • Il tentativo di utilizzare la tragedia per mobilitare la nazione nella guerra contro Kyiv non sembra aver funzionato. Gli ucraini colpiscono altrove, mentre il Cremlino è costretto a distogliere lo sguardo dalla direzione occidentale, l'unica che gli interessava ultimamente, per ricordarsi di avere le spalle scoperte a Oriente, in quel Caucaso che sembrava ormai "costretto alla pace", e nell'Asia Centrale governata da colleghi dittatori più o meno leali a Mosca. Ma le ambizioni "geopolitiche" di Putin, spesso ispirate dal desiderio di contrastare gli occidentali, hanno lasciato segni in Siria come in Medio Oriente, in diversi Paesi africani appaltati ai mercenari della Wagner, per non parlare delle strane amicizie con i taleban afghani e gli ayatollah iraniani. Un fronte variopinto, il cui odio antirusso potrebbe venire alimentato ulteriormente dalle immagini dei sospetti terroristi torturati dagli agenti russi, insanguinati, con le orecchie tagliate, i pantaloni calati e i fili elettrici attaccati alle parti intime.
  • Le televisioni continuano a mostrare il volto acqua e sapone di Islam Khalilov, il 15enne guardarobiere kirghizo che ha salvato un centinaio di visitatori del Krokus guidandoli verso le uscite secondarie sotto le pallottole dei terroristi. Ma il genio del razzismo forse è già scappato dalla bottiglia, ingigantito dalla paura, e il deputato della Crimea annessa Mikhail Sheremet propone di limitare l'ingresso dei migranti dall'Asia Centrale fino alla conclusione della "operazione militare speciale" in Ucraina, sostenendo che «possono venire usati dai servizi segreti occidentali per atti terroristici».

Sull'attentato al Crocus City Hall, lastampa.it, 27 marzo 2024

  • Probabilmente, la strage nel centro Krokus è stata la più fallimentare della sanguinosa carriera dei jihadisti, non tanto dal punto di vista del tragico bilancio, quanto rispetto al suo impatto mediatico. Per quanto l’Isis stessa continui a rivendicare l’attentato, pubblicando mostruosi video di uccisioni di civili russi, e lanciando minacce al Cremlino, a Mosca continuano a ignorarli. Credere alle rivendicazioni degli islamisti significa, secondo il regime, fare il gioco degli occidentali, che sono i veri colpevoli dell’accaduto [...].
  • Terroristi islamisti e ucraini "nazisti", la Cia e l’Interpol, la Nato e l’Isis, un cocktail cospirazionista da agitare ma non mescolare, che dagli account più deliranti della galassia social viene elevato a posizione ufficiale di un Paese che tiene enormemente a venire riconosciuto come una "grande potenza", il cui presidente - considerato per anni perfino da molti occidentali critici come un gran maestro della "geopolitica", forte della sua preparazione nel Kgb - sembra non attribuire alcuna importanza alle apparenti incompatibilità tra cristiani, ebrei, islamisti fondamentalisti. Tutti sono nemici della Russia, l’odio verso Mosca unisce nemici giurati, e Washington governa il mondo tirando le fila in Ucraina come in Tagikistan, in una manifestazione di onnipotenza malefica e perfetta da film di James Bond. In uno spettacolo surreale, la corte di Putin lo asseconda nel confermare la sua paranoia, e la propone - anzi, la vuole imporre - al mondo, citando come fonte le confessioni dei terroristi tagiki che gli stessi servizi russi si vantano di avere torturato davanti alle telecamere. Un buon modo di far dimenticare un fallimento clamoroso, dopo aver ignorato gli allarmi di attentato a Mosca lanciati dagli americani, e di aver fatto tardare i soccorsi alle vittime dei terroristi imprigionate nel teatro che bruciava.
  • Nella nuova tragedia russa, quello che forse colpisce di più è proprio questo: il distacco ormai definitivo dalla realtà, e lo sfoggio compiaciuto della violenza. I sospetti terroristi sono stati esibiti al tribunale massacrati di botte. Uno era in carrozzella, con il catetere attaccato, apparentemente in coma, l’altro con le bende al posto dell’orecchio tagliato durante l’arresto, il terzo con ancora al collo una busta di plastica che probabilmente era stata usata per soffocarlo. Le torture non sono state nascoste, né smentite, ma sfoggiate con orgoglio. Difficile credere seriamente alle "confessioni" che possono produrre questi personaggi, ma Putin non sembra più interessato ad apparire credibile né rispettabile.

Intervista di Francesco Subiaco, vocerepubblicana.it, 20 aprile 2024

  • La morte di Navalny ha mostrato come il regime di Putin non ha intenzione di fermarsi davanti a nulla nelle sue ambizioni imperiali neanche di fronte all'opinione pubblica internazionale o ad un danno della propria immagine pubblica come quello dell'uccisione di un dissidente politico.
  • Oggi, [...] l'opposizione non ha un leader chiaro ed anzi sembra divisa e disgregata in molti particolarismi. A mio avviso solo Julija Naval'naja potrebbe svolgere questo ruolo simbolico di collante delle molte anime dell'opposizione al regime di Vladimir Putin.
  • [Su Julija Naval'naja] Lei potrebbe essere anche qualcosa di più di quello che fu nel contesto antifascista Ada Gobetti, perché ha seguito il suo destino politico non solo come una compagna leale ma anche come una dissidente e una oppositrice politica vera e propria. Non è soltanto una vedova, ma una figura capace di unire l'opposizione forse di più di suo marito, su cui gravavano ancora alcune superate mistificazioni.
  • [«Tornando sulla figura di Navalny molti gridano al double standard, soprattutto in relazione alla figura di Julian Assange, cosa ne pensa?»] È una insensatezza perché da una parte abbiamo un leader politico che ha attaccato e denunciato il regime russo per difendere e garantire la libertà e la democrazia in Russia e per questo è stato ucciso in carcere. Mentre Julian Assange non è né un capo dell'opposizione né un dissidente. Lui ha agito in un contesto democratico ed infatti la sua difesa, a prescindere dalla valutazione sul personaggio e del caso, viene garantita da leggi democratiche. Al di là del trattamento di Assange mi sembra un paragone inconsistente che anzi cerca una parificazione tra Stati Uniti e Russia che mi sembra insensata ed errata.

Sulle proteste in Georgia del 2023-2024, lastampa.it, 3 maggio 2024

  • La rivolta contro la "legge russa", iniziata ad aprile, è andata ben oltre uno scontro tra governo e opposizione: la Georgia sta oscillando sull'orlo di una crisi violenta che potrebbe decidere il suo futuro europeo.
  • Il Sogno Georgiano [...] non nasconde più a cosa serve la "legge russa": dalla tribuna di un comizio a Tbilisi l'oligarca Bidzina Ivanishvili – ex premier e vero ideologo e proprietario del partito al governo – ha chiamato a emettere «la sentenza finale» contro l'opposizione, che accusa di essere «agenti stranieri» del «partito della guerra globale dell'Ue e della Nato», che stanno «preparando la rivoluzione» in vista delle elezioni di ottobre.
  • Per Vladimir Putin, il Paese caucasico è cruciale non soltanto perché era stato il primo ad abbandonare l'orbita filorussa, ma anche perché in Georgia hanno trovato rifugio centinaia di migliaia di esuli russi contrari alla guerra in Ucraina (molti dei quali stanno ora scendendo in piazza a fianco dei giovani georgiani). I propagandisti televisivi russi stanno già chiamando a invadere la Georgia.
  • [...] la "legge russa" permetterebbe di silenziare Ong e giornali d'opposizione in vista delle elezioni. Un progetto che però dovrà passare letteralmente sul corpo dei giovani georgiani in piazza, in una spaccatura generazionale sempre più evidente e drammatica.
  • Secondo i sondaggi, la maggioranza dei georgiani è favorevole all'avvicinamento all'Europa, e la protesta scatenata dalla "legge russa" ha mostrato la presenza di una società civile molto determinata (in Russia a suo tempo Putin approvò le sue leggi liberticide senza incontrare alcuna resistenza che non fosse di pochi intellettuali). Quanto la piazza del parlamento di Tbilisi possa diventare un nuovo Maidan, oppure una Tiananmen, dipenderà però anche da altri attori [...].
  1. Da Ordine di Mosca: nessuna pietà per i ceceni, La Stampa, 20 dicembre 1994
  2. a b Da Mosca caccia il leader dei diritti umani, La Stampa, 11 marzo 1995.
  3. Da «Attaccate e sarà strage», La Stampa, 13 gennaio 1996.
  4. Da Mosca ai ceceni: adesso basta. Nel Caucaso è l'ora del blitz, La Stampa, 15 gennaio 1996.
  5. a b Da I ceceni? Tutti assassini o ladri, La Stampa, 21 gennaio 1996.
  6. Da Gli ostaggi temono i soldati, La Stampa, 22 gennaio 1996.
  7. a b Da Korzhakov, La Stampa, 21 giugno 1996.
  8. a b Da Barsukov, La Stampa, 21 giugno 1996.
  9. a b Da Mosca alla Cecenia: siamo pronti all'invasione, La Stampa, 27 settembre 1999
  10. Da «Consideriamo terrorista chiunque resti a Grozny», La Stampa, 7 dicembre 1999
  11. Da Bombe incendiarie sui ceceni, La Stampa, 28 dicembre 1999
  12. Da Una bara d'acciaio sul fondo dell'Artico, La Stampa, 15 agosto 2000
  13. Da «Non ci sono più speranze per il Kursk», La Stampa, 20 agosto 2000
  14. a b Da «Impossibile ricostruire Grozny», La Stampa, 8 febbraio 2000.
  15. Da La strana rivolta dell'Ucraina, La Stampa, 11 marzo 2001
  16. a b Da Messaggio d'amore dalla bara del Kursk, La Stampa, 5 novembre 2001
  17. Da Nuove truppe russe. La risposta di Putin, La Stampa, 11 maggio 2004.
  18. Da Annessione secca, Ilfoglio.it, 6 marzo 2014
  19. Da Il Cremlino non può più vendere ai cittadini spazientiti il mito della guerra, Ilfoglio.it, 26 febbraio 2022
  20. Da Daghestan, attaccate chiesa e sinagoga, lastampa.it, 24 giugno 2024.
  21. Citato in Chi ha smascherato Nicolai Lilin, lo scrittore filo-Putin che incantò anche Gabriele Salvatores? Ripubblicato l’articolo che lo mette spalle al muro (dal 2009), tag24.it, 20 agosto 2024.

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