Giulietto Chiesa

giornalista e politico italiano (1940-2020)

Giulietto Chiesa (1940 – 2020), giornalista e politico italiano.

Giulietto Chiesa nel 2005

Citazioni di Giulietto Chiesa modifica

  Citazioni in ordine temporale.

  • [Sulla guerra civile afghana] L'islamico Masood contro l'islamico Hekmatyar contro gl'islamici di Kabul. Di una cosa sola nessuno parla, che è poi la più importante: della linea di demarcazione tra le etnie e le tribù. E del problema di chi comanderà davvero. Forse siamo all'inizio della fine dell'Afghanistan come Paese unito.[1]
  • [Sulla dissoluzione dell'Unione Sovietica] Ora si discute su chi ha «vinto» la guerra fredda. Discussione vana. L'Urss ne è uscita distrutta, ma l'Occidente non ha «risposte efficaci» per i problemi che ne derivano.[2]
  • [Su Vladimir Putin durante l'incidente del K-141 Kursk] Il disastro del Kursk gli ha fatto compiere tre errori che potrebbero essergli fatali. Il primo errore è stato di non interrompere la sua vacanza. Un autogol d'immagine che gli costerà caro in patria, ma soprattutto all'estero. Non si resta sul Mar Nero, anche se si ha il telefono in mano 24 ore su 24, mentre 116 uomini del tuo esercito stanno morendo sul fondo del mare. Un tale comportamento potrebbe apparire sbalorditivo se non sapessimo quale abissale distanza continua a rimanere tra chi siede al Cremlino e i cittadini della Russia. [...] Il suo secondo errore è stato più grave del primo: fidarsi dei militari. [...] Purtroppo l'80 per cento dei marescialli, dei generali, degli ammiragli russi è ormai composto da burocrati corrotti nominati da Boris Eltsin e a lui fedeli. Come aspettarsi onestà e competenza da «quadri» di questa tempra? [...] Il terzo errore potrebbe rivelarsi fatale. Vladimir Putin è oggi sotto il fuoco concentrico di tutta la stampa russa. Le critiche che gli muove il mondo intero, insensibilità, disprezzo per la vita umana, superbia del potere e via di questo passo, rimbalzano sui media russi con addirittura maggiore ferocia. Situazione apparentemente sana – direbbero gli entusiasti che, negli anni scorsi, scambiavano per libertà di stampa le campagne propagandistiche del Cremlino eltsiniano. Da paese libero e moderno. Se non fosse che tutti i media sono in mano ad un gruppetto ristrittissimo di oligarchi, che fanno parte di quel vasto ceto di Quisling russi cui Vladimir Putin avrebbe dovuto garantire, appunto, l'«uscita di sicurezza».[3]
  • Purtroppo l'azione dell'Occidente, guidato dagli Stati Uniti, ci sta trascinando verso lo scontro con la Russia, con la Cina e con il resto dei sette miliardi di abitanti del pianeta. La ragione è una sola, ed è semplice: gli Stati Uniti non sono in grado di capire che il XXI secolo non può più essere "americano". E pensano di essere ancora il centro del mondo, di avere il pallino in mano. Ma non lo hanno già più. Purtroppo hanno in mano il bottone nucleare e le banche. Con il primo possono mandarci tutti al creatore (noi europei per primi). Con il secondo vogliono costringere Russia e Cina a arrendersi. Ma è come se si pensasse di trascinare un elefante con un triciclo.[4]
  • Sono stupito e dissento totalmente dalle parole scritte (Il Fatto del 26 marzo) da un magistrato di valore come Gian Carlo Caselli. Che scrive: "Non ci sono elementi sufficienti per dire che le BR furono eterodirette". Sbalordisco. Ci sono valanghe di prove per affermarlo, a cominciare dal covo di Via Gradoli (di proprietà del Ministero degli Interni), per finire con le rivelazioni di Pieczenick, di Giannino Galloni. Per continuare con le prove delle decine di depistaggi provenienti da diversi settori dello Stato, dai servizi segreti italiani e stranieri, dalle dichiarazioni dello stesso Aldo Moro prima di venire catturato e ucciso, dal Lago della Duchessa, dai documenti trafugati, dalle sporchissime biografie dei cosiddetti "servitori dello Stato", tutti iscritti alla P2, alle testimonianze lasciate cadere su chi e quanti spararono a Via Fani, su chi c'era a Via Fani, su quanti erano là a coprire e a sorvegliare che tutto si svolgesse come "doveva svolgersi" e che non erano membri della Brigate Rosse.[5]
  • C’è qualcuno che può credere al Russiagate e alla sovversione putiniana delle nostre coscienze, quando la quota dell’immagine della Russia presente nei nostri cervelli - quella non inquinata dalla possente narrazione occidentale - è a livelli omeopatici, cioè uguale a zero?[6]
  • La Moldova attuale è oltremodo incerta, nel suo complesso, e striata da numerose linee di faglia molto mobili, cioè cangianti a seconda delle pressioni e delle promesse. Oltre al fatto che ai suoi confini orientali esiste lo Stato indipendente dell'"Oltre Dnestr", paese non riconosciuto in Europa e nel mondo, ma che parla la stessa lingua della Moldova, che è "quasi russo", dal quale si è diviso dopo una violentissima guerra quasi fratricida al momento del crollo dell'Unione Sovietica.[7]

Da Ossezia, nel Libano di Gorbaciov

La Stampa, 17 febbraio 1991

  • [Sull prima guerra in Ossezia del Sud] Un incubo, dove l'orrore lascia spazio solo alla desolazione e la violenza incombe ad ogni passo. Non ho raffronti possibili. Nemmeno l'Afghanistan, dove pure la guerra è stata sanguinosa e senza quartiere.
  • Se Gorbaciov decide l'uso delle truppe a difesa degli ossetini del Sud, allora dovrà fronteggiare l'insurrezione armata della Georgia. E Gorbaciov non azzarda questo passo dalle gravi ripercussioni internazionali e interne.
  • [Sulla guerra civile in Georgia] Un groviglio inestricabile di odi ancestrali che potrebbe trasformare l'intera regione del Caucaso in un Libano gigantesco e incontrollabile.
    E non c'è dubbio che anche Mosca gioca le sue carte, «usando» l'Ossezia del Sud - che non vuole seguire la Georgia sulla strada dell'indipendenza dall'Urss - come argomento che potrebbe giustificare un intervento sovietico «pacificatore». Ma i nuovi dirigenti georgiani, emersi dal crollo comunista nelle elezioni di ottobre, hanno dato più che una mano a questo disegno, applicando la legge del più forte contro le minoranze etniche annullando ogni autonomia, nominando prefetti, scatenando bande armate. Obiettivo dichiarato del Presidente georgiano è ora quello di cacciare dalle loro terre i 164 mila ossetini del Sud: se vogliono la loro autonomia - ha detto Gamsakhurdia - «se la cerchino nell'Ossezia del Nord».
  • Quando, attraversante le linee, mi volto indietro a guardare Tzinkhvali, vedo da lontano una donna vestita di nero che trascina lo slittino con una botticella d'acqua. L'ho già vista questa scena. Era una fotografia dell'assedio di Leningrado.

Da Afghanistan, i mujaheddin hanno vinto

Su Mohammad Najibullah, La Stampa, 17 aprile 1992

  • Cade, sotto la mannaia della storia, l'ultima «vittima» della perestrojka. Quando lo incontrai per l'ultima volta - era l'ottobre del 1990 - eravamo tutti in un altro secolo, in un altro mondo. Il dottor Najibullah, il presidente dell'Afghanistan, il segretario generale del Partito Watan, era ancora un uomo potente e sicuro. «Se vuole vedere la pace a Kabul, tornerà presto!», mi disse. E intendeva dire che la pace l'avrebbe portata lui: che gli altri, quelli di Peshawar, non l'avrebbero spuntata.
  • I più pessimisti gli davano qualche settimana. Ricordo la sua risata metallica, che scoprì una fila di denti impeccabili, quando commentò le profezie che lo davano per morto. 20 mesi dopo era ancora al suo posto.
  • Aveva capito perfettamente - come Gorbaciov - che la partita, cominciata da Breznev e Taraki nel 1978, era perduta. [...] Ma poi - caduto Hafizzullah Amin sotto il piombo dei «berretti verdi» inviati dal Cremlino per «correggere» la situazione - era tornato alla testa della polizia segreta e vi era rimasto per cinque anni. Questo non gli hanno perdonato e non gli perdoneranno i vincitori che oggi assediano Kabul per anticipare il piano di pace delle Nazioni Unite (e per dividersi, sul filo delle spade, il potere).
  • Najibullah si difese, un giorno, dalle accuse di efferatezze, dicendo con un sarcastico sorriso di avere fatto la stessa carriera del presidente Bush: prima alla Cia e poi alla Casa Bianca. Ma era una battuta per platee occidentali, pacificate dal digestivo dopo lauti pranzi, non certo per le bande lacere dei contadini torturati nella prigione circolare di Puli-Charki, progettata dai mancati conquistatori britannici.

Da Suicida a Capodanno il grande nemico di Shevardnadze

La Stampa, 6 gennaio 1994

  • Continuava a considerarsi l'unico legittimo presidente della Georgia. Aveva tentato disperatamente, a più riprese, di riprendersi con la forza il potere che, con la forza, gli avevano sottratto.
  • Zviad Gamsakhurdia era riuscito anche a bruciare le tappe che dividono l'eroe popolare, idolatrato dalle masse, dal despota che il volubile popolo vuole detronizzare. In soli nove mesi la Georgia si era trovata governata da un dittatore paranoico, aveva ingaggiato una guerra molto simile alla pulizia etnica contro gli osseti del Sud, era precapitata in una crisi economica senza speranza.
  • Anche sulla sua «qualità» di dissidente - su cui molti erano disposti a mettere la mano sul fuoco - aleggiavano molti dubbi. Aveva militato, alla fine degli Anni 70, come difensore dei diritti umani a fianco di Merab Kostava, vero idolo della Georgia. Ma, quando furono arrestati entrambi da Shevardnadze, che allora guidava il parito comunista georgiano, Gamsakhurdia si autocriticò in televisione e fu liberato, mentre Kostava rimase dentro.

Da Su la testa, Grande Russia

Su Aleksandr Ivanovič Lebed', La Stampa, 15 dicembre 1995

  • Lui, Aleksandr Ivanovic, parla in piedi, sull'attenti, come si conviene a un militare tutto d'un pezzo. Le mani lungo i fianchi, niente appunti, la voce tonante di basso, le labbra che appena si muovono, sembra scolpito nel granito. Dice cose pesanti come pietre, con l'aria di chi non ha tempo da perdere.
  • Non alza mai la voce, non si scompone, non sorride mai. Una specie di Schwarzenneger in divisa, capelli corti, in ordine fino all'ultimo bottone.
  • È abituato a parlare all'aria aperta, alle sue truppe. Il linguaggio è quello del popolo, fatto di battute trancianti, privo di ricercatezze che, del resto, non gli sono proprie. Ma tutto è chiaro, comprensibile, vicino. È uno di loro che parla come loro.
  • [...] chi si troverà di fronte come avversario questo candidato a presidente della Russia avrà la vita difficile.

Da Berezovskij, il burattinaio che ha pensionato zar Boris

La Stampa, 2 gennaio 2000

  • Boris Berezovskij, chi era costui? Era - diranno gli storici della Russia - il più agguerrito degli oligarchi dell'era Eltsin, il più spregiudicato, il più astuto. Forse non il più ricco ma, certo, colui che meglio ha saputo tradurre in politica la sua fortuna.
  • Senza il suo acume, con ogni probabilità, Vladimir Putin non avrebbe oggi le redini della Russia.
  • Un uomo senza dubbio poliedrico. Forse non esattamente un imprenditore, così come lo si intende dalle nostre parti, ma sicuramente uno che sa come usare il denaro.

Da Menzogne in fondo all'artico

Sull'incidente del K-141 Kursk, La Stampa, 17 agosto 2000

  • Una Cernobyl subacquea in tutti i sensi. [...] Sono passati gli anni, i leader, i regimi, e di nuovo l'informazione giunge con analogo ritardo, di nuovo la dittatura del segreto, la stupidità dei burocrati (in questo caso militari) ingigantiscono la tragedia, moltiplicando il disastro.
  • Come confermano gli orgogliosi rifiuti degli aiuti offerti, solo smentiti in ritardo da Putin dopo il colloquio telefonico con Clinton – in mezzo allo sfacelo, forse proprio perché lo sfacelo è evidente e doloroso, spunta la pianta della rivincita, della speranza indomabile di una rinascita autarchica, estranea e ostile ai valori esterni. Così la tragedia di quelle centosedici gioviani vite diventa motivo di dolore e recriminazione. Il riscatto e la salvezza, se verranno, debbono essere russi. Anche questo è segno di malattia e di tormento.
  • Il Kursk è solo il sintomo finale di un terribile errore politico. E il problema che evidenzia non è risolvibile con le sole forze di questo gigante malato. Proprio come Cernobyl.

Da Baraev, icona di una Cecenia islamista più che nazionalista

Su Mosvar Baraev, La Stampa, 27 ottobre 2002

  • La sua biografia è quella di un «mezzatacca», un capobanda di medio livello, messo alla testa di una banda di circa 200 uomini (secondo le informazioni fornite dal capo delle milizie cecene filorusse Said Selin Peshkoev) dal caso, cioè dalla morte dello zio Arbi Baraev.
  • È stato a suo modo un paradigma della trasformazione intervenuta, nella guerra cecena, nel corso degli ultimi due anni. Trasformazione, cioè trascoloramento graduale dal nazionalismo all'islamismo e, contemporaneamente, passaggio dalla guerriglia militare all'organizzazione criminal-mafiosa.
  • Non è né una novità, e non sarebbe neppure una sorpresa, scoprire che il giovane Baraev ha agito all'interno di un piano che si prefiggeva scopi assai diversi da quelli proclamati - e perfino creduti - dai membri del commando suicida.

Da Si riaccendono le polveri nel Caucaso

La Stampa, 24 novembre 2003

  • [Su Eduard Shevardnadze] In dieci anni, tornato a Tblisi acclamato come il salvatore e padre di una patria che, in preda al delirio collettivo, aveva trionfalmente portato al potere un demente chiamato Zviad Gamsakhurdia, Shevardnadze si era trovato nelle mani un paese spezzato in tre dalla guerra civile, in preda a vere e proprie bande di predoni, senza un'economia, senza un esercito nazionale, senza esperienza democratica.
  • [Sulla prima guerra in Abcasia e la prima guerra in Ossezia del Sud] L'Abkhazia non avrebbe cominciato - e portato a compimento con successo - la secessione, se non fosse stata aiutata, armata, stimolata dai militari russi, che agivano indipendentemente e contro il Cremlino di Boris Eltsin. L'Ossetia del Sud non si sarebbe staccata se non vi fosse stato l'aiuto dei fratelli dell'Ossetia del Nord, rimasti nella federazione russa.
  • [Su Eduard Shevardnadze] Forse avrebbe dovuto ripulire il paese con più energia dalle mafie che lo sbifrano. Ma una cosa del genere non si può fare senza reprimere, cioè senza mettere tra parentesi anche quel poco di democrazia che stava creando. Forse si può dire di lui che ha commesso lo stesso «errore» di Gorbaciov, di cui fu «figlio». Una sorte che lo ha trasformato, giorno dopo giorno, in un vaso di coccio destinato ad andare in frantumi.

Da La vendetta del Cremlino

Sulla crisi del teatro Dubrovka, La Stampa, 24 novembre 2003

  • Chi scriverà la storia di questa storia avrà pane per i suoi denti. Perché balzano agli occhi, nel suo esito tragico, troppe incongruenze che la logica non può spiegare.
  • Resta l'evidenza di un commando troppo inesperto, con un capo dotato di una storia personale tra le più equivoche, ma inesperto e senza carisma, circondato di giovani impauriti – così li hanno descritti quelli che ci hanno parlato insieme – che non sapevano fronteggiare le evenienze più elementari, che non avevano saputo fin dall'inzio nemmeno blindare le entrate del teatro. Tant'è vero che in quel colabrodo pieno di ostaggi hanno potuto entrare a più riprese giornalisti stranieri e russi, avanguardie dell'offensiva inevitabile delle teste di cuoio della Brigata Alfa, acquartierate nei pressi del palazzo della cultura sovietica, trasformato in teatro della cultura americana.
  • Mi raccontano, al telefono, che nelle poche famiglie di Grozny dotate di televisori, gli eventi moscoviti venivano seguiti con manifestazioni di giubilo, per una vendetta che si sperava sarebbe stata consumata con molto sangue russo. Non so se sia vero, ma è attendibile, conoscendo il clima di quelle parti dopo cinque anni complessivi di guerra e 130 mila morti civili.
  • La vendetta di Putin calerà in primo luogo sui vicini. Lo esige il suo prestigio lesionato. Perché è vero che molti parenti degli ostaggi rimasti in vita lo ringraziano oggi per la sua decisione, ma nessuno potrà dimenticare tanto presto che un commando di kamikaze è entrato nella città più munita della Russia e ha contribuito a farne morire decine.

Da L'ex presidente Maskhadov. L'ultima chance per trattare

Su Aslan Maschadov, La Stampa, 8 febbraio 2004

  • Se non si arrivò fino al 2001 per fare i conti fu esattamente perché a Mosca ci si doveva liberare di Boris Eltsin, ormai impresentabile. E gli oligarchi, tutti insieme, scelsero «Nessuno» per sostituire l'ubriaco. Ma far vincere «Nessuno» significava dargli una fisionomia. E pensarono che questa poteva essergli conferita con una guerra vittoriosa. Così ruppero la tregua con Maskhadov, che era stato riconosciuto ufficialmente da Mosca come legittimo presidente e cominciarono la guerra. Facendo in modo che la colpa cadesse sui ceceni.
  • [Su Achmat Kadyrov] Rappresenta i ceceni più o meno come Chalabi rappresenta gli iracheni.
  • In un solo senso la Cecenia era un problema interno russo: nel senso che Putin non può permettersi – né ora, né mai – di lasciar andare quel fazzoletto di territorio. Questa è la sua linea Maginot. Qualunque altro presidente russo, al suo posto, farebbe lo stesso. Altre repubbliche musulmane stanno a guardare, il Tatarstan, il Bashkortostan. E nel Caucaso del Nord altre repubbliche minori, come la Kabardino-Balkaria e altre, aspettano il loro turno.
  • Putin non può concedere l'indipendenza, ma non può ignorare la storia. In mezzo al fiume di sangue innocente c'è la possibilità di un cessate il fuoco, concordato con coloro che vogliono cessarlo. Non sarebbe un segno di debolezza, ma di saggezza.

Da Ucciso dagli ex amici. L'inevitabile destino dell'uomo di Mosca

Su Achmat Kadyrov, La Stampa, 10 maggio 2004

  • Presidente artificiale della Cecenia, aveva un esercito ufficiale di 13 mila ceceni, pagato direttamente da Mosca, e un esercito ufficioso di almeno 5000 uomini – i famigerati «kadyrovzi» – che costituivano la sua guardia personale, sotto il comando del figlio maggiore, Zelimkhan Akhmadovic. L'uno e l'altro non sono stati sufficienti a salvarlo.
  • Islamista piuttosto indifferente alle dispute teologiche, Kadyrov aveva preferito i rubli alla compagnia dei wahhabiti di Qattab. Ma nemmeno il moderato Aslan Maskhadov aveva digerito il suo collaborazionismo con i russi e lo aveva condannato a morte come «nemico del popolo».
  • Chi ha organizzato quest'ultimo, sanguinoso attentato, oltre a sancire la fine di Kadyrov intendeva anche fare uno scarabocchio sanguinoso sul trono del nuovo zar. Di colui che può tutto, ma non fermare qualche centinaio di ribelli.

Da La guerra di Anna

Su Anna Stepanovna Politkovskaja, La Stampa, 8 ottobre 2006

  • L'assassinio di Anna Politkovskaja dice crudamente che il tempo della legge non è ancora arrivato a Mosca. È ancora guerra per bande, sicuramente non del tutto nuove, che tornano a mandare i sicari negli androni dei palazzi moscoviti - se si tratta dei meno abbienti - o agl'incroci delle grandi vie d'uscita dalla città verso le dacie lussuose immerse nei boschi tutto attorno, vigilate da alte mura di cemento, da telecamere sempre accese, da guardie del corpo numerose e bene armate.
  • Lei non aveva partecipato alla divisione del malloppo statale. Lei aveva raccontato come «quelli», dopo essersi scannati tra di loro, avevano organizzato le guerre di Cecenia, per far credere ai russi che tutelavano i loro interessi, che volevano ripristinare la grandezza perduta del Paese. Ma dire la verità sulla Cecenia, andare laggiù - come lei fece tante volte - per raccontare come i diritti umani di un popolo venivano schiacciati, era pericoloso. [...] I palazzi dei poteri, pubblici e privati, non gradiscono i ficcanaso che rovistano nei loro affari.
  • Nei Paesi «civili», di regola i giornalisti scomodi li si ferma con l'uso improprio delle leggi. Il vantaggio, per chi ha voglia di dire la verità è che, se anche non ci riesce del tutto, almeno rimane vivo. In Russia, vent'anni dopo Gorbaciov, i giornalisti li si ferma «spegnendoli», come avrebbe detto Niccolò Machiavelli, secondo il vecchio criterio staliniano, che un uomo morto è un problema chiuso. Aveva «offeso» molti, sicuramente troppi. Ma non è probabile che l'abbiano ammazzata per vendetta. Anna Politkovskaja stava forse inseguendo una traccia delle sue.
  • La Cecenia l'ha raccontata meglio di chiunque altro. Aveva altre cose da dire. L'hanno tolta di mezzo prima che le dicesse.

Da Anna Politkovskaja

Da Storia delle donne, 4 (2008), Firenze University Press, pp. 13-19, ISSN 1826-7505

  • La ricordo come una collega giovane, non appariscente, quasi dimessa, con la testa china sul suo taccuino di appunti. A ripensarci dopo tanti anni e, poi, dopo la sua morte, che carica oggi ogni suo ricordo di una valenza e di una profondità che allora non sarebbero state immaginabili, emerge l'impressione di una testarda tenacia in quel capo leggermente piegato di lato, in quella voce sottile con cui, qualche volta, poneva domande a quelli che stavano dall'altra parte del tavolo. Non li stimava, e quindi non poteva ammirarli. E si vedeva. Anzi, non mi pare facesse nulla perché non si vedesse.
  • [Sulla prima guerra cecena] All'inizio tutto era molto chiaro: da una parte i ceceni indipendentisti, guidati da Dudaev, dall'altra i russi oppressori, e anche corrotti, che usavano la guerra per la lotta politica a Mosca, gli uni contro gli altri. Del resto non ci voleva molta fantasia per capire che la guerra era stata scatenata da Boris Eltsin e dai suoi sodali per creare le condizioni di una vittoriosa rielezione nel 1996, con una bella, rapida, folgorante vittoria militare contro i separatisti. E dunque era facile e bello, per noi giornalisti, stare dalla parte del Davide puro contro il Golia prepotenze e ottuso. Era bello e logico, perché il Davide ceceno era limpido nelle sue richieste, ed era seguito da tutto un popolo, mentre il Golia russo era una camarilla di banditi dietro i quali stava l'indifferenza dei milioni di russi che tacevano. Fu questa la ragione per cui Golia fu sconfitto in quella prima guerra, e toccò al generale Aleksandr Lebed – uno dei pochi onesti rimasti – andare a Khasaviurt, in Daghestan, a firmare il disastro della defunta Armata Rossa.
  • Anna Politkovskaja aveva capito, con l'inizio della seconda guerra cecena, nell'agosto-settembre 1999, che i democratici in Russia non esistevano più. Perché erano stati proprio loro ad aprire la strada al nuovo massacro. Ma probabilmente Anna non aveva capito mche la seconda guerra cecena era ormai molto diversa dalla prima. Che sarebbe stato impossibile scegliere con chi stare, con chi parlare, di chi fidarsi. Non ci sono mai state guerre pulite, ma quella cecena era diventata, in primo luogo, internazionale; si era caricata di significati multipli, era divenuta tremendamente ambigua. C'erano sì, come sempre, i poveri disgraziati che morivano, le donne violentate, le famiglie distrutte. Ma era difficile tracciare linee di demarcazione. Non c'erano più "buoni" e "cattivi", perché tutti erano divenuti cattivi. Si giocavano in Cecenia partite molto più grandi di quei piccoli confini. Alcuni filoni d'oro portavano a Mosca, altri nei deserti mediorientali, altri ancora, molto più lontano, a Washington. E quale verità puoi raccontare in queste condizioni? Chi guida la tua auto, in mezzo a quelle montagne? Chi ascolta le tue telefonate?
  • Chi ha ucciso Anna Politkovskaja non lo sappiamo. Sospetto che non lo sapremo mai. Non ho mai creduto, però, alla tesi più semplice, più banale, più ovvia: che il mandante fosse colui che tutte le persone normali penserebbero il più irritato per le puntigliose, sarcastiche rivelazioni di Anna. Ho imparato a tenere conto dell'astuzia, spesso davvero raffinata, degli specialisti in queste faccende. Sono dei professionisti, di regola di primo livello. Sanno calcolare gli effetti che producono; sanno perfettamente che l'opinione pubblica non è in grado di fare due passaggi logici. [...] Vladimir Putin ha dimostrato in questi anni di avere i nervi saldi. Gli si farebbe torto ritenendolo così ingenuo da fargli commissionare un assassinio che l'uomo della strada, perfino quello di Katmandu, gli avrebbe immediatamente attribuito.
  • Anna avevo "offeso" molti, sicuramente troppi. Ma non mi pare probabile che l'abbiano ammazzata per vendetta. Perché nessuno leggeva le cose che lei scriveva. Salvo, appunto, quei pochi che avevano accesso alla sua nicchia di fatica e di caparbietà.
  • Perché ha rischiato oltre il limite? Perché non ha pensato alla sua famiglia, ai figli? Cosa spinge a rischiare coloro che il destino colloca su una strada pericolosa? Mi viene in mente una persona come Giovanni Falcone. Anche lui sapeva di rischiare e ha giocato la sua vita sapendolo. Forse perché si pensa sempre che "non toccherà a noi". Oppure, più semplicemente, si fa quello che si ritiene giusto fare. E, avendo scoperto la verità, la si dice perché non se ne può fare a meno, perché altrimenti sarebbe troppo difficile guardare in faccia i propri figli dopo avere taciuto.

Da Crimea, note dalla "modernizzazione"

Ilfattoquotidiano.it, 28 giugno 2014

  • La Crimea è di nuovo russa. Qui nessuno ne dubita. Ma i problemi ci sono. Trasferire da uno Stato a un altro due milioni e mezzo di persone non è cosa semplice. Tutte le banche ucraine hanno tolto le tende. Il passaggio al rublo è in corso, ma richiederà tempo. Le carte Visa e Master Card non funzionano. Gli uffici postali pagano le pensioni, in rubli, ma gli scambi economici si divincolano a fatica. Sulle macchinette che distribuiscono bevande c’è scritto, sulla bandiera tricolore russa: “qui potete mettere i rubli”. Ma intanto l’Europa ha fatto sapere che non concederà visti d’ingresso a passaporti dove c’è scritto “residente in Crimea”. Dunque adesso sono cittadini russi, ma discriminati dall’Ue: vendetta per punirli di avere votato contro Kiev.
  • Qui la Russia c’è sempre stata e non se n’è mai andata. C’era la Flotta e c’è ancora. C’era la storia russa, tutta intera: quella degli zar, quella sovietica. C’era la letteratura russa, di Lev Tolstoi, di Pushkin, di Cekhov. E adesso è pieno di bandiere nazionali russe. Ce ne sono di più di quelle – americane s’intende- che sventolano a Washington. Qui è venuto, il 9 maggio, il presidente Putin, a posare la corona di fiori al monumento dei caduti russi e ucraini della Grande Guerra Patriottica. E, non a caso, la statua dell’Ammiraglio Nakhimov che si erge al centro della piazza omonima, nel quartiere di Balaklava, gloria della Russia intera, sta proprio di fronte all’arcigno monumento della vittoria sul nazismo.
  • I tre ubriaconi che firmarono il patto della Beloveshkaja Puscha, la notte dell’8 dicembre 1991, nel quale proclamavano, tra una vodka e l’altra, che “l’entità un tempo nota come Unione Sovietica non esisteva più”, non si resero conto che sollevavano onde che sarebbero arrivate a riva molti anni, anzi decenni, dopo di loro. Si chiamavano Eltsin, Kravchuk, Sushkevic, ma chi se li ricorda più?

Citazioni su Giulietto Chiesa modifica

Paolo Guzzanti modifica

  Citazioni in ordine temporale.

  • Eravamo nemici. Lo eravamo apertamente e francamente e ci siamo scontrati in anni lontani anche in televisione. Eravamo agli antipodi l'uno dell'altro, sicché dubito molto che a parti invertite - me morto e lui a scrivere - avrebbe avuto parole misericordiose, o semplicemente decorose.
  • Odiava l'America, nel senso degli Stati Uniti, e l'ha descritta come corrispondente nei modi peggiori, attingendo a tutto ciò che gli americani - questo straordinario popolo di masochisti libertari - dicono (male) di se stessi nei film, nella letteratura, nel loro modo onesto e aperto.
  • Era anche un complottista paranoico sull'Undici Settembre delle Torri Gemelle, credeva che una «cabina di regia» stesse dietro il terrorismo in Europa, pensava che gli americani non fossero realmente andati sulla Luna e leggo che lo stesso Peter Gomez del Fatto Quotidiano, sul quale Chiesa teneva un blog, considerava le sue opinioni «strampalate». In realtà erano coerentissime e legate tra loro da una logica - intellettualmente parlando - infernale, senza il minimo spazio aperto a ortodossie che non fossero la sua.

Anna Zafesova modifica

  • A Giulietto piaceva litigare. Non era mai stato nel mainstream. Forse era questo il suo tratto dominante. Mai per motivi privati, soltanto per prese di posizione politiche che lui trovava incompatibili.
  • Era una contraddizione perenne, Giulietto Chiesa. Il corrispondente anticomunista di un giornale comunista, il primo a meritarsi la borsa di ricercatore in quella roccaforte della sovietologia americana che era il Kennan Institute di Washington. Era inviso agli apparatchik di Breznev quando era all’Unità e ai liberali di Eltsin quando era passato a La Stampa, già con la reputazione di miglior esperto di Unione Sovietica non solo nel campionato italiano.
  • Ha scritto libri, firmato reportage, interviste e analisi che hanno fatto scuola, uno scoop dietro l’altro. Ma non era nato giornalista e non era riuscito a diventarlo fino in fondo: restava un politico, uno che non racconta il mondo, lo vuole cambiare. Voleva essere il paladino della verità, il fustigatore degli ingiusti, il crociato di una missione, non il suo cronista.

Note modifica

  1. Da Kabul, viaggio nella tana di Gulbuddin il Terribile, La Stampa, 24 aprile 1992
  2. Citato in Il segreto della spia volante. Scacco matto del Kgb alla Cia, La Stampa, 1 novembre 1992
  3. Da Complotto contro il nuovo zar, La Stampa, 19 agosto 2000
  4. Dall'intervista di Marta Moriconi, Scorte cibo e acqua in Germania, Giulietto Chiesa: "Non è per un attacco dalla Russia", IntelligoNews.it, 24 agosto 2016.
  5. Da Via Fani 1978, Antimafiaduemila.com, 3 aprile 2018.
  6. Da 'Nudge', 'sludge', 'grudge' e Russiagate. Così ogni giorno manipolano l'informazione, IlFattoQuotidiano.it, 6 febbraio 2018.
  7. Da Moldova: Un Paese che vuole restare neutrale, Pandoratv.it, 13 aprile 2018.

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