Mario Gromo

giornalista, scrittore e critico cinematografico italiano (1901-1960)

Mario Gromo (1901 – 1960), giornalista, scrittore e critico cinematografico italiano.

Mario Gromo, 1940

Citazioni di Mario Gromo

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  • Carlo Ninchi è un magnifico attore, quale ancora non l'avevamo veduto sullo schermo; di una sobrietà scabra e incisiva, dalla ferma maschera che tutto esprime.[1]
  • Chi nega o mette in dubbio l'importanza, per un film, di un buon soggetto, vada a vedere Infedeltà. L'autore della vicenda è Sinclair Lewis, che già si era permesso di raccontarla ben più... compiutamente nel suo notissimo romanzo, Dodsworth, dal quale il film è tratto. La riduzione ne è talvolta necessariamente sommaria, talvolta più convenzionale del necessario; ma tra parentesi un po' verbose, e ritorni un po' insistiti, non è difficile scorgere una salda ossatura, che pacatamente dà vita a tipi e a caratteri, e la regia di William Wyler ne viene così corroborata, ne acquista sovente sapore.[2]
  • Dopo La trappola, eccoci a Calafuria. Là, una vicenda già tutta distesa per le esigenze di una sceneggiatura, e poi invece stranamente infoltita e fatta deviare da parte degli sceneggiatori, che non avrebbero dovuto sentirne alcun bisogno; qui, una vicenda assai folta di casi e di ambienti, che gli sceneggiatori dovevano forzatamente snellire. Snellire significa quasi sempre variare, ma questa volta la sceneggiatura, almeno come racconto di vicenda, appara plausibile e accurata, eccettuato il finale: nel romanzo Tommaso Bardelli muore in un ospedaletto, mi pare di Gradisca, dopo un'azione sul Carso; nel film il lieto fine calca toni e deforma situazioni, dopo averle frettolosamente predisposte. Ma questa figuretta di Marta è viva, è forse la migliore interpretazione di Doris Duranti; l'ambiente della villa Jackson è un ambiente; e quasi tutto il film è sorvegliato da una vigile cura, patinata sovente di toni un po' letterari, a evitare i quali sarebbe stata necessaria tutt'altra impostazione. Così, il film appare come una illustrazione di alcuni episodi del romanzo, tratteggiata da un disegnatore che ha saputo trarre partito da indovinati esterni, da pause un po' sospese, da morbidezze ora un po' torbide, ora allusive; e accanto alla Duranti è Gustav Diessl, sobrio e intelligente come sempre. [3]
  • [Su Fedora] Già altre volte ridotto per lo schermo ritorna il drammone di Vittoriano Sardou [...] che ora ha offerto una sceneggiatura al Mastrocinque, forse il più abile dei nostri registi di teatro filmato [...] Diciamo subito che si tratta di un filmone eccezionale per ricchezza di mezzi, una ricchezza che talvolta non esita a diventare sfarzo [...] ma lo spettacolone c'è, ripetiamolo, con tutte le sue risorse.[4]
  • [Su La porta del cielo] Il film è assai nobile, rivela in ogni istante una scrupolosa cura, ha sequenze notevoli, ma è per lo più esteriore. Gli manca quel brivido umano e profondo che avrebbe dovuto far vibrare queste diverse ed uguali vicende; si compiace dell'inquadratura (e ve ne sono di bellissime), insiste su primi piani dolenti senza supporre che finiranno per elidersi a vicenda, e la stessa insistenza impiega in effetti sonori, dai canti alle preghiere.[5]
  • [Su La freccia nel fianco] Il film è di uno dei nostri giovani meglio dotati, Alberto Lattuada, che qui sembra aver rinunciato a parecchie ambizioni, per tendere a una regia soltanto attenta e sicura. Alle prese con i due protagonisti il giovane regista non ha saputo fare dei suoi due attori due interpreti: particolarmente la Lotti, eccettuato un suo ultimo primo piano, non è attrice da sostenere un personaggio ambiguo e artificioso come questo.[6]
  • [Su Darò un milione] Il film, partito con un'andatura indiavolata, sostenuta fino a metà percorso, si placa nel patetico per riaccendersi nella girandola finale che conclude un film intelligente come pochi, sia pure con qualche squilibrio e alcune incertezze, un film quasi sempre gustosissimo e talvolta piacevolissimo.[7]
  • Il Mattoli fu uno degli organizzatori di Za-Bum, una compagnia di riviste e di spettacoli vari che qualche anno fa ebbe una sua fortuna. Dall'organizzare un giro sulle varie piazze alla tentazione di cimentarsi con il cinema il passo è breve ed ecco il Mattoli affrontare la regia ed esordire due anni or sono con Tempo massimo, un film intonato a una modesta satira dello sport, ora sorridente, ora ridanciana. Eppure, anche in quel filmetto, prescindendo da parecchie svolte della vicenda, e da alcune uscite di dubbia lega, c'erano una scioltezza e una disinvoltura davvero singolari in un esordiente.[8]
  • [Su I migliori anni della nostra vita] Incoronato di premi a ripetizione, e di successi idem, il film rapidamente conquista lo spettatore. Non attendetevi casi singolari, sono pagine di vita vissuta, sorridenti e commoventi, d'un loro sorriso qua e là malizioso, e di una commozione semplice, quasi elementari. Ma sono narrate da William Wyler, il regista di Infedeltà e di Jezebel, de La voce nella tempesta e de La Signora Miniver, che va sempre più affinando un suo modo accorto e pacato, apparentemente quasi dimesso, ed efficace nel dare rilievo a un particolare da nulla, o esprimerne un brivido di emozione.[9]
  • [Su Dopo divorzieremo] Inscenato elegantemente e piacevolmente interpretato da Amedeo Nazzari e Vivi Gioi, il film si ambienta in una America caramellata e disinvolta e ci presenta un'altra variazione del tema matrimonio in bianco [...] Il film è piacevole, scorre con garbo, si ravviva di trovatine e di battute azzeccate, ed è la rivelazione di Lilia Silvi [...].[10]
  • Maria Denis appare sobria e sicura come ancora non l'avevamo veduta; è un'attricetta sulla quale poter contare.[1]
  • Mattoli rischia di fare sul serio. A furia di sfornare film su film, dei quali prima sforna soggetti e sceneggiature; a furia di imbastire spettacoloni che ambiscono a un brivido drammatico, e vorrebbero dosarlo con il sorrisetto e la lacrimuccia; a furia di battere e ribattere su questo mestiere di regista, che di solito è un mestieraccio: eccolo ora, con Stasera niente di nuovo, imbroccare tipi, sequenze, ritmi, episodi.[11]
  • [Su La dolce vita] Non sempre la materia è decantata. Appartiene, ancora e sovente, alla cronaca. Non lievita, non vibra. Sono dati di fatto. Se gelidamente posti in una loro impeccabile prospettiva, avrebbero potuto avere una loro straordinaria efficacia; così, invece, appaiono qua e là pesti, quasi sfuocati, o ripetuti, ridondanti. C'è infatti una certa monotonia, sia pure assai colorita, di tipi, di scorci, di accenti. Se codesta monotonia fosse stata soltanto apparente, e allora calibrata in un suo ritmo rigoroso, dalla sordina sempre più ossessiva, tutto ciò avrebbe potuto avere un'altra sua non meno straordinaria efficacia. Così, invece, i tipi si stingono talvolta l'uno sull'altro, o si ricalcano. Dovrebbe giustificarli un loro minimo comun denominatore; ma questo è così esplicito che lungo il cammino, per forza di cose si attenua, e si fa risaputo.[12]
  • Non v'è film di Camerini che non riveli animo e intenzioni d'artista; anche prescindendo dai risultati, non sapremmo quale miglior lode formulare per chi dedica la sua vita al mondo dello schermo, un mondo che non è sempre dominato dalle ragioni dell'arte. [...] Con T'amerò sempre ha voluto tentare un'opera di più ampio respiro, dai toni talvolta decisamente drammatici; dalla novelluccia è voluto passare al romanzo; e se proprio non si può dire che il romanzo sia riuscito, ne è però sbocciato un lungo racconto, pervaso di schietta umanità, narrato con voce pacata e quasi sempre incisiva. [...] Non si creda, tuttavia, che il film sia tutto toccato con mano felice. Le scene iniziali sono prolisse; qualche altra lentezza è facilmente riscontrabile; e quasi tutto il dialogato dell'ultima scena è semplicemente inutile, danneggia non poco, con la sua verbosità, quella tensione drammatica che era stata efficacemente raggiunta e che già aveva in sé implicito il "finale". [...] riguardo al Besozzi, questa è certo la sua migliore interpretazione cinematografica. Un'altra sorpresa è offerta da Mino Doro, un nuovo attore, dalla maschera che stranamente somiglia a quella di Clark Gable: un interprete sobrio e intelligente, efficacissimo mentre la De Giorgi è volenterosa, talvolta convincente [...].[13]
  • Oggi, dopo aver visto King Kong, si potrebbero inaugurare due altre categorie: film per miopi, film per non miopi; e King Kong è fatto per un pubblico affetto da almeno una mezza dozzina di diottrie. […] Tutto ciò per lo spettatore assai miope, apparirà in una visione apocalittica, densa di brividi, d'imprevisti. […] Non tutti sono miopi, però; e ieri sera, nei momenti più volonterosamente spaventosi risuonavano non poche risate, con un nutrito codazzo di fischi finali. Siamo in parecchi a non portare occhiali. Se King Kong rinuncia a priori a ogni e qualsiasi intento d'arte, e vorrebbe invece soltanto ammanirci lo spettacolone terrificante, e specialmente in una sorta di campionario delle risorse tecniche sulle quali la cinematografia può ormai sicuramente contare, è proprio in questo assunto che il film rivela le sue pecche più grossolane. […] Prescindendo dalla cartapesta degli sfondi, questi mostri antidiluviani, dinosauri e C., sono tutti timidi ed epilettici: si muovono lentamente e a scatti, come vogliono i meccanismi ad orologeria che li governano. Si salva King Kong, che il terribile urango non è che un uomo camuffato, e le sue proporzioni sono ottenute con delle sovrapposizioni, degli schermi multipli: ma sono, questi sistemi, veramente l'ultima parola della tecnica, del trucco cinematografico?[14]
  • [Su Settimo velo] Tutto ciò poteva essere raccontato senza ipnosi, senza dottori, senza citazioni di Salomè; ma poteva anche dar vita a un film banale. Mentre questo, merito o non merito di tutto il più o meno misterioso e complicante contorno, ha un suo tono, un suo interesse, sia pure un po' estetizzanti. Ma il come dalla ragazzetta nasca la pianista, è un bel capitolo; il tipo dello zio, la sua casa, la sua vita, sono ben segnati; e i tocchi intelligenti sono parecchi. Insomma, con tutte le sue pretese e i suoi difetti, un film da non confondersi con i soliti altri. Accanto al Mason è Ann Todd: un'attrice non comune, anche se nella maschera un po' ricorda una Garbo in trentaduesimo e, nella recitazione, una Garbo in sessantaquattresimo.[15]
  • [Su Umberto D.] Un film per spregiudicati e delicati buongustai; un film sottovoce. Orchestrato con una coerenza intima, con un'abilità assai scaltra, con tocchi appena accennati, quasi sempre espressivi.[16]
  • Un regista europeo di valore, costretto o inviato a lavorare in America, che cosa sopratutto teme di quel cinema, e di quella difficile morgana che si chiama Hollywood? Il super-tecnicismo, la standardizzazione, l'ossequio a certe formule, imposte da cortesi ma inflessibili consigli d'amministrazione e di produzione. Jean Renoir, un artista che amiamo, ha avuto anche lui, laggiù, le sue delusioni, le sue disavventure; e vi ha reagito con L'uomo del Sud, a detta di tutti il suo film più «sincero» fra quelli da lui firmati a Hollywood.[17]

Davanti allo schermo

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  • [Su Gli uomini, che mascalzoni...] Se tutti gli interpreti sono guidati con mano sicura (ottimi tra gli altri Lia Franca e Cesare Zoppetti), il film segna decisamente una non facile tappa di Vittorio De Sica. I suoi precedenti saggi sullo schermo (uno short, una particina nella Vecchia signora, il recente Due cuori felici), pur dimostrando impegno e bravura non ci erano apparsi assai convincenti. In quest'ultimo film del Camerini il giovane attore ha invece saputo comprendere quali profonde differenze esistano tra la ribalta e lo schermo; e, per lo schermo, ha avuto il coraggio di ricominciare da capo. È giunto così subito dove non molti altri attori più agguerriti di lui sarebbero giunti; ha saputo tratteggiare, con grande semplicità di mezzi, un tipo di giovanotto trasognato e scanzonato quanto basta; e ora, dopo questa prova felice, De Sica può aspirare a essere quel buon attor giovane che finora mancava allo schermo italiano. (La Stampa, 16 ottobre 1932; p. 15)
  • [Su La signora di tutti] Il film è stato premiato alla Biennale con la coppa del ministero delle Corporazioni, perché ritenuto il tecnicamente migliore fra gli italiani scesi in gara al Lido. La motivazione è esatta. A Teresa Confalonieri toccò l'altissimo premio della coppa di S. E. il capo del governo per il nobilissimo assunto di rievocare dinanzi al nostro popolo una pagina gloriosa del Risorgimento; ma giustamente la tecnica della Signora di tutti doveva essere segnalata. «Tecnica», «pratica», «mestiere»: termini che fanno arricciare il naso ai puri di cuore; termini che ben poco hanno in realtà a vedere con l'arte; e sono di un'enorme importanza nei domini dello spettacolo. (La Stampa, 5 dicembre 1934; pp. 47-48)
  • [Su La signora di tutti] La Corradi rivela grazia volonterosa e diligente; la Miranda è qui al suo primo film di grande impegno, ché il precedente Tenebre non poteva certo porla in troppa luce. Il progresso è innegabile. Ma si direbbe che l'Ophüls l'abbia seguita, e talvolta costretta, con una vigilanza che rasenta la diffidenza: tanto da darle veramente respiro soltanto in alcuni primi piani. Ora la Miranda sta interpretando la figura di Nennele, in una riduzione di Come le foglie diretta dal Camerini; e il Camerini non è regista da seguire i suoi interpreti con diffidenza. Li aiuta, con molta intelligenza. Con i suoi suggerimenti, vedremo quasi certamente una Miranda nella sua più vera luce [...]. (La Stampa, 5 dicembre 1934; pp. 48-49)
  • Non ti conosco più è il fratello minore di Lohengrin. Un'altra fortunata commedia del De Benedetti gli ha dato la sceneggiatura, Malasomma lo stesso brio malizioso nella regia. Meno ricco di trovate e di sviluppi più propriamente cinematografici (che in Lohengrin felicemente si susseguivano) è pur sempre un piacevole e talvolta piacevolissimo saggio di teatrino filmato. Ove si escluda l'ultima parte, che ha tutti gli indugi dell'inevitabile conclusione, la commediola fila tra sorrisi e risate con un suo garbo disinvolto, con un suo modesto ma schietto timbro di sceneggiatura. (La Stampa, 28 gennaio 1936; p. 68)
  • La presentazione di Cavalleria al Lido avvenne in una seratona. Applausi frequenti, caldi e convinti, salutarono un altro bel film italiano; ma salutavano soprattutto un giovane nostro regista che in questo film dà la convincente misura di una sua maturità rapidamente raggiunta. Soltanto due anni or sono l'Alessandrini era apparso sullo schermo del Lido con la sua gracile e delicata Seconda B; e il primo tempo di Don Bosco doveva poi essere la risolutiva tappa intermedia che l'avrebbe portato al pieno successo di Cavalleria. (La Stampa, 22 ottobre 1936; p. 73)
  • [Su Cavalleria] Il conte Solaro è un giovane, il Nazzari, alla sua prima interpretazione d'impegno; se dapprima ha qualche incertezza, poi appare saldo e sicuro. Il Viarisio è fedele alla sua infallibile bonomia sorniona, Elisa Cegani conferma il felice esordio di Ma non è una cosa seria, la Jachino è graziosa, della grazia della giovinezza; efficaci il Carini, la Padoa, il Bagolini. Abbiamo lasciato per ultimo il Ferrari; perché, fra gli interpreti, è la rivelazione del film. Al rivederlo, al riascoltarlo, l'impressione veneziana non muta. Quanti attori saprebbero giungere a questa pacata, ferma virilità? Sobrio, misurato, sempre consapevole, questo suo Ponza non lo dimenticheremo facilmente, rende legittima ogni speranza nei confronti dell'intelligente interprete. (La Stampa, 22 ottobre 1936; p. 75)
  • Da quanto tempo Blasetti non si vagheggiava il suo Fieramosca? Una libera riduzione del romanzo, per la folta materia che gli avrebbe offerto, per il significato che poteva assumere, per le risorse quasi inesauribili di movimento, di ritmo e di colore, sembrava già a priori perfettamente attagliarsi al temperamento di questo nostro animoso regista. E si sentiva che sarebbe stata questa la prova decisiva per la sua regia, ne sarebbe potuto uscire un nostro film che avesse un tono, un'impronta, un carattere; e nei pronostici s'azzardava la parola stile. (La Stampa, 29 dicembre 1938; pp. 103-104)
  • Con Centomila dollari Camerini ha voluto comporre un film spigliato e divertente, sia ricorrendo ai motivi più cari alla sua vena, quanto innestandovi toni e ritmi più movimentati e appariscenti, di quello spregiudicato e dinamico candore proprio a molte commediole cinematografiche americane. Ne è venuto uno spettacolo garbato, assai piacevole; dove i toni calzanti e talvolta mordenti sono del Camerini più vero, il quale da sornione si centellina la sequenza sospesa al sottinteso, all'ammicco ironico, a una perspicace malizia. (La Stampa, 24 marzo 1940; p. 124)
  • Spero che È sbarcato un marinaio piaccia al pubblico come il film si merita. Ma non gli si accosti chi vuole vicende fin troppo movimentate, ambienti e tipi eccezionali, casi aggrovigliati o abnormi: il film di Ballerini è piano, semplice, vivo di una sua modestia ma autentica vita. La vicenda per la vicenda non è gran cosa, tutt'altro. Un marinaio sbarca a terra. Incontra una ragazza. Schermaglie, ripicchi, idillio. Poi una grossa nube, un po' di dispetto, un po' di gelosia; e alla fine i due si uniranno per sempre. (La Stampa, 21 aprile 1940; p. 125)
  • [Su Una romantica avventura] A lungo si disse di quest'ultimo film di Camerini, quando fu proiettato a Venezia. A rivederlo, le prime impressioni ancora si confermano, anche per alcuni efficaci ritocchi che nel frattempo il film ha potuto avere. È un Camerini ancora più scaltro e sottile, che con molta maestria usa qui il racconto incorniciato nel ricordo dei due protagonisti. E abbandonandosi alla rievocazione di quella che per lei fu la sua vera giovinezza, Anna può finalmente comprendere l'infinita e sofferta devozione di Luigi, da lei sposato senza amore. (La Stampa, 29 ottobre 1940; p. 129)
  • La pubblicità annuncia La peccatrice come il capolavoro di Amleto Palermi; e di questo nostro infaticabile regista è certo, con Cavalleria rusticana, il film di maggiore impegno, e che vuole staccarsi da parecchia della nostra produzione corrente. Anzitutto il tema, assai difficile: la caduta e la redenzione di una giovane donna. Poi la tessitura: a romanzo, decisamente, non a novelletta. Poi la protagonista: centro e vittima ed eroina della complessa vicenda. Infine gli ambienti, alcuni dei quali non esitano di portare l'obiettivo in zone discretamente... rimote dall'uso, basterà dire che le prime sequenze s'inquadrano in una casa di malaffare. Questi che ho enumerato sono tutti elementi ed intenzioni a favore del film: per i loro assunti, per il loro coraggio. (La Stampa, 28 novembre 1940; p. 132)
  • Ieri La gerla di papà Martin; e oggi Guerra in tempo di pace; che dipana i suoi atti rosei e arzilli nelle sequenze di Manovre d'amore. Il teatro di ieri e dell'altro ieri fornisce così i suoi spunti al cinema di oggi: che li ringiovanisce, e dà loro, sovente, una lievissima patina d'ironia, più o meno involontaria. Il primo tempo di Manovre d'amore è, sotto questo aspetto, davvero calzante. (La Stampa, 1º dicembre 1940; p. 134)
  • [Addio, giovinezza!] è la beneficiata di Maria Denis: una Dorina impareggiabile. Candida e nervosa, trasparente e abbandonata, questa sua interpretazione è di quelle che contano, per un'attrice. Accanto a lei, il Mario di Adriano Rimoldi: un giovane che è quasi al suo esordio ed è già più di una promessa, sicuro e sobrio com'è. Pure molto efficaci Carlo Campanini (Leone) e Clara Calamai (Elena), che ha saputo stilizzare con ironia i più facili atteggiamenti delle «fatalone» d'allora. (La Stampa, 31 dicembre 1940; p. 139)
  • Rose scarlatte è stato il primo film di De Sica regista; Maddalena zero in condotta ne è il secondo; e il simpatico attore – che naturalmente è tra gli interpreti, ed è anzi il protagonista, non meno naturalmente in una «parte» di buon figliolo – conferma le possibilità di una sua regia, lieve e garbata come il tono del film esigeva. (La Stampa, 1° gennaio 1941; pp. 139-140)
  • [Su La cena delle beffe] Tutto solido e tutto evidente, è questo tra i migliori film di Blasetti, e, naturalmente con toni assai diversi, da porsi accanto al Salvator Rosa. Il «soggetto» contenuto nel notissimo poema drammatico di Sem Benelli offriva certo una vicenda forte e rilevata, senza esitazioni, senza oscillazioni; e il ritmo cinematografico l'avrebbe poi ancora probabilmente rafforzata. Ma bisognava trovarlo, quel ritmo; e farne tutt'uno con battute, volti, costumi, luci, scorci, ambienti e fondali. Blasetti vi è pienamente riuscito e la sua opera di regista è qui inappuntabile: tanto che sovente non la si avverte, tanto fluido e convincente è il serrato procedere dei fatti e tanto caldo è il divampare delle passioni. (La Stampa, 13 febbraio 1942; pp. 166-167)
  • Un garibaldino al convento è il nuovo film di De Sica regista; come attore vi appare soltanto per pochi istanti. Il regista questa volta non si è evidentemente troppo impegnato; forse anche perché tre film di seguito, e tutti dedicati a scuole o collegi o conventi femminili, costituiscono un susseguirsi di temi e di motivi e di ambienti un po' troppo simili, e tale da limitare automaticamente parecchie risorse. Ora è tempo che De Sica lasci tutte queste ragazze più o meno in uniforme e vada tra gli uomini e tra gli uomini del nostro tempo; allora la sua attenta e saporita regia troverà altri volti da colorire, altri animi da rivelare. (La Stampa, 13 marzo 1942; p. 169)
  • [Su Un pilota ritorna] È questo il primo film di un giovane. Anche se il Rossellini apparve come il regista della Nave bianca, per quel film fu collaboratore del comandante De Robertis; è il film d'oggi la prima opera che possa dirsi veramente sua. Difficile e complessa. Inserire un episodio movimentato e saliente in una tessitura assai fitta e concreta, dai toni quasi documentari. Si è ricordato La nave bianca; è evidente che a quella formula Un pilota ritorna si ricollega; e non poteva non essere così, da parte di un giovane che, del comandante De Robertis, si è fin'ora rivelato il miglior allievo. Subito spicca, nella regia del Rossellini, una grande accuratezza di ogni elemento, soprattutto di quadro in quadro; si vogliono raggiungere toni fermi, saldi; non si indulge a nessuna tentazione retorica; e se l'elemento documentario predomina, è chiaro il proposito di ravvivarlo con un'ardente umanità. (La Stampa, 19 aprile 1942; pp. 172-173)
  • [Su Un pilota ritorna] Bellissime, talvolta vertiginose riprese aeree danno nerbo a episodi di guerra nel cielo; alcuni istanti vissuti dagli equipaggi sono colti con grande sicurezza dal Rossellini, che ha tra l'altro saputo usare con efficacia alcune risorse della ripresa a volo radente. Massimo Girotti è il protagonista: sobrio e vibrante, questa sua interpretazione è un notevole progresso, dopo quella data alla Corona di ferro. In questo film di giovani (dal regista al soggettista ai sceneggiatori) spicca l'esordio di una giovane attrice, Michela Belmonte: espressiva come pochissime delle nostre esordienti, e già matura e complessa in parecchi istanti. (La Stampa, 19 aprile 1942; p. 173)
  • [Su I 3 aquilotti] È questo un film, si direbbe, destinato a essere inaugurale. Nel pomeriggio del trenta agosto inaugurò infatti la decima Mostra veneziana, ché giustamente se ne era voluta una inaugurazione in grigioverde, e il film, fuori concorso, fu lietamente accolto da una piccola folla di soldati, marinai e avieri, fra i quali erano i ministri Goebbels e Pavolini; ieri sera, dinanzi alle autorità e al miglior pubblico cittadino che affettuosamente circondavano un folto gruppo di nostri feriti di guerra, lo stesso film ha non meno lietamente inaugurato la nuovissima sala che da oggi arricchisce le attrattive della nostra città. (La Stampa, 10 ottobre 1942; p. 181)
  • I tre aquilotti, diretto da Mario Mattoli, è un film schietto e giovanile, rievoca l'ambiente dell'Accademia aeronautica di Caserta durante uno dei corsi che preparano nuovi aquilotti per la nostra Arma del cielo; e individuati in quella piccola folla i suoi tre protagonisti, ne segue la vicenda con una sobria spigliatezza di racconto, fino a ritrovarli al fronte russo, dove avranno il battesimo del fuoco, e dove uno dei tre si riscatterà, imponendosi prima a se stesso che agli altri. È questa la figura più viva e nuova del film. (La Stampa, 10 ottobre 1942; p. 181)
  • [Su 4 passi fra le nuvole] Un filmetto quasi sempre delizioso, e che ha la sua importanza. Anzitutto perché ci dà una commediola sana, arguta, sentita; e poi perché Blasetti ci offre, con questo film, una piccola grossa sorpresa, ci rivela cioè un volto ancora inedito del suo temperamento [...]. Il film [...] sotto la sua apparente levità, e sotto la sua autentica grazia, dà vita e figurine che sono schiette, umane, nostre; e le contrappunta con tocchi e rilievi d'una commozione e d'un garbo molto sinceri. (La Stampa, 30 gennaio 1943; p. 194)
  • [Su Fuga a due voci] La parte del baritono: ovvero come impostare un film che per protagonista non debba avere il solito tenore, ma un aitante e abbastanza fotogenico baritono. La vicenda del film tutta si aggira fra le quinte di un film da farsi: con una sua piacevolezza e una sua disinvoltura. (La Stampa, 6 marzo 1943; p. 198)
  1. a b Citato in Massimo Scaglione, I Divi del Ventennio, per vincere ci vogliono i leoni..., Lindau, 2005.
  2. Da La Stampa, 1957; citato in Infedeltà - Rassegna stampa, mymovies.it.
  3. Da Sullo schermo: Calafuria, di F. Calzavara, La Stampa, 21 maggio 1943, p. 3.
  4. Da La Stampa, 13 febbraio 1943; citato in Chiti, p. 138.
  5. Da La Nuova Stampa, 12 gennaio 1946; citato in La porta del cielo, cinematografo.it.
  6. Da La Nuova Stampa, 4 novembre 1945; citato in La freccia nel fianco, cinematografo.it.
  7. Da La Stampa, 31 agosto 1935; citato in Darò un milione, cinematografo.it.
  8. Da La Stampa, 6 febbraio 1936; citato in Amo te sola - Rassegna stampa, mymovies.it.
  9. Da La Stampa, 1957; citato in I migliori anni della nostra vita - Rassegna stampa, mymovies.it.
  10. Da La Stampa, 1° dicembre 1940; citato in Dopo divorzieremo, cinematografo.it.
  11. Da La Stampa, 28 febbraio 1943; citato in Stasera niente di nuovo - Rassegna stampa, mymovies.it.
  12. Da La Stampa, 6 febbraio 1960; citato in Claudio G. Fava, I film di Federico Fellini, Volume 1 di Effetto cinema, Gremese Editore, 1995, p. 96. ISBN 8876059318
  13. Da La Stampa, 28 aprile 1933; citato in Chiti, p. 356.
  14. Da Sullo schermo: King Kong, di M. C. Cooper e E. B. Schoedsack, La Stampa, 3 dicembre 1933
  15. Da La Nuova Stampa, 6 dicembre 1946, p. 2.
  16. Da Umberto D., La Nuova Stampa, 22 gennaio 1952, p. 3.
  17. Da La Stampa, 1957; citato in L'uomo del Sud - Rassegna stampa, mymovies.it.

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