Luigi Pirandello

drammaturgo, scrittore e poeta italiano, premio Nobel per la letteratura (1867-1936)
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Luigi Pirandello (1867 – 1936), drammaturgo, scrittore e poeta italiano.

Luigi Pirandello nel 1932
Medaglia del Premio Nobel
Medaglia del Premio Nobel
Per la letteratura (1934)

Citazioni di Luigi Pirandello

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  • Ah, no! Volti la pagina, signora! Se lei volta la pagina, vi legge che non c'è più pazzo al mondo di chi crede d'aver ragione![1]
  • Basta che lei si metta a gridare in faccia a tutti la verità. Nessuno ci crede, e tutti la prendono per pazza.[2]
  • È molto più facile [...] essere un eroe che un galantuomo. Eroi si può essere una volta tanto; galantuomini, si dev'esser sempre.[3]
  • Eccellenza, sento che questo è il momento più proprio di dichiarare una fede nutrita e servita in silenzio. Se l'Eccellenza Vostra mi stima degno di entrare nel Partito Nazionale Fascista, pregierò come massimo onore tenervi il posto del più umile e obbediente gregario.[4]
  • Eppure Girgenti attraversa tutta l'opera pirandelliana alla stessa maniera di un fiume carsico col suo alterno comparire in superficie e scomparire nella dolina, rimanendo sempre attivo. Elemento catalizzatore della fantasia pirandelliana per Leonardo Sciascia, quei luoghi e quel tempo costituiscono il sostrato sostanziale e lievitante della sua poetica e i personaggi che vi pullulano, pur così circoscritti e identificabili, assurgono a valenze universali.[5]
  • Il conte Mola: L'arte, come eterna, non dovrebbe avere età.
    Salò: Ma il guaio è che poi, come donna, ama la moda.[6]
  • I filosofi hanno il torto di non pensare alle bestie e davanti agli occhi di una bestia crolla come un castello di carte qualunque sistema filosofico.[7]
  • Io ho molta stima dell'ingegno del Papini, ma noto con dispiacere in lui una smania, che diventa sempre più violenta, di mostrarsi originale, a ogni costo. Ora originali, per forza, non si può essere: si è o non si è. Chi vuol essere per forza originale, riuscirà strambo, strano, stravagante e nient'altro. Io credo che il Papini abbia originalità, cioè un suo proprio modo di vedere, di pensare, di sentire, e un proprio modo quindi d'esprimersi; tanto più dunque mi dà noja e dolore vedergli gonfiare certi paradossi come vessiche per darli in testa alla povera gente e stordirla.[8]
  • Io sono nato in Sicilia e lì l'uomo nasce isola nell'isola e rimane tale fino alla morte, anche vivendo lontano dall'aspra terra natìa circondata dal mare immenso e geloso.[9]
  • L'educazione è la nemica della saggezza, perché l'educazione rende necessarie tante cose di cui, per essere saggi, si dovrebbe fare a meno.[10]
  • La terra madre che toglie e dà la vita, questa la Sicilia di Pirandello, isola favolosa e reale che racchiude una varietà inimaginabile di tipi, di caratteri, dimentalità, oltre che di dialetti, dovuta alle diverse ondate di invasori che si sono avvicendati nel tempo.[11]
  • L'umorismo è un fenomeno di sdoppiamento nell'atto della concezione; è come un'erma bifronte, che ride per una faccia del pianto della faccia opposta.[12]
  • La cinematografia è il linguaggio di apparenze, e le apparenze non parlano. Il linguaggio delle apparenze è la musica. Bisogna levare il cinematografo dalla letteratura e metterlo nella musica, perché deve essere il linguaggio visivo della musica.[13]
  • Mangia il Governo, mangia la Provincia; mangia il Comune e il capo e il sottocapo e il direttore e l'ingegnere e il sorvegliante... Che può avanzare per chi sta sotto terra e sotto di tutti e deve portar tutti sulle spalle e resta schiacciato?[14]
  • Naturalmente anche tu andrai via dalla Sicilia, ma non dimenticare il profumo.[15]
  • Nossignori. Per me, io sono colei che mi si crede![16]
  • Nulla è più complicato della sincerità.[17]
  • Perché civile, esser civile, vuol dire proprio questo: dentro, neri come corvi; fuori, bianchi come colombi; in corpo fiele; in bocca miele.[18]
  • Quando tu riesci a non aver più un ideale, perché osservando la vita sembra un enorme pupazzata, senza nesso, senza spiegazione mai; quando tu non hai più un sentimento, perché sei riuscito a non stimare, a non curare più gli uomini e le cose, e ti manca perciò l'abitudine, che non trovi, e l'occupazione, che sdegni – quando tu, in una parola, vivrai senza la vita, penserai senza un pensiero, sentirai senza cuore – allora tu non saprai che fare: sarai un viandante senza casa, un uccello senza nido. Io sono così.[19]
  • Riponi in uno stipetto un desiderio: aprilo: vi troverai un disinganno.[20]
  • Sia l'urna cineraria portata in Sicilia e murata in qualche rozza pietra della campagna di Girgenti, dove nacqui.[21]
  • [Su Giovanni Formisano] Un poeta appassionato, malinconico, amaro, un vero e schietto e personalissimo poeta...[22]
  • Una notte di giugno caddi come una lucciola sotto un gran pino solitario in una campagna d'olivi saraceni affacciata agli orli d'un altipiano d'argille azzurre sul mare africano. Si sa le lucciole come sono. La notte, il suo nero, pare lo faccia per esse che, volando non si sa dove, ora qua ora là vi aprono un momento quel loro languido sprazzo verde.[23]
  • Vorrei saper la musica per esprimere, senz'essere inteso da nessuno, neppure da Te, tutto questo tumulto di vita che mi gonfia l'anima e il cuore. Nessuno lo saprà mai, cara Marta, anche se il mio cuore ne dovesse scoppiare. Basta. Quest'esilio finirà tra poco. Salutami la Mamma e Cele, e Tu abbiti tutte le più vive cordialità dal tuo Luigi Pirandello.[24]

Bellavita

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La scena rappresenta un salotto tra la casa e lo studio dell'avvocato Contento.
LO SCRIVANO: S'accomodi qua, signor Notajo.
DENORA: (fosco, contenendo a stento l'orgasmo che lo divora). C'è da aspettare molto?
LO SCRIVANO: Eh, un pochino, temo. Ma corro ad avvertire la signora.
S'avvierà verso l'uscio a destra
DENORA: (trattenendolo). No, lascia! Che c'entra la signora?
LO SCRIVANO: Per tenerle compagnia.
DENORA: Grazie tante! Posso aspettar solo.
LO SCRIVANO: Me l'ha ordinato il signor avvocato!
DENORA: (gridando). E io te ne dispenso!
Poi, frenandosi, pentito
Non voglio che sia incomodata la signora.

Citazioni

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  • DENORA: Quando non vogliamo sapere una cosa – fingiamo di non saperla. – E se la finzione è più per noi stessi che per gli altri, creda pure, è proprio, proprio come se non si sapesse. (p. 136)

Bellavita: Ecco, vedete, se ne scappa! Ridete, ridete! Cosí, tra la baia di tutti! E ora gli corro dietro; e per tutte le strade, inchini, riverenze, scappellate, fino a non dargli piú un momento di requie! Vado dal sarto! Mi ordino un abito da pompa funebre, da fare epoca, e su, dritto impalato dietro a lui, a scortarlo a due passi di distanza! Si ferma; mi fermo. Prosegue; proseguo. Lui il corpo, ed io l'ombra! L'ombra del suo rimorso! Di professione! Lasciatemi passare! Esce, buttando indietro questo o quello tra i lazzi e le risa di tutti.

Ciascuno a suo modo

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Siamo nell'antico palazzo della nobile signora Donna Livia Palegari nell'ora del ricevimento, che sta per finire. Si vedrà in fondo, attraverso tre arcate e due colonne, un ricchissimo salone molto illuminato e con molti invitati, signori e signore. Sul davanti, meno illuminato, vedremo un salotto, piuttosto cupo, tutto damascato, adorno di pregiatissime tele, la maggior parte di soggetto sacro; cosicché ci sembrerà di trovarci nella cappella d'una chiesa, di cui quel salone in fondo, oltre le colonne, sia la navata: cappella sacra d'una chiesa profana. Questo salotto avrà appena una panca e qualche scranna per comodità di chi voglia ammirar le tele alle pareti. Nessun uscio. Ci verranno dal salone alcuni degli invitati, a due, a tre alla volta, per farsi, appartati, qualche confidenza, e, al levarsi della tela, ci troveremo un Vecchio Amico di casa e un Giovine sottile, che discorreranno tra loro.

Citazioni

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  • Come ci sono i figli illegittimi, ci sono anche i pensieri bastardi!
  • E non vuoi capire che la tua coscienza significa appunto "gli altri dentro te". (Garzanti)
  • Le donne, come i sogni, non sono mai come tu le vorresti.
  • Quando uno è contento di se stesso ama l'umanità.
  • Un angelo, per una donna, è sempre più irritante d'una bestia!

Il direttore del teatro: Ma signor Direttore, scusi, le pare che si possa tenere qua il pubblico a comizio?
Il capocomico: E che vuole da me? Faccia sgombrare!
L'amministratore: Tanto, lo spettacolo non può più seguitare: gli attori se ne sono andati.
Il capocomico: E dunque, si rivolge a me? Faccia mettere un avviso: e mandi via la gente.
Il direttore del teatro: Ma sarà rimasto pubblico in teatro!
Il capocomico: E va bene! Per il pubblico rimasto in teatro, m'affaccerò io adesso dal sipario a licenziarlo con due parole!
Il direttore del teatro: Sì, sì, vada, vada allora, signor Direttore!

E mentre il Capocomico s'avvierà verso la porticina del palcoscenico:
Via, via, signori, sgombrino, sgombrino per piacere: lo spettacolo è terminato.
Cala la tela e, appena calata, il Capocomico ne scosterà una banda per presentarsi alla ribalta.

Il capocomico: Sono dolente d'annunziare al pubblico che per gli spiacevoli incidenti accaduti alla fine del secondo atto, la rappresentazione del terzo non potrà più aver luogo.

Così è (se vi pare)

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Al levarsi della tela Lamberto Laudisi passeggia concitatamente per il salotto. Svelto, elegante senza ricercatezza, sui quaranta, indossa una giacca viola con risvolti e alamari neri; spirito arguto, s'irrita facilmente; ma poi ride e lascia fare e dire, compiacendosi dello spettacolo della sciocchezza altrui.
Laudisi Ah, dunque è andato dal Prefetto?
Amalia (sui quarantacinque, capelli grigi; ostenta una certa importanza, per il posto del marito, ma lasciando intendere che, se stesse in lei, rappresenterebbe la sua parte e si comporterebbe forse altrimenti). Oh Dio, Lamberto, ma si tratta infine di un suo subalterno!
Laudisi Ma suo subalterno, scusa, alla Prefettura, non a casa!
Dina (diciannove anni; una cert'aria di capir tutto meglio della mamma e anche del babbo, ma attenuata, quest'aria, da una vivace grazia giovanile) È venuto ad allogarci la suocera qua accanto, sullo stesso pianerottolo!

Al levarsi della tela Lamberto Laudisi passeggerà irritato per il salotto. Sui quarant'anni, svelto, elegante senza ricercatezza, indosserà una giacca viola con risvolti e alamari neri.
Laudisi Ah, dunque è andato a ricorrere al Prefetto?
Amalia (sui quarantacinque, capelli grigi; contegno d'importanza ostentata, per il posto che il marito occupa in società. Lascerà tuttavia intendere che, se stesse in lei, rappresenterebbe la sua parte e si comporterebbe in tante occasioni ben altrimenti). Oh Dio, Lamberto, per un suo subalterno!
Laudisi Subalterno, alla Prefettura; non a casa!
Dina (diciannove anni; una cert'aria di capir tutto meglio della mamma e anche del babbo, ma attenuata, quest'aria, da una vivace grazia giovanile) Ma è venuto a allogarci la suocera qua accanto, sullo stesso pianerottolo!

Signora Ponza: Nossignori. – Per me, io sono colei che mi si crede!
Guarda, attraverso il velo, tutti, fieramente, e si ritira. Un silenzio.
Laudisi: Ecco, o signori, come parla la verità!
Volge attorno uno sguardo di sfida derisoria.
Siete contenti?
Scoppia a ridere
Ah! ah! ah! ah!

Signora Ponza: Nossignori. Per me, io sono colei che mi si crede.
Guarderà attraverso il velo, tutti, per un istante; e si ritirerà. In silenzio.
Laudisi: Ed ecco, o signori, come parla la verità
Volgerà attorno uno sguardo di sfida derisoria.
Siete contenti?
Scoppierà a ridere.
Ah! ah! ah! ah!

Diana e la Tuda

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Lo studio dello scultore Sirio Dossi.
Tuda : (dietro la tenda in posa). Basta, per carità!
Sirio: (anche lui dietro la tenda). No: ferma lì!
Tuda: Non reggo più!
Giungano: Ma sì, basta! Basta!
Sirio: Ferma, ti dico! Non è passata l'ora.
Tuda: È passata, è passata!
Sirio: Ancora un momentoi!
Tuda: Non ne posso più!
Sirio: (con un urlo). Fermo quel braccio, perdio!
(Lunga pausa. Giuncano smania, feroce.)
Tuda: (prima con un sorriso quasi infantile). Ahi. Non me lo sento più! Lasciatemelo abbassare almeno per un minuto. Sono di carne, oh!
(Si vedrà l'ombra scomporsi dal suo atteggiamento; abbassare il braccio: prenderselo con l'altro come a sorreggerlo).

Citazioni

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  • L'uomo prova un'istintiva gratitudine per la donna che, sacrificando un po' del suo pudore, dimostra di voler piacere a uno solo sfidando la malignità degli altri; ma non può soffrire poi che questa donna faccia dispetto a un'altra donna che dimostri di avere per lui qualche simpatia. (p. 74)

Tuda: Oh Dio, no! lo lasci! lo lasci!
Giuncano si solleva appena, con un viso da pazzo e la mano ancora artigliata. Sirio è immobile a terra: morto.
Tuda, quasi senza voce, allibita, ancora su l'ultimo dei tre scalini, si china a guardare.
Che ha fatto? che ha fatto? L'ha ucciso? Oh Dio, l'ha ucciso? Per me?
Giuncano (mormorando, come in una litania): Cecità... cecità...
Tuda (scende i tre scalini; si china su Sirio; gli tocca con una mano la fronte, con l'altra gli cerca la mano): Oh Dio, no! no! freddo: morto!
Giuncano: Cecità...
Tuda: Ucciso per me, per me che ho la colpa di tutto!
Giuncano: Cecità...
Tuda: Io, io sì, di tutto – perché non seppi essere quella per cui lui mi aveva voluto!
Giuncano: Cecità...
Tuda (indicando con terrore dietro a sé la statua): Quella! Quella!
Giuncano (come sopra): Cecità...
Tuda: Io che ora sono così: niente... più niente...

Enrico IV

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Edizione 1922

Landolfo: (a Bertoldo come seguitando una spiegazione) E questa è la sala del trono!
Arialdo: A Goslar!
Ordulfo: O anche, se vuoi, nel Castello dell'Hartz!
Arialdo: O a Worms.
Landolfo: Secondo la vicenda che rappresentiamo, balza con noi, ora qua, ora là.
Ordulfo: In Sassonia!
Arialdo: In Lombardia!
Landolfo: Sul Reno!
Uno dei valletti (senza scomporsi, movendo appena le labbra): Ps! Ps!
Arialdo: (voltandosi al richiamo) Che cos'è?
Primo valletto: (sempre come una statua, sottovoce) Entra o non entra?
Allude a Enrico IV

Citazioni

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  • Come a voi appajono travestiti loro, così a lui, nei nostri panni, appariremmo travestiti noi. (Landolfo, pag. 154)
  • Ecco: quando non ci rassegniamo, vengono fuori le velleità. Una donna che vuol essere uomo... un vecchio che vuol esser giovine... – Nessuno di noi mente o finge! – C'è poco da dire: ci siamo fissati tutti in buona fede in un bel concetto di noi stessi. (Enrico IV, pag. 165)
  • Preferii restare pazzo e vivere con la più lucida coscienza la mia pazzia [...] questo che è per me la caricatura, evidente e volontaria, di quest'altra mascherata, continua, d'ogni minuto, di cui siamo i pagliacci involontari quando senza saperlo ci mascheriamo di ciò che ci par d'essere [...] Sono guarito, signori: perché so perfettamente di fare il pazzo, qua; e lo faccio, quieto! – Il guajo è per voi che la vivete agitatamente, senza saperla e senza vederla la vostra pazzia. [...] La mia vita è questa! Non è la vostra! – La vostra, in cui siete invecchiati, io non l'ho vissuta! (Enrico IV)
  • Conviene a tutti, capisci? Conviene a tutti far credere pazzi certuni, per avere la scusa di tenerli chiusi. Sai perché? Perché non si resiste a sentirli parlare. […] Non si può mica credere a quello che dicono i pazzi! Eppure, si stanno ad ascoltare così, con gli occhi sbarrati dallo spavento. Perché? […] Perché trovarsi davanti a un pazzo sapete che significa? Trovarsi davanti a uno che vi scrolla dalle fondamenta tutto quanto avete costruito in voi, attorno a voi, la logica, la logica di tutte le vostre costruzioni! Eh! Che volete? Costruiscono senza logica, beati loro, i pazzi! O con una loro logica che vola come una piuma! Volubili! Volubili! Oggi così e domani chi sa come! Voi vi tenete forte, ed essi non si tengono più. Voi dite "questo non può essere" e per loro può essere tutto. Ma voi dite che non è vero. E perché? Perché non par vero a te, a te, a te, e centomila altri. Eh cari miei! Bisognerebbe vedere poi che cosa invece par vero a questi centomila altri che non sono detti pazzi […]. Perché guai, guai se non vi tenete forte a ciò che vi par vero oggi, a ciò che vi parrà vero domani, anche se sia l'opposto di ciò che vi pareva vero jeri! (Enrico IV)
  • Confidarsi con qualcuno, questo sì, è veramente da pazzo!
  • Ho paura talvolta anche del mio sangue che pulsa nelle arterie come, nel silenzio della notte, un tonfo cupo di passi in stanze lontane.
  • Questa cosa orribile, che fa veramente impazzire: che se siete accanto a un altro, e gli guardate gli occhi [...] potete figurarvi come un mendico davanti ad una porta in cui non potrà mai entrare: chi vi entra, non sarete mai voi, col vostro mondo dentro, come lo vedete e lo toccate; ma uno ignoto a voi, come quell'altro nel suo mondo impenetrabile vi vede e vi tocca.
  • Trovarsi davanti a un pazzo sapete che significa? Trovarsi davanti a uno che vi scrolla dalle fondamenta tutto quanto avete costruito in voi, attorno a voi, la logica di tutte le vostre costruzioni.

Donna Matilde: È pazzo! È pazzo!
Di Nolli: Tenetelo!
Belcredi (mentre lo trasportano di là, per l'uscio a sinistra protesta ferocemente): No! Non sei pazzo! Non è pazzo! Non è pazzo!
Escono per l'uscio a sinistra, gridando, e seguitano di là a gridare finché sugli altri gridi se ne sente uno più acuto di Donna Matilde, a cui segue un silenzio.
Enrico IV (rimasto sulla scena tra Landolfo, Arialdo e Ordulfo, con gli occhi sbarrati, esterrefatto dalla vita della sua stessa finzione che in un momento lo ha forzato al delitto). Ora sì... per forza...
li chiama attorno a sé, come a ripararsi,
qua insieme, qua insieme... e per sempre!

Citazioni sull'opera

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  • Quando Enrico IV sceglie deliberatamente come realtà la sua antica follia, la sua mascherata (e, ciò facendo, realizza un'operazione estetica) vuole soprattutto estraniarsi in una società organizzata e compatta nei suoi valori (il passato tutto concluso, il 'piacere della Storia, che è così grande!') contro il mondo, il microcosmo sociale, che rappresentano il rivale Belcredi e la donna amata. (Ruggero Jacobbi)

I vecchi e i giovani

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La pioggia, caduta a diluvio durante la notte, aveva reso impraticabile quel lungo stradone di campagna, tutto a volte e risvolte, quasi in cerca di men faticose erte e di pendii meno ripidi. Il guasto dell'intemperie appariva tanto più triste, in quanto, qua e là, già era evidente il disprezzo e quasi il dispetto della cura di chi aveva tracciato e costruito la via per facilitare il cammino tra le asperità di quei luoghi con gomiti e giravolte e opere or di sostegno or di riparo: i sostegni eran crollati, i ripari abbattuti, per dar passo a dirupate scorciatoje.

Citazioni

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  • E prese a raccontare, con atteggiamento, di grave costernazione, i fatti avvenuti di recente in Sicilia, a Serradifalco, a Catenanuova, ad Alcamo, a Casale Floresta, i quali provavano come in tutta l'isola covasse un gran fuoco, che presto sarebbe divampato; e a rappresentar la Sicilia come una catasta immane di legna, d'alberi morti per siccità, e da anni e anni abbattuti senza misericordia dall'accetta, poiché la pioggia dei benefizii s'era riversata tutta su l'Italia settentrionale, e mai una goccia ne era caduta tra le arse terre dell'isola. Ora i giovincelli s'erano divertiti ad accendere sotto la catasta i fasci di paglia delle loro predicazioni socialistiche, ed ecco che i vecchi ceppi cominciavano a prender fuoco. Erano per adesso piccoli scoppii striduli, crepitìi qua e là; scappava fuori ora da una parte ora dall'altra qualche lingua di fiamma minacciosa; ma già s'addensava nell'aria come una fumicaja soffocante. E il peggio era questo: che il Governo invece d'accorrere a gettar acqua, mandava soldati a suscitare altro fuoco col fuoco delle armi. (p. 187)
  • E qual rovinio era sopravvenuto in Sicilia di tutte le illusioni, di tutta la fervida fede, con cui s'era accesa alla rivolta! Povera isola, trattata come terra di conquista! Poveri isolani, trattati come barbari che bisognava incivilire! Ed erano calati i Continentali a incivilirli… e i tribunali militari, e i furti, gli assassinii, le grassazioni, orditi ed eseguiti dalla nuova polizia in nome del Real Governo; e falsificazioni e sottrazioni di documenti e processi politici ignominiosi: tutto il primo governo della Destra parlamentare! E poi era venuta la Sinistra al potere, e aveva cominciato anch'essa con provvedimenti eccezionali per la Sicilia… – Ridere, ridere! – incalzò donna Caterina con più foga. – Lo sa bene anche lei come quegli ideali si sono tradotti in realtà per il popolo siciliano! Che n'ha avuto? Com'è stato trattato? Oppresso, vessato, abbandonato e vilipeso! Gli ideali del Quarantotto e del Sessanta? Ma tutti i vecchi qua gridano: Meglio prima! Meglio prima! La Francia che soffia nel fuoco? Lei si conforta così? Sono tutte calunnie, le solite, quelle che ripetono i ministri, facendo eco ai prefetti e ai tirannelli locali capielettori; per mascherare trenta e più anni di malgoverno! Qua c'è la fame, caro signore, nelle campagne e nelle zolfare; i latifondi, la tirannia feudale dei cosiddetti cappelli, le tasse comunali che succhiano l'ultimo sangue a gente che non ha neanche da comperarsi il pane! Si stia zitto! Si stia zitto! Perché voi lo vedrete, – concluse. Faccio una facile profezia: non passerà un anno, assisteremo a scene di sangue. (cap. III, p. 59)
  • Dal giorno che egli, sotto l'urgenza della necessità, vincendo ogni riluttanza, dapprima con circospezione, poi risolutamente, con crudezza, le aveva detto che bisognava si recasse dal fratello Ippolito per salvare il figlio, era caduta, di schianto, in un attonimento quasi di apatia, come se la vista di tutte le cose intorno le si fosse a un tratto vuotata d'ogni senso. Non un gesto, non una parola. Più niente. E quella immobilità e quel silenzio avevano avuto fin da principio un che di così assoluto e invincibile, che né un gesto, né una parola eran più stati possibili per scuoterla o esortarla. Giulio sapeva che avrebbe ucciso la madre, parlando. E difatti, ecco, subito, parlando, l'aveva uccisa. Ella non poteva andare dal fratello per salvare il figlio: sarebbe stata la sua morte. Ed ecco, era morta.
  • Due cadaveri in quella cassa, uno su l'altro: uno con la faccia sotto i piedi dell'altro. Quello di sopra era d'un ragazzo. Divaricate, le gambe; la testa, affondata tra i piedi del compagno. A guardarlo così capovolto, pareva dicesse, in quell'atteggiamento: – No! No! – con tutto il visino smunto, dagli occhi appena socchiusi, contratti ancora dall'angoscia dell'agonia. No, quella morte; no, quell'orrore; no, quella cassa per due, attufata da quel lezzo crudo e acre di carneficina. La più raccapricciante era la vista dell'altro, di tra le scarpe logore del ragazzo, coi grandi occhi neri ancora sbarrati e un po' di barba fulva sotto il mento. Era d'un contadino nel pieno vigore delle forze. Con quei terribili occhi sbarrati al cielo, dal corpo supino chiedeva vendetta di quell'ultima atrocità, del peso di quell'altra vittima sopra di sé. – Vedete, Signore, – pareva dicesse, – vedete che hanno fatto! (p. 238)
  • Sorte miserabile quella dell'eroe che non muore, dell'eroe che sopravvive a se stesso.
  • Invecchio, sì; perdo il gusto di comandare. Me lo fa perdere la servilità che scopro in tutti. Uomini, vorrei uomini! Mi vedo attorno automi, fantocci che devo atteggiare così o così, e che mi restano davanti, quasi a farmi dispetto, nell'atteggiamento che ho dato loro, finché non lo cambio con una manata. Soltanto di fuori però, capisci? si lasciano atteggiare! Dentro... eh, dentro, restano duri, coi loro pensieri copert, nemici, vivi solamente per loro. Che puoi su questi? Docili di fuori, miti, malleabili, visi ridenti, schiene ossequiose, t'approvano, t'approvano sempre. Ah, che sdegno! Vorrei sapere perché mi arrovello così; perché e per chi lo faccio... Domani morrò. Ho comandato! Sì, ecco: ho assegnato la parte a questo e a quello, a tanti che non hanno mai saputo veder altro in me che la parte che rappresento per loro. E di tant'altra vita, vita d'affetti e di idee che mi s'agita dentro, nessuno che abbia mai avuto il più lontano sospetto... Con chi vuoi parlarne? Sono fuori dalla parte che devo rappresentare... Certe volte, a qualcuno che viene qua a visitarmi, a incensarmi, mi diverto a rivolgere certi sguardi, certi sguardi che sfondano la parete, e me lo vedo allora per un attimo, restar davanti sospeso, impacciato, goffo; Dio sa che forza devo fare su me stesso per non scoppiargli a ridere in faccia. Mi crederebbe ammattito, per lo meno. E anche tu, caro mo, se vedessi con che occhi mi stai guardando in questo momento...
    – Io no! – disse subito Aurelio, riscuotendosi.
    Flaminio Salvo rise, scotendo il capo:
    – Anche tu, anche tu... È così; per forza è così... Ti posso io dire quello che vorrei veramente da te? Il piacere che mi faresti, se tu agissi com'io forse al tuo posto agirei?
    – E perché no? – domandò Aurelio, levandosi. – Mi dica...
    – Ma perché no, – negò subito il Salvo, stringendosi nelle spalle, – perché non posso... Puoi dirmi tu quel che pensi, quel che senti, la vita che hai dentro in questo momento?... Non puoi... Sei davanti a me nella relazioni che possono correre tra me e te: tu sei il mio ingegnere, il mio buon figliolo che amo, a cui questa sera, davanti a una ventina di marionette, ho dato l'incarico di recarsi a Colimbetra, messaggero di trionfo: e basta! Che altro potrei dirti? Questo soltanto, forse, per il tuo bene...
    E Flaminio Salvo posò una mano sulla spalla di Aurelio:
    – Non ti tracciar vie da seguire, figliuolo mio; né abitudini, né doveri; va', va', muoviti sempre; scròllati di tratto in tratto d'addosso ogni incrostatura di concetti; cerca il tuo piacere e non temere il giudizio degli altri e neanche il tuo, che puoi stimar giusto oggi e falso domani. Conosci don Cosmo Laurentano? Se sapessi quanta ragione ha quel matto! Va', va', è tardi; andiamo a dormire. Addio.
  • Non voleva credere che le banche avessero largheggiato verso il Governo per fini elettorali, per altri più loschi fini coperti; e che, favore per favore, il Governo avesse proposto leggi che per le banche erano privilegi, e difeso i prevaricatori, proponendoli agli onori della commenda e del Senato. Ma non poteva negare che fosse stato aperto il credito a certi uomini politici carezzati, che in Parlamento e per mezzo della stampa avevano combattuto a profitto delle banche falsarie, tradendo la buona fede del paese; e che questi gaudenti avessero voluto occultare ciò che da tempo si sapeva o si poteva sapere; e che, ora che le colpe avventavano, si volesse percuotere, ma con la speranza che la percossa ai più deboli salvasse i più forti. (p. 146)
  • Sapeva, sì, che già prima nelle Romagne, nel Modenese, nelle province di Reggio Emilia e di Parma, nel Cremonese, nel Mantovano, nel Polesine, era sorto a far le prime armi il socialismo italiano; ma tutt'altra cosa era adesso in Sicilia! Rivelazione improvvisa, prodigiosa! (p. 170)
  • Un manifesto era stato attaccato ai muri, ma il popolino lo ignorava; e, ignorandolo, al solito, come altrove, coi ritratti del re e della regina, un crocefisso in capo alla processione, gridando – Viva il re! Abbasso le tasse! – s'era messo a percorrere le vie del paese, finché, uscendo dalla piazza e imboccando una strada angusta che la fronteggiava, vi aveva trovato otto soldati e quattro carabinieri appostati. L'ufficiale che li comandava aveva preso questo partito con strategia sopraffina, perché la folla inerme, lì calcata e pigiata, alle intimazioni di sbandarsi non si potesse più muovere; e lì non una ma più volte, aveva ordinato contro di essa il fuoco. Undici morti, innumerevoli feriti, tra cui donne, vecchi, bambini. Ora, tutto era calmo, come in un cimitero». (p. 237)

La piazza, come schiantata e in fuga anch'essa dietro gli urli del popolo che la disertava, appena il fumo dei fucili si diradò nel livido smortume dell'alba, parve agli occhi dei soldati come trattenuta dal peso di cinque corpi inerti, sparsi qua e là.
Un bisogno strano, invincibile, obbligò il capitano a dare subito ai suoi soldati un comando qualunque, pur che fosse. Quei cinque corpi rimasti là, traboccati sconciamente, in una orrenda immobilità, su la motriglia della piazza striata dall'impeto della fuga, erano alla vista d'una gravezza insopportabile. E un furiere e un caporale, al comando del capitano, si mossero sbigottiti per la piazza e si accostarono al primo di quei cinque cadaveri.
Il furiere si chinò e vide ch'esso, caduto con la faccia a terra, era armato come un brigante. Gli tolse il fucile dalla spalla e, levando il braccio, lo mostrò al capitano; poi diede quel fucile al caporale, e si chinò di nuovo sul cadavere per prendergli dalla cintola prima una e poi l'altra pistola, che mostrò ugualmente al capitano. Allora questi, incuriosito, sebbene avesse ancora un forte tremito a una gamba e temesse che i soldati se ne potessero accorgere, si appressò anche lui a quel cadavere, e ordinò che lo rimovessero un poco per vederlo in faccia. Rimosso, quel cadavere mostrò sul petto insanguinato quattro medaglie.
I tre, allora, rimasero a guardarsi negli occhi, stupiti e sgomenti.
Chi avevano ucciso?

Il fu Mattia Pascal

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Edizione 1909

Una delle poche cose, anzi forse la sola ch'io sapessi di certo era questa: che mi chiamavo Mattia Pascal. E me ne approfittavo. Ogni qual volta qualcuno de' miei amici o conoscenti dimostrava d'aver perduto il senno fino al punto di venire da me per qualche consiglio o suggerimento, mi stringevo nelle spalle, socchiudevo gli occhi e gli rispondevo:
– Io mi chiamo Mattia Pascal.
– Grazie, caro. Questo lo so.
– E ti par poco?
Non pareva molto, per dir la verità, neanche a me. Ma ignoravo allora che cosa volesse dire il non sapere neppur questo, il non poter più rispondere, cioè, come prima, all'occorrenza:
– Io mi chiamo Mattia Pascal.
Qualcuno vorrà bene compiangermi (costa così poco), immaginando l'atroce cordoglio d'un disgraziato, al quale avvenga di scoprire tutt'a un tratto che... sì, niente, insomma: né padre, né madre, né come fu o come non fu; e vorrà pur bene indignarsi (costa anche meno) della corruzione dei costumi, e de' vizii, e della tristezza dei tempi, che di tanto male possono esser cagione a un povero innocente.

Citazioni

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  • E dimentichiamo spesso e volentieri di essere atomi infinitesimali per rispettarci e ammirarci a vicenda, e siamo capaci di azzuffarci per un pezzettino di terra o di dolerci di certe cose, che, ove fossimo veramente compenetrati di quello che siamo, dovrebbero parerci miserie incalcolabili. (cap. II; 1986, p. 7)
  • Posso dire che da allora ho fatto il gusto a ridere di tutte le mie sciagure e d'ogni mio tormento. Mi vidi, in quell'istante, attore d'una tragedia che più buffa non si sarebbe potuta immaginare: mia madre, scappata via, così, con quella matta; mia moglie, di là, che... lasciamola stare!; Marianna Pescatore lì per terra; e io, io che non avevo più pane, quel che si dice pane, per il giorno appresso, io con la barba tutta impastocchiata, il viso sgraffiato, grondante non sapevo ancora se di sangue o di lagrime, per il troppo ridere. (cap. V; 1973, p. 360)
  • E mentr'io attenderò al molino, il fattore mi ruberà i frutti della campagna; e se mi porrò invece a badare a questa, il mugnajo mi ruberà la molenda. E di qua il mugnajo e di là il fattore faranno l'altalena, e io nel mezzo a godere. (cap. VII; 1973, p. 390)
  • Recisa di netto ogni memoria in me della vita precedente, fermato l'animo alla deliberazione di ricominciare da quel punto una nuova vita, io era invaso e sollevato come da una fresca letizia infantile; mi sentivo come rifatta vergine e trasparente la coscienza, e lo spirito vigile e pronto a trar profitto di tutto per la costruzione del mio nuovo io. Intanto l'anima mi tumultuava nella gioja di quella nuova libertà. Non avevo mai veduto così uomini e cose; l'aria tra essi e me s'era d'un tratto quasi snebbiata; e mi si presentavan facili e lievi le nuove relazioni che dovevano stabilirsi tra noi, poiché ben poco ormai io avrei avuto bisogno di chieder loro per il mio intimo compiacimento. Oh levità deliziosa dell'anima; serena, ineffabile ebbrezza! La Fortuna mi aveva sciolto di ogni intrico, all'improvviso, mi aveva sceverato dalla vita comune, reso spettatore estraneo della briga in cui gli altri si dibattevano ancora [...]. (cap. VIII; 1973, p. 408)
  • Nulla s'inventa, è vero, che non abbia una qualche radice, più o men profonda, nella realtà; e anche le cose più strane possono esser vere, anzi nessuna fantasia arriva a concepire certe follie, certe inverosimili avventure che si scatenano e scoppiano dal seno tumultuoso della vita; ma pure, come e quanto appare diversa dalle invenzioni che noi possiamo trarne la realtà viva e spirante! Di quante cose sostanziali, minutissime, inimmaginabili ha bisogno la nostra invenzione per ridiventare quella stessa realtà da cui fu tratta, di quante fila che la riallaccino nel complicatissimo intrico della vita, fila che noi abbiamo recise per farla diventare una cosa a sè! (VIII; 1973, p. 413; 1993, p. 112)
  • Tu, invece, a volerla dire, sarai sempre e dovunque un forestiere: ecco la differenza. Forestiere della vita, Adriano Meis. (cap. IX; 1973, p. 422)
  • C'è chi comprende e chi non comprende, caro signore. Sta molto peggio chi comprende, perché alla fine si ritrova senza energia e senza volontà. Chi comprende, infatti, dice: «Io non devo far questo, non devo far quest'altro, per non commettere questa o quella bestialità». Benissimo! Ma a un certo punto s'accorge che la vita è tutta una bestialità, e allora dica un po' lei che cosa significa il non averne commessa nessuna: significa per lo meno non aver vissuto, caro signore. (cap. IX; 1986, p. 55)
  • «Oh perché gli uomini,» domandavo a me stesso, smaniosamente, «si affannano così a rendere man mano più complicato il congegno della loro vita? Perché tutto questo stordimento di macchine? E che farà l'uomo quando le macchine faranno tutto? Si accorgerà allora che il così detto progresso non ha nulla a che fare con la felicità? Di tutte le invenzioni, con cui la scienza crede onestamente d'arricchire l'umanità (e la impoverisce, perché costano tanto care), che gioja in fondo proviamo noi, anche ammirandole?» (cap. IX; 1973, p. 429)
  • Eppure la scienza, pensavo; ha l'illusione di render anche più facile e più comoda L'esistenza! Ma, ammettendo che la renda veramente più facile, con tutte le sue macchine così difficili e complicate, domando, io: «E qual peggior servizio a chi sia condannato a una briga vana, che rendergliela facile e quasi meccanica?». (cap. IX; 1973, p. 429)
  • Là, in un corridojo, sospesa nel vano d'una finestra, c'era una gabbia con un canarino. Non potendo con gli altri e non sapendo che fare, mi mettevo a conversar con lui, col canarino: gli rifacevo il verso con le labbra, ed esso veramente credeva che qualcuno gli parlasse e ascoltava e forse coglieva in quel mio pispissìo care notizie di nidi, di foglie, di libertà... Si agitava nella gabbia, si voltava, saltava, guardava di traverso, scotendo la testina, poi mi rispondeva, chiedeva, ascoltava ancora. Povero uccellino! lui sì m'intendeva, mentre io non sapevo che cosa gli avessi detto... (cap. IX; 1919, p. 132)
  • Mi accorsi tutt'a un tratto che dovevo proprio morire ancora: ecco il male! Chi se ne ricordava più? Dopo il mio suicidio alla Stia, io naturalmente non avevo veduto più altro, innanzi a me, che la vita. Ed ecco qua, ora: il signor Anselmo Paleari mi metteva innanzi di continuo l'ombra della morte. (cap. X; 1973, p. 439)
  • Il male della scienza, guardi, signor Meis, è tutto qui: che vuole occuparsi della vita soltanto. (cap. X; 1973, p. 443)
  • Ma la causa vera di tutti i nostri mali, di questa tristezza nostra, sai qual è? La democrazia, mio caro, la democrazia, cioè il governo della maggioranza. Perché, quando il potere è in mano d'uno solo, quest'uno sa d'esser uno e di dover contentare molti; ma quando i molti governano, pensano soltanto a contentar se stessi, e si ha allora la tirannia più balorda e più odiosa; la tirannia mascherata da libertà. (cap. XI; 1973, p. 448)
  • «Se noi riconosciamo,» pensavo, «che errare è dell'uomo, non è crudeltà sovrumana la giustizia?» (cap. XI; 1973, p. 459)
  • «Beate le marionette,» sospirai, «su le cui teste di legno il finto cielo si conserva senza strappi! Non perplessità angosciose, né ritegni, né intoppi, né ombre, né pietà; nulla! E possono attendere bravamente e prender gusto alla loro commedia e amare e tener se stesse in considerazione e in pregio, senza soffrir mai vertigini o capogiri, poiché per la loro statura e per le loro azioni quel cielo è un tetto proporzionato. (cap. XII; 1973, p. 468)
  • Potei sperimentare che l'uomo, quando soffre, si fa una particolare idea del bene e del male, e cioè del bene che gli altri dovrebbero fargli e a cui egli pretende, come se dalle proprie sofferenze gli derivasse un diritto al compenso, e del male che egli può fare a gli altri, come se parimenti dalle proprie sofferenze vi fosse abilitato. E se gli altri non gli fanno il bene quasi per dovere, egli li accusa, e di tutto il male ch'egli fa quasi per diritto, facilmente si scusa. (XII; 1973, p. 482; 1993, p. 167)
  • E il signor Anselmo, seguitando, mi dimostrava che, per nostra disgrazia, noi non siamo come l'albero che vive e non si sente, a cui la terra, il sole, l'aria, la pioggia, il vento, non sembra che sieno cose ch'esso non sia: cose amiche o nocive. A noi uomini, invece, nascendo, è toccato un tristo privilegio: quello di sentirci vivere, con la bella illusione che ne risulta: di prendere cioè come una realtà fuori di noi questo nostro interno sentimento della vita, mutabile e vario, secondo i tempi, i casi e la fortuna.
    E questo sentimento della vita per il signor Anselmo era appunto come un lanternino che ciascuno di noi porta in sé acceso; un lanternino che ci fa vedere sperduti su la terra, e ci fa vedere il male e il bene; un lanternino che projetta tutt'intorno a noi un cerchio più o meno ampio di luce, di là dal quale è l'ombra nera, l'ombra paurosa che non esisterebbe, se il lanternino non fosse acceso in noi, ma che noi dobbiamo pur troppo creder vera, fintanto ch'esso si mantiene vivo in noi. Spento alla fine a un soffio, ci accoglierà davvero quell'ombra fittizia, ci accoglierà la notte perpetua dopo il giorno fumoso della nostra illusione, o non rimarremo noi piuttosto alla mercé dell'Essere, che avrà soltanto rotto le vane forme della nostra ragione?
    – Dorme, signor Meis?
    – Segua, segua pure, signor Anselmo: non dormo. Mi par quasi di vederlo, codesto suo lanternino.
    – Ah, bene... Ma poiché lei ha l'occhio offeso, non ci addentriamo troppo nella filosofia, eh? e cerchiamo piuttosto d'inseguire per ispasso le lucciole sperdute, che sarebbero i nostri lanternini, nel bujo della sorte umana. Io direi innanzi tutto che son di tanti colori; che ne dice lei? secondo il vetro che ci fornisce l'illusione, gran mercantessa, gran mercantessa di vetri colorati. A me sembra però, signor Meis, che in certe età della storia, come in certe stagioni della vita individuale, si potrebbe determinare il predominio d'un dato colore, eh? In ogni età, infatti, si suole stabilire tra gli uomini un certo accordo di sentimenti che dà lume e colore a quei lanternoni che sono in termini astratti: Verità, Virtù, Bellezza, Onore, e che so io... E non le pare che fosse rosso, ad esempio, il lanternone della Virtù pagana? Di color violetto, color deprimente, quello della Virtù cristiana. Il lume d'una idea comune è alimentato dal sentimento collettivo; se questo sentimento però si scinde, rimane sì in piedi la lanterna del termine astratto, ma la fiamma dell'idea vi crepita dentro e vi guizza e vi singhiozza, come suole avvenire in tutti i periodi che son detti di transizione. Non sono poi rare nella storia certe fiere ventate che spengono d'un tratto tutti quei lanternoni. Che piacere! Nell'improvviso bujo, allora è indescrivibile lo scompiglio delle singole lanternine: chi va di qua, chi di là, chi torna indietro, chi si raggira; nessuna più trova la via: si urtano, s'aggregano per un momento in dieci, in venti; ma non possono mettersi d'accordo, e tornano a sparpagliarsi in gran confusione, in furia angosciosa: come le formiche che non trovino più la bocca del formicajo, otturata per ispasso da un bambino crudele. (cap. XIII; 1919, pp. 197-199)
  • Avevo già sperimentato come la mia libertà, che a principio m'era parsa senza limiti, ne avesse purtroppo nella scarsezza del mio denaro; poi m'ero anche accorto ch'essa più propriamente avrebbe potuto chiamarsi solitudine e noja, e che mi condannava a una terribile pena: quella della compagnia di me stesso; mi ero allora accostato agli altri; ma il proponimento di guardarmi bene dal riallacciare, fors'anche debolissimamente, le fila recise, a che era valso? Ecco: s'erano riallacciate da sé, quelle fila; e la vita, per quanto io, già in guardia, mi fossi opposto, la vita mi aveva trascinato, con la sua foga irresistibile: la vita che non era più per me. (cap. XV; 1973, p. 511)
  • Morto? Peggio che morto; me l'ha ricordato il signor Anselmo: i morti non debbono, più morire, e io sì: io sono ancora vivo per la morte e morto per la vita. Che vita infatti può esser più la mia? La noja di prima, la solitudine, la compagnia di me stesso? (cap. XV; 1973, p. 521)
  • Ma sì! così era! il simbolo, lo spettro della mia vita era quell'ombra: ero io, là per terra, esposto alla mercé dei piedi altrui. Ecco quello che restava di Mattia Pascal, morto alla Stìa: la sua ombra per le vie di Roma. (cap. XV; 1973, p. 524)
  • Ma aveva un cuore, quell'ombra, e non poteva amare; aveva denari, quell'ombra, e ciascuno poteva rubarglieli; aveva una testa, ma per pensare e comprendere ch'era la testa di un'ombra, e non l'ombra d'una testa. Proprio cosi! (cap. XV; 1973, p. 524)
  • Ed ecco, ora, dopo essermi aggirato per due anni, come un'ombra, in quella illusione di vita oltre la morte, mi vedevo costretto, forzato, trascinato peri capelli a eseguire su me la loro condanna. Mi avevano ucciso davvero! Ed esse, esse sole si erano liberate di me... [...] Ma sì! ma sì! Io non dovevo uccider me, un morto, io dovevo uccidere quella folle, assurda finzione che m'aveva torturato, straziato due anni, quell'Adriano Meis, condannato a essere un vile, un bugiardo, un miserabile; quell'Adriano Meis dovevo uccidere, che essendo, com'era, un nome falso, avrebbe dovuto aver pure di stoppa il cervello, di cartapesta il cuore, di gomma le vene, nelle quali un po' d'acqua tinta avrebbe dovuto scorrere, invece di sangue: allora sì! Via, dunque, giù, giù, tristo fantoccio odioso! Annegato, lí, come Mattia Pascal! Una volta per uno! (cap. XVI; 1973, p. 546)
  • Ah, ora, ritornando vivo, avrei potuto anch'io prendermi il gusto di dire bugie, tante, tante, tante, anche della forza di quelle del cavalier Tito Lenzi, e più grosse ancora! (cap. XVII; 1973, p. 551)
  • Ah, che vuol dir morire! Nessuno, nessuno si ricordava più di me, come se non fossi mai esistito... (cap. XVIII; 1973, p. 575)
  • Copernico [...] ha rovinato l'umanità, irrimediabilmente. Ormai noi tutti ci siamo a poco a poco adattati alla nuova concezione dell'infinita nostra piccolezza, a considerarci anzi men che niente nell'Universo... Storie di vermucci ormai, le nostre.
  • Le anime hanno un loro particolar modo d'intendersi, d'entrare in intimità, fino a darsi del tu, mentre le nostre persone sono tuttavia impacciate nel commercio delle parole comuni, nella schiavitù delle esigenze sociali. Han bisogni lor proprii e loro proprie aspirazioni le anime, di cui il corpo non si dà per inteso, quando veda l'impossibilità di soddisfarli e di tradurle in atto. E ogni qualvolta due che comunichino fra loro così, con le anime soltanto, si trovano soli in qualche luogo, provano un turbamento angoscioso e quasi una repulsione violenta d'ogni minimo contatto materiale, una sofferenza che li allontana, e che cessa subito, non appena un terzo intervenga. Allora, passata l'angoscia, le due anime sollevate si ricercano e tornano a sorridersi da lontano.
  • Un desiderio vago, come un'aura dell'anima, aveva schiuso pian piano per lei, come per me, una finestra nell'avvenire, donde un raggio dal tepore inebriante veniva a noi, che non sapevamo intanto appressarci a quella finestra né per richiuderla né per vedere che cosa ci fosse di là.
  • Vivo alla morte, ma morto alla vita.
  • Ogni oggetto in noi suol trasformarsi secondo le immagini ch'esso evoca e aggruppa, per così dire, attorno a sé. Certo un oggetto può piacere anche per se stesso, per la diversità delle sensazioni gradevoli che ci suscita in una percezione armoniosa; ma ben più spesso il piacere che un oggetto ci procura non si trova nell'oggetto per sé medesimo. La fantasia lo abbellisce cingendolo e quasi irraggiandolo d'immagini care. Né noi lo percepiamo più qual esso è, ma così, quasi animato dalle immagini che suscita in noi o che le nostre abitudini vi associano. Nell'oggetto, insomma, noi amiamo quel che vi mettiamo di noi, l'accordo, l'armonia che stabiliamo tra esso e noi, l'anima che esso acquista per noi soltanto e che è formata dai nostri ricordi. (IX; 1993, p. 118)
  • Amicizia vuol dire confidenza [...]. (IX; 1993, p. 123)
  • Folle! Come mi ero illuso che potesse vivere un tronco reciso dalle sue radici? (XVII; 1993, p. 219)

Appendice: Avvertenza sugli scrupoli della fantasia

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  • Perché la vita, per tutte le sfacciate assurdità, piccole e grandi, di cui beatamente è piena, ha l'inestimabile privilegio di poter fare a meno di quella stupidissima verosimiglianza, a cui l'arte crede suo dovere obbedire.
    Le assurdità della vita non hanno bisogno di parer verosimili, perché sono vere. All'opposto di quelle dell'arte che, per parer vere, hanno bisogno d'esser verosimili. E allora, verosimili, non sono più assurdità.
    Un caso della vita può essere assurdo; un'opera d'arte, se è opera d'arte, no.
    Ne segue che tacciare d'assurdità e d'inverosimiglianza, in nome della vita, un'opera d'arte è balordaggine.
    In nome dell'arte, sì; in nome della vita, no. (1993, pp. 243-244)
  • Si domanda a questo punto se vogliono esser considerati come zoologi o come critici letterarii quei tali signori che, giudicando un romanzo o una novella o una commedia, condannano questo o quel personaggio, questa o quella rappresentazione di fatti o di sentimenti, non già in nome dell'arte come sarebbe giusto, ma in nome d'una umanità che sembra essi conoscano a perfezione, come se realmente in astratto esistesse, fuori cioè di quell'infinita varietà d'uomini capaci di commettere tutte quelle sullodate assurdità che non hanno bisogno di parer verosimili, perché sono vere. (1993, p. 244)
  • Ma se il valore e il senso universalmente umano di certe mie favole e di certi miei personaggi, nel contrasto, com'egli dice, tra realtà e illusione, tra volto individuale ed immagine sociale di esso, consistesse innanzi tutto nel senso e nel valore da dare a quel primo contrasto, il quale, per una beffa costante della vita, ci si scopre sempre inconsistente, in quanto che, necessariamente purtroppo, ogni realtà d'oggi è destinata a scoprircisi illusione domani; ma illusione necessaria, se purtroppo fuori di essa non c'è per noi altra realtà? Se consistesse appunto in questo, che un uomo o una donna, messi da altri o da se stessi, in una penosa situazione, socialmente anormale, assurda per quanto si voglia, vi durano, la sopportano, la rappresentano davanti agli altri, finché non la vedono, sia pure per la loro cecità o incredibile buonafede; perché appena la vedono come a uno specchio che sia posto loro davanti, non la sopportano più, ne provan tutto l'orrore e la infrangono o, se non possono infrangerla, se ne senton morire? Se consistesse appunto in questo, che una situazione, socialmente anormale, si accetta, anche vedendola a uno specchio, che in questo caso ci para davanti la nostra stessa illusione; e allora la si rappresenta, soffrendone tutto il martirio, finché la rappresentazione di essa sia possibile dentro la maschera soffocante che da noi stessi ci siamo imposta o che da altri o da una crudele necessità ci sia stata imposta, cioè fintanto che sotto questa maschera un sentimento nostro, troppo vivo, non sia ferito così addentro, che la ribellione alla fine prorompa e quella maschera si stracci e si calpesti? [...] L'arruffio, se c'è, dunque è voluto; il macchinismo, se c'è, dunque è voluto; ma non da me: bensì dalla favola stessa, dagli stessi personaggi; e si scopre subito, difatti: spesso è concertato apposta e messo sotto gli occhi nell'atto di concertarlo e di combinarlo: è la maschera per una rappresentazione; il giuoco delle parti; quello che vorremmo o dovremmo essere; quello che agli altri pare che siamo, mentre quel che siamo, non lo sappiamo, fino a un certo punto, neanche noi stessi; la goffa, incerta metafora di noi; la costruzione, spesso arzigogolata, che facciamo di noi, o che gli altri fanno di noi: dunque, davvero, un macchinismo, sì, in cui ciascuno volutamente, ripeto, è la marionetta di se stesso; e poi, alla fine, il calcio che manda all'aria tutta la baracca.

Ho messo circa sei mesi a scrivere questa mia strana storia, ajutato da lui. Di quanto è scritto qui egli serberà il segreto, come se l'avesse saputo sotto il sigillo della confessione.
Abbiamo discusso a lungo insieme su i casi miei, ie spesso io gli ho dichiarato di non saper vedere che frutto se ne possa cavare.
– Intanto, questo, – egli mi dice: – che fuori della legge e fuori di quelle particolarità, liete o tristi che sieno, per cui noi siamo noi, caro signor Pascal, non è possibile vivere.
Ma io gli faccio osservare che non sono affatto rientrato né nella legge, né nelle mie particolarità. Mia moglie è moglie di Pomino, e io non saprei proprio dire ch'io mi sia.
Nel cimitero di Miragno, su la fossa di quel povero ignoto che s'uccise alla Stìa, c'è ancora la lapide dettata da Lodoletta:

COLPITO DA AVVERSI FATI
MATTIA PASCAL
BIBLIOTECARIO
CVOR GENEROSO ANIMA APERTA
QVI VOLONTARIO
RIPOSA
LA PIETÀ DEI CONCITTADINI
QVESTA LAPIDE POSE


Io vi ho portato la corona di fiori promessa e ogni tanto mi reco a vedermi morto e sepolto là. Qualche curioso mi segue da lontano; poi, al ritorno, s'accompagna con me, sorride, e – considerando la mia condizione – mi domanda:
– Ma voi, insomma, si può sapere chi siete?
Mi stringo nelle spalle, socchiudo gli occhi e gli rispondo:
– Eh, caro mio... Io sono il fu Mattia Pascal.

L'amica delle mogli

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MARTA: Eccoci qua. Abbiamo fatto un po' tardi.
CAMERIERE: La corsa arriva alle nove.
PRIMA CAMERIERA: C'è più d'un'ora.
MARTA: Bisogna sbricarci, perché tutto sia pronto. Questi fiori... (Al cameriere): ecco, reggete un po'... (Riprendendosi): No, meglio posarli qua. (Li posa su un tavolinetto). Prendo le chiavi.

Citazioni

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  • VENZI: Bell'arte, ah bell'arte, la musica! Peccato…
    DAULA: (andandogli incontro, minaccioso). Che intendi dire?
    VENZI: Peccato che tu la professi con tanta disgrazia!
    DAULA: Bada ch'è la seconda volta, questa, che tu mi provochi!
    VENZI: (prendendolo per il bavero e dominandolo, con tono ambiguo). Sciocchi, caro, si può essere in due modi: per una sciocchezza che si fa, come tanti possono farla, pur senz'essere sciocchi; e allora si fa ridere non propriamente di noi, ma della sciocchezza che abbiamo fatta; o sciocchi per sciocchezza congenita, e allora facciamo ridere di noi, sempre, qualunque cosa si faccia, anche la più seria; come quella che tu hai consigliato adesso a questo bel giovanotto. Mi sono spiegato?

Anna: Ma come? vuoi restar sola?
Clelia: Qua, tu sola?
Rosa: Siamo venute per te!
Marta: Sola, sì, sola! Vi ringrazio; ma andate, andate, vi prego! Voglio restar sola! ‑ Pòrtatelo via, pòrtatelo via, Anna!
Venzi: No. Io debbo restare.
Marta (con minaccioso tono): Lei se n'andrà via con sua moglie! ‑
Poi rivolta alle mogli:
Insomma, come debbo dirvi d'andarvene? ‑ Lasciatemi sola! voglio restar sola! ‑ Sola, ‑ sola, ‑ sola!

L'umorismo

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  • Ciò che noi conosciamo di noi stessi, non è che una parte, forse una piccolissima parte di quello che noi siamo. E tante e tante cose, in certi momenti eccezionali, noi sorprendiamo in noi stessi, percezioni, ragionamenti, stati di coscienza che son veramente oltre i limiti relativi della nostra esistenza normale e cosciente. (1908)
  • Montaigne [...] è il tipo dello scetticismo sereno, non avido di lotte, sorridente, senza impeti, senza ideali da difendere, senza virtù da seguire, lo scettico che tollera tutto senza aver fede in nulla, che non ha nè entusiasmi nè aspirazioni, che si serve del dubbio per giustificare l’inerzia con la tolleranza, che dimostra una percezione della vita serena, ma sterile, indice di egoismo e di decadenza di razza, giacché il libero esame che non spinge all’azione può meglio che salvare dalla schiavitù, accettare, o rendersi complice del dispotismo. (I, 6)
  • Vediamo dunque, qual è il processo da cui risulta quella particolar rappresentazione che si suol chiamare umoristica; se questa ha peculiari caratteri che la distinguono, e da che derivano; se vi è un particolar modo di considerare il mondo, che costituisce appunto la materia e la ragione dell'umorismo. [...] Ho già detto altrove, e qui m'è forza ripetere– l'opera d'arte è creata dal libero movimento della vita interiore che organa le idee e le immagini in una forma armoniosa, di cui tutti gli elementi han corrispondenza tra loro e con l'idea madre che le coordina. [...] Vedo una vecchia signora, coi capelli ritinti, tutti unti non si sa di qual orribile manteca, e poi tutta goffamente imbellettata e parata d'abiti giovanili. Mi metto a ridere. "Avverto" che quella vecchia signora è il contrario di ciò che una rispettabile signora dovrebbe essere. Posso così, a prima giunta e superficialmente, arrestarmi a questa espressione comica. Il comico è appunto un "avvertimento del contrario".
    Ma se ora interviene in me la riflessione, e mi suggerisce che quella vecchia signora non prova forse piacere a pararsi così come un pappagallo, ma che forse ne soffre e lo fa soltanto perché pietosamente, s'inganna che, parata così, nascondendo le rughe e le canizie, riesca a trattenere a sé l'amore del marito molto più giovane di lei, ecco che io non posso più riderne come prima, perché appunto la riflessione, lavorando in me, mi ha fatto andar oltre a quel primo avvertimento, o piuttosto, più addentro: da quel primo avvertimento del contrario mi ha fatto passare a questo sentimento del contrario. Ed è tutta qui la differenza tra il comico e l'umoristico. [...] non ci fermiamo alle apparenze, ciò che inizialmente ci faceva ridere adesso ci farà tutt'al più sorridere.

Non si sa come

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Ai nostri giorni
...Al levarsi della tela Giorgio, seduto nel terrazzo, legge; vedendo entrare Respi, si alza.
GIORGIO: Oh, Respi. Bravo. Ci si rivede.
RESPI: Sei sbarcato da poco.
GIORGIO: Da dodici giorni. Li conto, perché purtroppo me ne restano ormai soltanto tre.
RESPI: Dopo otto mesi di crociera.
GIORGIO: Quindici soli giorni di licenza. Che vuoi farci? È la nostra vita.

Citazioni

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  • Scagliata la pietra, d'un tratto – io non so come – da che tutto prima mi sbalzava davanti agli occhi, quelle masse d'alberi, in cielo la luna come uno striscio di luce, ora più nulla, il tempo stesso e tutte le cose pareva si fossero fermati in uno stupore attonito intorno a quel ragazzo traboccato a terra. Ancora ansante, col cuore in gola, mirai esterrefatto, addossato alla muriccia, quell'incredibile immobilità silenziosa della campagna sotto la luna, quel ragazzo che vi giaceva con la faccia mezzo nascosta nella terra, e sentii crescere in me, formidabile, il senso d'una solitudine eterna, da cui dovevo subito fuggire. Non ero stao io; io non l'avevo voluto; non ne sapevo nulla: E proprio come se non fossi stato io, proprio come se m'appressassi per curiosità, mossi un passo e poi un altro, e mi chinai a guardare. Il ragazzo aveva la testa sfragellata, la bocca nel sangue colato a terra nero e una gamba un po' scoperta.

Romeo: Giorgio, anche lei, tua moglie, come in sogno, è stata mia. Non l'ha voluto, né io l'ho voluto. Puoi tu punirci?
Giorgio, Ginevra e Bice ne restano sbalorditi. Pausa.
Bice (ancora nello sbalordimento): Perché l'hai detto?
Romeo: Dovevo dirlo. Tu nel sogno, lei nel fatto.
Giorgio: Nel fatto. Ah, dunque è vero? Hai mentito?
E accenna di lanciarsi come una belva contro Romeo. Subito Ginevra gli si mette davanti per pararlo, gridando.
Ginevra: No! è, pazzo! È pazzo!
Romeo: Non sono pazzo. Siamo innocenti.
Giorgio con una violenta bracciata si libera da Ginevra e cava dal fodero la pistola, mentre Bice, cercando di riparar Romeo, grida a Giorgio:
Bice: No, no, Giorgio!
Romeo (subito a Bice, scartandola): Lascialo fare.
Giorgio spara. Grido delle due donne.
Romeo (abbattendosi su Bice): Anche questo è umano.

Quaderni di Serafino Gubbio operatore

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Studio la gente nelle sue più ordinarie occupazioni, se mi riesca di scoprire negli altri quello che manca a me per ogni cosa ch'io faccia: la certezza che capiscano ciò che fanno.

Citazioni

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  • [...] gli uomini hanno in sé un superfluo, che di continuo inutilmente li tormenta, non facendoli mai paghi di nessuna condizione e sempre lasciandoli incerti del loro destino. (quaderno I, § 3; p. 11)
  • Mani, non vedo altro che mani, in queste camere oscure; mani affaccendate su le bacinelle; mani, cui il tetro lucore delle lanterne rosse dà un'apparenza spettrale. Penso che queste mani appartengono ad uomini che non sono più; che qui sono condannati ad esser mani soltanto: queste mani, strumenti. Hanno un cuore? A che serve? Qua non serve. Solo come strumento anch'esso di macchina, può servire, per muovere queste mani. E così la testa: solo per pensare ciò che a queste mani può servire. E a poco a poco m'invade tutto l'orrore della necessità che mi s'impone, di diventare anch'io una mano e nient'altro. (quaderno III, § 3; p. 70)
  • [...] la vita è tutta una stupidaggine, sempre, perché non conclude mai e non può concludere. (Simone Pau: quaderno IV, § 3; p. 121)
  • La filosofia è come la religione: conforta sempre, anche quando è disperata, perché nasce dal bisogno di superare un tormento, e anche quando non lo superi, il pórselo davanti, questo tormento, è già un sollievo per il fatto che, almeno per un poco, non ce lo sentiamo più dentro. (quaderno IV, § 3; p. 121)
  • Che mondaccio, signor Gubbio, che mondaccio è questo! che schifo! Ma pajono tutti... che so! Ma perché si dev'essere così? Mascherati! Mascherati! Mascherati! Me lo dica lei! Perché, appena insieme, l'uno di fronte all'altro, diventiamo tutti tanti pagliacci? Scusi, no, anch'io, anch'io; mi ci metto anch'io; tutti! Mascherati! Questo, un'aria così; quello, un'aria cosà... E dentro siamo diversi! Abbiamo il cuore, dentro, come... come un bambino rincantucciato, offeso, che piange e si vergogna! (Carlo Ferro: quaderno IV, § 4; pp. 125-126)
  • A quanti uomini, presi nel gorgo d'una passione, oppure oppressi, schiacciati dalla tristezza, dalla miseria, farebbe bene pensare che c'è, sopra il soffitto, il cielo, e che nel cielo ci sono le stelle. Anche se l'esserci delle stelle non ispirasse loro un conforto religioso. Contemplandole, s'inabissa la nostra inferma piccolezza, sparisce nella vacuità degli spazii, e non può non sembrarci misera e vana ogni ragione di tormento. (quaderno V, § 1; pp. 161-162)
  • Porsi davanti la vita come un oggetto da studiare, è assurdo, perché la vita, posta davanti così, perde per forza ogni consistenza reale e diventa un'astrazione vuota di senso e di valore. E com'è più possibile spiegarsela? L'avete uccisa. Potete, tutt'al più, farne l'anatomia.
    La vita non si spiega; si vive.
    La ragione è nella vita; non può esserne fuori. E la vita non bisogna porsela davanti, ma sentirsela dentro, e viverla. (quaderno V, § 4; p. 179)
  • – Già! – disse. – È curioso l'effetto che ci fa la nostra immagine riprodotta fotograficamente, anche in un semplice ritratto, quando ci facciamo a guardarla la prima volta. Perché?
    – Forse, – gli risposi, – perché ci sentiamo lì fissati in un momento, che già non è più in noi; che resterà, e che si farà man mano sempre più lontano.
    – Forse! – sospirò. – Sempre più lontano per noi...
    – No, – soggiunsi, – anche per l'immagine. L'immagine invecchia anch'essa, tal quale come invecchiamo noi a mano a mano. Invecchia, pure fissata lì sempre in quel momento; invecchia giovane, se siamo giovani, perché quel giovane lì diviene d'anno in anno sempre più vecchio con noi, in noi.
    – Non capisco.
    – È facile intenderlo, se ci pensa un poco. Guardi: il tempo, da lì, da quel ritratto, non procede più innanzi, non s'allontana sempre più d'ora in ora con noi verso l'avvenire; pare che resti lì fissato, ma s'allontana anch'esso, in senso inverso; si sprofonda sempre più nel passato, il tempo. Per conseguenza l'immagine, lì, è una cosa morta che col tempo s'allontana man mano anch'essa sempre più nel passato: e più è giovane e più diviene vecchia e lontana. (quaderno VII, § 3; pp. 255-256)

No, grazie. Grazie a tutti. Ora basta. Voglio restare così. Il tempo è questo; la vita è questa; e nel senso che do alla mia professione, voglio seguitare così – solo, muto e impassibile – a far l'operatore.
La scena è pronta?
– Attenti, si gira... –

Sagra del signore della nave

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Appena alzato il sipario si udrà un lontanissimo battere in cadenza di tamburi, che non verrà dal palcoscenico ma dall'interno del teatro, alle spalle degli spettatori. A poco a poco questo battito si avvicinerà sempre di più.
UN TAVERNAJO: (lardoso, con un tòcco di carta in capo, in maniche di camicia rimboccate sulle braccia e un grembiule di traliccio a righe bianche e turchine: chiamando verso l'interno, a destra). O Libèee! Dico a te! Malanno a te! Vieni a stendere le tovaglie sulle tavole, che già la gente comincia a venire!
Dietro le quinte a destra e a sinistra, più o meno lontani e regolati sulle pause dal Direttore di scena per modo che non disturbino troppo la recitazione, cominceranno ad udirsi i versi dei venditori, cantilenati e ripetuti d'ora in ora con varietà, durante tutta la rappresentazione. Qui se ne trascrivono alcuni; altri potranno essere aggiunti, purché abbian colore e diversità di tono e di cadenza.
BERCIO D'UN DOLCIERE: Croccanti, croccanti, biscotti aranciati!
BERCIO D'UN GELATAJO: Lo scialacuore, lo scialacuore! – Un soldo la giara, lo scialacuore!
BERCIO D'UN COCOMERAJO: Taglia ch'è rosso! Taglia ch'è rosso!
BERCIO DI PESCIVENDOLI: Triglie e merluzzi venuti d'ora!

Citazioni

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  • IL SIGNOR LAVACCARA: (in condfidenza al giovane pedagogo). Ma quello lì, gliel'assicuro io, è un avvocato sì, ma assai più porco del mio porco che adesso si mangerà!
    IL GIOVANE PEDAGOGO: Non lo dica, signor Lavaccara! Un porco è un porco e basta; mentre, veda, quello lì – non voglio contraddirla – sarà magari un porco; ma porco e avvocato; e quell'altro, porco e notajo; e questo che viene ora, porco e orologiaio; e quest'altro, porco e farmacista. C'è una bella differenza, creda! (p. 123)

D'un tratto, cupo enorme solenne, s'udrà dall'alto un rintocco di campana, e subito, come per un improvviso tracollo del sole, la luce, da rossa, si farà violetta. Tutti, come atterriti, taceranno, in miserabili atteggiamenti sguajati, cangiando le urla in un bestiale affanno di pianto, in una mugolante ànsima di contrizione. Altri tremendi rintocchi s'udranno intanto, a cui dalla chiesa risponderà il rombo dell'organo e il coro dei divoti: e dal portale della chiesa apparirà, spettrale, un altissimo prete in cappa e stola, che reggerà alto con tutt'e due le braccia il Signore della Nave: grande macabro Crocefisso insanguinato. Due chierici, anch'essi spettrali, gli staranno ai lati; altri due, inginocchiati davanti, agiteranno i turiboli; tutta la folla, sempre ansimando, gemendo, mugolando, cadrà in ginocchio e si darà pugni rintronanti sul petto. Il prete lentamente scenderà la cordonata, seguito dai divoti oranti e da altri chierici che recheranno alti su neri bastoncelli dei lampioncini accesi, e aprirà la processione, attraversando il palcoscenico e poi sul ponticello la sala. Dietro al Crocefisso molti andranno barcollanti e non cesseranno di picchiarsi il petto e di piangere e di gemere a mano a mano più forte; altri, non riuscendo a levarsi in piedi, resteranno accosciati sul palcoscenico come bestie ferite, barbugliando: «Mea culpa! Mea culpa! Cristo, perdonaci! Cristo, pietà!». Allora il giovane pedagogo, rimasto col signor Lavaccara sul palcoscenico, tutti e due come basiti, si leverà gradatamente e additando al compagno la tragica processione, dirà:

Il giovane pedagogo: No, no, vede? piangono, piangono! Si sono ubriacati, si sono imbestiati; ma eccoli qua ora che piangono dietro al loro Cristo insanguinato! E vuole una tragedia più tragedia di questa?

La processione scomparirà dalla sala; cesseranno i rintocchi e cadrà la tela.

Sei personaggi in cerca d'autore

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Edizione 1921

Di giorno,
su un palcoscenico di teatro di posa
.

[...]
IL DIRETTORE DI SCENA: Oh! Che fai?
IL MACCHINISTA: Che faccio? Inchiodo.
IL DIRETTORE DI SCENA: A quest'ora?
Guarderà l'orologio
Sono già le dieci e mezzo. A momenti sarà qui il Direttore per la prova.
IL MACCHINISTA: Ma dico, dovrò avere anch'io il mio tempo per lavorare!
IL DIRETTORE DI SCENA: L'avrai, ma non ora.
IL MACCHINISTA: E quando?
IL DIRETTORE DI SCENA: Quando non sarà più l'ora della prova. Su, su, pòrtati via tutto, e lasciami disporre la scena per il secondo atto del Giuoco delle parti. [Luigi Pirandello, Sei personaggi in cerca d'autore, BMM, 1954.]

Citazioni

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  • Nulla pare che sia più superfluo dello spirito in un organismo umano. (dalla Prefazione)[25]
  • Ogni fantasma, ogni creatura d'arte, per essere, deve avere il suo dramma, cioè un dramma di cui esso sia personaggio e per cui è personaggio. Il dramma è la ragion d'essere del personaggio; è la sua funzione vitale: necessaria per esistere. (dalla Prefazione)[25]
  • [...] chi ha la ventura di nascere personaggio vivo, può ridersi anche della morte. Non muore più! [...] Chi era Sancho Panza? Chi era don Abbondio? Eppure vivono eterni, perché – vivi germi – ebbero la ventura di trovare una matrice feconda, una fantasia che li seppe allevare e nutrire, far vivere per l'eternità! (Il padre)
  • Il capocomico: E dov'è il copione?
    Il padre: È in noi, signore. Il dramma è in noi; siamo noi; e siamo impazienti di rappresentarlo, così come dentro ci urge la passione!
    La Figliastra: Egli vuole subito arrivare alla rappresentazione dei suoi travagli spirituali; ma io voglio rappresentare il mio dramma! Il mio! (1925)
  • Dimostrarle che si nasce alla vita in tanti modi, in tante forme: albero o sasso, acqua o farfalla... o donna. E che si nasce anche personaggi!
  • Abbiamo tutti dentro un mondo di cose: ciascuno un suo mondo di cose! E come possiamo intenderci, signore, se nelle parole ch'io dico metto il senso e il valore delle cose come sono dentro di me; mentre chi le ascolta, inevitabilmente le assume col senso e col valore che hanno per sé, del mondo com'egli l'ha dentro? Crediamo di intenderci; non ci intendiamo mai!
  • [...] lei sa bene che la vita è piena d'infinite assurdità, le quali sfacciatamente non han neppure bisogno di parer verosimili; perché sono vere.
  • Signore, ciascuno - fuori, davanti agli altri - è vestito di dignità: ma dentro di sè sa bene tutto ciò che nell'intimità con se stesso si passa, d'inconfessabile.
  • Ma dica un po', è pazza? (Il padre) No, che pazza! È peggio!
  • Lei è la ragione, e sua moglie l'istinto: in un giuoco di parti assegnate, per cui lei che rappresenta la sua parte è volutamente il fantoccio di se stesso.
  • Il dramma per me è tutto qui, signore: nella coscienza che ho, che ciascuno di noi – veda- si crede uno ma non è vero: è tanti, signore, tanti, secondo tutte le possibilità d'essere che sono in noi: uno con questo, uno con quello, – diversissimi! E con l'illusione, intanto, d'essere sempre uno per tutti e sempre quest'uno che ci crediamo in ogni nostro atto. Non è vero! Non è vero! Ce ne accorgiamo bene, quando in qualcuno dei nostri atti, per un caso sciaguratissimo, restiamo all'improvviso come agganciati e sospesi: ci accorgiamo, voglio dire, di non essere tutti in quell'atto! (Garzanti)
  • Per chi cade nella colpa, signore, il responsabile di tutte le colpe che seguono, non è sempre chi, primo, determinò la caduta? (1954, p. 75)
  • Un personaggio, signore, può sempre domandare a un uomo chi è. Perché un personaggio ha veramente una vita sua, segnata di caratteri suoi, per cui è sempre «qualcuno». Mentre un uomo – non dico lei, adesso – un uomo così in genere, può non essere «nessuno». (1954, p. 81)
  • Quando un personaggio è nato, acquista subito una tale indipendenza anche dal suo stesso autore, che può esser da tutti immaginato in tant'altre situazioni in cui l'autore non pensò di metterlo, e acquistare anche, a volte, un significato che l'autore non si sognò mai di dargli! (Il padre)

Subito, dietro il fondalino, come per uno sbaglio d'attacco, s'accenderà un riflettore verde, che proietterà, grandi e spiccate, le ombre dei Personaggi, meno il Giovinetto e la Bambina. Il capocomico, vedendole, schizzerà via dal palcoscenico, atterrito. Contemporaneamente si spegnerà il riflettore dietro il fondalino, e si rifarà sul palcoscenico il notturno azzurro di prima. Lentamente, dal lato destro della tela verrà prima avanti il Figlio, seguito dalla madre con le braccia protese verso di lui; poi dal lato sinistro il padre.
Si fermeranno a metà del palcoscenico, rimanendo lì come forme trasognate. Verrà fuori, ultima, da sinistra, la figliastra che correrà verso una delle scalette; sul primo scalino si fermerà un momento a guardare gli altri tre e scoppierà in una stridula risata, precipitandosi poi giù per la scaletta; correrà attraverso il corridojo tra le poltrone; si fermerà ancora una volta e di nuovo riderà, guardando i tre rimasti lassù; scomparirà dalla sala, e ancora, dal ridotto, se ne udrà la risata. Poco dopo calerà la tela.

Citazioni sull'opera

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  • Ho già afflitto tanto i miei lettori con centinaja di novelle; perché dovrei affliggerli ancora con la narrazione dei tristi casi di questi sei disgraziati? (Luigi Pirandello, dalla prefazione a Sei personaggi in cerca d'autore, Oscar Mondadori, 1976)
  • Il pubblico del Manzoni ha accolto trionfalmente questa strana commedia ch'è, indubbiamente, un'opera d'arte di una originalità rara. (Marco Praga)

Sogno (ma forse no)

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Una camera: ma forse no: un salotto. Certo, una giovane signora vi giace su un letto: ma forse no: sembra piuttosto un divano, a cui per qualche molla si sia abbattuta l'alta spalliera. Del resto, nulla in principio si discerne bene, perché la stanza è stenebrata appena da un lume innaturale che emana dal tappetino verde prato davanti al divano. Questo lume par debba da un momento all'altro sparire a un lieve moto nel sonno della giovane signora dormente. Difatti, è proprio il lume d'un sogno: come quel salotto è una camera da letto soltanto nel sogno della giovane signora: e un letto, quel divano.

Citazioni

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  • Quando una donna dice di tacere per pietà, ha già ingannato.
  • La lealtà, la lealtà è un debito, e il più sacro, verso noi stessi, anche prima che verso gli altri. Tradire è orribile. Tradire è orribile.
  • Nulla atterrisce più di uno specchio una coscienza non tranquilla.
  • La Giovane signora: Tanto meglio! E sono allora più che mai contenta così che io t'abbia fatto vincere, e che tu non abbia più trovato quelle perle. Non ne parliamo più, per piacere.
    (Si sente picchiare all'uscio, e subito dopo entra il cameriere recando sul vassojo tutto l'occorrente per il tè.)
    Ecco il tè. Prendiamo il tè.
    (Il cameriere deporrà il vassojo su un tavolinetto basso di lacca presso la mensola, e lo trasporterà davanti al divano. Prima che cominci a disporre il servizio, la Giovane Signora dirà:)
    Lasciate. Faccio io.
    (Il cameriere s'inchina ed esce.)
    L'Uomo in frak (alieno, come per dire qualche cosa): Oh, sai? M'hanno detto che è ritornato da Giava...
    La Giovane signora (versando il tè): Sì sì, lo so...
    L'Uomo in frak: Ah, l'hanno detto anche a te?
    La Giovane signora: Sì, l'altra sera. Non ricordo più chi...
    L'Uomo in frak: Pare che abbia fatto là molti soldi...
    La Giovane signora: Latte o limone?
    L'Uomo in frak: Latte – Grazie.

Uno, nessuno e centomila

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– Che fai? – mia moglie mi domandò, vedendomi insolitamente indugiare davanti allo specchio.
– Niente, – le risposi, – mi guardo qua, dentro il naso, in questa narice. Premendo, avverto un certo dolorino.
Mia moglie sorrise e disse:
– Credevo guardassi da che parte ti pende.
Mi voltai come un cane a cui qualcuno avesse pestato la coda:
– Mi pende? A me? Il naso?

Citazioni

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  • Avrei potuto, è vero, consolarmi con la riflessione che, alla fin fine, era ovvio e comune il mio caso, il quale provava ancora un'altra volta un fatto risaputissimo, cioè che notiamo facilmente i difetti altrui e non ci accorgiamo dei nostri. (libro primo, II; 2007, p. 19)
  • La solitudine non è mai con voi; è sempre senza di voi, è soltanto possibile con un estraneo attorno: luogo o persona che sia, che del tutto vi ignorino, che del tutto voi ignoriate, cosí che la vostra volontà e il vostro sentimento restino sospesi e smarriti in un'incertezza angosciosa e, cessando ogni affermazione di voi, cessi l'intimità stessa della vostra coscienza. La vera solitudine è in un luogo che vive per sé e che per voi non ha traccia né voce, e dove dunque l'estraneo siete voi. (libro primo, IV)
  • Ma il guajo è che voi, caro mio, non saprete mai come si traduca in me quello che voi mi dite. Non avete parlato turco, no. Abbiamo usato, io e voi, la stessa lingua, le stesse parole. Ma che colpa abbiamo, io e voi, se le parole, per sé, sono vuote? Vuote, caro mio. E voi le riempite del senso vostro, nel dirmele; e io, nell'accoglierle, inevitabilmente, le riempio del senso mio. Abbiamo creduto d'intenderci; non ci siamo intesi affatto. (libro secondo, IV)
  • L'uomo piglia a materia anche se stesso, e si costruisce, sissignori, come una casa. Voi credete di conoscervi se non vi costruite in qualche modo? E ch'io possa conoscervi se non vi costruisco a modo mio? E voi me, se non mi costruite a modo vostro? Possiamo conoscere soltanto quello a cui riusciamo a dar forma. Ma che conoscenza può essere? È forse questa forma la cosa stessa? Sì, tanto per me, quanto per voi; ma non così per me come per voi: tanto vero che io non mi riconosco nella forma che mi date voi, né voi in quella che vi do io; e la stessa cosa non è uguale per tutti e anche per ciascuno di noi può di continuo cangiare, e difatti cangia di continuo. Eppure, non c'è altra realtà fuori di questa, se non cioè nella forma momentanea che riusciamo a dare a noi stessi, agli altri, alle cose. La realtà che ho io per voi è nella forma che voi mi date; ma è realtà per voi e non per me; la realtà che voi avete per me è nella forma che io vi do; ma è realtà per me e non per voi; e per me stesso io non ho altra realtà se non nella forma che riesco a darmi. E come? Ma costruendomi, appunto. (libro secondo, XI)
  • Quando un atto è compiuto, è quello; non si cangia piú. Quando uno, comunque, abbia agito, anche senza che poi si senta e si ritrovi negli atti compiuti, ciò che ha fatto, resta: come una prigione per lui. Se avete preso moglie, o anche materialmente, se avete rubato e siete stato scoperto; se avete ucciso, come spire e tentacoli vi avviluppano le conseguenze delle vostre azioni; e vi grava sopra, attorno, come un'aria densa, irrespirabile, la responsabilità che per quelle azioni e le conseguenze di esse, non volute o non previste, vi siete assunta. E come potete piú liberarvi? (libro terzo, VII)
  • Siamo molto superficiali, io e voi. Non andiamo ben addentro allo scherzo, che è più profondo e radicale, cari miei. E consiste in questo: che l'essere agisce necessariamente per forme, che sono le apparenze ch'esso si crea, e a cui noi diamo valore di realtà. Un valore che cangia, naturalmente, secondo l'essere in quella forma e in quell'atto ci appare. E ci deve sembrare per forza che gli altri hanno sbagliato; che una data forma, un dato atto non è questo e non è cosí. Ma inevitabilmente, poco dopo, se ci spostiamo d'un punto, ci accorgiamo che abbiamo sbagliato anche noi, e che non è questo e non è cosí; sicché alla fine siamo costretti a riconoscere che non sarà mai né questo né cosí in nessun modo stabile e sicuro; ma ora in un modo ora in un altro, che tutti a un certo punto ci parranno sbagliati, o tutti veri, che è lo stesso. (libro terzo, VII)
  • Una realtà non ci fu data e non c'è, ma dobbiamo farcela noi, se vogliamo essere: e non sarà mai una per tutti, una per sempre, ma di continuo e infinitamente mutabile. (libro terzo, VII)
  • La facoltà d'illuderci che la realtà d'oggi sia la sola vera, se da un canto ci sostiene, dall'altro ci precipita in un vuoto senza fine, perché la realtà d'oggi è destinata a scoprire l'illusione domani. E la vita non conclude. Non può concludere. Se domani conclude, è finita. (libro terzo, VII)
  • Di ciò che posso essere io per me, non solo non potete saper nulla voi, ma nulla neppure io stesso. (libro terzo, IX)
  • Ma sa che una volta io ho veduto ridere un cavallo? Sissignore, mentre il cavallo camminava. Lei ora va a guardare il muso a un cavallo per vederlo ridere, e poi viene a dirmi che non l'ha visto ridere. Ma che muso! I cavalli non ridono mica col muso! Sa con che cosa ridono i cavalli, signor notaro? Con le natiche. Le assicuro che il cavallo camminando ride con le natiche, sí, alle volte, di certe cose che vede o che gli passano per il capo. Se lei vuol vederlo ridere il cavallo, gli guardi le natiche e si stia bene! (libro quarto, III)
  • Nessuno dubita di quel che vede, e va ciascuno tra le cose, sicuro ch'esse appaiano agli altri quali sono per lui; figuriamoci poi se c'è chi pensa che ci siete anche voi bestie che guardate uomini e cose con codesti occhi silenziosi e chi sa come li vedete, e che ve ne pare. (libro quinto, III)
  • Perché, quand'uno pensa d'uccidersi, s'immagina morto, non piú per sé, ma per gli altri? (libro quinto, IV)
  • Quando si sia fatta l'abitudine di vivere in un certo modo, andare in qualche luogo insolito e nel silenzio avvertire come un sospetto che ci sia qualcosa di misterioso a noi, da cui, pur lí presente, il nostro spirito è condannato a restar lontano, è un'angoscia indefinita, perché si pensa che, se potessimo entrarci, forse la nostra vita si aprirebbe in chi sa quali sensazioni nuove, tanto da parerci di vivere in un altro mondo. (libro settimo, III)
  • Perché, se ci pensate bene, questo è il meno che possa seguire dalle tante realtà insospettate che gli altri ci dànno. Superficialmente, noi sogliamo chiamarle false supposizioni, erronei giudizii, gratuite attribuzioni. Ma tutto ciò che di noi si può immaginare è realmente possibile, ancorché non sia vero per noi. Che per noi non sia vero, gli altri se ne ridono. È vero per loro. Tanto vero, che può anche capitare che gli altri, se non vi tenete forte alla realtà che per vostro conto vi siete data, possono indurvi a riconoscere che piú vera della vostra stessa realtà è quella che vi dànno loro. Nessuno piú di me ha potuto farne esperienza. (libro settimo, IV)
  • Alle mie sgridate, s'acculava, alzava e scoteva una delle due zampine davanti, sternutiva, poi con un'orecchia su e l'altra giù stava a guardarmi, proprio con l'aria di credere che non era possibile, non era possibile che a una cagnolina bellina come lei non fosse lecito entrare in una chiesa. Se non ci stava nessuno.
    «Nessuno? Ma come nessuno, Bibì?» le dicevo io. «Ci sta il piú rispettabile dei sentimenti umani. Tu non puoi intendere queste cose, perché sei per tua fortuna una cagnolina e non un uomo. Gli uomini, vedi? hanno bisogno di fabbricare una casa anche ai loro sentimenti. Non basta loro averli dentro, nel cuore, i sentimenti: se li vogliono vedere anche fuori, toccarli; e costruiscono loro una casa.» (libro settimo, V)
  • «Perché bisogna che lei fermi un attimo in sé la vita, per vedersi. Come davanti a una macchina fotografica. Lei s'atteggia. E atteggiarsi è come diventare statua per un momento. La vita si muove di continuo, e non può mai veramente vedere se stessa. [...] Lei non può conoscersi che atteggiata: statua: non viva. Quando uno vive, vive e non si vede. Conoscersi è morire. Lei sta tanto a mirarsi in codesto specchio, in tutti gli specchi, perché non vive; non sa, non può o non vuol vivere. Vuole troppo conoscersi, e non vive.» (libro settimo, VIII)
  • Cadeva ogni orgoglio. Vedere le cose con occhi che non potevano sapere come gli altri occhi intanto le vedevano. Parlare per non intendersi. Non valeva più nulla essere per sé qualche cosa. E nulla più era vero, se nessuna cosa per sé era vera. Ciascuno per suo conto l'assumeva come tale e se ne appropriava per riempire comunque la sua solitudine e far consistere in qualche modo, giorno per giorno, la sua vita. (libro settimo, VIII)
  • Nessun nome. Nessun ricordo oggi del nome di ieri; del nome d'oggi, domani. Se il nome è la cosa; se un nome è in noi il concetto d'ogni cosa posta fuori di noi; e senza nome non si ha il concetto, e la cosa resta in noi come cieca, non distinta e non definita; ebbene, questo che portai tra gli uomini ciascuno lo incida, epigrafe funeraria, sulla fronte di quella immagine con cui gli apparvi, e la lasci in pace non ne parli piú. Non è altro che questo, epigrafe funeraria, un nome. Conviene ai morti. (libro ottavo, IV)
  • Non è altro che questo, epigrafe funeraria, un nome. Conviene ai morti. A chi ha concluso. Io sono vivo e non concludo. La vita non conclude. (libro ottavo, IV)

La città è lontana. Me ne giunge, a volte, nella calma del vespro, il suono delle campane. Ma ora quelle campane le odo non piú dentro di me, ma fuori, per sé sonare, che forse ne fremono di gioja nella loro cavità ronzante, in un bel cielo azzurro pieno di sole caldo tra lo stridío delle rondini o nel vento nuvoloso, pesanti e cosí alte sui campanili aerei. Pensa alla morte, a pregare. C'è pure chi ha ancora questo bisogno, e se ne fanno voce le campane. Io non l'ho piú questo bisogno, perché muoio ogni attimo, io, e rinasco nuovo e senza ricordi: vivo e intero, non piú in me, ma in ogni cosa fuori.

Incipit di alcune opere

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Giustino Roncella nato Boggiòlo

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Da quindici giorni Attilio Raceni, direttore della rassegna femminile Le Grazie, scontava con infinite noje, arrabbiature e dispiaceri d'ogni genere una sua gentile idea: quella di salutare con un banchetto la giovane e già illustre scrittrice Silvia Roncella, venuta da poco tempo col marito a stabilirsi da Taranto a Roma.
Partendo l'invito da una rassegna come la sua, la quale, piú che a una qualche reputazione letteraria, aspirava a esser considerata òrgano della mondanità intellettuale romana, e mirando quell'invito nella sua intenzione, non tanto a rendere onore alla scrittrice quanto a mostrar viva la rassegna con un atto di pura cortesia fuori d'ogni competizione letteraria, non s'aspettava da parte dei letterati colleghi della Roncella, dei critici piú autorevoli della letteratura contemporanea nei grandi giornali quotidiani e, in genere, degli amici giornalisti, tanti tentennamenti e «ma» e «se» e «forse», ombrosità, riserve, anche recisi e sgarbati rifiuti, che gli avevano rappresentato la letteratura militante in Italia come una meschina pettegola farmacia di villaggio; e piú d'una volta aveva sospirato per l'amara considerazione che un'idea come la sua ben altre accoglienze avrebbe avute certamente a Parigi, dove in parte il comune orgoglio nazionale (sia benedetto!) in parte quella piú diffusa e sentita cognizione delle cose ordinarie del viver civile, che affievolisce risentimenti e gelosie pur non impedendo la stima particolare che ciascuno in segreto può fare dell'altro, consigliano di non negare onore a chi per giudizio ormai universale se lo sia comunque meritato; come a lui pareva che fosse il caso della Roncella, dopo il grande successo del romanzo La casa dei nani.

Il giuoco delle parti

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Salotto in casa di Silia Gala, bizzarramente addobbato. In fondo, grande porta vetrata olandese, di vetri rossi scompartiti su intelajatura bianca che s'apre su due bande, scorrendo di qua e di là entro la parete. Aperta, lascia scorgere di là il salotto da pranzo. — La comune è nella parete sinistra, dove è anche una finestra. Nella parete di destra é un camino; sulla mensola di esso, un orologio di bronzo. Presso il camino, un uscio.

Scena prima
Silia Gala, Guido Venanzi.

Al levarsi della tela, la vetrata in fondo è aperta. Guido Venanzi, in abito da sera, è nel salotto da pranzo, in piedi presso la tavola, su cui si scorge una rosoliera d'argento con varie bottiglie entro gli anelli in fila. Silia, in una lieve vestaglia scollata, è nel salotto; quasi aggruppata su una poltrona, assorta.

Guido (offrendo dal salotto da pranzo) "Chartreuse"?

Aspetta la risposta. E poiché Silia non risponde:

"Anisette"?

c.s.

"Cognac"?

c.s.

Insomma? a mio gusto?

Versa un bicchierino d'anisette e viene a porgerlo a Silia.

Ecco

Il piacere dell'onestà

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Elegante salotto in casa Renni. Uscio comune in fondo. Uscio laterale a destra. Finestre a sinistra.
SCENA PRIMA
MAURIZIO SETTI, CAMERIERA, poi la SIGNORA MADDALENA.
Al levarsi della tela la scena è vuota. Si aprirà l'uscio di fondo, entrerà la cameriera e darà passo a Maurizio Setti.

Cameriera. S'accomodi. Vado ad annunziarla subito.

Via per l'uscio a destra. Poco dopo entrerà per questo uscio la signora Maddalena, turbata, ansiosa.

Maddalena. Buon giorno, Setti. Ebbene?
Maurizio. È qua. Arrivato con me, stamattina.
Maddalena. E... stabilito tutto?
Maurizio. Tutto.

Il turno

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Giovane d'oro, sì sì, giovane d'oro, Pepè Alletto! – il Ravì si sarebbe guardato bene dal negarlo; ma, quanto a concedergli la mano di Stellina, no via: non voleva se ne parlasse neanche per ischerzo.
- Ragioniamo!
Gli sarebbe piaciuto maritar la figlia col consenso popolare, come diceva; e andava in giro per la città, fermando amici e conoscenti per averne un parere. Tutti però, sentendo il nome del marito che intendeva dare alla figliuola, strabiliavano, strasecolavano:
- Don Diego Alcozèr?
Il Ravì frenava a stento un moto di stizza, si provava a sorridere e ripeteva, protendendo le mani:
- Aspettate... Ragioniamo!

L'esclusa

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Edizione 1919

Antonio Pentàgora s'era già seduto a tavola tranquillamente per cenare, come se non fosse accaduto nulla.
Illuminato dalla lampada che pendeva dal soffitto basso, il suo volto tarmato pareva quasi una maschera sotto il bianco roseo della cotenna rasa, ridondante sulla nuca. Senza giacca, con la camicia floscia celeste, un po' stinta, aperta sul petto irsuto, e le maniche rimboccate sulle braccia pelose, aspettava che lo servissero.

L'uomo dal fiore in bocca

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L'uomo dal fiore. Ah, lo volevo dire! Lei dunque un uomo pacifico è... Ha perduto il treno?
L'avventore. Per un minuto, sa? Arrivo alla stazione, e me lo vedo scappare davanti.
L'uomo dal fiore. Poteva corrergli dietro!
L'avventore. Già. È da ridere, lo so. Bastava, santo Dio, che non avessi tutti quegli impicci di pacchi, pacchetti, pacchettini... Più carico d'un somaro! Ma le donne – commissioni... commissioni... – non la finiscono più. Tre minuti, creda, appena sceso di vettura, per dispormi i nodini di tutti quei pacchetti alle dita; due pacchetti per ogni dito.

La Patente

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Stanza del giudice istruttore D'Andrea. Grande scaffale che prende quasi tutta la parete di fondo, pieno di scatole verdi a casellario, che si suppongono zeppe d'incartamenti.
Scrivania, sovraccarica di fascicoli, a destra, in fondo; e, accanto, addossato alla parete di destra, un altro palchetto.
Un seggiolone di cuojo per il Giudice, davanti la scrivania.
Altre seggiole antiche. Lo stanzone è squallido. La comune è nella parete di destra.
A sinistra, un'ampia finestra, alta, con vetrata antica, scompartita.
Davanti alla finestra, come un quadricello alto, che regge una grande gabbia.
Lateralmente a sinistra, un usciolino nascosto.

Il giudice d'Andrea entra per la comune col cappello in capo e il soprabito. Reca in mano una gabbiola poco più grossa d'un pugno, va davanti alla gabbia grande sul quadricello, ne apre lo sportello, poi lo sportellino della gabbiola e fa passare da questa nella gabbia grande un cardellino.

D'Andrea: Via, dentro! – E su, pigrone! – Oh! finalmente... – Zitto adesso, al solito, e lasciami amministrare la giustizia a questi poveri piccoli uomini feroci.

Ma non è una cosa seria

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Sala da pranzo della Pensione Torretta.
Virgadamo — Ah, che buon sigaro. Delizioso!
Grizzoffi (cavando un mezzo sigaro dal taschino del panciotto e porgendolo garbatamente) — Ma tenga, ma fumi, perdìo!
Virgadamo (sorridendo, senza scomporsi) — No no, grazie. La nicotina fa male. Mi piace soltanto aspirarne l'odore.
[citato in Fruttero & Lucentini, Íncipit, Mondadori, 1993]

Male di luna

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Batà sedeva tutto aggruppato su un fascio di paglia, in mezzo all'aja.
Sidora, sua moglie, di tratto in tratto si voltava a guardarlo, in pensiero, dalla soglia su cui stava a sedere, col capo appoggiato allo stipite della porta, e gli occhi socchiusi. Poi, oppressa dalla gran calura, tornava ad allungare lo sguardo alla striscia azzurra di mare lontano, come in attesa che un soffio d'aria, essendo ormai prossimo il tramonto, si levasse di là e trascorresse lieve fino a lei, a traverso le terre nude, irte di stoppie bruciate.

Novelle per un anno

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Berecche e la guerra

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Fuori, un altro sole. Strade del mezzogiorno, sotto l'ardente azzurro del cielo, tagliate da violente ombre violacee. E la gente vi passa, pur così carica di vita e di colori, ariosa e leggera. Voci nel sole e selciati sonori.
Dentro, il buon tedescone spatrìato s'è fatta un po' di patria attorno, tra le quattro pareti vestite di legno della sua birreria; e ne respira l'aria nel tanfo dei fusti che viene dalla cantina accanto, nell'odor grasso dei würstel ammontati sul banco, in quello acre delle scatole di droghe stuzzicanti, tutti con l'etichetta in duri e dritti caratteri tedeschi. Son anche nei lucidi e vivaci manifesti turchini, gialli e rossi appesi alle pareti — più grossi, più duri, più dritti — quei cari suoi caratteri tedeschi. E i boccali, i krügel istoriati, gli sciop, disposti in bell'ordine nelle scansìe, gli fan da sentinelle a guardia dell'illusione.

Candelora

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Nane Papa, con le mani grassocce appese alle falde del vecchio panama sformato, dice a Candelora:
— Non ti conviene. Dài retta a me, cara. Non ti conviene.
E Candelora, su le furie, gli grida:
— E che mi conviene allora? rimanere con te? crepare qua di rabbia, di schifo?

Ciàula scopre la Luna

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I picconieri, quella sera, volevano smettere di lavorare senz'aver finito d'estrarre le tante casse di zolfo che bisognavano il giorno appresso a caricar la calcara. Cacciagallina, il soprastante, s'affierò contr'essi, con la rivoltella in pugno, davanti la buca della Cace, per impedire che ne uscissero.
— Corpo di... sangue di... indietro tutti, giù tutti di nuovo alle cave, a buttar sangue fino all'alba, o faccio fuoco!

Dal naso al cielo

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I pochi ospiti del vecchio albergo in vetta al monte Gajo avevano da una settimana il piacere di sentir parlare il senatore Romualdo Reda.
— Finalmente!
Da una ventina di giorni lassù, l'illustre chimico, accademico dei Lincei, non aveva ancora scambiato una parola con nessuno. Non si sentiva bene; era stanco; anzi si diceva che ultimamente a Roma era stato colto da un lieve deliquio nella Sala di chimica, dove soleva trattenersi dalla mattina alla sera; e i medici l'avevano addirittura forzato a darsi un po' di riposo, a interrompere almeno per qualche mese gli studii ch'egli, da vecchio, seguitava con inflessibile tenacia e il solito ispido rigore.

Donna Mimma

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Quando donna Mimma col fazzoletto di seta celeste annodato largo sotto il mento passa per le vie del paesello assolate, si può credere benissimo che la sua personcina linda, ancora dritta e vivace, sebbene modestamente raccolta nel lungo «manto» nero frangiato, non projetti ombra su l'acciottolato di queste viuzze qua, né sul lastricato della piazza grande di là.

Il vecchio Dio

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Smilzo, un po' curvo, con un abitino di tela che gli sventolava addosso, l'ombrello aperto sulla spalla e il vecchio panama in mano, il signor Aurelio s'avviava ogni giorno per la sua speciosa villeggiatura.
Un posto aveva scoperto, un posto che non sarebbe venuto in mente a nessuno; e se ne beava tra sé e sé, quando ci pensava, stropicciandosi le manine nervose.
Chi sui monti, chi in riva al mare, chi in campagna: lui, nelle chiese di Roma. Perché no? Non ci si sta forse freschi piú che in un bosco? E in santa pace, anche. Nei boschi, gli alberi; qui, le colonne delle navate; lí, all'ombra delle frondi; qui, all'ombra del Signore.

Il viaggio

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Da tredici anni Adriana Braggi non usciva più dalla casa antica, silenziosa come una badìa, dove giovinetta era entrata sposa. Non la vedevano piú nemmeno dietro le vetrate delle finestre i pochi passanti che di tanto in tanto salivano quell'erta via a sdrucciolo e mezza dirupata, cosí solitaria che l'erba vi cresceva tra i ciottoli a cespugli.
A ventidue anni, dopo quattro appena di matrimonio, con la morte del marito era quasi morta anche lei per il mondo. Ne aveva ora trentacinque, e vestiva ancora di nero, come il primo giorno della disgrazia; un fazzoletto nero, di seta, le nascondeva i bei capelli castani, non più curati, appena ravviati in due bande e annodati alla nuca. Tuttavia, una serenità mesta e dolce le sorrideva nel volto pallido e delicato.

In silenzio

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— Waterloo! Waterloo, santo Dio! Si pronunzia Waterloo!
— Sissignore, dopo Sant'Elena.
— Dopo? Ma che dice? Come c'entra Sant'Elena adesso?
— Ah, già! L'isola d'Elba.
— Ma no! Lasci l'isola d'Elba, caro Brei! Crede che un lezione di storia si possa improvvisare? E dunque segga!

L'uomo solo

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Si riunivano all'aperto, ora che la stagione lo permetteva, attorno a un tavolinetto del caffè sotto gli alberi di via Veneto.
Venivano prima i Groa, padre e figlio. E tanta era la loro solitudine che, pur così vicini, parevano l'uno dall'altro lontanissimi. Appena seduti, sprofondavano in un silenzio smemorato, che li allontanava anche da tutto, così che se qualche cosa cadeva loro per caso sotto gli occhi, dovevano strizzare un po' le palpebre per guardarla. Venivano alla fine insieme gli altri due: Filippo Romelli e Carlo Spina. Il Romelli era vedovo da cinque mesi; lo Spina, scapolo. Mariano Groa era diviso dalla moglie da circa un anno e s'era tenuto con sé l'unico figliuolo, Torellino, già studente di liceo, smilzo, tutto naso, dai lividi occhietti infossati e un po' loschi.

La giara

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Piena anche per gli olivi quell'annata. Piante massaje, cariche l'anno avanti, avevano raffermato tutte, a dispetto della nebbia che le aveva oppresse sul fiorire.
Lo Zirafa, che ne aveva un bel giro nel suo podere delle Quote a Primosole, prevedendo che le cinque giare vecchie di coccio smaltato che aveva in cantina non sarebbero bastate a contener tutto l'olio della nuova raccolta, ne aveva ordinata a tempo una sesta più capace a Santo Stefano di Camastra, dove si fabbricavano: alta a petto d'uomo, bella panciuta e maestosa, che fosse delle altre cinque la badessa.

La mosca

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Trafelati, ansanti, per far piú presto, quando furono sotto il borgo, — sú, di qua, coraggio! — s'arrampicarono per la scabra ripa cretosa, ajutandosi anche con le mani — forza! forza! — poiché gli scarponi imbullettati — Dio sacrato! — scivolavano.
Appena s'affacciarono paonazzi sulla ripa, le donne, affollate e vocianti intorno alla fontanella all'uscita del paese, si voltarono tutte a guardare. O non erano i fratelli Tortorici, quei due là? Sì, Neli e Saro Tortorici. Oh poveretti! E perché correvano così?

La rallegrata

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Appena il capostalla se n'andò, bestemmiando piú del solito, Fofo si volse a Nero, suo compagno di mangiatoja, nuovo arrivato, e sospirò:
— Ho capito! Gualdrappe, fiocchi e pennacchi. Cominci bene, caro mio! Oggi è di prima classe.
Nero voltò la testa dall'altra parte. Non sbruffò, perché era un cavallo bene educato. Ma non voleva dar confidenza a quel Fofo.
Veniva da una scuderia principesca, lui, dove uno si poteva specchiare nei muri: greppie di faggio a ogni posta, campanelle d'ottone, battifianchi imbottiti di cuojo e colonnini col pomo lucente.
Mah!

La vita nuda

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— Un morto, che pure è morto, caro mio, vuole anche lui la sua casa. E se è un morto per bene, bella la vuole; e ha ragione! Da starci comodo, e di marmo la vuole, e decorata anche. E se poi è un morto che può spendere, la vuole anche con qualche profonda... come si dice? allegoria, già!, con qualche profonda allegoria d'un grande scultore come me: una bella lapide latina: HIC JACET... chi fu, chi non fu... un bel giardinetto attorno, con l'insalatina e tutto, e una bella cancellata a riparo dei cani e dei...
— M'hai seccato! — urlò, voltandosi tutt'acceso e in sudore, Costantino Pogliani.

Scialle nero

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Aspetta qua, — disse il Bandi al D'Andrea. — Vado a prevenirla. Se s'ostina ancora, entrerai per forza.
Miopi tutti e due, parlavano vicinissimi, in piedi, l'uno di fronte all'altro. Parevano fratelli, della stessa età, della stessa corporatura: alti, magri, rigidi, di quella rigidezza angustiosa di chi fa tutto a puntino, con meticolosità. Ed era raro il caso che, parlando cosí tra loro, l'uno non aggiustasse all'altro col dito il sellino delle lenti sul naso, o il nodo della cravatta sotto il mento, oppure, non trovando nulla da aggiustare, non toccasse all'altro i bottoni della giacca. Parlavano, del resto, pochissimo. E la tristezza taciturna della loro indole si mostrava chiaramente nello squallore dei volti.

Tutt'e tre

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Ballarò venne su strabalzoni dal giardino agitando in aria, invece delle mani, le maniche; perduto come era in un abito smesso del padrone.
— Maria Santissima! Maria Santissima!
La gente si fermava per via.
— Ballarò, che è stato?
Non si voltava nemmeno; scansava quanti tentavano pararglisi di fronte, e via di corsa verso il Palazzo del Barone, seguitando a ripetere quasi a ogni passo:
— Maria Santissima! Maria Santissima!

Una giornata

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Abito in una vecchia casa che pare la bottega d'un rigattiere. Una casa che ha preso, chi sa da quanti anni, la polvere.
La perpetua penombra che la opprime ha il rigido delle chiese e vi stagna il tanfo di vecchio e d'appassito dei decrepiti mobili d'ogni foggia che la ingombrano e delle tante stoffe che la parano, preziose sbrindellate e scolorite, stese e appese da per tutto, in forma di coperte, di tende e cortinaggi. Io aggiungo di mio a quel tanfo, quanto piú posso, la peste delle mie pipe intartarite, fumando tutto il giorno. Soltanto quando rivengo da fuori, mi rendo conto che a casa mia non si respira. Ma per uno che vive come vivo io... Basta; lasciamo andare.

Suo marito

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Attilio Raceni, da quattro anni direttore della rassegna femminile (non feminista) Le Muse si svegliò tardi, quella mattina, e di malumore.
Sotto gli occhi delle innumerevoli giovani scrittrici italiane, poetesse, novellatrici, romanzatrici (qualcuna anche drammaturga), che lo guardavano dalle fotografie disposte in varii gruppi alle pareti, tutte col volto composto a un'aria particolare di grazia vispa o patetica, scese dal letto – oh Dio, in camicia da notte naturalmente, ma lunga, lunga per fortuna fino alla noce del piede. Infilate le pantofole, andò a spalancar la finestra.

Explicit di alcune opere

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Ciàula scopre la luna

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  • Curvo, quasi toccando con la fronte lo scalino che gli stava di sopra, e su la cui lubricità la lumierina vacillante rifletteva appena un fioco lume sanguigno, egli veniva sù, sù, sù, dal ventre della montagna, senza piacere, anzi pauroso della prossima liberazione. E non vedeva ancora la buca, che lassù lassù si apriva come un occhio chiaro, d'una deliziosa chiarità d'argento.
    Se ne accorse solo quando fu agli ultimi scalini. Dapprima, quantunque gli paresse strano, pensò che fossero gli estremi barlumi del giorno. Ma la chiarìa cresceva, cresceva sempre più, come se il sole, che egli aveva pur visto tramontare, fosse rispuntato.
    Possibile?
    Restò – appena sbucato all'aperto – sbalordito. Il carico gli cadde dalle spalle. Sollevò un poco le braccia; aprì le mani nere in quella chiarità d'argento.
    Grande, placida, come in un fresco, luminoso oceano di silenzio, gli stava di faccia la Luna.
    Sì, egli sapeva, sapeva che cos'era; ma come tante cose si sanno, a cui non si è dato mai importanza. E che poteva importare a Ciàula, che in cielo ci fosse la Luna?
    Ora, ora soltanto, così sbucato, di notte, dal ventre della terra, egli la scopriva.
    Estatico, cadde a sedere sul suo carico, davanti alla buca. Eccola, eccola là, eccola là, la Luna... C'era la Luna! la Luna! E Ciàula si mise a piangere, senza saperlo, senza volerlo, dal gran conforto, dalla grande dolcezza che sentiva, nell'averla scoperta, là, mentr'ella saliva pel cielo, la Luna, col suo ampio velo di luce, ignara dei monti, dei piani, delle valli che rischiarava, ignara di lui, che pure per lei non aveva più paura, né si sentiva più stanco, nella notte ora piena del suo stupore.
    [Ciàula scopre la luna e altre novelle, a cura di Maria Luisa Zambelli, Edizioni Scolastiche Bruno Mondadori, Milano, 1993. ISBN 88-424-0143-9]

Citazioni su Luigi Pirandello

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  • Basta, non se ne può più di considerare Pirandello come un rompipalle. Non ci sto. L'autore siciliano va visto in chiave ironica, grottesca, non drammatica. (Flavio Bucci)
  • Comunque, per schematicamente abbreviare, i punti da cui partire per un più "attendibile" discorso su Pirandello, per una più libera e acuta lettura dell'opera sua, a me pare siano questi: 1) la Sicilia: non solo come "luogo delle metamorfosi" delle creature in personaggi, dei personaggi in creature, della vita nel teatro e del teatro nella vita – un luogo, insomma, in cui più evidente, concitato e violento si fa "el gran teatro del mundo"; ma il luogo, anche, di una cultura e di una tradizione da cui Pirandello decolla verso spazi vertiginosi (e qui bisogna tenere un certo conto della sua iniziale e poi alquanto persistente affinità al mondo realistico, fiabesco e anche "spiritistico" di Luigi Capuana); 2) la "religiosità": che, si capisce, non ha nulla a che fare con le religioni rivelate, con la chiesa e con le chiese, anche se molto ha a che fare con l'essenza evangelica del Cristianesimo, ma che soprattutto si riconosce in quella che tout court possiamo dire la sua religione dello scrivere, dello scrivere come vivere, dello scrivere invece di vivere ("la vita" diceva "o la si vive o la si scrive": e nella sua scelta di scriverla c'è evidentemente un religioso eroismo); 3) il suo rapporto con Montaigne, mai finora scrutato, e l'antagonistica attrattiva che certamente Pascal esercitò su di lui: e ci vorrebbe una ricerca da elaboratore elettronico – ma meglio se fatta da mente umana – per estrarre dall'opera di Pirandello i momenti diciamo pascaliani, di sentimento e sgomento cosmico particolarmente. E avendo fatto questi due nomi – Montaigne e Pascal, grandi pilastri nell'edificio della letteratura francese – ne discende in definitiva la necessità di esaminare e puntualizzare il rapporto di Pirandello con quella cultura: rapporto che finirà col rivelarsi molto più importante ed effettuale di quello, che è ormai luogo comune riconoscergli, con la cultura tedesca. Ed anche questo punto, cui ho voluto dare rilevanza a sé, in verità si appartiene al Pirandello "siciliano", poiché il rapporto con la Francia è un dato inalienabile della cultura siciliana, e di grande intensità particolarmente lo era negli anni formativi di Pirandello. (Leonardo Sciascia, dal discorso commemorativo pronunciato a Palermo nel 1986 per il cinquantenario della morte di Luigi Pirandello) [26]
  • E voglio finire con un aneddoto che riguarda il Pirandello siciliano e che, nella dilagante stupidità di oggi, che tende a relegare la Sicilia in una particolare etnia (si ha il pudore di non usare la parola "razza": ma soltanto di non usarla), assume un grande significato. Nel 1932 Emilio Cecchi, che dirigeva la Cines, comunica a Pirandello l'intenzione di trarre un film dalla novella Lontano. Ma ha uno scrupolo: "nella novella come sta scritta, il marinaio norvegese si sente irresistibilmente attratto da una vita più vasta, e dai ricordi della patria, per il fatto di trovarsi legato, con il matrimonio, ad un ambiente meno che meschino; in fondo è in lui l'insofferenza dell'uomo appartenente a civiltà più energiche e libere, naufragato in un'isola abitata da gente ristretta, fra la quale egli sente mancarsi il fiato". Cecchi, scrittore che tuttora amo, era affetto da una invincibile idiosincrasia nei riguardi della Sicilia, dei siciliani: e la si può più immediatamente riscontrare nei suoi Taccuini, oltre che in questa sua lettura della novella Lontano. La novella non sta scritta come lui la leggeva; e Pirandello infatti così risponde: "Caro Cecchi, il contrasto non è tra due civiltà; ma tra due vite naturalmente diverse, quella di un uomo del Nord e quella di una donna del Sud; e il dramma che ne nasce, il dramma di restar "lontano" tra i vicini più vicini: la propria donna, il proprio figlio. Non c'è dunque da farsi scrupoli sulla natura di quelli a cui Lei mi accenna. Tutt'altro! Non era, né poteva essere nelle mie intenzioni di rappresentar barbara o di civiltà inferiore la Sicilia...". Naturalmente, il film non si fece. Ma queste parole di Pirandello restano, ci restano. (Leonardo Sciascia, dal discorso commemorativo pronunciato a Palermo nel 1986 per il cinquantenario della morte di Luigi Pirandello)[27]
  • Giacché tale è la caratteristica dell'arte di Luigi Pirandello: un realismo cinico. Non ch'egli sia incapace di pagine sottilmente e dolorosamente poetiche, ove vibri un umorismo di superiore qualità spirituale. (Giuseppe Antonio Borgese)
  • Ho detto, e ribadisco, dell'immediatezza con cui l'opera di Pirandello, per il luogo ed il tempo in cui mi sono trovato a nascere e a vivere, si dispiegò in tutta la sua verità e profondità e sofferenza. Pirandello è nato più di mezzo secolo prima che io nascessi: ma il modo di essere, la condizione umana, la situazione economica e sociale della provincia di Girgenti non erano allora molto diverse, e si potrebbe anche dire per nulla, di quelle che mi si rivelarono appena in grado di discernerle, di coglierle, di farmene coscienza. Pirandello ha operato per me una specie di catalizzazione, di precipitazione: la realtà mi si è fatta più reale, la verità più vera. E s'intende che questa parola – verità – altra traduzione ed esplicazione non consente, in Pirandello, che questa: la verità della "trappola", della "pena di vivere così" – o quella, più umile e grottesca, per cui Tararà, dicendo la sua, si prende una condanna a tredici anni di reclusione, invece dell'assoluzione che avrebbe avuto mentendo. Da ciò è venuta l'affermazione e investigazione che vado facendo da anni sul Pirandello "siciliano". (Leonardo Sciascia, dal discorso commemorativo pronunciato a Palermo nel 1986 per il cinquantenario della morte di Luigi Pirandello)[28]
  • [Sul teatro di Pirandello] Il palcoscenico borghese risulta qui restaurato, accuratamente ricostruito e promosso all'azione, solo in funzione di quell'enorme strappo nel suo cielo di carta, che improvvisamente, nei ritmi segreti e fondanti dell'azione stessa, lo strania in una dimensione problematica di critica radicale e assoluta: sottraendogli ogni copertura di certezza, di credibilità, di valore, ogni autentica difesa contro la prospettiva "copernicana" che lo impiccolisce indefinitamente, sino a farne il luogo stilizzato di un gioco tragico. (Arcangelo Leone de Castris)
  • Il teatro, succeduto nella vita spirituale dell'artista quand'egli aveva in gran parte vuotato la sua anima e dato sfogo alle sue più genuine ispirazioni, non poteva essere che una forma divulgativa o una complicazione intellettuale del primitivo problema artistico. (Luigi Russo)
  • Io mostravo che tutto il mondo pirandelliano faceva centro intorno a una visione della Vita come forza travagliata da un'intera antinomia per la quale la Vita è, insieme, necessitata a darsi forma e, per uguale necessità, non può consistere in nessuna forma, ma deve passare di forma in forma. È la famosa, o famigerata, antitesi di Vita e Forma, problema centrale dell'arte pirandelliana. (Adriano Tilgher)
  • Io nutro grande ammirazione per Pirandello, ma è un'ammirazione non priva, però, di certe riserve perché mi sembra che il gioco dialettico vi tenga comunque un posto eccessivo e, talvolta, a spese di quello spazio di considerazione degli esseri che resta, per me, l'essenziale. (Gabriel Marcel)
  • L'umorismo pirandelliano smonta la convenzione logica, servendosi della logica, la convenzione sociale, servendosi delle figure della falsa coscienza,, distrugge la maschera con la maschera: quella della protettiva e rassicurante costruzione logica, per esempio, con la maschera della follia, per la quale la logica «vola come una piuma». In questo sta il percorso straniante di una scrittura nella quale i discorsi simmetricamente antagonisti, le antilogie, diventano corpi lottanti, corpi avvinghiati nella contraddizione. (Ferruccio Masini)
  • L'uomo rimasto prigioniero dentro la giara è una delle trovate sceniche, visive e gestuali, più felici del teatro pirandelliano. Saracena è la giaragiarrat – e saraceno quel conciabrocche dentro, ladro (involontario) della roba altrui, su cui volentieri don Lollò, nella sua furia, butterebbe dell'olio bollente. (Vincenzo Consolo)
  • La prima qualità delle anime candide è la incapacità di accettare i giudizi altrui e farli propri... Luigi Pirandello si affacciò anima candida alla vita e alla intelligenza delle cose, in uno dei tempi meno candidi che si possono immaginare... (Massimo Bontempelli)
  • La storia dei fatti è «lunga», quella del pensiero «breve», non nel senso della durata ma della sintesi. La metafisica di Pirandello, diversamente da quella più falsa di Fogazzaro, è tale proprio perché proiettata, e se egli seppe rovesciare l'incerto sopramondo dannunziano, il suo storicismo fu in realtà – come in tutti i veri scrittori – un esorcismo, un uscire dalla storia dopo averla evocata, vissuta e interpretata, per liberarsene affidandola a quella continua dialettica di essa che è il tempo. (Ornella Sobrero)
  • La sua lingua, al principio ripicchiata e di vocabolario, diviene nel meglio della sua opera un modo d'esprimersi naturale, come si esprimono gli elementi nella luce; le sue manie a un certo punto investono l'uomo e divengono rimpianti di angeli decaduti, incubi, segni del destino. Tanto è vero che non c'è grande poeta senza idee fisse. (Corrado Alvaro)
  • L'opera di Pirandello si riannoda storicamente a quella rinascita della letteratura religiosa, che sotto forme più varie ed eterodosse cela il grande mistero dell'anima naturaliter christiana. Dopo il naturalismo e il verismo positivista della seconda metà dell'Ottocento, l'opera di Pirandello segna una via ed un metodo nuovo. Egli appartiene alla grande famiglia dei Dostojewski, dei Tolstoi, dei Verga che attraverso i loro difetti mantennero intatta una fede nella vita e nell'umanità. Non somiglia per nulla agli scettici tipo Shaw, tipo Gide, tipo Unamuno, agli inumani analisti come Joyce, come Proust, come Svevo, agli sperimentatori in astratto come Huxley, come Mann, ai ricercatori di basso naturalismo come Wassermann, come Dos Passos, come insomma tutti i grandi corruttori del romanzo contemporaneo. (Pietro Mignosi)
  • Penso che in Pirandello ci fosse, accanto a una tormentosa coscienza dei limiti del mestiere teatrale, una scoperta fondamentale, che lo oppone al naturalismo e lo collega alle ricerche teatrali più avanzate del suo tempo, fino a farne, come sappiamo, un precursore: la scoperta della 'teatralità' come 'luogo' dove confluiscono arte e vita, materia e forma, per cui il teatro diventa a un certo punto contenuto del teatro stesso, e la vita è spettacolo almeno nella stessa misura in cui lo spettacolo è vita. (Bruno Schacherl)
  • Per Pirandello, il teatro prolunga il teatro, in una circolarità soddisfatta e autosufficiente che canta una smagata e disillusa lontananza dal pianeta degli umani. (Roberto Alonge)
  • Pirandello è lo scrittore che ha traghettato la letteratura italiana nella modernità. E che da un paese sperduto della Sicilia, piazzato di fronte all'Africa, ha anticipato in Europa temi, tecniche di scrittura e di rappresentazione capaci di essere fondamentali per gli scrittori, gli autori, i registi di oggi. Perché irrompe Pirandello e cambia il modo di fare teatro. Stiamo parlando dell’uomo di teatro che ha anticipato le linee guida della regia moderna, più in Europa che in Italia. E nel corpus delle novelle troviamo un universo così complesso da provare la sensazione quasi di perdersi. (Toni Servillo)
  • Pirandello è sommo nel parlare di piccoli fatti quotidiani che esprimono grandi concetti, grandi verità. E le grandi verità sono eterne, per cui non solo quest'opera [Il giuoco delle parti] ma tutta la produzione pirandelliana è molto attuale. (Paola Gassman)
  • Pirandello è uno dei pochi che ha basato la sua poetica sull'analisi dell’intimo umano, sull'esplorazione dell'universo interiore e questo sarà sempre attuale. (Ugo Pagliai)
  • Pirandello ha ragione quando dice che ognuno di noi veste dei ruoli all'interno della società. Ma molto dipende anche dalla sincerità con cui questi ruoli si recitano. (Paola Gassman)
  • Pirandello, la biografia ne farebbe un uomo di destra. Ha aderito al fascismo in uno dei momenti più gravi. La sua intelligenza, tuttavia, era di sinistra dal momento che era abilissima nell'incidere sulla contraddittorietà dell'animo. Pirandello, insomma, era uno scrittore di sinistra che si è volontariamente imprestato alla destra. (Geno Pampaloni)
  • Rinnega addirittura i 'penso, quindi sono' di Cartesio: per lui neanche pensare significa essere. Qui sarebbe lecito chiedersi: ciò non finisce col distruggere l'essenza della grande poesia tragica, la nobiltà del dolore? Ma appunto qui vuole essere l'originalità del Pirandello drammaturgo; appunto da questa impossibilità di una tragedia egli trae la più disparata delle tragedie, la sua. (Silvio D'Amico)
  • Tra le due guerre la letteratura italiana brillò del nome di Massimo Bontempelli e di quello di Pirandello. (Giovanni Artieri)
  • Pirandello passa naturalmente e inconsapevolmente dal teatro della vita al teatro del palcoscenico.
  • Pochi come lui hanno vissuto il teatro nella molteplicità dei suoi elementi e dei suoi motivi. Pochi come lui sono stati – direi organicamente, costituzionalmente – teatro fin dalle origini della sua attività non soltanto letteraria, ma umana.
  • Quel che Pirandello stima e ama di più nel teatro è il pubblico, quel pubblico che vede, osserva, analizza ogni sera, di cui studia e rispetta le reazioni, quel pubblico che non riesce mai ad offenderlo anche quando lo contrasta e gli si oppone.
  1. Da Il berretto a sonagli.
  2. Da Il berretto a sonagli, Mondadori.
  3. Da Il piacere dell'onestà, Newton Compton.
  4. Dalla lettera a Benito Mussolini, 17 settembre 1924; in L'Impero, 19 settembre 1924; citato in Giuseppe Bonghi, Pirandello e il fascismo.
  5. Stefano Milioto, Dentro l'anima di Girgenti, in Aa. Vv., I Vecchi e i Giovani – storia romanzo film. Atti del convegno internazionale di Agrigento 7-10 dicembre 2006, Agrigento, 2006.
  6. Da Trovarsi, Mondadori.
  7. Da Foglietti, in Saggi, poesie, scritti varii, Mondadori, Milano, 1960, p. 1270.
  8. Da Novelle e novellieri, in Nuova Antologia, 1906, pp. 657-668.
  9. Dal discorso pronunciato da Luigi Pirandello in occasione della morte di Giovanni Verga; citato in Michele Sabatino, Tra la mia perduta gente. Lettere e poesie, epilogo, La Moderna Edizioni, Enna, 2006.
  10. Da Il piacere dell'onestà.
  11. Citato in Enzo Lauretta, Luigi Pirandello. Storia di un personaggio fuori di chiave, Milano, Ugo Mursia editore, 2008, p. 6.
  12. Da Un critico fantastico, in L'umorismo e altri saggi, a cura di Enrico Ghidetti, Giunti, Firenze, 1994.
  13. Citato in Virgilio Tosi, Breve storia tecnologica del cinema, p. 72, Bulzoni, 2001, ISBN 8883195388
  14. Da I vecchi e i giovani, Garzanti.
  15. Citato in Vincenzo Consolo:"Un infelice che voleva essere Sciascia", Panorama, 9 febbraio 2015.
  16. Da Così è, se vi pare, Mondadori.
  17. Da Novelle per un anno, Mondadori.
  18. Da L'uomo, la bestia e la virtù, Mondadori.
  19. Da una lettera alla sorella Lina, 13 ottobre 1886.
  20. Da La vita nuda, Novella.
  21. Citato in [1], Corriere della Sera, 5 settembre 2007.
  22. Citato in Marco Scalabrino, Giovanni Formisano, lapoesiaelospirito.it, 4 maggio 2013.
  23. Citato in Vincenzo Consolo, Di qua dal faro, Mondadori, Milano, 1999, p. 164. ISBN 88-04-47094-1
  24. Dalla lettera a Marta Abba dell'11 luglio 1928.
  25. a b Citato in Dizionario delle citazioni, a cura di Italo Sordi, BUR, 1992. ISBN 88-17-14603-X
  26. Citato in [2]
  27. Citato in [3].
  28. Citato in [4]

Bibliografia

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  • Luigi Pirandello, Bellavita, BMM, Milano, 1966.
  • Luigi Pirandello, Ciascuno a suo modo, Garzanti.
  • Luigi Pirandello, Così è (se vi pare), Fratelli Treves Editori, Milano, 1918.
  • Luigi Pirandello, Così è (se vi pare), Bemporad, Milano, 1925, riedito da Mondadori, 1983.
  • Luigi Pirandello, Diana e la Tuda, BMM, Milano 1966.
  • Luigi Pirandello, Enrico IV, Oscar Mondadori, 1976.
  • Luigi Pirandello, Giustino Roncella nato Boggiòlo, Mondadori, Milano, 1973.
  • Luigi Pirandello, I vecchi e i giovani (1913), Mondadori, 1953.
  • Luigi Pirandello, I vecchi e i giovani, a cura di Anna Nozzoli, Mondadori, 1992. ISBN 880436548X
  • Luigi Pirandello, Il fu Mattia Pascal (1904), Einaudi, 2005. ISBN 8806177451
  • Luigi Pirandello, Il fu Mattia Pascal (1904), a cura di Italo Borzi e Maria Argenziano, Newton Compton, Roma, 1993. ISBN 8879831933
  • Luigi Pirandello, Il fu Mattia Pascal, Oscar narrativa Mondadori, Milano, 1986.
  • Luigi Pirandello, Il giuoco delle parti, in "Opere di Luigi Pirandello" dirette da Nino Borsellino, Garzanti. ISBN 8811584965
  • Luigi Pirandello, Il piacere dell'onestà, in "Primo volume di Maschere Nude", Mondadori, 1955.
  • Luigi Pirandello, Il turno, in "Tutti i romanzi", a cura di Giovanni Macchia, Arnoldo Mondadori Editore, Milano, 1986.
  • Luigi Pirandello, L'amica delle mogli, Mondadori, 1966.
  • Luigi Pirandello, L'esclusa, a cura di Marina Stoppelli, Lexis Ricerche S.r.l.
  • Luigi Pirandello, L'uomo dal fiore in bocca.
  • Luigi Pirandello, La Patente, Editore "Orsa Maggiore", 1993. ISBN 8823902746
  • Luigi Pirandello, Male di luna, Corriere della sera, 22 settembre 1913, in "Storie di lupi mannari", a cura di Gianni Pilo, Newton & Compton, 1994.
  • Luigi Pirandello, Non si sa come, Mondadori, 1966.
  • Luigi Pirandello, Quaderni di Serafino Gubbio operatore, Bemporad, Firenze, 1925.
  • Luigi Pirandello, Saggi, poesie, scritti varii, Mondadori, Milano, 1960.
  • Luigi Pirandello, Sagra del signore della nave, BMM, Milano 1966.
  • Luigi Pirandello, Sei personaggi in cerca d'autore
  • Luigi Pirandello, Sei personaggi in cerca d'autore, BMM, 1954.
  • Luigi Pirandello, Sei personaggi in cerca d'autore, Garzanti.
  • Luigi Pirandello, Sei personaggi in cerca d'autore, a cura di G. Davico Bonino, Einaudi, 1925.
  • Luigi Pirandello, Sogno (ma forse no), Mondadori, 1966.
  • Luigi Pirandello, Suo marito, Newton Compton editore, 1995. ISBN 8881830434
  • Luigi Pirandello, Tutti i romanzi, a cura di Giovanni Macchia con la collaborazione di Mario Costanzo, Mondadori, 1973.
  • Luigi Pirandello, Uno, nessuno e centomila (1925), Garzanti, 2002. ISBN 8811365155
  • Luigi Pirandello, Uno, nessuno e centomila, Giunti Demetra, 2007. ISBN 978-8844034054
  • Luigi Pirandello, Progetto Luigi Pirandello tutte le opere di Pirandello digitalizzate con critica, a cura di Giuseppe Bonghi, 1996. (Link a tutte le opere)

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