I promessi sposi
I promessi sposi, romanzo di Alessandro Manzoni del 1827.
Quel ramo del lago di Como d'onde esce l'Adda e che giace fra due catene non interrotte di monti da settentrione a mezzogiorno, dopo aver formati varj seni e per così dire piccioli golfi d'ineguale grandezza, si viene tutto ad un tratto a ristringere; ivi il fluttuamento delle onde si cangia in un corso diretto e continuato di modo che dalla riva si può per dir così segnare il punto dove il lago divien fiume. Il ponte che in quel luogo congiunge le due rive, rende ancor più sensibile all'occhio questa trasformazione: perché gli argini perpendicolari che lo fiancheggiano non lasciano venir le onde a battere sulla riva ma le avviano rapide sotto gli archi; e presso quegli argini uno può quasi sentire il doppio e diverso romore dell'acqua, la quale qui viene a rompersi in piccioli cavalloni sull'arena, e a pochi passi tagliata dalle pile di macigno scorre sotto gli archi con uno strepito per così dire fluviale.
Quel ramo del lago di Como che volge a mezzogiorno tra due catene non interrotte di monti, tutto a seni e a golfi, a seconda dello sporgere e del rientrare di quelli, viene quasi a un tratto a ristringersi e a prender corso e figura di fiume, tra un promontorio a destra, e un'ampia riviera di rincontro; e il ponte, che ivi congiunge le due rive, par che renda ancor più sensibile all'occhio questa trasformazione, e segni il punto in cui il lago cessa, e l'Adda ricomincia, per ripigliar poi nome di lago dove le rive, allontanandosi di nuovo, lasciano l'acqua distendersi e allentarsi in nuovi golfi e in nuovi seni.
Quel ramo del lago di Como, che volge a mezzogiorno, tra due catene non interrotte di monti, tutto a seni e a golfi, a seconda dello sporgere e del rientrare di quelli, vien, quasi a un tratto, a ristringersi, e a prender corso e figura di fiume, tra un promontorio a destra, e un'ampia costiera dall'altra parte; e il ponte, che ivi congiunge le due rive, par che renda ancor più sensibile all'occhio questa trasformazione, e segni il punto in cui il lago cessa, e l'Adda ricomincia, per ripigliar poi nome di lago dove le rive, allontanandosi di nuovo, lascian l'acqua distendersi e rallentarsi in nuovi golfi e in nuovi seni.
Citazioni
modifica- L'Historia si può veramente deffinire una guerra illustre contro il Tempo, perché togliendoli di mano gl'anni suoi prigionieri, anzi già fatti cadaueri, li richiama in vita, li passa in rassegna, e li schiera di nuovo in battaglia. (Introduzione)
- E veramente, considerando che questi nostri climi sijno sotto l'amparo del Re Cattolico nostro Signore, che è quel Sole che mai tramonta, e che sopra di essi, con riflesso Lume, qual Luna giamai calante, risplenda l'Heroe di nobil Prosapia che pro tempore ne tiene le sue parti, e gl'Amplissimi Senatori quali Stelle fisse, e gl'altri Spettabili Magistrati qual'erranti Pianeti spandino la luce per ogni doue, venendo così a formare un nobilissimo Cielo, altra causale trouar non si può del vederlo tramutato in inferno d'atti tenebrosi, malvaggità e sevitie che dagl'huomini temerarij si vanno moltiplicando, se non se arte e fattura diabolica, attesoché l'humana malitia per sé sola bastar non dourebbe a resistere a tanti Heroi, che con occhij d'Argo e braccj di Briareo, si vanno trafficando per li pubblici emolumenti. (Introduzione)
- Chiunque, senza esser pregato, s'intromette a rifar l'opera altrui, s'espone a rendere uno stretto conto della sua, e ne contrae in certo modo l'obbligazione. (Introduzione)
- Di libri basta uno per volta, quando non è d'avanzo. (Introduzione)
- Ai tempi in cui accaddero i fatti che prendiamo a raccontare, quel borgo, già considerabile, era anche un castello, e aveva perciò l'onore d'alloggiare un comandante, e il vantaggio di possedere una stabile guarnigione di soldati spagnoli, che insegnavan la modestia alle fanciulle e alle donne del paese, accarezzavan di tempo in tempo le spalle a qualche marito, a qualche padre; e, sul finir dell'estate, non mancavan mai di spandersi nelle vigne, per diradar l'uve, e alleggerire a' contadini le fatiche della vendemmia. (cap. I)
- [A don Abbondio] Or bene, questo matrimonio non s'ha da fare, né domani, né mai. (un bravo: cap. I)
- [A don Abbondio] Orsù, se la cosa avesse a decidersi a ciarle, lei ci metterebbe in sacco. Noi non ne sappiamo, né vogliam saperne di più. Uomo avvertito... lei c'intende. (un bravo: cap. I)
- Il nostro Abbondio non nobile, non ricco, coraggioso ancor meno, s'era dunque accorto, prima quasi di toccar gli anni della discrezione, d'essere, in quella società, come un vaso di terra cotta, costretto a viaggiare in compagnia di molti vasi di ferro. (cap. I)
- La ragione e il torto non si dividon mai con un taglio così netto, che ogni parte abbia soltanto dell'una o dell'altro. (cap. I)
- Pensino ora i miei venticinque lettori che impressione dovesse fare sull'animo del poveretto, quello che s'è raccontato. (cap. I)
- [A don Abbondio, che vorrebbe tener segreta l'intimazione dei bravi] Eh! le schioppettate non si danno via come confetti: e guai se questi cani dovessero mordere tutte le volte che abbaiano! E io ho sempre veduto che a chi sa mostrare i denti, e farsi stimare, gli si porta rispetto; e, appunto perché lei non vuol mai dir la sua ragione, siam ridotti a segno che tutti vengono, con licenza, a... (Perpetua: 2010, p. 19, cap. I)
- [A don Abbondio, incalzandolo sulla sua codardia] – Io taccio subito; ma è però certo che, quando il mondo s'accorge che uno, sempre, in ogni incontro, è pronto a calar le... (Perpetua: 2010, p. 19, cap. I)
- Si racconta che il principe di Condé dormì profondamente la notte avanti la giornata di Rocroi: ma, in primo luogo, era molto affaticato; secondariamente aveva già date tutte le disposizioni necessarie, e stabilito ciò che dovesse fare, la mattina. Don Abbondio in vece non sapeva altro ancora se non che l'indomani sarebbe giorno di battaglia; quindi una gran parte della notte fu spesa in consulte angosciose. (cap. II)
- "Sapete voi quanti siano gl'impedimenti dirimenti?"
"Che vuol ch'io sappia d'impedimenti?"
"Error, conditio, votum, cognatio, crimen,
Cultus disparitas, vis, ordo, ligamen, honestas,
Si sis affinis,..."
cominciava don Abbondio, contando sulla punta delle dita.
"Si piglia gioco di me?" interruppe il giovine. "Che vuol ch'io faccia del suo latinorum?" (cap. II) - Mala cosa nascer povero, il mio caro Renzo. (Perpetua: cap. II)
- [A don Abbondio] Posso aver fallato; e mi scusi, – rispose Renzo, aprendo e disponendosi a uscire. (Renzo: cap. II)
- La venne finalmente, con un gran cavolo sotto il braccio, e con la faccia tosta, come se nulla fosse stato. (cap. II)
- I provocatori, i soverchiatori, tutti coloro che, in qualunque modo, fanno torto altrui, sono rei, non solo del male che commettono, ma del pervertimento ancora a cui portano gli animi degli offesi. (cap. II)
- [A Renzo] – Benedetta gente! siete tutti così: in vece di raccontar il fatto, volete interrogare, perché avete i vostri disegni in testa. (Azzecca-garbugli: 2010, p. 33, cap. III)
- [A Renzo] All'avvocato bisogna raccontar le cose chiare: a noi tocca poi a imbrogliarle. (Azzecca-garbugli: cap. III)
- [A Renzo] A saper ben maneggiare le gride, nessuno è reo, e nessuno è innocente. (Azzecca-garbugli: cap. III)
- [A Renzo e Lucia] A noi poverelli le matasse paion più imbrogliate, perché non sappiam trovarne il bandolo; ma alle volte un parere, una parolina d'un uomo che abbia studiato... so ben io quel voglio dire. (Agnese: cap. III)
- [Ad Azzecca-garbugli] Oh! signor dottore, come l'ha intesa? l'è proprio tutta al rovescio. (Renzo: cap. III)
- [Ad Agnese] E si faceva tant'olio, che ogni povero veniva a prenderne, secondo il suo bisogno; perché noi [frati] siam come il mare, che riceve acqua da tutte le parti, e la torna a distribuire a tutti i fiumi. (fra Galdino: cap. III)
- E lo sposo [Renzo Tramaglino] se n'andò, col cuore in tempesta, ripetendo sempre quelle strane parole: «a questo mondo c'è giustizia, finalmente!» Tant'è vero che un uomo sopraffatto dal dolore non sa più quel che si dica. (cap. III)
- Un venticello d'autunno, staccando da' rami le foglie appassite del gelso le portava a cadere, qualche passo distante dall'albero. (2010, cap. IV)[1]
- C'è talvolta, nel volto e nel contegno d'un uomo, un'espressione così immediata, si direbbe quasi un'effusione dell'animo interno, che, in una folla di spettatori, il giudizio sopra quell'animo sarà un solo. (cap. IV)
- [A Lodovico, futuro fra Cristoforo, intimandogli di dargli la precedenza] Nel mezzo, vile meccanico; o ch'io t'insegno una volta come si tratta co' gentiluomini. (Il soverchiatore: 2010, p. 46, cap. IV)
- [Replicando a Lodovico, futuro fra Cristoforo, che gli ha dato del mentitore] – Tu menti ch'io abbia mentito. [...] – E, se tu fossi cavaliere, come son io, – aggiunse quel signore, – ti vorrei far vedere, con la spada e con la cappa, che il mentitore sei tu. (Il soverchiatore: 2010, p. 46, cap. IV)
- [Sfidando a duello Lodovico, futuro fra Cristoforo, che ha sfoderato la spada] – Temerario! – grido l'altro, sfoderando la sua: – io spezzerò questa, quando sarà macchiata del tuo vil sangue. (Il soverchiatore: 2010, p. 46, cap. IV)
- È uno de' vantaggi di questo mondo, quello di poter odiare ed esser odiati, senza conoscersi. (cap. IV)
- [Al fratello del "soverchiatore" ucciso prima di farsi frate e da cui aveva ottenuto il perdono] Io sto per mettermi in viaggio: si degni di farmi portare un pane, perché io possa dire d'aver goduto la sua carità, d'aver mangiato il suo pane, e avuto un segno del suo perdono. (fra Cristoforo: cap. IV)
- [A Renzo] Non rivangare quello che non può servire ad altro che a inquietarti inutilmente. (fra Cristoforo: cap. V)
- [Al Conte Attilio, disputando su una questione di cavalleria] – Ma questo – replicava, non meno urlando il podestà, – questo è un di più, un mero di più, un ornamento poetico, giacché il messaggiero è di sua natura inviolabile, per diritto delle genti, jure gentium: e, senza andar tanto a cercare, lo dice anche il proverbio: ambasciator non porta pena. E, i proverbi, signor conte, son la sapienza del genere umano. E non avendo il messaggiero detto nulla in suo proprio nome, ma solamente presentata la sfida in iscritto... (Podestà di Lecco: 2010, p. 58, cap. V)
- [Al Conte Attilio e a fra Cristoforo] – Battere un ambasciatore! persona sacra! Anche lei, padre, mi dirà, se questa è azione da cavaliere. (Podestà di Lecco: 2010, p. 58, cap. V)
- [Al Conte Attilio, disputando su una questione di cavalleria] Ma ascolti, ma ascolti, ma ascolti. Percotere un disarmato è atto proditorio; atqui il messo de quo era senz'arme, ergo... (Podestà di Lecco: 2010, p. 59, cap. V)
- [Al Podestà di Lecco] Sa lei, signor mio, come la pensi l'imperatore, in questo momento? Crede lei che non ci sia altro che Mantova a questo mondo? le cose a cui si deve pensare son molte, signor mio. (Conte Attilio: cap. V)
- «Senza esempi non si fa nulla.» (cap. V)
- [A fra Cristoforo] Escimi di tra' piedi, villano temerario, poltrone incappucciato. (don Rodrigo: cap. VI)
- [A Renzo e Lucia] Ascoltate e sentirete. Bisogna aver due testimoni ben lesti e ben d'accordo. Si va dal curato: il punto sta di chiapparlo all'improvviso, che non abbia tempo di scappare. L'uomo dice: signor curato, questa è mia moglie; la donna dice: signor curato, questo è mio marito. Bisogna che il curato senta, che i testimoni sentano; e il matrimonio è bell'e fatto, sacrosanto come se l'avesse fatto il papa. Quando le parole son dette, il curato può strillare, strepitare, fare il diavolo; è inutile; siete marito e moglie. (Agnese: cap. VI)
- Le parole dell'iniquo che è forte, penetrano e sfuggono. Può adirarsi che tu mostri sospetto di lui, e, nello stesso tempo, farti sentire che quello di che tu sospetti è certo: può insultare e chiamarsi offeso, schernire e chieder ragione, atterrire e lagnarsi, essere sfacciato e irreprensibile. (Padre Cristoforo: cap. VII)
- [William Shakespeare] Un barbaro non privo d'ingegno. (cap. VII)
- [A don Rodrigo, che gli ha ordinato di rapire Lucia] – Non si dirà mai che il Griso si sia ritirato da un comando dell'illustrissimo signor padrone. (Griso: 2010, p. 82, cap. VII)
- [A don Rodrigo] – Signore, non si può levare un fiore dalla pianta e portarlo a vossignoria, senza toccarlo. Ma non si farà che il puro necessario. (Griso: 2010, p. 82, cap. VII)
- «Carneade! Chi era costui?» ruminava tra se don Abbondio seduto sul suo seggiolone, in una stanza del piano superiore, con un libricciolo aperto davanti, quando Perpetua entrò a portargli l'imbasciata. «Carneade! questo nome mi par bene d'averlo letto o sentito; doveva essere un uomo di studio, un letteratone del tempo antico: è un nome di quelli; ma chi diavolo era costui?» Tanto il pover'uomo era lontano da prevedere che burrasca gli si addensasse sul capo! (cap. VIII)
- Don Abbondio, sorpreso, messo in fuga, spaventato, mentre attendeva tranquillamente a' fatti suoi, parrebbe la vittima; eppure, in realtà, era lui che faceva un sopruso. Così va spesso il mondo... voglio dire, così andava nel secolo decimo settimo. (cap. VIII)
- Tutt'a un tratto, in vece di lui [Menico], e con ben altro tono, si fa sentir quel primo tocco di campana così fatto, e dietro una tempesta di rintocchi in fila. Chi è in difetto è in sospetto, dice il proverbio milanese: all'uno e all'altro furfante parve di sentire in que' tocchi il suo nome, cognome e soprannome: lasciano andar le braccia di Menico, ritirano le loro in furia, spalancan la mano e la bocca, si guardano in viso, e corrono alla casa, dov'era il grosso della compagnia. (cap. VIII)
- Addio, monti sorgenti dall'acque, ed elevati al cielo; cime inuguali, note a chi è cresciuto tra voi, e impresse nella sua mente, non meno che lo sia l'aspetto de' suoi più familiari; torrenti, de' quali distingue lo scroscio, come il suono delle voci domestiche; ville sparse e biancheggianti sul pendìo, come branchi di pecore pascenti; addio! Quanto è tristo il passo di chi, cresciuto tra voi, se ne allontana! Alla fantasia di quello stesso che se ne parte volontariamente, tratto dalla speranza di fare altrove fortuna, si disabbelliscono, in quel momento, i sogni della ricchezza; egli si maraviglia d'essersi potuto risolvere, e tornerebbe allora indietro, se non pensasse che, un giorno, tornerà dovizioso. Quanto più si avanza nel piano, il suo occhio si ritira, disgustato e stanco, da quell'ampiezza uniforme; l'aria gli par gravosa e morta; s'inoltra mesto e disattento nelle città tumultuose; le case aggiunte a case, le strade che sboccano nelle strade, pare che gli levino il respiro; e davanti agli edifizi ammirati dallo straniero, pensa, con desiderio inquieto, al campicello del suo paese, alla casuccia a cui ha già messo gli occhi addosso, da gran tempo, e che comprerà, tornando ricco a' suoi monti. Ma chi non aveva mai spinto al di là di quelli neppure un desiderio fuggitivo, chi aveva composti in essi tutti i disegni dell'avvenire, e n'è sbalzato lontano, da una forza perversa! Chi, staccato a un tempo dalle più care abitudini, e disturbato nelle più care speranze, lascia que' monti, per avviarsi in traccia di sconosciuti che non ha mai desiderato di conoscere, e non può con l'immaginazione arrivare a un momento stabilito per il ritorno! Addio, casa natìa, dove, sedendo, con un pensiero occulto, s'imparò a distinguere dal rumore de' passi comuni il rumore d'un passo aspettato con un misterioso timore. Addio, casa ancora straniera, casa sogguardata tante volte alla sfuggita, passando, e non senza rossore; nella quale la mente si figurava un soggiorno tranquillo e perpetuo di sposa. Addio, chiesa, dove l'animo tornò tante volte sereno, cantando le lodi del Signore; dov'era promesso, preparato un rito; dove il sospiro segreto del cuore doveva essere solennemente benedetto, e l'amore venir comandato, e chiamarsi santo; addio! Chi dava a voi tanta giocondità è per tutto; e non turba mai la gioia de' suoi figli, se non per prepararne loro una più certa e più grande. (cap. VIII)
- Certo, il cuore, chi gli dà retta, ha sempre qualche cosa da dire su quello che sarà. Ma che sa il cuore? Appena un poco di quello che è già accaduto. (cap. VIII)
- Chi dava a voi [Dio] tanta giocondità è per tutto; e non turba mai la gioia de' suoi figli, se non per prepararne loro una più certa e più grande. (cap. VIII)
- [L'adolescenza] [...] quell'età così critica, nella quale par che entri nell'animo quasi una potenza misteriosa, che solleva, adorna, rinvigorisce tutte l'inclinazioni, tutte l'idee, e qualche volta le trasforma, o le rivolge a un corso impreveduto. (cap. IX)
- Vi son de' momenti in cui l'animo, particolarmente de' giovani, è disposto in maniera che ogni poco d'istanza basta a ottenerne ogni cosa che abbia un'apparenza di bene e di sacrifizio: come un fiore appena sbocciato, s'abbandona mollemente sul suo fragile stelo, pronto a concedere le sue fragranze alla prim'aria che gli aliti punto d'intorno. Questi momenti, che si dovrebbero dagli altri ammirare con timido rispetto, son quelli appunto che l'astuzia interessata spia attentamente, e coglie di volo, per legare una volontà che non si guarda. (cap. X)
- ...ripetere un sì tante volte detto; lo ripeté, e fu monaca per sempre! (cap. X)
- La sventurata rispose. (cap. X)
- Ben di rado avviene che le parole affermative e sicure d'una persona autorevole, in qualsivoglia genere, non tingano del loro colore la mente di chi le ascolta. (cap. X)
- Una delle più gran consolazioni di questa vita è l'amicizia; e una delle consolazioni dell'amicizia è quell'avere a cui confidare un segreto. (cap. XI)
- Costui [il gran cancelliere Antonio Ferrer] vide, e chi non l'avrebbe veduto? che l'essere il pane a un prezzo giusto, è per sé una cosa molto desiderabile; e pensò, e qui fu lo sbaglio, che un suo ordine potesse bastare a produrla. Fissò la meta (così chiamano qui la tariffa in materia di commestibili), fissò la meta del pane al prezzo che sarebbe stato il giusto, se il grano si fosse comunemente venduto a trentatré lire il moggio: e si vendeva fino ad ottanta. (cap. XII)
- Nella strada chiamata la Corsia de' Servi, c'era, e c'è tuttavia un forno, che conserva lo stesso nome; nome che in toscano viene a dire il forno delle grucce, e in milanese è composto di parole così eteroclite, così bisbetiche, così salvatiche che l'alfabeto della lingua non ha i segni per indicarne il suono. A quella parte s'avventò la gente. (2010, p. 153, cap. XII)
- Parole da non ripetersi diceva, con la schiuma alla bocca, un altro, che teneva con una mano un cencio di fazzoletto su' capelli arruffati e insanguinati. (2010, p. 156, cap. XII)
- Tra questi discorsi, dai quali non saprei dire se fosse più informato o sbalordito, e tra gli urtoni, arrivò Renzo finalmente davanti a quel forno. La gente era già molto diradata, dimodoché poté contemplare il brutto e recente soqquadro. Le mura scalcinate e ammaccate da sassi, da mattoni, le finestre sgangherate, diroccata la porta.
“Questa non è una bella cosa,” disse Renzo tra sé: “se concian così tutti i forni, dove voglion fare il pane? Ne' pozzi?” (2010, p. 157, cap. XII) - Veramente, la distruzione de' frulloni e delle madie, la devastazione de' forni, e lo scompiglio de' fornai, non sono i mezzi più spicci per fare vivere il pane; ma questa è una di quelle sottigliezze metafisiche, che una moltitudine non ci arriva. (2010, p. 158, cap. XII)
- Adelante, presto, con juicio. (cap. XIII)
- Per grazia del cielo, accade talvolta anche nel male quella cosa troppo frequente nel bene, che i fautori più ardenti divengano un impedimento. (cap. XIII)
- Comanda chi può e ubbidisce chi vuole.[fonte 1] (cap. XIV)
- [A Renzo] – Son qui per servirvi, quel bravo giovine, – disse uno, che aveva ascoltata attentamente la predica, e non aveva detto ancora nulla. – Conosco appunto un'osteria che farà al caso vostro; e vi raccomanderò al padrone, che è mio amico, e galantuomo. (La guida: 2010, p. 174, cap. XIV)
- [A Renzo] Povero giovine! per quanto ho potuto intendere da' vostri discorsi, ve n'hanno fatte delle grosse. (La guida: 2010, p. 174, cap. XIV)
- «Al pane», disse Renzo, ad alta voce e ridendo, «ci ha pensato la provvidenza.» E tirato fuori il terzo e ultimo di que' pani raccolti sotto la croce di san Dionigi, l'alzò gridando: «ecco il pane della provvidenza!» (cap. XIV)
- [A Renzo, per estorcergli il nome e fare la spiata ai birri] – Ecco come farei. Una meta onesta, che tutti ci potessero campare. E poi, distribuire il pane in ragione delle bocche: perché c'è degli ingordi indiscreti, che vorrebbero tutto per loro, e fanno a ruffa raffa, pigliano a buon conto; e poi manca il pane alla povera gente. Dunque dividere il pane. E come si fa? Ecco: dare un bel biglietto a ogni famiglia, in proporzion delle bocche, per andare a prendere il pane dal fornaio. A me, per esempio, dovrebbero rilasciare un biglietto in questa forma: Ambrogio Fusella, di professione spadaio, con moglie e quattro figliuoli, tutti in età da mangiar pane (notate bene): gli si si dia pane tanto, e paghi soldi tanti. Ma far le cose giuste, sempre in ragion delle bocche. A voi, per esempio, dovrebbero fare un biglietto per... il vostro nome? (La guida: 2010, p. 179, cap. XIV)
- All'uomo impicciato, quasi ogni cosa è un nuovo impiccio! (cap. XVI)
- Basta spesso una voglia, per non lasciar ben avere un uomo. (cap. XVII)
- – Oh povero Renzo! Ma tu hai fatto capitale di me; e io non t'abbandonerò. Veramente, ora non c'è ricerca d'operai; anzi appena appena ognuno tiene i suoi, per non perderli e disviare il negozio; ma il padrone mi vuol bene, e ha della roba. E, a dirtela, in gran parte la deve a me, senza vantarmi: lui il capitale, e io quella poca abilità. Sono il primo lavorante, sai? e poi, a dirtela, sono il factotum. (Bortolo: 2010, p. 216, cap. XVII)
- La strada dell'iniquità, dice qui il manoscritto, è larga; ma questo non vuol dire che sia comoda: ha i suoi buoni intoppi, i suoi passi scabrosi; è noiosa la sua parte, e faticosa, benché vada all'ingiù. (cap. XVIII, p. 346)
- Nella sua [Storia] c'era mescolato per tutto un sentimento, una parola, che non le pareva possibile di proferire, parlando di sé; e alla quale non avrebbe mai trovato da sostituire una perifrasi che non le paresse sfacciata: l'amore! (cap. XVIII)
- [A Agnese che chiede notizie di fra Cristoforo] Se i superiori dovessero render conto degli ordini che danno, dove sarebbe l'ubbidienza, donna mia? (fra Galdino: 2010, p. 225, cap. XVIII)
- [A Agnese che insiste su fra Cristoforo] Sentite, buona donna; il padre Cristoforo era veramente un uomo; ma ce ne abbiamo degli altri, sapete? pieni di carità e di talento, e che sanno trattare ugualmente co' signori e co' poveri. Volete il padre Atanasio? volete il padre Girolamo? volete il padre Zaccaria? (fra Galdino: 2010, pp. 225-226, cap. XVIII)
- [Al Conte zio], zio anche del cugino don Rodrigo – Signore zio, che Rodrigo possa aver fatto qualche scherzo a quella creatura, incontrandola per la strada, non sarei lontano dal crederlo: è giovine, è finalmente non è cappuccino; ma queste son bazzecole da non trattenerne il signore zio: il serio è che il frate s'è messo a parlar di Rodrigo come si farebbe d'un mascalzone, cerca d'aizzargli contro tutto il paese... (Conte Attilio: 2010, p. 227, cap. XVIII)
- [Al Conte Attilio, in riferimento a fra Cristoforo] – Oh frate temerario! Come si chiama costui? (Conte zio: 2010, p. 228, cap. XVIII)
- [Al Conte zio, in riferimento a fra Cristoforo] – Era un plebeo che, trovandosi aver quattro soldi, voleva competere coi cavalieri del suo paese; e, per rabbia di non poterla vincer con tutti, ne ammazzò uno; onde, per iscansar la forca, si fece frate. (Conte Attilio: 2010, p. 228, cap. XVIII)
- [Al Conte Attilio, venuto a chiedere protezione per il cugino e sodale don Rodrigo] Ma bene! ma bravo, padre! Sicuro... infatti..., aveva una lettera per un... Peccato che... Ma non importa; va bene. E perché il signor don Rodrigo non mi dice nulla di tutto questo? perché lascia andar le cose tant'avanti e non si rivolge a chi lo può e vuole dirigere e sostenere? (Conte zio: 2010, p. 228, cap. XVIII)
- [Al Conte Attilio, accomunato a don Rodrigo, entrambi suoi nipoti] Scapestrati, scapestrati, che sempre ne fate una; e a me tocca rattopparle: che... mi fareste dire uno sproposito, mi date da pensare più voi altri due, che, – e qui immaginatevi che soffio mise, – tutti questi benedetti affari di stato. (Conte zio: 2010, p. 228, cap. XVIII)
- Chi, vedendo in un campo mal coltivato, un'erbaccia, per esempio un bel lapazio, volesse proprio sapere se sia venuto da un seme maturato nel campo stesso, o portatovi dal vento, o lasciatovi cader da un uccello, per quanto ci pensasse, non ne verrebbe mai ad una conclusione. Così anche noi non sapremmo dire se dal fondo naturale del suo cervello, o dall'insinuazione d'Attilio, venisse al conte zio la risoluzione di servirsi del padre provinciale per troncare nella miglior maniera quel nodo imbrogliato. (cap. XIX)
- [Al Conte zio] – Oh! – disse poi: – mi dispiace davvero di sentire che vostra magnificenza abbia in un tal concetto il padre Cristoforo; mentre, per quanto ne so io, è un religioso... esemplare in convento, e tenuto in molta stima anche di fuori. (Padre provinciale: 2010, p. 232, cap. XIX)
- [Al Conte zio] – È la gloria dell'abito questa, signor conte, che un uomo, il quale al secolo ha potuto far dir di sé, con questo indosso, diventi un altro. E da che padre Cristoforo porta quest'abito... (Padre provinciale: 2010, p. 232, cap. XIX)
- [Al Conte zio, riferendosi a fra Cristoforo] – Se lei sa positivamente, – disse il provinciale, – che questo religioso abbia commesso qualche errore (tutti si può mancare), avrò per un vero favore l'esserne informato. Son superiore: indegnamente, ma lo sono appunto per correggere, per rimediare. (Padre provinciale: 2010, p. 233, cap. XIX)
- [Al Conte zio] – Sarà mio dovere di prendere buone informazioni d'un fatto simile. Come ho già detto a vostra magnificenza, e parlo con un signore che non ha meno giustizia che pratica di mondo, tutti siamo di carne, soggetti a sbagliare... tanto da una parte, quanto dall'altra: e se il padre Cristoforo avrà mancato... (Padre provinciale: 2010, p. 232, cap. XIX)
- [...] alcuni clienti legati alla casa per una dipendenza ereditaria, e al personaggio per una servitù di tutta la vita; i quali, cominciando dalla minestra a dir di sì, con la bocca, con gli occhi, con gli orecchi, con tutta la testa, con tutto il corpo, con tutta l'anima, alle frutte v'avevan ridotto un uomo a non ricordarsi più come si facesse a dir di no. (cap. XIX)
- [L'innominato] Era grande, bruno, calvo; bianchi i pochi capelli che gli rimanevano; rugosa la faccia: a prima vista, gli si sarebbe dato più de' sessant'anni che aveva; ma il contegno, le mosse, la durezza risentita de' lineamenti, il lampeggiar sinistro, ma vivo degli occhi, indicavano una forza di corpo e d'animo, che sarebbe stata straordinaria in un giovine. (cap. XX)
- [Ai bravi, complici del rapimento di Lucia] Tirate fuori dalla cassetta i tromboni, e teneteli pronti; ché in questo bosco dove s'entra ora, c'è sempre de' birboni annidati. Non così in mano, diavolo! riponeteli dietro le spalle, li stesi: non vedete che costei è un pulcin bagnato che basisce per nulla? Se vede armi è capace di morir davvero. E quando sarà rinvenuta, badate bene di non farle paura; non la toccate, se non vi fo segno; a tenerla basto io. E zitti: lasciate fare a me. (Nibbio: 2020, p. 247, cap. XX)
- [A Lucia] – Vi dico che non abbiate paura: non siete una bambina, e dovete capire che noi non vogliamo farvi male. Non vedete che avremmo potuto ammazzarvi cento volte, se avessimo cattive intenzioni? Dunque state quieta. (Nibbio: 2010, p. 248, cap. XX)
- Il delitto è un padrone rigido e inflessibile, contro cui non divien forte se non chi se ne ribella interamente. (cap. XX)
- [All'innominato] – Ma... dico il vero, che avrei avuto più piacere che l'ordine fosse stato di darle una schioppettata nella schiena, senza sentirla parlare, senza vederla in viso. (Nibbio: 2010, p. 252, cap. XXI)
- «[...] Quell'animale di don Rodrigo non mi venga a romper la testa con un ringraziamento; che... non voglio più sentir parlare di costei. L'ho servito perché... perché ho promesso: e ho promesso perché... è il mio destino. Ma voglio che me lo paghi bene questo servizio, colui. Vediamo un poco...» (Innominato: 2010, p. 253, cap. XX)
- [All'innominato] Dio perdona tante cose, per un'opera di misericordia. (Lucia: cap. XXI)
- È una storia la compassione un poco come la paura: se uno la lascia prender possesso, non è più uomo. (cap. XXI)
- Federigo Borromeo, nato nel 1564, fu degli uomini rari in qualunque tempo, che abbiano impiegato un ingegno egregio, tutti i mezzi d'una grand'opulenza, tutti i vantaggi d'una condizione privilegiata, un intento continuo, nella ricerca e nell'esercizio del meglio. (cap. XXII)
- Persuaso che la vita non è già destinata ad essere un peso per molti, e una festa per alcuni, ma per tutti un impiego, del quale ognuno renderà conto, cominciò da fanciullo a pensare come potesse render la sua utile e santa. (cap. XXII)
- Que' prudenti che s'adombrano delle virtù come de' vizi, predicano sempre che la perfezione sta nel mezzo; e il mezzo lo fissan giusto in quel punto dov'essi sono arrivati, e ci stanno comodi. (cap. XXII)
- [Il XVII secolo] Quell'età sudicia e sfarzosa. (cap. XXII)
- [...] questa biblioteca ambrosiana che Federigo ideò con sì animosa lautezza, ed eresse, con tanto dispendio, da' fondamenti; per fornir la quale di libri e di manoscritti, oltre il dono de' già raccolti con grande studio e spese da lui, spedì otto uomini, de' più colti ed esperti che poté avere, a farne incetta, per l'Italia, per la Francia, per la Spagna, per la Germania, per le Fiandre, nella Grecia, al Libano, a Gerusalemme. Così riusci a radunarvi circa trentamila volumi stampati, e quattordicimila manoscritti. (2010, p. 266, cap. XXII)
- Alla biblioteca unì un collegio di dottori (furon nove, e pensionati da lui fin che visse; dopo, non bastando a quella spesa l'entrate ordinarie, furon ristretti a due); e il loro uffizio era di coltivare vari studi, teologia, storia, lettere, antichità ecclesiastiche, lingue orientali, con l'obbligo ad ognuno di pubblicar qualche lavoro sulla materia assegnatagli [...]. (2010, p. 266, cap. XXII)
- [Sulle disposizioni del cardinale Federigo Borromeo riguardo la Biblioteca Ambrosiana] Prescrisse al bibliotecario che mantenesse commercio con gli uomini più dotti d'Europa, per aver da loro notizie dello stato delle scienze, e avviso de' libri migliori che venissero fuori in ogni genere, e farne acquisto [...]. (2010, p. 267, cap. XXII)
- [Al cardinale Federigo Borromeo, in riferimento all'Innominato] – Una strana visita, strana davvero, monsignore illustrissimo! (Cappellano crocifero: 2010, p. 271, cap. XXIII)
- [Al cardinale Federigo Borromeo, annunciando l'Innominato] – Niente meno che il signor... (Cappellano crocifero: 2010, p. 271, cap. XXIII)
- [Al cardinale Federigo Borromeo] – Ma... – replicò il cappellano, senza moversi: – vossignoria deve sapere chi è costui: quel bandito, quel famoso... (Cappellano crocifero: 2010, p. 271, cap. XXIII)
- [Al cardinale Federigo Borromeo, in riferimento all'Innominato.] – Lo zelo fa de' nemici, monsignore; e noi sappiamo positivamente che più d'un ribaldo ha osato vantarsi che un giorno o l'altro... (Cappellano crocifero: 2010, p. 271, cap. XXIII)
- [Al cardinale Federigo Borromeo] – Dico che costui è un appaltatore di delitti, un disperato che tiene corrispondenza co' disperati più furiosi, e che può esser mandato... (Cappellano crocifero: 2010, p. 271, cap. XXIII)
- [Al cardinale Federigo Borromeo] – Dio veramente grande! Dio veramente buono! io mi conosco ora, comprendo chi sono; le mie iniquità mi stanno davanti; ho ribrezzo di me stesso; eppure...! eppure provo un refrigerio, una gioia, sì una gioia, quale non ho provata mai in tutta questa mia orribile vita! (Innominato: 2010, p. 275, cap. XXIII)
- Il mestiere di molestar le femmine, il più pazzo, il più ladro, il più arrabbiato mestiere di questo mondo. (cap. XXIII)
- I colpi cascano sempre all'ingiù; i cenci vanno all'aria. (don Abbondio: cap. XXIV)
- Quelli che fanno il bene, lo fanno all'ingrosso: quand'hanno provata quella soddisfazione, n'hanno abbastanza, e non si voglion seccare a star dietro a tutte le conseguenze; ma coloro che hanno quel gusto di fare il male, ci mettono più diligenza, ci stanno dietro fino alla fine, non prendon mai requie, perché hanno quel canchero che li rode. (cap. XXIV)
- I poveri, ci vuol poco a farli comparir birboni. (Agnese: cap. XXIV)
- [A Lucia in riferimento all'Innominato] – Viene a liberarvi; non è più quello; è diventato buono: sentite che vi chiede perdono? (Moglie del sarto: 2010, p. 285, cap. XXIV)
- [A Lucia] – M'ha mandata il nostro curato, – disse la buona donna: – perché questo signore, Dio gli ha toccato il cuore (sia benedetto!), ed è venuto al nostro paese, per parlare al signor cardinale arcivescovo (che l'abbiamo là in visita, quel sant'uomo), e s'è pentito de' suoi peccatacci, e vuol mutare vita; e ha detto al cardinale che aveva fatto rubare una povera innocente, che siete voi, d'intesa con un altro senza timor di Dio, che il curato non m'ha detto chi possa essere. (Moglie del sarto: 2010, p. 286, cap. XXIV)
- [A Lucia] – Brava giovine! riprese la donna: – e trovandosi al nostro paese anche il vostro curato (che ce n'è tanti tanti, di tutto il contorno, da mettere insieme quattro ufizi generali), ha pensato il signor cardinale di mandarlo anche lui in compagnia; ma è stato di poco aiuto. Già l'avevo sentito dire ch'era un uomo da poco; ma in quest'occasione, ho dovuto proprio vedere che è più impicciato che un pulcin nella stoppa. (Moglie del sarto: 2010, p. 287, cap. XXIV)
- [A Lucia] – Ben venuta, ben venuta! Siete la benedizione del cielo in questa casa. Come son contento di vedervi qui! Già ero sicuro che sareste arrivata a buon porto; perché non ho mai trovato che il Signore abbia cominciato un miracolo senza finirlo bene; son contento di vedervi qui. Povera giovine! Ma è però una gran cosa d'aver ricevuto un miracolo! (Sarto: 2010, p. 291, cap. XXIV)
- [Sul cardinale Federigo Borromeo] – A vederlo lì davanti all'altare, – diceva, – un signore di quella sorte, come un curato... (Sarto: 2010, p. 292, cap. XXIV)
- [Sul cardinale Federigo Borromeo] – A pensare, dico, che, che un signore di quella sorte, e un uomo tanto sapiente, che, a quel che dicono, ha letto tutti i libri che ci sono, cosa a cui non è mai arrivato nessun altro, né anche in Milano; a pensare che sappia adattarsi a dir quelle cose in maniera che tutti intendano... (Sarto: 2010, p. 292, cap. XXIV)
- Gli uomini, generalmente parlando, quando l'indegnazione non si possa sfogare senza grave pericolo, non solo dimostran meno, o tengono affatto in sè quella che sentono, ma ne senton meno in effetto. (cap. XXV)
- Volete aver molti in aiuto? Cercate di non averne bisogno. (cap. XXV)
- Con l'idee donna Prassede si regolava come dicono che si deve far con gli amici: n'aveva poche; ma a quelle poche era molto affezionata. Tra le poche, ce n'era per disgrazia molte delle storte; e non eran quelle che le fossero men care. (cap. XXV)
- Il coraggio uno non se lo può dare. (don Abbondio: cap. XXV)
- [...] l'iniquità può aver bensì delle minacce da fare, de' colpi da dare, ma non de' comandi [...]. (Cardinale Federigo Borromeo: cap. XXVI)
- Non c'è rimedio, chi ne sa più degli altri non vuol essere strumento materiale nelle loro mani, e quando entra negli affari altrui, vuol anche fargli andare un po' a modo suo. (cap. XXVII)
- Ma cos'è la storia senza la politica? Una guida che cammina, cammina, con nessuno dietro che impari la strada, e per conseguenza butta via i suoi passi; come la politica senza la storia è uno che cammina senza guida. (cap. XXVII)
- [A Lucia, alludendo a Renzo] – Ebbene? – le diceva: non ci pensiam più a colui? (donna Prassede: 2010, p. 329, cap. XXVII)
- [A Lucia, sul costume dei giovani, con allusione a Renzo] – quando hanno nel cuore uno scapestrato (ed è lì che inclinano sempre), non se lo staccan più. Un partito onesto, ragionevole, d'un galantuomo, d'un uomo assestato, che, per qualche accidente, vada a monte, son subito rassegnate; ma un rompicollo, è una piaga incurabile. (donna Prassede: 2010, p. 329, cap. XXVII)
- Colico fu la prima terra del ducato, che invasero que' demòni; si gettarono poi sopra Bellano; di là entrarono e si sparsero nella Valsassina, da dove sboccarono nel territorio di Lecco. (cap. XXVIII)
- Così quell'uomo sul quale, se fosse caduto, sarebbero corsi a gara grandi e piccoli a calpestarlo; messosi volontariamente a terra, veniva risparmiato da tutti, e inchinato da molti. (cap. XXIX)
- Pochi e valenti, come i versi di Torti.[fonte 2] (cap. XXIX)
- Negli errori e massime negli errori di molti, ciò che è più interessante e più utile a osservarsi, mi pare che sia appunto la strada che hanno fatta, l'apparenze, i modi con cui hanno potuto entrar nelle menti, e dominarle. (cap. XXXI)
- Il buon senso c'era; ma se ne stava nascosto, per paura del senso comune. (cap. XXXII)
- La collera aspira a punire: e, come osservò acutamente, a questo stesso proposito, un uomo d'ingegno[2], le piace più d'attribuire i mali a una perversità umana, contro cui possa far le sue vendette, che di riconoscerli da una causa, con la quale non ci sia altro da fare che rassegnarsi. (cap. XXXII)
- Da tante cose dipende la celebrità de' libri! (cap. XXXIII)
- [Al Griso, al quale, sapendosi appestato, ha ordinato di chiamare Chiodo, un chirurgo fidato] – È un galantuomo, che, chi lo paga bene, tien segreti gli ammalati. Va a chiamarlo: digli che gli darò quattro, sei scudi per visita, di più, se di più ne chiede; ma che venga qui subito; e fa la cosa bene, che nessun se n'avveda. (don Rodrigo: 2010, p. 398, cap. XXXIII)
- [A don Rodrigo, un attimo prima di denunciarlo ai monatti come appestato] – No, signore, – rispose il Griso: – niente senza il parere del medico. Son mali bisbetici: non c'è tempo da perdere. Stia quieto: in tre salti son qui col Chiodo. (Griso: 2010, p. 398, cap. XXXIII)
- [Al Griso, che l'ha tradito, chiamando i monatti anziché il medico] – Ah traditore infame! Via, canaglia! Biondino! Carlotto! aiuto! son assassinato! (don Rodrigo: 2010, p. 399, cap. XXXIII)
- [A Renzo, in riferimento alla peste] – Ah, ah! – disse Bortolo: – l'hai scampata, tu. Buon per te! (Bortolo: 2010, p. 402, cap. XXXIII)
- [A Renzo, in riferimento alla peste] – Eh! vorrei esser io ne' tuoi piedi. A dire: sto bene, le altre volte, pareva di dir tutto; ma ora conta poco. Chi può arrivare a dire: sto meglio; quella sì è una bella parola! (Bortolo: 2010, p. 402, cap. XXXIII)
- [A Renzo] – Sei proprio tu! – disse l'amico, quando furon vicini: – oh che gusto ho di vederti! Chi l'avrebbe pensato? T'avevo preso per Paolin de' morti, che vien sempre a tormentarmi, perché vada a sotterrare. Sai che son rimasto solo? solo! solo, come un romito! (L'amico: 2010, p. 408, cap. XXXIII)
- [A Renzo, che gli ha raccontato le sue peripezie] Son cose brutte, – disse l'amico, accompagnando Renzo in una camera che il contagio aveva resa disabitata; – cose che non si sarebbe mai creduto di vedere; cose da levarvi l'allegria per tutta la vita; ma però, a parlarne tra amici, è un sollievo. (L'amico: 2010, p. 409, cap. XXXIII)
- [...] ma dietro le spalle sentiva il calpestìo e, più forti del calpestìo, quelle grida amare: – dàgli! dàgli! all'untore! (cap. XXXIV)
- Va', va', povero untorello, non sarai tu quello che spianti Milano. (cap. XXXIV)
- [A Renzo] Cercala lì; cercala con fiducia e... con rassegnazione. Perché, ricordati che non è poco ciò che tu sei venuto a cercar qui: tu chiedi una persona viva al lazzeretto! Sai tu quante volte io ho veduto rinnovarsi questo mio povero popolo! quanti ne ho veduti portar via! quanti pochi uscire!... Va preparato a fare un sacrifizio... (fra Cristoforo: cap. XXXV)
- [A Renzo] Puoi odiare, e perderti; puoi, con un tuo sentimento, allontanar da te ogni benedizione. (fra Cristoforo: cap. XXXV)
- [A Lucia] Parlo da buon cristiano ; e della Madonna penso meglio io che non voi; perché credo che non vuol promesse in danno del prossimo. Se la Madonna avesse parlato, oh, allora! Ma che cos'è stato? una vostra idea. Sapete cosa dovete promettere alla Madonna? Promettetele che la prima figlia che avremo, le metteremo nome Maria: ché questo son qui anch'io a prometterlo: queste son cose che fanno ben più onore alla Madonna: queste son divozioni che hanno più costrutto, e non portan danno a nessuno. (Renzo: cap. XXXVI)
- [A Renzo, fradicio di pioggia] – A dir la verità, potresti adoprare il da tanto in su, per lavare il da tanto in giù. Ma, aspetta, aspetta; che ti faccia un buon fuoco. (L'amico: 2010, p. 452, cap. XXXVII)
- [A Renzo] – Vado a mungere: quando tornerò col latte, l'acqua sarà all'ordine, e si fa una buona polenta. Tu intanto fa il tuo comodo. (L'amico: 2010, p. 453, cap. XXXVII)
- L'attività dell'uomo è limitata; e tutto il di più che c'era nel comandare, doveva tornare in tanto meno nell'eseguire. Quel che va nelle maniche, non può andar ne' gheroni. (cap. XXXVII)
- –In rerum natura,– diceva, – non ci son che due generi di cose: sostanze e accidenti; e se io provo che il contagio non può essere né l'uno né l'altro, avrò provato che non esiste, che è una chimera. (don Ferrante: 2010, p. 458, cap. XXXVII)
- Vibici, esantemi, antraci, parotidi, bubboni violacei, furoncoli nigricanti, son tutte parole rispettabili, che hanno il loro significato bell'e buono; ma dico che non han a che fare con la questione. Chi nega che ci possa essere di queste cose, anzi che ce ne sia? Tutto sta a veder di dove vengano. (don Ferrante: 2010, pp. 458-459, cap. XXXVII)
- Non si può spiegare quanto sia grande l'autorità d'un dotto di professione, allorché vuol dimostrare agli altri le cose di cui sono già persuasi. (cap. XXXVII)
- È stata un gran flagello questa peste; ma è anche stata una scopa; ha spazzato via certi soggetti [don Rodrigo], che, figliuoli miei, non ce ne liberavamo più: verdi, freschi, prosperosi [...]. (don Abbondio: cap. XXXVII)
- Sapete quante belle cose si posson fare senza offender le regole della buona creanza: fino sbudellarsi. (cap. XXXVIII)
- Le parole fanno un effetto in bocca, e un altro negli orecchi. (cap. XXXVIII)
- Si dovrebbe pensare più a far bene, che a star bene: e così si finirebbe anche a star meglio. (cap. XXXVIII)
- L'uomo, fin che sta in questo mondo, è un infermo che si trova sur un letto scomodo più o meno, e vede intorno a sé altri letti, ben rifatti al di fuori, piani, a livello: e si figura che ci si deve star benone. Ma se gli riesce di cambiare, appena s'è accomodato nel nuovo, comincia, pigiando, a sentire qui una lisca che lo punge, lì un bernoccolo che lo preme: siamo in somma, a un di presso, alla storia di prima. (cap. XXXVIII)
Il bello era a sentirlo raccontare le sue avventure: e finiva sempre col dire le gran cose che ci aveva imparate, per governarsi meglio in avvenire. – Ho imparato, – diceva, – a non mettermi ne' tumulti: ho imparato a non predicare in piazza: ho imparato a guardare con chi parlo: ho imparato a non alzar troppo il gomito: ho imparato a non tenere in mano il martello delle porte, quando c'è lì d'intorno gente che ha la testa calda: ho imparato a non attaccarmi un campanello al piede, prima d'aver pensato quel che possa nascere –. E cent'altre cose.
Lucia però, non che trovasse la dottrina falsa in sé, ma non n'era soddisfatta; le pareva, così in confuso, che ci mancasse qualcosa. A forza di sentir ripetere la stessa canzone, e di pensarci sopra ogni volta, – e io, – disse un giorno al suo moralista, – cosa volete che abbia imparato? Io non sono andata a cercare i guai: son loro che sono venuti a cercar me. Quando non voleste dire, – aggiunse, soavemente sorridendo, – che il mio sproposito sia stato quello di volervi bene, e di promettermi a voi.
Renzo, alla prima, rimase impicciato. Dopo un lungo dibattere e cercare insieme, conclusero che i guai vengono bensì spesso, perché ci si è dato cagione; ma che la condotta più cauta e più innocente non basta a tenerli lontani; e che quando vengono, o per colpa o senza colpa, la fiducia in Dio li raddolcisce, e li rende utili per una vita migliore. Questa conclusione, benché trovata da povera gente, c'è parsa così giusta, che abbiam pensato di metterla qui, come il sugo di tutta la storia.
La quale, se non v'è dispiaciuta affatto, vogliatene bene a chi l'ha scritta, e anche un pochino a chi l'ha raccomodata. Ma se in vece fossimo riusciti ad annoiarvi, credete che non s'è fatto apposta.
Citazioni su I promessi sposi
modifica- Alzarsi ogni mattina colle immagini vive del giorno innanzi davanti alla mente, scendere nello studio, tirar fuori dal cassetto dello scrittorio qualcuno di quei soliti personaggi, disporli davanti a me come tanti burattini, osservarne le mosse, ascoltarne i discorsi, poi mettere in carta e rileggere, era per me un godimento così vivo come quello di una curiosità soddisfatta. (Alessandro Manzoni)
- È proprio un bel libro! Non mi sono ancora addentrato molto nella storia, ma ne sono del tutto incantato. I dialoghi fra lo Sposo e il Prete, la Mattina del mancato matrimonio, fra lo Sposo e la Sposa e la Madre di lei, e la descrizione del tragitto del povero Renzo alla casa del dotto avvocato, con i capponi, la scena fra loro due e l'idea complessiva del personaggio e della vicenda di Padre Cristoforo sono delineati a tocchi estremamente delicati e suggestivi. Ho appena lasciato il buon padre nella chiassosa Sala da Pranzo di Don Rodrigo e ti assicuro che sono ansiosissimo di andare avanti. (Charles Dickens)
- È stata pubblicata una nuova versione dei Promessi sposi secondo i princìpi delle leghe: i «lumbard» Renzo e Lucia e fra Cristoforo sono bravi e buoni, don Rodrigo è mafioso e «terun». Alla fine della storia, un invito che è la conclusione morale: «Foeura di ball!». (Enzo Biagi)
- È un buon romanzo, voglio ammetterlo, per quanto ci si senta il lombardo che si diverte coi riboboli toscani, raccattati razzolando nei pagliai della Val d'Elsa. È un romanzo storico, ben colorito e scritto in modo divertevole; ma tolta qualche buona macchietta, come quel Don Abbondio, o quel Don Ferrante, mi pare che non ci appariscano dei grandi personaggi, e che d'altra parte sia ridicolo di fare, di due poveri diavoli, piuttosto pallidi e menci, come Renzo e Lucia, addirittura l'architrave di tutta la fabbrica. (Leo Ferrero)
- È un libro che potrebbe essere letto in un coro di vergini presieduto dalla Madonna. (Ludovico da Casoria)
- Esaminando liberamente il romanzo storico del Manzoni non istudierò miserie. Ditemi ora, o lettori, qual sarà il soggetto di un romanzo, che si raggira intorno a tal epoca? Quali saranno le imprese dei Milanesi, perché il romanzo è intitolato Storia milanese?... Quali saranno gli eroi? Forse l'ambizioso Governator di Milano promotore della guerra che si accende in Italia? Forse il coraggioso Duca di Nevers, che difende animosamente i diritti della sua casa?... Né un solo di cotesti personaggi è l'eroe del romanzo, né una sola di siffatte vicende forma il soggetto dell'istoria scoperta e rifatta dal Manzoni. Renzo Tramaglino e Lucia Mondella, due poveri lavoratori del contado di Como, sono gli eroi per cui dobbiamo interessarci; se si sposeranno, o no, è l'importante vicenda che tener deve gli animi nostri sospesi... Eccovi, o lettori, tutto il tessuto di questa istoria milanese rifatta: e s'ella è cosa che meriti il nome di storia giudicatelo voi. (Felice Romani)
- Ho veduto il romanzo del Manzoni, il quale, non ostante molti difetti, mi piace assai, ed è certamente opera di un grande ingegno. (Giacomo Leopardi)
- In tanti angoli dei Promessi sposi si scorgono vicende e pensieri di intensa profondità e di carattere sapienziale, che hanno fatto del libro una specie di Bibbia laica (ma fondata sul cristianesimo) del vivere italiano dell'Ottocento. (Andrea Riccardi)
- I promessi sposi, che han la fama esteriore di "romanzo storico", ma il cui centro artistico è una storia dell'uomo vista con una profonda calma e saggezza, eguagliata soltanto da quella di Goethe. (Giuseppe Prezzolini)
- I promessi sposi si collocano all'inizio della storia linguistico-culturale italiana che precede di pochi anni la nascita dello Stato unitario e l'affermarsi dell' Italia come nazione. Restano un' opera che accompagna la crescita dello spessore nazionale e l'identificazione di crescenti gruppi sociali nel destino nazionale. (Andrea Riccardi)
- La lettura dei Promessi Sposi è stata, credo, un grande strumento di normazione linguistica e ideologica ed è stato un coefficiente fra i tanti di una unificazione culturale della nazione dall'alto e un grande veicolo di uniformazione a partire da una base ideologica cattolico-moderata. Francamente non vedo che bisogno abbia la nazione di essere unificata linguisticamente e ideologicamente in questa maniera. La sostituzione del Manzoni con altri autori può essere un passo in avanti: naturalmente dipende dai testi prescelti, dalla disponibilità e preparazione degli insegnanti ad affrontare un lavoro diverso. Io vedrei positivamente un allargamento massiccio delle letture dei giovani di quindici anni e oltre: propenderei insomma per un pluralismo linguistico, per una moltiplicazione delle occasioni culturali. (Alberto Asor Rosa)
- Manzoni descrive quindi direttamente soltanto un episodio concreto della vita del popolo italiano: l'amore, la separazione e il ritrovarsi di un giovane e di una fanciulla, entrambi di condizione contadina. Ma nella sua rappresentazione il fatto si sviluppa in modo da diventare la generale tragedia del popolo italiano in una situazione di avvilimento e spezzettamento nazionale. Senza mai uscire da una concreta cornice locale e temporale; da una psicologia condizionata dall'epoca e dalla classe sociale, il destino dei due protagonisti diventa la tragedia del popolo italiano in genere. (György Lukács)
- Mi pare simile ad una donna di formosità rara, di nobile legnaggio, di maniere amabilissime, colta, giudiziosa, arguta, buona, modesta, caritatevole, padrona di tutti i cuori, prima in tutte le buone azioni, ma gesuitessa. (Luigi Settembrini)
- Minaccia
Ti strappo le unghie | e ti faccio | battere a macchina | un capitolo | dei "Promessi Sposi". (Marcello Marchesi) - Per questo il romanzo è da tenere sul comodino: rileggi la notte dell'Innominato, rileggi la fuga di Renzo verso l'Adda, rileggi la carestia e poi la peste. La musica della prosa manzoniana non ti lascia mai. (Carlo Fruttero)
- Può essere – e perché no? – che i promessi sposi vivano più a lungo di tutti gli altri romanzi ottocenteschi. Ma di quale vita? Artisticamente disinfettati al massimo, e preservati, fino agli ultimi limiti dell'ingegno umano, dai vermi della corruzione; questo sì, sono. Ma la cosa che è conservata! Nell'ipotesi più benigna un attacco di agorafobia. (Umberto Saba)
- [Riferendosi alla frase «Il coraggio, uno non se lo può dare»] Questa confessione è un così fedele e compiuto ritratto di Don Abbondio, circoscrive così bene l'angustia invincibile del suo spirito, svela una tale penosa coscienza della sua natura e una tale rassegnazione a non saperla mai varcare, che in questo momento il nostro giudizio tace. (Attilio Momigliano)
- Se la dottrina de' Promessi Sposi, quanto alla religione, è antica, quanto alla sapienza e liberalità, ond'è adoperata, ritrae palesemente dalla moderna filosofia. Da quella, che mentre pareva affaccendata ad isvellere dagli animi umani la fede, operava senza avvedersene a spargere nel mondo quegl'insegnamenti, per amore de' quali la fede appunto era stata negli animi umani raccolta; e di speculativi e gridati nelle scuole e nei tempî, li riduceva a pratica, cercando nelle umili case i popolani, troppo più che non vuole giustizia, caduti, e nelle regge i grandi, troppo più insorti, affinché si raffrontassero insieme e tornassero a scambievole conoscenza. (Giovita Scalvini)
- Se si leggono [...] con attenzione i Promessi Sposi, si vede chiaramente che il Manzoni, quando scriveva il suo grande romanzo, rispecchiava ancora, per ciò che concerne le idee filosofiche, lo spirito del sec. XVIII, che dal Sensismo era condotto all'Ideologia, all'analisi cioè delle idee, per ritrovarne gli originari elementi sensitivi. (Adolfo Faggi)
- Tra il Manzoni e gli «umili» c'è distacco sentimentale; gli umili sono per il Manzoni un «problema di storiografia», un problema teorico che egli crede di poter risolvere col romanzo storico, col «verosimile» del romanzo storico. Perciò gli umili sono spesso presentati come «macchiette» popolari, con bonarietà ironica, ma ironica. E il Manzoni è troppo cattolico per pensare che la voce del popolo sia voce di Dio: tra il popolo e Dio c'è la chiesa, e Dio non s'incarna nel popolo, ma nella chiesa. Che Dio s'incarni nel popolo può crederlo il Tolstoi, non il Manzoni. (Antonio Gramsci)
- Egli compone i Promessi Sposi perché gli Italiani avessero una conoscenza più compiuta di quel tempo; e il fatto che ci mette dev'essere mezzo a meglio farlo comprendere. Vengono fuori iPromessi Sposi. Che avviene? Quello che dovea essere mezzo, l'azione inventata, diviene il tutto; quello che dovea essere il principale diviene un materiale greggio e bruto in cui egli cela il suo ideale. Come Colombo che cercava le Indie occidentali e trovò l'America, egli cercava l'illustrazione storica e trova l'arte.
- Il romanzo storico, come lo concepiva Manzoni, non ci è qui, ed è bene che non ci sia. Ci è invece il vero romanzo storico, quale glielo fa incontrare il suo squisito senso d'artista. La storia è qui non la sostanza o lo scopo, ma la larga base, di dentro dalla quale esce alla luce la statua del pensiero e dell'immaginazione, una base non segregata e indipendente come un piedistallo, ma vera causa generatrice, il fondamento e il motivo occulto che mette in moto gl'inconsapevoli attori. Onde nasce quella fusione armonica della composizione, che desideri nelle sue tragedie storiche, dove la storia è dessa la sostanza e lo scopo, e rigetta dal suo seno ideali estranei invocati dall'immaginazione.
- Ne' Promessi Sposi linguaggio e stile non è costruito a priori, secondo modelli o concetti. L'è conseguenza di un dato modo di concepire, di sentire e d'immaginare. Lo stile è la combinazione delle due forze che aveva lo scrittore in così alto grado, la virtù analitica e la virtù immaginativa. Uso a decomporre, a distinguere, ad allogare secondo una certa misura o limite interno, che non è altro se non il senso del vero, l'espressione è sempre precisa e giusta, cioè vera, ed è insieme semplice, perché l'interna misura esclude ogni esagerazione ed ogni complicazione. Tutto è a posto, e tutto è nel suo limite; niente v'è di sì complesso, che non sia distinto e semplicizzato; perciò tutto è vero e tutto è semplice.
Citazioni in ordine temporale.
- I due romanzi [I promessi sposi e Dracula] presentano identità e analogie nelle strutture narrative e sotto l'aspetto tematico-figurativo, che intrattengono insomma un misterioso dialogo. [...] Dracula sembra essere il risultato di un processo che per certi aspetti è l'inverso del processo di depurazione del romanzesco che Manzoni ha fatto subire alla materia del suo romanzo. La morale cattolica (Stoker è irlandese) e la critica del potere, contenuti in fondo affini a quelli dei Promessi sposi, vengono messi in forma attraverso temi e tipi della letteratura gotica; con un processo, si direbbe, di letteralizzazione della metafora (o del simbolo): il vampiro, figura del dominio politico ed economico, letteralmente "succhia sangue al popolo" di cui è signore; simbolo del male nel suo aspetto contagioso, letteralmente si allea le sue vittime con un morso infetto sul collo.
- Il dominio e il contagio: i due più importanti caratteri del vampirismo, ma anche due temi cruciali nel romanzo di Manzoni. Il tema del dominio e quello del contagio sono, in definitiva, la materia del contenuto che i due romanzi hanno in comune e alla quale danno forma diversa [...]: Manzoni storicizza questi temi e (quasi) li priva di ogni alone romanzesco; Stoker, al contrario, li mitologizza, li interpreta in chiave decisamente fantastica.
- Se in Dracula troviamo qualche germe di romanzo storico e di critica del potere (attraverso la descrizione di una forma storicamente determinata di potere, non soltanto per metafore), nei feudatari ribaldi dei Promessi sposi resta qualcosa del vampiro.
- Nei Promessi sposi (che ancora una volta si rivelano complementari, da un certo punto di vista, al Dracula) manca il vampiro ma c'è la peste, la quale non cessa peraltro di avere riflessi gotici. Perdipiù il vampiro non manca del tutto: ci sono gli untori, strettamente imparentati con le streghe, e come queste e i vampiri emissari diretti del Demonio. Va notato poi che essi "contagiano" non soltanto in quanto diffondono la peste, ma anche nel senso che [...] reclutano nuovi untori con procedimenti che non è esagerato definire vampireschi. [...] Siamo dunque venuti a sapere, nonostante le reticenze di Manzoni, che c'era nella Milano del 1630 un arciuntore, un Demonio della Peste, una sorta di Dracula; e in definitiva possiamo affermare che nei Promessi sposi il vampiro c'è, seppure innominato.
- [I promessi sposi e Dracula] possono essere applicati (in senso proprio) l'uno sull'altro, se vengono confrontati dal punto di vista delle strutture narrative: i due libri raccontano la stessa storia, beninteso a un livello di senso abbastanza "profondo", ma non più del livello al quale sono identici l'Odissea e l'Ulisse di Joyce, o due varianti dello stesso mito in molti testi di mitologia comparata. [...] La principale macroposizione narrativa condivisa dai due romanzi è la seguente: un nobile, agente del Male (l'Avversario), vuole perturbare l'ordine appropriandosi della vergine promessa all'Eroe (le due Eroine si chiamano, fortunata omonimia, Lucy e Lucia).
- Il paradigma lavora dentro i I promessi sposi. Borsieri aveva presentato il Duomo di Milano come un'"artificiale montagna di sasso". La similmontagna si biblicizza subito in Manzoni, che le "pietre" di Dio contrappone ai "mattoni" dell'uomo; e la grandiosità della natura oppone alla "superbia" dell'ingegneria umana. L'occhio del montanaro Renzo si è educato alla contemplazione delle "alture di Dio"; ma a Milano è costretto a confrontarsi con l'"ottava meraviglia". Isola quindi la "macchina" dell'uomo. E la città diventa una scena vuota, ampia di solitudine. Dentro il metafisico deserto del perimetro urbano si alza l'umana superfetazione, fronteggiata, sulla linea dell'orizzonte, dalle dentaie del Resegone...
- Il Seicento del Fermo e Lucia ha una forte rilevatura barbarica. Di tipo tragico. E ancora nella lettera del Discorso sur alcuni punti della storia longobardica in Italia (1822): "[...] salvare una moltitudine dalle ugne atroci delle fiere barbariche". Di "unghie" e "sozzi artigli", che graffiano l'aria, il romanzo è stipato; come pure di varie "fiere": tanto che la stessa Lucia è "bella fera". La società è divisa in "facinorosi" e in "circospetti": bracchi e pernici; in cacciatori (talvolta leggiadri) e lepri; in uccellacci e uccellini; in diavoli incarnati e prede. Tutto il romanzo è una caccia all'uomo, crudele e barbarica. Che in parte sopravvive nei Promessi sposi, ma nella superiore dimensione del "patire" dell'adelchiano "[...] far torto o patirlo [...]" (V,7,52); e di una feroce forza che “il mondo possiede” (V,7,52-53). La morale della Chiesa “comanda di patire piuttosto che di farsi colpevole", dice Manzoni. E il principio viene indegnamente tradotto da don Abbondio, nel suo idioletto della paura: "Non si tratta di torto o di ragione; si tratta di forza".
- La scrittura è un metter nero su bianco, che impegna "così... dalla vita alla morte". Con la "gestuosa arte de' cenni" (ampiamente frequentata dalla trattatistica del Seicento, ed evocata da Manzoni nell'apertura del capitolo VI del primo tomo del Fermo e Lucia) condivide la qualità visibile della "muta favella": altro non è infatti, la scrittura, che un conversar "sulla carta [...] con parole mute, fatte d'inchiostro". Carta, penna e calamaio sono gli emblemi dell'"applicazione studiosa". Sono gli strumenti "del miglioramento umano" e della "coltura pubblica"; se per loro tramite si riversa nella società la scienza attiva di una biblioteca, come quella ambrosiana fondata da Federico Borromeo per confondere l'"ignorantaggine" e l'"inerzia" di un secolo capzioso agitato da malestri e turpitudini...
- La storia è un "immenso pelago di errori". La denuncia veniva dall'illuminismo giuridico. E da Dei delitti e delle pene di Cesare Beccaria, in particolare. Tutti gli errori, Manzoni compendia nella storia morale e politica del Seicento: l'incertezza del diritto, la legislazione eccessivamente proliferante che a colpi di gride sopporta l'arbitrio dei potenti e la manipolazione dei causidici, l'impunità organizzata delle classi e delle consorterie (e persino della Chiesa), la cultura economica irresponsabile e monopolistica (che blocca la libera concorrenza e impone la demagogia del prezzo politico), la persecuzione dell'onestà disarmata. Il romanzo di Manzoni aggredisce l'errore nei suoi punti di perversione. Con sdegno, senz'altro. Ma anche con compassione: "[...] la morale cattolica rimuove le cagioni che rendono difficile l'adempimento di questi due doveri, odio all'errore, amore agli uomini".
Note
modifica- ↑ Da I promessi sposi, a cura di Enrico Ghidetti, Feltrinelli, Milano, 2010, p. 42. ISBN 978-88-07-82162-2
- ↑ L'«uomo d'ingegno» è Pietro Verri e l'aforisma citato è presente in Pietro Verri, Osservazioni sulla tortura, in Scrittori classici italiani di economia politica: parte moderna, tomo XVII, p. 203.
Fonti
modificaBibliografia
modifica- Alessandro Manzoni, I promessi sposi (1840), tip. Guglielmini e Redaelli, Milano, 1840.
- Alessandro Manzoni, I promessi sposi, a cura di Enrico Ghidetti, Feltrinelli, 2010. ISBN 978-88-0782162-2
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