Francesco Petrarca

scrittore, filosofo, filologo e poeta italiano (1304-1374)
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Francesco Petrarca (1304 – 1374), scrittore, poeta e umanista italiano.

Francesco Petrarca

Citazioni di Francesco Petrarca

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  • A che ti giova insegnare agli altri [...], se intanto tu per primo non ascolti te stesso? (dalla Lettera a Cicerone, nella raccolta delle Familiares)
  • Ciò che ero solito amare, non amo più; mento: lo amo, ma meno; ecco, ho mentito di nuovo: lo amo, ma con più vergogna, con più tristezza; finalmente ho detto la verità. È proprio così: amo, ma ciò che amerei non amare, ciò che vorrei odiare; amo tuttavia, ma contro voglia, nella costrizione, nel pianto, nella sofferenza. In me faccio triste esperienza di quel verso di un famosissimo poeta: "Ti odierò, se posso; se no, t'amerò contro voglia"[1]. (da Ascesa al Monte Ventoso)
  • Dei magnati napoletani mi ricorda di avere una volta parlato con poco favore a cagione di certo barbaro spettacolo non so se tuttavia costì praticato, che allora mi mosse a sdegno e a ribrezzo. Ma per ben costumata che sia, non v' è città che alcuna cosa in se stessa non offra degna di biasimo: ed or m'avveggo come degnissimi essi si porgano di bella lode per animo liberale, per indole generosa, e per singolare fedeltà nell' amicizia. E questo vanto meritamente a loro consente la storia di Roma, che ridotta nella seconda guerra Punica allo stremo delle sue forze, abbandonata e combattuta da quasi tutta l' Italia, e tradita dai Capuani vostri vicini, che i benefizi ed i soccorsi da lei ricevuti rimeritarono con odio mortale e con gravissime ingiurie, dalla esimia fedeltà, e dalla liberale munificenza dei Napolitani ebbe nell'ora del suo più grave pericolo aiuto e sostegno. Perché gli antichi non meno che i recenti tempi mi porgono sicuri argomenti ad affermare che, chi veduta Napoli non se ne innamora, o non conosce che sia virtù, o non è capace di amarla.[2]
  • [Salerno] Fonte della medicina, e di un nobilissimo ginnasio, dove facilmente emerge ogni disciplina delle lettere.
Medicinæ fontem, ac gymnasium nobilissimum, ubi feliciter litterarum omnium disciplina consistit. (citato in La Chronique médicale, Volume 13)
  • Ho sempre avuto il massimo disprezzo per le ricchezze, non perché non mi piacessero, ma perché odiavo le fatiche e le preoccupazioni che ne derivano. (dalla Lettera ai posteri)
  • I libri fecero diventare dotti alcuni, altri pazzi.[3]
Libri quosdam ad scientiam, quosdam ad insaniam deduxere.
  • Il mondo, più che io lo giro, e meno mi piace.[4]
  • Il saggio muta consiglio, ma lo stolto resta della sua opinione.[5]
  • La fatica perseverante e la continua applicazione sono il cibo del mio spirito; quando comincerò a riposare e a rallentare il mio lavoro, allora cesserò anche di vivere.[6]
  • Non so saziare la brama di aver libri, avvegnaché già molti, e forse più del bisogno io ne possegga. Ma avvien de' libri, quello che di tutte le cose: più ti vien fatto cercando trovarne, e più l'avidità d'averne altri ti punge: anzi ne' libri v'è alcun che di singolare. L'oro, l'argento, le gemme, le ricche vesti, i marmorei palagi, il terreno ben colto, le dipinte tele, il bardato corsiero ed altre cose delle sì fatte dànno un piacere per dir così muto e superficiale: i libri ti recano un interno diletto, parlano teco, ti consigliano, e a te per certa viva e penetrante familiarità si congiungono.[7]
  • [I libri] Ora questi, ora quelli io interrogo, ed essi mi rispondono, e per me cantano e parlano; e chi mi svela i segreti della natura, chi mi dà ottimi consigli per la vita e per la morte, chi narra le sue e le altrui chiare imprese, richiamandomi alla mente le antiche età. E v'è chi con festose parole allontana da me la tristezza e scherzando riconduce il riso sulle mie labbra; altri m'insegnano a sopportar tutto, a non desiderar nulla, a conoscer me stesso, maestri di pace, di guerra, d'agricoltura, d'eloquenza, di navigazione; essi mi sollevano quando sono abbattuto dalla sventura, mi frenano quando insuperbisco nella felicità, e mi ricordano che tutto ha un fine, che i giorni corron veloci e che la vita fugge. E di tanti doni, piccolo è il premio che mi chiedono: di aver libero accesso alla mia casa e di viver con me, dacché la nemica fortuna ha lasciato loro nel mondo rari rifugi e pochi e pavidi amici.[8]
  • [Napoli], per molti rispetti eccellente, ha questo oscuro e vergognoso e inveterato malanno, che il girar di notte vi è non meno pauroso e pericoloso che tra folti boschi, essendo le vie percorse da nobili giovani armati, la cui sfrenatezza né la paterna educazione né l'autorità dei magistrati né la maestà e gli ordini del re seppero mai contenere. (da Familiarum rerum libri; in Francesco Petrarca, Opere, vol. I, Sansoni, 1990)
  • Piacciavi richiamare alla memoria quel tempo in cui felicissimi voi [genovesi] eravate tra tutti i popoli dell'Italia. Ero allora io fanciullo, e le cose vedute, quasi che sognate le avessi, confusamente rammento: ma viva sempre al pensiero ho la memoria dell'incantevole aspetto che di sè porgeva a levante e a ponente la vostra riviera, bella così da parere meglio celeste che non terrena dimora, simile a quella che la fantasia de' poeti dètte nei campi Elisi stanza ai beati, fra colli ameni, e deliziosi sentieri aperti nel seno delle verdeggianti convalli. Stupende a riguardarsi nell'alto torreggiavan le moli di superbi palagi: sorgevano a piè delle rupi le mermoree magioni de' vostri cittadini splendide al pari delle più splendide reggie, e a qualsivoglia città nobilissima invidiabil decoro: mentre vincitrice della natura l'arte vestiva gli sterili gioghi de' vostri monti di cedri, di viti, di olivi, spiegando all'occhio la pompa di una perpetua verdura. Aperti con ammirando artificio fra le rupi e gli scogli fermavan lo sguardo del navigante vaghissimi spechi, che sorretti da travi dorate echeggiavano al suono de' flutti, i quali spumeggiando si rompevano in sull'ingresso, e dentro ne spruzzavano le muscose pareti: ed ammirato il nocchiero alla novità dello spettacolo lasciavasi cadere il remo dalle mani, e fermava per meraviglia la barca a mezzo il corso. Che se per terra cammin facendo alcun traversasse le popolose vostre contrade, di quale stupore non lo colpivano le sontuosissime vesti, e la maestosa persona dei vostri cittadini, e delle vostre matrone, o il vedere nel mezzo de' boschi e delle remote campagne lusso e delizie da disgradarne le urbane magnificenze? Che se dentro le mura della vostra città finalmente ponesse il piede, in una città di re, siccome di Roma fu scritto, ed in un tempio sacro alla felicità e all'allegrezza d'essere entrato ei s'avvisava.[9]
  • Quegli cui non è castigo sufficiente una moglie, è degno di averne parecchie.[10]
Quem una uxor non castigat, dignus est pluribus.
  • Sento qualcosa di insoddisfatto nel mio cuore, sempre.
Sentioque inexpletum quiddam in precordiis meis semper. (da Secretum)
  • Sicilia di tiranni antico nido | vide triste Agatocle acerbo e crudo | e vide i dispietati Dionigi | e quel che fece il crudel fabro ignudo | gittare il primo doloroso strido | e far ne l'arte sua primi vestigi. (da Frammenti. Rime estravaganti, 20, vv. 65-70; p. 43)
  • [...] ventosa gloria è il cercar fama dalla splendidezza delle parole.[11]
  • Stringendo adunque il molto in poco rammenterò fra le cose umane nessuna esser più dolce dell'amicizia, nessuna più santa, dalla virtù in fuori, e quelli che per potenza e per valore agli altri sovrastano aver più che gli altri bisogno di veri amici, i quali entrino a parte con loro della prospera e dell'avversa sorte. Fa di non chiedere all'amico giammai cosa che onesta non sia, né mai piegarti a far per lui cosa tale; ma se onesta è la domanda, qualunque ella sia, e tu l'appaga. Tieni sempre per fermo tra gli amici tutto esser comune: uno l'amico, uno il volere, non mutabile né per timore né per speranza, né per pericolo: dover ciascuno amare l'amico come se stesso, ed esser cieco a qualunque disparità di condizione; cerca in somma per tutti i modi che si avveri quel che Pitagora dice, cioè di due doversi far uno. [...] Noi non miriamo a cose impossibili, ma stiamo contenti a quelle, cui ci è dato di aggiungere secondo le leggi della umana natura: e fra queste è l’amicizia della quale parliamo. Poche, rarissime sono le coppie a noi conosciute di amici legati da un amore perfetto e sublime come quello che rese famosi i nomi di Lelio, e del minore Africano. Ma se stretta è fra i buoni, anche l’ordinaria amicizia riesce dolce e soave: come quella che non ammette adulazione, non conosce contumelie, ingiurie, disprezzo, mai non viene a discordia, mai nulla ambisce fuor che i vantaggi e l'onor dell'amico, e piena di letizia e di pace tutta si consola e si bea nel mutuo consorzio. Nulla in essa di finto, di doppio, di simulato, di occulto, ma tutto è schiettezza e candore: per guisa che comuni fra gli amici sono i consigli, le opere, gli onori, le ricchezze, l'ingegno, il sangue, e perfin la vita.[12]

Canzone ai Grandi d'Italia

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  • Che fan qui tante pellegrine spade? (P. IV, canzone IV, nell'edizione Marsand; canz. XVI nell'ed. Mestica)
  • [Chè] L'antiquo valore | Ne l'italici cor non è ancor morto. (P. IV, canzone IV, nell'edizione Marsand; canz. XVI nell'ed. Mestica)
  • Io parlo per ver dire | Non per odio d'altrui né per disprezzo. (XVI dell'ed. Mestica, 4)
  • I'vo gridando: pace, pace, pace. (num. XVI dell'edizione Mestica, ultimo verso)

Canzoniere

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Incipit nell'edizione 1470

Voi ch'ascoltate in rime sparse il suono
di quei sospiri ond'io nudriva 'l core
in sul mio primo giovenile errore
quand'era in parte altr'uom da quel ch'i' sono,
del vario stile in ch'io piango et ragiono
fra le vane speranze e 'l van dolore,
ove sia chi per prova intenda amore,
spero trovar pietà, nonché perdono.

Citazioni

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  • Vegnendo in terra a'lluminar le carte | ch'avevan molt'anni già celato il vero | tolse [Gesù Cristo] Giovanni da la rete et Piero, | et nel regno del ciel fece lor parte. (VI, 5-8)
  • L'alma che sol da Dio facta gentile, | ché già d'altrui non po' venir tal gratia, | simile al suo factor stato ritiene: | però di perdonar mai non è sacia | a chi col core et col sembiante umile | dopo quantunque offese a mercé vène. (XXIII, 121-126)
  • Non era l'andar suo cosa mortale, | ma d'angelica forma; e le parole | sonavan altro che, pur voce umana; (XC, 9-11)
  • Pace non trovo, et non ò da far guerra; | e temo, et spero; et ardo, et son un ghiaccio;| et volo sopra 'l cielo, et giaccio in terra;| et nulla stringo, et tutto 'l mondo abbraccio. (CXXXIV, 1-4)
  • Il bel paese | ch'Appennin parte e 'l mar circonda e l'Alpe. (CXLVI, 13-14)
  • Chiare, fresche et dolci acque, | ove le belle membra | pose colei che sola a me par donna; | gentil ramo ove piacque | (con sospir' mi rimembra) | a lei di fare al bel fiancho colonna; | herba et fior' che la gonna | leggiadra ricoverse | co l'angelico seno; | aere sacro, sereno, | ove Amor co' begli occhi il cor m'aperse: | date udïenza insieme | a le dolenti mie parole extreme. (CXXVI, 1-13)
  • O viva morte, o dilectoso male (CXXXII, 7)
  • Ché bel fin fa chi ben amando more. (CXL, 14)
  • Et veggio 'l meglio, et al peggior m'appiglio. (CCLXIV, 136)
  • Cosa bella e mortal passa e non dura. (CCXLVIII, 8)
  • Chi pò dir com'egli arde [d'amore], è 'n picciol foco. (CLXX, 14)
  • Alma real, dignissima d'impero (CCLXVII, 7)
  • Cercato ò sempre solitaria vita | (le rive il sanno, et le campagne e i boschi) | per fuggir questi ingegni sordi et loschi, | che la strada del cielo ànno smarrita [...]. (CCLIX, 1-4)
  • [Sull'alloro] Arbor victorïosa trumphale, | onor d'imperadori et di poeti. (CCLXIII, 1-2)
  • La vita fugge e non s'arresta un'ora. (CCLXXII, 1)
  • Questo nostro caduco e fragil bene | ch'è vento ed ombra ed à nome beltade. (CCCX, 1-2)
  • Drez et rayson es qu'ieu ciant e 'm demori. (Lasso me, ch'i' non so in qual parte pieghi)
Diritto e ragione è che canti e mi sollazzi.
  • La vita el fin, e 'l dí loda la sera. (Nel dolce tempo de la prima etade)
  • Povera et nuda vai philosophia. (La gola e 'l somno et l'otïose piume)
  • Quel rosignol, che sí soave piagne, | forse suoi figli, o sua cara consorte, | di dolcezza empie il cielo et le campagne | con tante note sí pietose et scorte. (Quel rosignol, che sí soave piagne)
  • Regnano i sensi, et la ragion è morta. (Voglia mi sprona, Amor mi guida et scorge)
  • Sarò qual fui, vivrò com'io son visso. (Ponmi ove 'l sole occide i fiori et l’erba)
  • Seguite i pochi, et non la volgar gente. (Poi che voi et io piú volte abbiam provato)
  • Un bel morir tutta la vita honora. (Ben mi credea passar mio tempo omai)
  • Vertú contra furore | prenderà l'arme, et fia 'l combatter corto: | ché l'antiquo valore | ne gli italici cor' non è anchor morto.[13] (Italia mia, benché 'l parlar sia indarno)

Citazioni sul Canzoniere

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  • Laura è certamente esistita. È esistita; ed era, alla luce di tutti i giorni, una bionda signora, nelle profondità inaccesse (infantili) dell'anima del poeta, era sua madre; era la donna che non si può avere. E tutta la fascinosa, un po' monotona, storia del Canzoniere, di venti e più anni di corteggiamenti, per non arrivare, per voler non arrivare a nulla, è qui. Se Laura che lo loda, lo rimprovera, lo ammonisce a ben fare, siede in sogno sulla sponda del suo letto, si comporta in tutto e per tutto come una tenera madre col suo amato, e un po' indiscreto bambino, gli si fosse data (ma è questo che il poeta – fingendo desiderarlo – temeva; il Canzoniere è pieno di accenti di gratitudine per quelle che colla sua «virtù», colla sua «castità» gli risparmiava, con la tentazione, il pericolo di fare una brutta figura) sarebbe accaduto al Petrarca quello che accadde al Baudelaire con la bella signora Sabatier, e che non gli accadeva con la sua triste mulatta. La figura di Laura assorbì tutta la tenerezza del poeta. La sua sensualità egli la rivolse ad altro (ebbe – si racconta – non infecondi amori ancillari); a donne che, per la diversità delle origini, non potevano richiamare al suo inconscio, sempre vivo e vigile, la presenza – ben altrimenti diletta! – della madre. Ma l'amore, l'amore vero, l'amore intero, vuole una cosa e l'altra; vuole la fusione perfetta della sensualità e della tenerezza: anche per questo è raro. Così non c'è, in tutto il lungo Canzoniere, un verso, uno solo, che possa propriamente dirsi d'amore; molte cose ci sono ma non la bocca mi baciò tutto tremante[14], il più bel verso d'amore che sia stato scritto. (Umberto Saba)

De vita solitaria

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Originale

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Credo ego generosum animum, preter Deum ubi finis est noster, preter seipsum et archanas curas suas, aut preter aliquem multa similitudine sibi coniunctum animum, nusquam acquiescere; etsi enim voluptas tenacissimo visco illita et blandis ac dulcibus plena sit laqueis, fortes tamen circa terram alas detinere diutius non potest.

Marco Noce

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Io credo che un animo nobile, eccetto che in Dio, dov'è il nostro fine estremo, eccetto che in sé stesso e nei suoi segreti pensieri o in qualche animo a lui congiunto da una grande affinità, non trovi pace in alcun luogo. Benché infatti il piacere sia cosparso di un visco tenacissimo e sia pieno di lacci attraenti e dolci, non potrebbe tuttavia trattenere a terra troppo a lungo le ali forti.

Tito Vespasiano Strozzi

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Io credo che l'animo generoso non si riposa né si contenta se non in Dio, nel quale è il nostro fine, veramente in sé stesso con gli suoi secreti pensieri, o veramente in alcuno altro animo molto simile a lui, peroché sebene il diletto mundano è impaniato di tenacissimo vischio, e pieno di lusinghevoli e dolci lacci, nientedimeno egli non è potente a tenere lungamente in terra le ale che sono forti, cioè la mente dell'uomo magnanimo, disposta e intenta a cose grandi e alte.

[Francesco Petrarca, La vita solitaria, 2 voll., traduzione di Tito Vespasiano Strozzi, Romagnoli, 1879, vol. I.]

Citazioni

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  • [...] ogni persona indaffarata è infelice e [...] lo è doppiamente se è alle dipendenze di un'altra persona, poiché ha la propria infelicità, ma non gode dei suoi frutti vantaggiosi. (lib. I, cap. III; 1992, p. 45)
[...] omnis occupatus miser, occupatusque sub alio bis miser, quod et miseriam suam habet et ipso miserie fructu caret.
  • [...] una verità universale, certo, non crolla per pochissime obiezioni. (lib. I, cap. III; 1992, p. 47)
[...] paucissimis quidem instantiis universale verum dogma non quatitur.
  • Ahimè, com'è forte in me il timore che tra coloro che pretendono d'essere considerati custodi delle pecore malate vi siano dei lupi che divorino quelle sane! (lib. I, cap. III; 1992, p. 53)
Et heu quam vereor nequi forsan ex his, qui se custodes infirmarum ovium dici volunt, lupi sint sanasque dilanient.
  • Ogniqualvolta decidiamo di intraprendere o di cambiare genere di vita, dobbiamo tenere innanzi agli occhi soprattutto questo: di non seguire la via che ci apparirà più splendida, ma quella che sarà più adatta a noi, confidando non su una vana passione, ma sulla guida della natura. (lib. I, cap. IV; 1992, p. 59)
In omni quidem ordiende mutandeque vite consilio, illud imprimis ante oculos habendum ut, non concupiscentia inani sed natura duce freti, viam teneamus non que speciosissima videbitur, sed que aptissima nobis erit.
  • La solitudine è santa, semplice, incorrotta e davvero la più pura di tutte le cose umane. (lib. I, cap. IV; 1992, p. 65)
Solitudo quidem sancta, simplex, incorrupta vereque purissima rerum est omnium humanarum.
  • [...] molti possono essere costretti ad affermare qualcosa, nessuno a credervi. (lib. I, cap. IV; 1992, p. 67)
[...] ad fatendum multi, ad credendum nemo cogitur.
  • [...] la fine dell'infelicità è l'inizio della felicità, poiché la legge dei contrari esige che, dove questa termini, quella abbia principio. (lib. I, cap. V, pp. 75 e 77)
[...] miserie finis felicitatis initium est, natura contrariorum exigente ut ubi hoc desinit illud incipiat.
  • Ho provato gli stimoli che essa dà all'animo, le ali che fornisce all'ingegno, il tempo che accorda libero al lavoro: tutte cose che non saprei dove cercare al di fuori della solitudine. (lib. I, cap. VI; 1992, p. 91)
Sentio quos animo stimulos, quas alas ingenio, quod illa operi vacuum tempus accomodat, que omnia preter illam ubi queram nescio.
  • [...] e in verità mai mi sembrerà che la presenza di un amico interrompa la solitudine, bensì che la adorni. (lib. I, cap. VII; 1992, p. 109)
[...] nec vero michi unquam amici presentia interrumpi solitudo videbitur sed ornari.
  • Come è grande dunque il piacere, come è grande la sicurezza data dalla solitudine che ha attraversato tutti i pericoli ed enumera, alle sue spalle, lontano, i propri mali! Che gioia aver superato illesi i casi funesti e, al bivio, se a sinistra c'era la morte, essersi trovati a destra; e tanto maggiore è la gioia quanto più si era inclini a scegliere l'altra direzione. La natura ha infatti questa peculiarità: quanto più grave e più presente si rammenta il pericolo, tanto più si gioisce per averlo superato. (lib. I, cap. VIII; 1992, p. 113)
Quanta ergo delectatio, quanta securitas solitudinis, metuenda quelibet emense et a tergo procul sua mala numerantis! Quam delectat illesum transisse pestifera et in bivio, ubi ad levam mors erat, dextrorsum tenuisse, eoque magis quo in partem alteram deliberatio pronior fuit! Habet enim hoc natura ut, ubi maius presentiusque discrimen fuisse recolitur, ibi de preterito plus gaudii sit.
  • Benché infatti ogni natura abbia i propri difetti, tuttavia gran parte dei mali deriva da una sorta di emulazione e dalla smania di imitare. (lib. I, cap. VIII; 1992, p. 121)
Etsi enim cuiusque natura suis vitiis abundet, magna tamen pars malorum ex emulatione quadam imitandique libidine nata est.
  • Non cesserà mai di essere in ansia chi sarà sempre proteso verso il domani: nessun giorno infatti, eccetto l'ultimo, sarà privo di un domani e nessuno, eccetto il primo, non è stato il domani di qualche altro giorno. (lib. I, cap. VIII; 1992, p. 133)
Numquam pendere desinet, qui in crastinum pendebit; nullus enim dies preter ultimum crastino carebit, nullus preter primum non alicuius diei crastinus fuit.
  • [...] a poco a poco, in ogni luogo della terra, tutto decade: tutti i buoni costumi hanno breve durata, quelli cattivi invece sono eterni. (lib. I, cap. IX; 1992, p. 137)
[...] nam et inde nunc absum, et ubique terrarum cunta paulatim in deterius cedunt, omnes boni mores brevis evi sunt, mali autem immortales.
  • [...] fuggire le sciagure che non possiamo mettere in fuga. (lib. I, cap. IX; 1992, p. 141)
[...] ut pestes, quas fugare non possumus, fugiamus [...].
  • La solitudine – a volerla debitamente definire – è di tre tipi: del luogo [...]; del tempo, ovverosia delle notti, quando anche nel foro c'è solitudine e silenzio; dell'animo, ovverosia di quelli che, per la straordinaria capacità di concentrarsi nella contemplazione, si sottraggono al mezzogiorno e alla piazza affollata e ignorano che cosa vi succeda e sono soli in qualunque momento e luogo vogliano esserlo. (lib. II, cap. VI; 1992, p. 197)
Triplex nempe, si rite complector, solitudo est: loci scilicet [...]; temporis, qualis est noctium, quando etiam in rostris solitudo silentiumque est: animi, qualis est eorum qui vi profundissime contemplationis abstracti luce media et frequenti foro quid illic geratur nesciunt, qui quotiens et ubicunque voluerint soli sunt.
  • Ricerco inoltre libri di generi differenti che, per gli autori che li hanno scritti o per gli argomenti di cui trattano, siano nello stesso tempo compagni graditi e fedeli, pronti sia a uscire in pubblico sia a ritornare nello scrigno a un tuo cenno e sempre disposti a tacere o a parlare, a restare a casa o ad accompagnarti nei boschi, a fare lunghi viaggi e a vivere in campagna, a discorrere, a scherzare, a esortarti, a consolarti, ad ammonirti, a biasimarti, a darti consigli, a rivelarti i segreti delle cose e le imprese memorabili, a insegnarti le regole della vita e il disprezzo della morte, la moderazione nella buona sorte, la costanza nell'avversa, l'imperturbabilità e la fermezza nel comportamento: compagni dotti, lieti, utili e facondi, non sono mai motivo di noia, di spesa, di lamenti, di brontolii, d'invidia o d'inganno. E mentre ci arrecano tanti vantaggi, non hanno bisogno di cibo né di bevanda e son contenti di una povera veste e di un cantuccio della casa; essi stessi però offrono ai loro ospiti inestimabili ricchezze spirituali, vaste dimore, splendidi abiti, piacevoli banchetti e cibi prelibati. (lib. II, cap. XIV; 1992, p. 313)
Libros preterea diversi generis et simul per quos aut de quibus scripti sunt comites gratos et assiduos, et promptos vel in publicum prodire vel ad arculam redire cum iusseris, paratosque semper vel tacere vel loqui, et esse domi, et comitari in nemora, et peregrinari, et rusticari, et confabulari, et iocari, et hortari, et solari, et monere, et arguere, et consulere, et docere secreta rerum, monimenta gestorum, vite regulam mortisque contemptum, modestiam in prosperis, fortitudinem in adversis, equabilitatem in actionibus atque constantiam: comites doctos, letos, utiles ac facundos, sine tedio, sine impendio, sine querela, sine murmure, sine invidia, sine dolo; interque tot commoda, nullo cibo interim, nullo potu et veste inopi et angusta domus parte contentos, cum ipsi potius hospitibus suis inextimabiles animi divitias, amplas domus, fulgidas vestes et iucunda convivia ac suavissimos cibos parent.

Itinerarium Siriacum

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  • Veniamo a Genova, che dici di non aver mai visto. Vedrai una città regale, addossata ad una collina alpestre, superba per uomini e per mura, il cui solo aspetto la indica signora del mare; la sua stessa potenza, come è già accaduto a molte città, le nuoce e le reca danno, perché offre materia alle contese e alle gelosie cittadine.
  • [...] di questa ammirerai ora il comportamento dei cittadini, la posizione dei luoghi, lo splendore degli edifici e soprattutto la flotta, formidabile e temibile per ogni nazione come è stato scritto di quella di Tiro; ammirerai il molo opposto al mare e il porto, opera dell'uomo, di inestimabile valore e di molto lavoro, che invano colpiscono le quotidiane tempeste.
  • Quando avrai diligentemente osservato questa città, il litorale che l'avvolge a destra e a sinistra, i monti che sovrastano i flutti, inoltre le persone, gli animi forti ed il comportamento della gente, sappi di aver visto quel secondo coltello che per molti anni, con un esercizio continuo, affilò la spada del valore romano.

Le Epistole familiari

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  • Ti verrà forse all'orecchio qualcosa di me, sebbene sia dubbio che il mio povero, oscuro nome possa arrivare lontano nello spazio e nel tempo. E forse ti piacerà sapere che uomo fui, quale la sorte delle opere, soprattutto di quelle la cui fama sia giunta sino a te e di cui tu abbia sentito vagamente parlare.
  • Sono stato uno della vostra specie, un povero uomo mortale, di classe sociale né elevata né bassa; di antica famiglia, come dice di se stesso Cesare Augusto; di temperamento per natura né malvagio; né senza scrupoli, se non fosse stato guastato dal contatto abituale con esempi contagiosi.
  • L'adolescenza mi illuse, la gioventù mi traviò, ma la vecchiaia mi ha corretto e con l'esperienza mi ha messo bene in testa che era vero quel che avevo letto tanto tempo prima; che i godimenti dell'adolescenza sono vanità.
  • Ebbi la fortuna di godere la familiarità dei principi e dei re, e l'amicizia dei nobili, tanto da esserne invidiato.
  • Mi travagliò quand'ero molto giovane, un amore fortissimo; ma il solo, e fu puro; e più a lungo ne sarei stato travagliato se la morte, crudele ma provvidenziale, non avesse spento definitivamente quella fiamma quand'ormai era languente.
  • I più grandi re del mio tempo mi vollero bene e mi onorarono – il perché non lo so; è cosa che riguarda loro – e con certuni ebbi rapporti tali che in certo qual modo erano loro a stare con me; e dalla loro grandezza non ebbi noie, ma molti vantaggi.

[Francesco Petrarca, Le Epistole familiari; citato in Carlo Salinari, Profilo storico della letteratura italiana, Editori Riuniti, 1972]

  • [su Richard de Bury] ... uomo di vivace ingegno, esperto abbastanza di lettere [...] che fin dai primi anni fu delle riposte cose curiosissimo indagatore... Ed egli [quando gli chiesi notizie dell'isola di Tile] o che sperasse potermi mantener la promessa, o che vergognasse di confessare la propria ignoranza [...], o che per avventura (né vorrei crederlo) sentisse invidia dell'aprirmi questo segreto, risposemi che avrebbe sciolto il mio dubbio quando fosse tornato alla sua patria ed ivi avesse potuto consultare i suoi libri, de' quali aveva copia tragrande.

[Lettere di Francesco Petrarca delle cose familiari libri ventiquattro, vol. 1, traduzione di Giuseppe Fracassetti, Felice Le Monnier, Firenze 1863]

  • Solo al medico è conceduto dar morte agli uomini impunemente.
  • Non sono né vivo né sano, né morto né malato; allora soltanto comincerò a vivere e a star bene, quando troverò l'uscita di questo labirinto. A tal fine tutto son rivolto, a questo solo mi adopro. (da XII, 10)

[Lettere di Francesco Petrarca delle cose familiari libri ventiquattro, vol. 2, traduzione di Giuseppe Fracassetti, Felice Le Monnier, Firenze 1864]

  • ...[il] malanno immedicabile, oscuro, osceno, inveterato di questa città, sotto mille altri rispetti preclarissima, per cui il girare di nottetempo qui non si fa con minor paura e pericolo che in mezzo ai folti boschi: conciossiachè le strade sien piene di nobili giovani armati tutti, le immoderatezze de' quali nè la paterna educazione, nè l'autorità de' magistrati, nè la maestà e l'impero dei re valsero mai a raffrenare. Ma come meravigliare che fra le ombre della notte e senza alcun testimonio taluno ardisca commetter delitti, se a pieno giorno, alla vista del popolo, al cospetto dei re, in questa città d'Italia con ferocia da disgradarne i barbari si esercita l'infame giuoco de gladiatori: e come sangue di pecore l'umano sangue si sparge, e, plaudente l'insano volgo affollato, sotto gli occhi de miseri genitori si scannano i figli, e tiensi a disonore l'offerire con ripugnanza la gola al pugnale, quasi che per la patria o per la gloria della vita celeste si combattesse? Di tutto questo inconsapevole io fui condotto un giorno a certo luogo vicino della città chiamato Carbonaria: nome veramente acconcio alla cosa: imperocché quella scelerata officina deturpa e denigra gli spietati fabbri che ivi si affaticano sull'incudine della morte. Era presente la Regina, presente Andrea re fanciullo, che di sè promette riuscir magnanimo, se pur riesca a porsi in capo la contrastata corona: v'eran le milizie di Napoli, delle quali invan cercheresti le più attillate e più eleganti: popolo v'era venuto in folla da tutte parti. A tanto concorso di gente, e a tanta attenzione d'illustri personaggi sospeso, fiso io guardava aspettando di vedere qualche gran cosa, quand'ecco come per lietissimo evento un indicibile universale applauso s'alza alle stelle. Mi guardo intorno e veggo un bellissimo garzone trapassato da freddo pugnale cadermi ai piedi. Rimasi attonito, inorridito; e dato di sproni al cavallo, rampognando l'inganno de'miei compagni, la crudeltà degli spettatori, la stoltezza de'combattenti, all'infernale spettacolo ebbi volte le spalle. Questa doppia peste, o padre mio, quasi eredità de maggiori venne e s'accrebbe ne'posteri, e giunse a tale che la licenza del commetter delitti in conto di dignità e di libertà vien reputata. (da Lettera IV a Giovanni Colonna Cardinale, Napoli, 1 dicembre 1343, pp.31-32)
  • Povera e nuda vai, Filosofia. (sonetto I secondo la numerazione di Marsand, sonetto VII secondo Mestica)
  • Vergine bella che di sol vestita, | Coronata di stelle, al sommo Sole | Piacesti si, che 'n te sua luce ascose, | Amor mi spinge a dir di te parole; | Ma non so incominciar senza tu' aita, | E di Colui che amando in te si pose. | Invoco lei che ben sempre rispose, | Chi la chiamò con fede. (da Canzone VIII)
  • Se dal mio stato assai misero e vile | Per le tue man resurgo | Vergine, l' sacro e purgo | Al tuo nome e pensieri e 'ngegno e stile, | La lingua, e 'l cor, le lagrime e i sospiri. (da Canzone VIII)
  • Raccomandami al tuo Figliol, verace | Uomo e verace Dio | Che accolga 'l mio spirto ultimo in pace. (da Canzone VIII)
  • Vergine chiara e stabile in eterno, | Di questo tempestoso mare Stella, | D' ogni fedel nocchier fidata guida, | Pon mente in che terribile procella | I mi ritrovo sol senza governo, | Ed ho già da vicin l' ultime strida: | Ma pur in te l'anima mia si fida. (da Canzone VIII)
  • Tennemi Amor anni ventuno ardendo | Lieto nel foco, e nel duol pien di speme: | Poiché Madonna e 'l mio cor seco insieme | Saliro al ciel, dieci altri anni piangendo. (da Sonetto LXXXIV)

Sonetti sopra varj argomenti

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  • [Sullo stil nuovo] Tra lo stil de' moderni e 'l sermon prisco. (son. VII, com.: S'Amore o Morte non dà qualche stroppio; son. XXXII nell'ed. Mestica)
  • I' da man manca, e' tenne il camin dritto: | I' tratto a froza, ed e' d'Amore scorto: | Egli in Jerusalem, ed io in Egitto. (XVII, che comincia: Quanto più disiose l'ali spando; son. CVIII nell'ediz. Mestica)
  • Ira è breve furor. (XIX: CXCVI nell'ed. Mestica).

Sonetto in vita di M. Laura

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  • La vita el fin e 'l dì loda la sera (I, 4 nell'ed. Marsand, p. 25 nell'ed. Mestica)[15]
  • Da me son fatti i miei pensier diversi. (num. II secondo il Marsand, canz. III dell'ediz. Mestica)[15]
  • Tempo non mi parea da far riparo | Contr' a' colpi d'Amor. (num. 3)
  • La noia e 'l mal della passata via. (num. IV secondo Marsand, canz. V dell'ediz. Mestica, v. 11)[15]
  • El più bel fior ne colse. (VIII secondo Marsand, X nell'ed. Mestica)[15]
  • Intendami chi po', ch'i' m'intend'io. (num. IX secondo Marsand; canz. XI secondo Mestica; v. 17)[15]
  • E già di là dal rio passato è 'l merlo. (Num. IX, nell'ed. Marsand, num. XI nell'ed. Mestica)[15]
  • I' benedico il loco e 'l tempo e l'ora. (Num. X, secondo il Marsand, com.: Quando fra l'altre donne ad ora ad ora; nell'ed. Mestica, son. XII)[15]
  • Veggio 'l meglio ed al peggior m'appiglio. (Num. XVII nell'ed. Marsand, sonetto XXI nell'ed. Mestica)[15]
  • Nel mondo | Sua ventura ha ciascun dal dì che nasce. (Num. XXXV nell'ed. Marsand, sonetto CCLXII nell'ed. Mestica)[15]
  • Che 'nanzi al dì de l'ultima partita | Uom beato chiamar non si convene. (Num. XXXVI nell'ed. Marsand, sonetto XLIII nell'ed. Mestica)[15]
  • Non era l'andar suo cosa mortale | Ma d'angelica forma. (XLI nell'ed. Marsand, LXIX nell'ed. Mestica)[15]
  • Poi che mia speme è lunga a venir troppo. (n. LIX secondo Marsand, LXVII secondo Mestica, v. 1)[15]
  • Seguite i pochi, e non la volgar gente. (num. LXVII secondo il Marsand, son. LXXIII dell'ed. Mestica)[15]
  • Né del vulgo mi cal né di fortuna. (num. LXXVIII secondo il Marsand, sonetto XCI secondo il Mestica)[15]
  • Femina è cosa mobil per natura: | ond'io so ben ch'un amoroso stato | in cor di donna picciol tempo dura. (Se 'l dolce sguardo di costei m'ancide, Num. CXXXI nell'ed. Marsand, sonetto CL nell'ed. Mestica)[15]
  • Lo spirito è pronto, ma la carne è stanca. (Num. CLIV nell'ed. Marsand, sonetto CLXXIII nell'ed. Mestica)[15]
  • [...] Morte fura | prima i migliori, e lascia star i rei [...]. (Num. CXC nell'ed. Marsand, sonetto CCX nell'ed. Mestica)[15]

Trionfi

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Al tempo che rinnova i miei sospiri
per la dolce memoria di quel giorno
che fu principio a sì lunghi martiri,
già il sole al Toro l'uno e l'altro corno
scaldava, e la fanciulla di Titone
correa gelata al suo usato soggiorno.

Citazioni

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Trionfo d'Amore

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  • Così or quinci or quindi rimirando, | Vidi in una fiorita e verde piaggia | Gente che d'amor givan ragionando. | Ecco Dante e Beatrice; ecco Selvaggia; | Ecco Cin da Pistoja; Guitton d'Arezzo. | Che di non esser primo par ch'ira aggia. | Ecco i duo Guidi che già furo in prezzo; | Onesto Bolognese; e i Siciliani, | Che fur già primi, e quivi eran da sezzo. (IV, 35)
  • I' che gioir di tal vista non soglio | per lo secol noioso in ch'i' mi trovo, | voto d'ogni valor, pien d'ogni orgoglio, | l'abito in vista sì leggiadro e novo | mirai, alzando gli occhi gravi e stanchi, | ch'altro diletto che 'mparar non provo. (I, 16)
  • Tal biasma altrui che sè stesso condanna. (I, 118)
  • Stanco già di mirar, non sazio ancora. (II, 1)
  • Ben è 'l viver mortal, che sì n'aggrada, | Sogno d'infermi e fola di romanzi. (III, 65-66)
  • Tutti siam macchiati d'una pece. (III, 99)
  • S'Affrica pianse, Italia non ne rise. (IV, 83)
  • Ragion contra forza non ha loco. (IV, 111)

Trionfo del Tempo

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  • Nel fuggir del sole | La ruina del mondo manifesta. (68-69)
  • Infinita è la schiera degli sciocchi. (87)
  • Passan vostri triunfi e vostre pompe, | Passan le signorie, passano i regni; | Ogni cosa mortal Tempo interrompe. (111-114)

Trionfo dell'Eternità

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  • Passa il penser sì come sole in vetro, | anzi più assai, però che nulla il tene.

Trionfo della Morte

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  • [...] degna | di poema chiarissimo e d'istoria. (I, 17-18; citato in Giuseppe Fumagalli, Chi l'ha detto?, Hoepli, 1921, p. 542)
  • O ciechi, il tanto affaticar che giova? | Tutti torniamo a la grande madre antica, | e il nome nostro a pena si ritrova. (I, 88-89)
  • La morte è fin d'una pregione oscura | a l'anime gentili; a l'altre è noia, | ch'hanno posto nel fango ogni lor cura. (II, 35-37)
  • [...] che altro ch'un sospir breve è la morte? (II, 52)

Trionfo della Fama

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[Marco Tullio Cicerone] [...] un al cui passar l'erba fioriva: | questo è quel Marco Tullio in cui si mostra | chiaro quanti eloquenzia ha frutti e fiori [...] (III, 18-20, Rizzoli, 1957, [1]), p. 37)

Trionfo della Pudicizia

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  • Pensier canuti in giovenil etate. (88)
  • Passammo al tempio poi di Pudicizia, | ch'accende in cor gentil oneste voglie, | non di gente plebeia ma di patrizia. (181-183)

Incipit de Le senili

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Scrivendo un giorno al mio Socrate io mi doleva che l'anno del secol nostro 1348, per la morte di tanti amici, tutte quasi mi avesse rapite le consolazioni della vita: e ben mi ricorda quanti furono allora i miei lamenti e le mie lagrime. Ora che far dovrò in questo anno sessantunesimo, che non solo di ogni altro tesoro, ma di quello che sopra tutti m'ebbi prezioso e carissimo, di Socrate mio, m'ebbe spogliato?

Citazioni su Francesco Petrarca

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  • Ah! se il cantor di Laura avesse consacrato tutte le sue pagine al santo amore, di qual celeste armonia non ci beerebbe il suo canto immortale! (Guglielmo Audisio)
  • Ciò che conta del Petrarca in una storia della lingua italiana è solo la sua lirica; di prosa italiana non abbiamo nulla (non contano le poche righe di una lettera a Leonardo Beccanugi); lontana e indiretta è l'importanza delle sue opere latine. (Bruno Migliorini)
  • Ciò che nella letteratura antica valse ad affascinarlo fu il suo carattere d'opera d'arte. Per la prima volta, dopo secoli, la perfezione della forma determinava le predilezioni d'un intelletto. Quella ricerca del bello per se stesso, quella distinzione fra le produzioni che lo rivelano in modo diverso, costituiscono una delle iniziative del Petrarca più feconde, e restaurano al tempo stesso, alla fine di quel Medioevo a cui rimase ignota, la critica letteraria... (Pierre de Nolhac)
  • È nota l'avversione o, a meglio dire, il disprezzo del Petrarca pei medici, ai quali prestava poca o punta fede. I medici se ne vendicarono ingiuriandolo e calunniandolo, ed egli si sfogò contro di essi in invettive, delle quali, per tacere dei famosi quattro libri contra medicum quemdam, abbonda il suo Epistolario. (Antonio Zardo)
  • Il Petrarca avea saputo mostrare il suo valore artistico e letterario sì nella lingua latina che nell'italiana o volgare; ma già egli stesso si era pentito e domandava perdono di quei suoi sospiri in rima e più volte dichiarò che in faccende casalinghe usava il volgare, perché il latino non si poteva abbassare a simili argomenti. (Remigio Sabbadini)
  • La provenienza di Dante è aristotelica: scuola, dunque, d'uno che ha prepotentemente creduto nell'uomo animale politico, nella città, nel cittadino... Dire "civis" è lo stesso che dire "civilitas" e difatti su codesti termini punta Dante, assertore della società civile: d'una civiltà ch'è, insieme, ordine giuridico politico religioso, Stato. Viceversa, nel Petrarca è l'"homo" che trova la sua celebrazione, l'individuo che, in quanto creatura, prima ancora che farsi membro di consociazione politica, ha in sé la sua possibilità di redenzione e di perfezione, magari al di fuori della società. E quasi contro la "civilitas" dantesca, è l'"humanitas" che viene rivendicata e curata, quella condizione primaria ed ultima che consente, al di fuori delle strutture sociali, la parentela dell'uomo col Figliuol dell'Uomo. (Rodolfo De Mattei)
  • La sua "capacità di introspezione" lo rende romantico e moderno. (Giuseppe Prezzolini, da Storia tascabile della letteratura italiana – Biblioteca del Vascello, 1993)
  • Noi non sappiamo in che tempo precisamente si cominciassero a scrivere queste frottole [nome dato anche alle barzellette] che son letterario riflesso delle cantilene giullaresche. Forse il primo tentativo di nobilitare le sconnesse cantilene care ai volghi fu fatto dal gran perfezionatore d'ogni forma della nostra lirica, da Francesco Petrarca: quasi certamente è fattura sua certa frottola che comincia «Di ridere ho gran voglia»... (Francesco Flamini)
  • Petrarca stesso, anche in ciò con l'istinto e la lungimiranza del genio, aveva saputo serbarsi una posizione di assoluta libertà di fronte agli autori prediletti; per lui è una gioia lodarli, una pena doverli biasimare, però nell'imitatio non rinuncia alla propria individualità così fortemente marcata: l'imitazione, dice una volta (ep. fam. XXIII 19), deve avere con la cosa imitata non la somiglianza di un ritratto, ma quella di un figlio col padre. (Eduard Norden)
  • Quel dolce di Calliope labbro | che Amore in Grecia nudo e nudo in Roma | d'un velo candidissimo adornando, | rendea nel grembo a Venere Celeste. (Ugo Foscolo)
  • Se avesse tardato ancora di più all'appuntamento, sarei diventato Petrarca. (Stanisław Jerzy Lec)
  • Se di Platone, molto amato ma poco conosciuto, Petrarca studiò poco più del Timeo (e del Fedone), verso Aristotele, ruvido e scabro, non fu mai particolarmente benevolo. Sapeva, è vero, da Cicerone e da Quintiliano, che era stato scrittore squisito per fiumi d'eloquenza, eppur tuttavia non sapeva dimenticare l'Aristotele della scuola, soprattutto «dialettico» e «fisico». (Eugenio Garin)
  • Se Laura fosse stata la moglie di Petrarca, pensate che lui avrebbe scritto sonetti tutta la vita? (George Gordon Byron)
  • Tutta l'opera di Petrarca si potrebbe riassumere nel verso di Sergio Endrigo: «Dite a Laura che l'amo». (Vittorio Sgarbi)
  • Una delle più amabili figure nella schiera degli eroi dello spirito, soffusa in tutti i tempi del soffio incantato del romanticismo e circondata dall'aureola del genio. (Eduard Norden)
  • [Con il suo umanesimo Petrarca diede inizio a] una prima confederazione degli spiriti illuminati, nel mezzo di questa Europa asservita totalmente dalla potenza ecclesistica ed la dominazione feudale. (Abel-François Villemain)
  • Nelle tre canzoni sorelle sopra gli occhi di M. Laura, chi può abbastanza ammirare la fecondità di quell'altissimo ingegno, che da tante parti seppe trar cagione di lodare quegli occhi; e le cose, che pareano lontanissime dal suo argomento, far con maraviglioso artifizio servire ad innalzare quella bellezza?
  • Nella canzone Spirito gentil, non abbiamo noi un'orazione in genere deliberativo delle più belle, per confortar quel tribuno a rivendicare la libertà del popol di Roma, cavandone gli argomenti da' luoghi oratorii della onestà e facilità d'impresa, annullando le forze del contrario partito, e dell'utilità grandissima che al popolo, e della gloria che a lui ne sarebbe seguita. Il medesimo si dica dell'altre due Italia mia, ed O aspettando in ciel, con l'arte medesima lavorate.
  • Ma in quella che comincia Quell'antico mio dolce empio signore (che può appartenere al genere giudicale) in cui il poeta introduce una lite fra sé ed amore dinanzi al tribunale della ragione, non tratta egli i più forti argomenti d'aggravar l'avversario suo di crudeltà, frode e ingiustizia, per concitargli contro l'odio del giudice, e la compassione verso di sé? E nella seconda parte, qual difesa non fa amore della sua causa! come abbatte le ragioni dell'emulo suo, e tutte contra gliele rivolge; amplificando i benefizi a lui fatti, e la gloria a cui, sua mercé, egli era salito! Or non è questa eloquenza?
  • Nessuno degli antichi e nessuno dei moderni, eccetto Dante, seppe convertire in poesia, al pari del Petrarca, i proprii esami di coscienza, i timidi desiderii, le lacrime segrete, i palpiti lievi, le visioni gentili dei sogni, le scene offerte dalla natura allo svolgersi di quel tenue e insiem profondo dramma d'amore. Ogni atto, ogni voce, ogni aspetto, gli si trasformava subito, dentro l'anima sensibilissima, in una fantasia colorita e melodica che gli era forza rappresentare con le parole a sé e agli altri.
  • Poeta elegiaco fu, più che lirico. Della lirica ebbe l'eloquenza concitata, non i voli arditi; ché l'analisi soggettiva a quella lo conduceva, quando gli ribollisse l'animo di generosi rimproveri o di consigli da svolgere con l'orazione persuasiva. Della elegia condensò lo scorrevole pianto in poche lagrime che gli stillarono dall'occhio pensoso, e un sonetto valse una lunga serie di distici; ne raccolse l'anelito affannoso in un sospiro, gli ululati in un gemito represso, e una canzone vinse tutto un rotolo dei seguaci di Callimaco; ne emulò la descrizione idillica, e la strofe della canzone e un madrigale porsero alla figura di Laura lo sfondo di un paesaggio fiorito qual mai non fiorì sulle carte neppure del petrarchesco Tibullo.
  • Poeta soggettivo se altri fu mai, non vedeva intorno a sé di là da quello che importava all'animo suo. La visione ideale gli era ben più gradita e consueta che l'osservazione reale. Centro dell'idealità poneva, in un egoismo squisito e non immorale, il suo proprio sentimento.
  1. Cfr. Publio Ovidio Nasone: «Ti odierò, se potrò; altrimenti ti amerò mio malgrado».
  2. Da Lettere senili, volgarizzate e dichiarate con note da G. Fracassetti, libro XV, lettera IV a Guglielmo Maramaldo, Cav. Napolitano, pp. 408-409
  3. De remediis utriusque fortunae, dial. XI, III: De librorum copia. Citato in Giuseppe Fumagalli, Chi l'ha detto?, Hoepli, 1921, p. 9
  4. Da Lettere di Francesco Petrarca delle cose familiari.
  5. Da Ecloghe, VIII.
  6. Dalle Epistole, a cura di Ugo Dotti, UTET, 1978.
  7. Da Lettere di Francesco Petrarca delle cose familiari libri ventiquattro, traduzione di Giuseppe Fracassetti, Le Monnier, Firenze, 1863, vol. 1, libro III, lettera XVIII, p. 460.
  8. Da Rime, trionfi, e poesie latine, a cura di Ferdinando Neri, Ricciardi, 1951.
  9. Da una lettera al Doge e Consiglio di Genova del 1º novembre 1352, in Lettere di Francesco Petrarca, libro XIV, lettera V, Le Monnier, Firenze, 1865, pp. 320-321
  10. Da De remediis utriusque fortune; citato in Giuseppe Fumagalli, L'ape latina, Hoepli, 1987.
  11. Dalla Lettera ai posteri, in Del disprezzo del mondo, dialoghi tre, prima versione italiana del rev. prof. Giulio Cesare Parolari, coi tipi di Luigi di Giacomo Pirola, Milano 1857.
  12. Da Lettere senili, volgarizzate e dichiarate con note da G. Fracassetti, libro XIV, lettera I al Magnifico Francesco di Carrara Signore di Padova.
  13. Citato in Niccolò Machiavelli, Il principe: «Virtù contro a furore | prenderà l'arme; e fia el combatter corto, | ché l'antico valore | nell'italici cor non è ancor morto.»
  14. Cfr. Dante Alighieri, Divina Commedia, Inferno, canto V, v. 136: «La bocca mi basciò tutto tremante».
  15. a b c d e f g h i j k l m n o p q Citato in Giuseppe Fumagalli, Chi l'ha detto?, Hoepli, 1921.

Bibliografia

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  • Francesco Petrarca, Canzoniere (Rerum Vulgarium Fragmenta), Testo critico e introduzione di Gianfranco Contini, annotazioni di Daniele Ponchiroli, Giulio Einaudi Editore, 1989. ISBN 8806007866
  • Francesco Petrarca, De secreto conflictu curarum mearum (Secretum), in Prose, a cura di G. Martellotti e P. G. Ricci, E. Carrara, P. G. Ricci, Riccardo Ricciardi editore, Milano-Napoli, 1955.
  • Francesco Petrarca, De vita solitaria, Introduzione di Giorgio Ficara, a cura di Marco Noce, Mondadori, Milano, 1992. Testo latino a fronte. ISBN 88-04-35656-1
  • Francesco Petrarca, I trionfi, a cura di Guido Bezzola sul testo approntato da Raffaello Ramat per i Classici Rizzoli (Milano 1957), edizione Rizzoli (B.U.R), Milano, 1997. ISBN 8817124702
  • Francesco Petrarca, Itinerarium Siriacum, 1358; citato in Giovanna Petti Balbi, Genova medievale vista dai contemporanei, Sagep Editrice, Genova, 1978, pp. 80-83
  • Francesco Petrarca, Le senili, volgarizzate e dichiarate con note da Giuseppe Fracassetti, Firenze, Le Monnier, 1879-1870.

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