Leopoldo Barboni

romanziere e saggista italiano

Leopoldo Barboni (1848 – 1921), saggista e romanziere italiano.

Fra matti e savi

modifica
  • Il Civinini era secco allucignolato, con baffi intignati, i denti schiezzati e neri come quelli di Napoleone I, il quale gli aveva così perché tremendo, anzi feroce divoratore di sugo di requilizia. Era brutto..., ma parlava come un angelo del paradiso! Ricordo che un giorno lo trovai su tutte le furie perché un signorino, non toscano, era andato ad offrirgli un romanzetto da mettersi in appendice sul suo giornale[1], e ad ogni costo aveva voluto leggergliene le prime due o tre pagine.
    «Detesto questo genere di letteratura, mi diceva: eppure, per l'ufficio che ho, mi tocca quasi ogni giorno a sentirmi torturare con simili componimenti; e che roba! Non sanno se Nazione si scrive con una zeta o con due, e pur son tutti scrittori [...].» (Ricordi di Firenze capitale, p. 28)
  • Il Fanfani, il filologo che qualche volta diceva e scriveva «està» invece di estate, (apocope che a malapena può avere il diritto di essere usata in poesia), e diceva e scriveva così, forse per far piacere al suo amico Mario Rapisardi, era il disordine in persona. D'inverno toccava gli estremi del grottesco. Portava al collo una pezzuola di cambrì rosso, stampata a fiori gialli, in capo una tuba col pelo eternamente lisciato a ritroso, le fedine come il posa-piano Leopoldo II, ispide e brizzolate, un rotolò addosso o un totterone dell'uno, e in mano uno scaldino da ciane, da due soldi, ruvido, senza culatta.
    Così rinchioccito sedeva lavorando al suo scrittoio di bibliotecario, da dove lanciava ingiurie ai più specchiati e dotti uomini d'Italia, chiamando perfino cane il buono e defunto Nannucci[2]. Su quello scrittoio le streghe convenivano a ballare la ridda il sabato notte, e il diavolo ci recitava la messa nera. Io non vidi mai un arsenale più arsenale di quel banco! C'era d'ogni cosa un po'; la polvere, prima di tutto, e alta un dito; e poi cannelli di ceralacca spezzettati, candele stroncate a mezzo, lapis di tutti i colori, giacenti fra le scheggette cadute nel temperarli, forbici con la moccolaia attaccata al taglio; coltellini, stecche, quadrelli, ostie, lettere a rifascio, matassine di spago, una fogliata di pasticche di rosolacci, mucchietti di fagioli coll'occhio, bianchi, rossi, ceciati; patacconi di inchiostro; l'ira di Dio, insomma, rivelantesi nello scompiglio della scrivania di un filologo malato di milza e di cuore. Però sia pace ai sepolti! (Ricordi di Firenze capitale, p. 30)
  • Povero Yorick! e anche lui è sparito; ed è sparito fra atroci dolori fisici, lui che tanto aveva fatto ridere, di quel riso però che fa bene al corpo quanto allo spirito, così che Renato Fucini felicemente poté scrivere di lui: «Il volgo crede persone serie quelle che non ridono mai, e giudica spesso buffoni coloro che ridono e sanno far ridere. No, mio egregio e rispettabile volgo. Secondo come si ride, secondo come si fa ridere. Quanti malvagi zucconi ho conosciuto che non ridevano mai, e quanti ho veduto ridere e far ridere, uomini d'ingegno e di cuore! – Il povero Yorick era uno di questi.» (Ricordi di Firenze capitale, p. 32)
  • [Silvestro Centofanti] Era un ometto asciutto, dritto impettito, con due piccole fedine candide e ravviate sempre, modestissimo nel vestire, con occhi, anco durante l'infermità dell'annebbiamento, lampeggianti; fronte aperta, maniere squisite, parola calda, movimenti vivacissimi. Sorrise un giorno, ch'io gli diceva:
    «Le stanno a pennello le parole del Byron: Lo vedevi appena, ch'ei ti piacea di colpo...
    «Sì, sì, mi rispose pronto, ma dice anche: o ti spiacea! (Le passeggiate con Silvestro Centofanti, p. 35)
  • Come i suoi amici Gino Capponi e Niccolò Tommaseo, il Centofanti era cieco per caduta di cateratte, sicché quando qualche volta egli, alzandosi improvviso, urtava in una sedia o in altro, io di scatto accorrevo a sorreggerlo sclamando sempre qualche parola di vivo rincrescimento per la sua infermità e per la mia inavvertenza a prevenirlo.
    «Dica quello che vuole, rispondeva scherzando, ma non le passi pel capo di dirmi che mi darebbe i suoi occhi. Non ci crederei. Al più al più, dica che me ne darebbe uno; così saremmo contenti tutti e due. (Le passeggiate con Silvestro Centofanti, pp. 36-37)
  • [Francesco Pacchiani] Quest'uomo singolarissimo, il cui solo nome profferito settanta e cinquanta o trenta anni or sono sortiva il magico effetto di fare atteggiare mille e mille bocche a quell'increspatura di sorriso che rivela una viva esultanza dell'animo, e per cui anc'oggi qualche vecchio, o a pronunziarlo o ad udirlo sente passarsi fra ruga e ruga come un soffio di giovinezza: fu uno di quei nostri carissimi nonni pieni di rosea salute, briosi, caustici, delizia delle brigate, dall'ingegno sfavillante, scomparsi senza eredi su' primi del nostro secolo, quando l'anemia non anche aveva stemperato nello sbaviglio[3] isterico le generazioni. (Il canonico Pacchiani, p. 57)
  • Una sera, in villa, mentre la sala era già piena, un servo annunzia l'arguto e mondano canonico [Pacchiani]. Si fa un profondo e istantaneo silenzio, e tutti si volgono risolenti, perché il cuore di tutti si apre come per incanto alla gioia. Si sentiva, infatti, che ci mancava qualcuno, il deus ex machina. Il Pacchiani s'inchina alla contessa e le serra fra le sue la mano celebratissima e gliela guarda sospirando e se la porta sul cuore. Silenzio anche più profondo, e sguardi avidi da ogni parte, perché ognuno presentisce un balenìo epigrammatico. Il quadro era tipico; la signora, sdraiata mollemente sul sofà, lasciava con noncuranza che il canonico le guardasse la mano, gliela carezzasse come si fa del velluto e sospirasse; finché ubbidendo a quella vanità cui l'aveva ausata il Canova, chiede:
    «Non avete, insomma, nessuna strofa per questa mano[4], canonico?
    «E come no, contessa?...
    Avess'io tanti gigliati | nella vuota mia scarsella, | quanti........ | questa man gentile e bella!
    Alla felice e sfacciata improvvisazione dei quattro ottonari (non, s'intende, castrati come qui li castriamo per rispetto a chi legge) le signore e i vegliatori dettero in una risata e in una smanacciata da far tremare le pareti, mentre la contessa sorrideva pacatamente come se quei versi non la riguardassero né men per ombra o fossero zucchero e miele secondo il codice poetico del Metastasio o del Gessner. I gigliati, poi, eran monete fiorentine portanti in rilievo un giglio, d'onde il nome loro. (Il canonico Pacchiani, p. 60)
  • [Giovanni Rosini] Aveva mandato copia della sua Monaca di Monza, indigesto e indigeribile e goffo e frollo romanzo storico, ad Alessandro Manzoni; poi era andato egli stesso a Milano per far visita al poeta, forse nella speranza di sentirsi dire: Siete non la più grande candela, ma la più gran torcia d'Italia che sia accesa!
    Non fu così. Il Rosini bussa a casa Manzoni, e al servo che, inchinandosi, lo interroga tacitamente chi sia, risponde: «Dite al vostro padrone che c'è l'autore della Monaca di Monza». E il servo va, e poco dopo ritorna ed espone: «Ha detto il mio padrone che non ha il bene di conoscerlo...» Ira del nume, subito repressa con un maestoso scrollare di capo. Il Rosini esce, ritrova gli amici e, contato loro il caso, conclude compassionando: Ma quale colpa ho io, se agl'italiani, più che i Promessi sposi, piace la mia Monaca di Monza? (Il canonico Pacchiani, p. 70)
  • [...] qui non è irriverenza a Giovanni Rosini. A lui l'Italia deve gratitudine somma per avere ai suoi giorni rinfrancato il buon gusto nello scrivere, ripubblicando molti classici nostri. Ma pei suoi romanzi papaverici e per le sue strappature alla grande prosa della Storia d'Italia di Francesco Guicciardini e per le sue inqualificabili borie, no davvero. (Il canonico Pacchiani, p. 70)
  • Il nostro Pietro Frediani fu [...] pastore di professione, forse per maggiore rispetto ad Apolline Nomio; ma quando gli capitava faceva doghe per botti, vangava la terra, potava gli olivi, murava a secco. Imparò a leggere sulle lapidi mortuarie della bella e solenne Certosa di Calci presso Pisa, dove spesso andava a far due chiacchiere con quei frati che lo amavano e s'intrattenevano volentieri con lui stuzzicandogli l'estro con celie, con motteggi e con fiaschi di vino. Portava costantemente nel suo sacco da pastore la Divina commedia e la Gerusalemme liberata, una penna d'oca, una boccetta d'inchiostro, un quinternetto di carta, e sdraiato sull'erba o sopra un macigno, al rezzo d'una quercia o sull'orlo d'un torrentello, confortato dal sordo rumore dei rotoni dei mulini che saliva dal fondo della patria valle operosissima, o dal lene[5] mormorio delle foglie dei castagni, o dal fremito misterioso degli aguglioli dei pini, scriveva, come Orazio a Tivoli o Catullo a Sirmio, quelle sue poesie caserecce che il dimani tutti i suoi conterranei avrebbero conosciuto e mandato a memoria. (Un pastore poeta, p. 79)
  • [Pietro Frediani] Trincava beatissimamente, con una voluttà quale non avrebbe provato maggiore se lo avesser baciato tutte le Urì del paradiso maomettano, socchiudendo gli occhi, gettandoli in tralice e sorridendo da' precordi anche quando la nebbia gl'impediva la vista di chi gli stava dinanzi. Ma, s'è detto, il vino allora era buono, spumeggiava sincero amabile arzillo, non c'erano porcaggini e scelleraggini, come sangue di bue o gesso o acido solforico a gloria del codice penale, e, quel che più conta, costava poco, anzi nulla: una crazia toscana, cioè sette vili centesimi il fiasco! Verità che par menzogna per noi viventi sotto il sole della libertà e del progresso chimico. (Un pastore poeta, p. 79)
  • Codino per la pelle, Pietro Frediani [...] usava i calzoni corti e le calze lunghe legate sopra il ginocchio anche quando quella foggia era stata da mezzo secolo e più bandita dal mondo.
    Così vestito, con l'unghie sudice, tutto impregnato del puzzo di caprino, gli scarponcelli unti di sciugna, il bastone in mano e il saccapane a tracolla, si presentò un giorno nella libreria Nistri a Pisa, nella qual libreria, celebre pel nome di Sebastiano Nistri, col Bodoni ed altri onore e vanto dell'arte tipografica italiana, convenivano di quei tempi tutti i professori dell'Università e quanto di più colto v'era fra la cittadinanza.
    Come il libraio intese che quello zoticone voleva una Divina Comedia lo sbirciò quant'era lungo, poi, sogghignando e facendo l'occhiolino al dotto consesso, gli domandò:
    «La volete in musica?...
    Sorrisetto piccante del Frediani, e risposta prontissima:
    «La musica è nei versi...
    «Allora a voi.
    E gliene porse una copia, aperta, con le pagine a capo all'ingiù.
    «E costa?
    «Trenta paoli.
    Senza sconcertarsi, il pastore svoltiglia mezzo metro di cordino da una borsa di frustagno e vi caccia la mano. E pesca e ripesca, poi sospira perché i trenta paoli (pari a sedici lire e ottanta italiane) non ci sono.
    «Ma no, galantuomo, ho scherzato; costa tre paoli.
    «Signor mio, ne avrei pagati due volte trenta se gli avessi avuti, perché Dante non ha prezzo». (Un pastore poeta, pp. 82-83)
  • «Sovranamente bello», come di lui diceva la contessa Guiccioli, giovane, splendente di fama, rigorosamente aristocratico, circondato ognora da gentiluomini e seguito da servi, lord Byron era divorato con gli occhi, o quando usciva cavalcando su i Lungarno [di Pisa], o quando galoppava pel vialone delle Cascine o per quello che va ai Bagni di San Giuliano, o, più specialmente, fuori la porta alle Piagge da dove spingevasi per ogni via e viuzza e angiporto e magari traverso i campi, facendo in mille modi pompa di esimio cavalcatore. Durante quelle sue corse sfrenate costumava il poeta a un certo punto saltar giù di sella, e allora, infitto un paolo (moneta toscana d'allora) nella buccia d'un albero, oppur gittandolo in aria, di poi vi tirava con la pistola cogliendolo botta botta. (Lord Byron e il sergente Masi, p. 110)
  • [Lord Byron] Levavasi alle dieci, e dalle undici al mezzogiorno faceva colazione. È ameno a sapersi com'egli non mangiasse che di magro, solendo dire che il mangiar carne rende l'uomo feroce; ma il Poujolat[6] osserva accortamente che se non ne mangiava era perché l'idea dell'obesità lo spaventava; criterio accettabilissimo, mentre non c'è chi ignori come il grand'uomo fosse autolatra e come avrebbe dato a chius'occhi tutto il suo ingegno pur di non avere la bruttura della gamba più corta. Eppure è a quel piede scontorto ch'ei deve forse la sua universale rinomanza, perocché, come sentenzia lord Bacon, «chiunque ha nel suo corpo un difetto permanente per cui debba temere d'essere dileggiato, ha pur anco in sé un perpetuo sprone che lo eccita a redimersi». (Lord Byron e il sergente Masi, p. 110)
  • [Lord Byron] Usava il pranzo alle sette, finito il quale recavasi, acqua o vento, dalla contessa Teresa Guiccioli, la bella donna che, idolatrata, lo idolatrava, ma che pure, chiusi gli occhi «il suo Giorgio», doveva avvalorare anch'essa la verità espressa da Dante nella terzina che dice:
    Per lei assai di lieve si comprende | quanto in femina fuoco d'amor dura, | se l'occhio, o 'l tatto, spesso nol raccende. (Lord Byron e il sergente Masi, p. 111)
  • Bello, paffuto, con le gote colorite come due mele zuccherine, l'incedere calmo e spirante il fàscino del pavone in fregola, arguto come un giullare, fra gli sdoppiamenti di tutta Roma, saliva il trono pontificio il Mastai prendendo il nome di Pio IX. Fu allora che i vecchi liberali batterono ubbriacati le mani, gridando: L'ora è venuta! E i giovani, quasi un'eco che parve una scena di furore apocalittico, ripeterono: É venuta!
    O perché? (Elbano Gasperi a Curtatone, p. 161)
  • Pio IX votatosi alla Vergine Maria, come per fare atto di cavaliere serafico e rendersi accetto alla sua dama, iniziava il suo pontificato aprendo le celle dei prigionieri politici. Gli italiani credettero che quella amnistia rivelasse in quel devoto della Madonna un papa che voleva la libertà dell'Italia, e ne fecero uno Dio. Non vi fu che uno solo, il quale non credesse a così spropositata anomalìa, quella cioè di un papa liberale, e fu Giambatista Niccolini. Il grand'uomo, pestando i piedi, gridava con l'enfasi dei suoi soliti scatti tragici: «No, non è vero, non è possibile! è un prete! è un prete! è un prete!»
    E aveva ragione. Era l'unico chiaroveggente in quel poderoso manicomio pieno zeppo di ventisette milioni d'allucinati. Eppure era un poeta! (Elbano Gasperi a Curtatone, p. 162)
  • Erano quaranta, e da tre ore combattevano essi in Trastevere sostenendo l'urto di seicento zuavi. Giuditta Tavani, bella e forte donna trasteverina, li animava con l'esempio e col grido di Viva l'Italia; ma quando le cartuccie mancarono, quando da ogni parte si videro stretti e percossi, allora quei quaranta votati alla morte si ritrassero nella casa rimpetto difendendosi pur sempre coi pugnali e coi calci dei fucili.
    Gli zuavi gl'inseguirono. Ritta e impavida sulla porta, col braccio alzato come un simulacro di antica Dea in atto di maledire, stava Giuditta Tavani. Si sarebbe detto che gli assalitori avrebbero sentito rispetto per quella matrona che pareva allora allora avesse abbandonato il suo piedistallo di marmo di uno dei musei del Campidoglio e fosse corsa in istrada a tutelare il nome romano.
    Invece un di quei vigliacchi, un nobile, parmi, certo Franchinet, le ruppe il seno; e tanto furon feroci quei colpi, che il ferro, attraversata la donna, s'infisse sfavillando nel muro. Di quel manipolo d'eroi non uno fu risparmiato; il papa voleva l'esterminio, e i suoi francesi sterminarono; poi camminando su pe' morti e su gli agonizzanti, sedettero a tavola e mangiarono e bevvero di ciò che la povera martire aveva fatto ammannire pel desinare di famiglia!
    Ma è proprio possibile? – È autentico. (Pellegrinaggio a Mentana, pp. 188-189)
  • [Ugo Foscolo] Sdegni e scoppi d'ira contro i tiranni, contro gli ipocriti, contro i codardi; fremiti e visioni di libertà, delirî per donne, canti di cigno ellenico, generosità e stranezze. E per dar subito una prova di quest'ultimo asserto diremo che il grande poeta proseguì sempre di un odio feroce la cravatta, forse perché a lui, insofferente di freni, quella fra le cento esplicazioni della moda dava l'idea di un guinzaglio, di un collare da galeotti. E però: addietro! Infatti, il primo ritratto che di lui si conosce e che adorna la Vera Storia di due Amanti, edita nel 1799, lo rappresenta di profilo, curvo, accigliato, gli occhi bassi, copiosa la capigliatura, e la camicia aperta sul petto fino alle seconde coste. E il petto è nudo. (Il carattere di Ugo Foscolo, p. 212)
  • Il Foscolo fu brutto; tanto brutto, che un bel giorno un francese, molto villano senza dubbio, osò dirgli: Vous êtes bien laid, monsieur!Oui, monsieur, à fair peur!... rispose il poeta digrignando i denti. (Il carattere di Ugo Foscolo, p. 213)
  • Di sedici o diciassette anni appena, in Venezia, in quella Venezia che allora sedeva regina non più dei mari, ma della moda, dello spirito, della bellezza, della eleganza, il Foscolo si aggirava di continuo pei teatri, pei caffè, per le sale sfarzose e per la piazza di San Marco, insaccato in una palandrana verde sbiadito, ragnata qua e là, co' capelli irti e arruffati come il manto di un gatto d'Angora inferocito, pettoruto, col passo ardito, anzi mattesco, gli zigomi sporgenti e lentiginosi, lo sguardo truce, quasi gravido di tutti i furori ch'egli, appunto in quel tempo, mesceva a piene mani nella sua bellissima tragedia, il Tieste. Gli uomini sogghignavano, ma le belle donne, proprio le belle donne, lo guardavano tenacemente come a dirgli: «Ci piaci! tu sei un fuoco! tu non hai nulla dei soliti micchi isterici e galanti!» Ed era infatti così. (Il carattere di Ugo Foscolo, pp. 213-214)
  • [Ugo Foscolo] Tutta la sua vita fu un amore.
    Amore alla patria, amore alle muse, amore alle donne. Amando queste ultime non fu però nobile sempre, né sentì sempre la dignità di sé stesso come negli affetti caldissimi all'Italia e alla gloria, affetti ch'egli esplicò grecamente, divinamente, coll'onda maestosa della sua strofa. Ma ad ogni modo, giusta il suo carattere gli dettava, tutti furono amori che gli strapparono grida di ebbrezza e di disperazione, e gli dettero spasimi e gioie e gelosie, e fremiti inauditi da astringerci a riflettere sull'opinione di un dotto che il genio sia una malattia del cervello. (Il carattere di Ugo Foscolo, p. 214)
  • Il Voltaire, che su tutto voleva dire la sua, che di tutto voleva intendersi, perfino di lingua italiana, e, come ogni buon francese, spropositava bestialissimamente scrivendo baccio per bacio ed ello per egli e anchora per ancora; che guardava Gesù Cristo con l'aria del ti vedo e non ti vedo, e poi dal papa riceveva reliquie di santi, e verso il papa si sdilinquiva e gli si affermava infimo fedele; che chiamava «letamaio» il grande Shakespeare e poi, traducendolo, frantendeva il celebrato monologo di Amleto; che nel suo Olimpo di Ferney[7] pretese un giorno, a pranzo, dare dello stordito al Pignotti; il Voltaire, insomma, sentenziò che i bei drammi erano in Francia, i bei teatri in Italia.
    Davvero? o che lerciumi, dunque, dovevano essere laggiù i teatri, se quelli italiani eran fetide sale rischiarate da pochi lumi a olio, le moccolaie dei quali formavano alle tonsille del pubblico una patina siffatta che a sconfiggerla non sarebbe stata buona né meno una dozzina di gargarismi d'acqua di ragia? (Gole sovrane, p. 225)
  • [...] il Rousseau elogiava il Ferri di Perugia che lo aveva estasiato con la sua voce divina[8]. Quella gola fenomenale «discendeva e saliva in un fiato due ottave con un trillo continuo senza accompagnamento». Il pubblico ratteneva il respiro, socchiudeva gli occhi, si sentiva correre un brividìo fra pelle e pelle, poi si destava da quella specie d'assopimento dell'anima, e allora non erano applausi, erano urli convulsi; e le donne giungevano le mani come a dirgli: Sei un angelo! e gli uomini facevano mille stravaganze, e taluni dirugginivano i denti come presi da un sussulto di tètano. (Gole sovrane, pp. 227-228)
  • Certa sera il napoletano Farinelli cantava nel teatro regio di Londra; i palchi rigurgitavano, e la platea e l'anfiteatro sembravano una paniccia di teste. Il celebre artista teneva in sussulto migliaia di cuori; pareva anzi che cotesta sera la sua potenza vocale si fosse triplicata. Egli faceva da schiavo, e il Senesino[9] [...] faceva da tiranno. Il Farinelli pareva sceso dal paradiso: le sue note rapivano, scuotevano, facevano smaniare l'uditorio, ed egli stesso era pallido. A un tratto il tiranno, entusiasmato a quel canto, dimentica la propria parte e lo abbraccia. Momento indicibile! Tutte quelle migliaia di petti rompono in un grido che non ha nulla d'umano, quelle migliaia di braccia si agitano, e, non essendoci fiori, si gettano sul proscenio anelli, tabacchiere, fazzoletti, pendenti, spilli, orologi, smanigli e... sterline: un bombardamento amoroso con proiettili no davvero ignobili, ma che tuttavia se avesser preso negli occhi il divo lo avrebbero lasciato al buio per tutto il resto della sua vita. Un evviva furente fa poi rintronare il teatro, e appena un po' calmato, un londinese dai capelli scomposti, dal viso accento, dai moti convulsi, monta sulle spalliere di due poltrone e grida : «Non vi è che un solo Dio e un solo Farinelli!». Stupenda esplosione britannica. (Gole sovrane, p. 230)
  • [...] chi veramente ebbe addosso l'argento vivo, chi ebbe e ripicchi e albagie di matterulla e arditezze che, secondo i luoghi, potevano dirsi italianissime nel significato politico, fu Caterina Gabbrielli, romana de Roma, scolara del Porpora, bella, busto giunonico, carni di latte e sangue, voce di sirena, occhi assassini che avrebbero traforato di colpo i muraglioni del Colosseo e delle Terme di Caracalla assoprellati. (Gole sovrane, pp. 230-231)
  • [Caterina Gabrielli] Saliva più che spesso «ai molli strati», direbbe Omero, dei gran signori, e i ricchi guadagni scialacquava in cene degne di Trimalcione. Ed eran cene, anzi bigordi[10], a' quali prendeva parte qualche volta pur l'abate Metastasio, (tipo di fànfano anche lui, nonostante il suo aureo sentenziare), già stato alla Gabbrielli maestro di declamazione. (Gole sovrane, p. 231)
  • [Caterina Gabrielli] Sicura che la sua bellezza e la sua valentía di cantatrice potevano imperiosamente sull'animo di chiunque, essa arrivo perfino a usare altierezza[11] con Caterina di Russia. La czarina desiderandola a Corte perché cantasse, le domandò quanto volesse. «Diecimila rubli». – Diecimila rubli! ma che?... non pago così cari nemmeno i miei marescialli!» – «E voi allora fate cantare i vostri marescialli». E lasciò l'imperatrice con tre palmi di naso. (Gole sovrane, p. 231)
  • Com'è abietta e disgustosa questa vanità dei patrizii italiani nel ricercare che facevano le proprie mogli fra le donne di una nazione [la Spagna] che allora ci calpestava, ci spogliava, ci assassinava, c'insultava in mille modi. É un delitto di lesa patria. Che cosa importava loro, a quei frolli italiani tutti boria e sacrilegi, che il duca di Medina, viceré, si vantasse d'aver ridotte le Due Sicilie in tale stato di miseria che – diceva lui – a mala pena quattro buone famiglie spagnole avrebbero trovato da cuocervi una discreta vivanda? Che cosa importava loro che un ministro spagnolo gridasse a un messo che gli riferiva di non aver potuto riscuotere le tasse dai napoletani immiseriti: Se non possono pagare, vendano l'onore delle figliole e delle mogli e soddisfacciano? Che cosa se Milano era costretta a pagare ai dominatori spagnoli 260 milioni in quarant'anni, e s'era ridotta ad avere cinque lanifici, di settanta che ne contava quand'era libera? Che cosa importava a quella vergogna di patriziato che il popolo, allora veramente infelice, piangesse e non trovasse altro sollievo se non nel ripetere il proverbio composto per bollare d'infamia i ministri spagnoli, e che diceva: In Sicilia rosicchiano, a Napoli mangiano, a Milano divorano? Nulla. Anzi, quel vituperio nobilesco sentì rodersi in cuore quando intese che Tommaso Campanella faceva insorgere i frati della Calabria contro gli oppressori, e sogghignò e batté le mani allorché seppe che la congiura fratesca era stata sventata dando occasione agli invasori d'inferocire più che mai sulle disgraziate Due Sicilie. (Spagnolismo femminino in Italia, pp. 237-238)

Geni e capi ameni dell'Ottocento

modifica
  • [...] egli [Edmondo De Amicis], che sentiva nel cuore come l'Italia si facesse allora e quanto bisogno avesse di gioventù data alle armi, prese la via della milizia, e prima a Torino, fu poi, dal '63 al '65, uno dei più elogiabili ed elogiati allievi del Collegio militare di Modena.
    Sempre elogiabile veramente no. Un giorno dovendo egli attaccarsi alla tunica un bottone che gli ciondolava, vi si provò, ma fu un disastro. Il sergente di squadra scapeggiò, e, quasi ne derivasse la rovina d'Italia, con ghigna seria gli osservò: «Ella sarà buono a far versi, ma in quanto a attaccar bottoni è indietro di cent'anni!» Oh, prodigioso sergente! (cap. I, pp. 12-13)
  • Nelle scienze, oltre a glorie nostrane, campeggiava Maurizio Schiff, materialista e rinnovellatore della vivisezione. Le signore dell'aristocrazia guelfa ne avevano orrore, e l'odiavano a morte. Tormentatore, o, meglio, Torquemada di poveri e innocenti animali, lo Schiff, e con lui gli allievi suoi, lo era. Che cosa di vantaggioso a pro dell'uomo ritragga la scienza dallo scoperchiare la scatola ossea del cervello d'un cane, d'un gatto o d'un coniglio vivi, o dal praticar loro un buco nello stomaco, e traverso a quel buco ficcare stoppa o stracci o rimbrencioli di carta per vedere se con quei succulenti manicaretti si nutrano lo stesso che a complimentarli di una bistecca o d'un bel cavolo cappuccio, non so. So che la cosa è inumana. (cap. I, pp. 15-16)
  • Sul conto dello Schiff correva una scellerata voce, che, del resto, era vera. Secondo l'uso toscano, ogni anno in prossimità della Pasqua, parmi, c'è in ogni parrocchia la registrazione o «segnatura delle anime». Un prete, per lo più il cappellano stesso, in roccetto e stola, accompagnato da un abatucolo con penna, calamaio e scartafaccio, gira le vie della propria parrocchia, entra in ogni casa, e bussa o suona a ogni quartiere. Un anno o due prima dello «sfratto stupefacente», un prete suonò o bussò alla stordita anche all'abitazione dello Schiff. Avesse letto almeno il polizzino occhieggiante dalla porta del quartiere! Accorre la serva, una ragazza fiorentina battezzata e cresimata, e che, se non altro per sentito dire, sapeva bene chi era lo Schiff. La serva guarda, spalanca gli occhi, e senza misteri vola affannosa nello studio dello scienziato.
    «Signor padrone!... Di là c'è un prete colla stola.»
    Maurizio Schiff alza la testa, posa gli occhiali d'oro, s'alza dalla poltrona, s'incammina flemmatico nella sala d'ingresso, fa un lieve inchino, e in tutta la scolpita sua pronunzia ostrogota chiede:
    «Rewerendo, che ccosa vvolete?»
    «Sono venuto per segnare le anime...»
    «Anime? Qui ci ssono dei ccorpi!»
    Il prete scappa ancora per le scale, divorando i gradini a tre o quattro per volta. Quella ostrogotissima dinegazione dell'anima si riseppe subito, e l'aristocrazia nera fremé e divampò; mise in campo gli orrori della vivisezione, e Maurizio Schiff dové sloggiare dall'Italia! (cap. I, p. 16-17)
  • Povero Nicotera! Passava intiere giornate [recluso nel carcere borbonico di Favignana] steso lungo sul suo pagliericcio, sostentandosi quasi esclusivamente di latte, forse perché i dolori al petto cominciavano a torturarlo. Ma la fierezza indomita non lo abbandonava. Una sera un soldato napoletano vedendolo con la fronte appoggiata all'inferriata a croce del piccolo sportello della porta, gli si avvicinò, e nella sua rozzezza gli chiese:
    «Come stai?»:
    «Benissimo...»:
    «Ma staresti meglio se, invece che qui, tu fossi a Napoli, 'o paese mio.»:
    «No, rispose il Nicotera, perché a Napoli c'è il tuo re.»:
    E si ritirò. (cap. VIII, p. 202)

Citazioni su Leopoldo Barboni

modifica
  • Di idee, sue, ne ebbe poche; ebbe piuttosto le idee e, direi, il temperamento del suo tempo. Fu patriota, democratico e letterato alla Carducci: con in più uno strascico romantico che gli restò dalla scalmana giovanile per il Guerrazzi.
  • Fu un buono e caro scrittore: di quelli però che anche una «persona colta», un letterato o un critico, possono ignorare o dimenticare senza vergogna: e forse perciò – almeno a giudicar dai giornali – pochi han mostrato di avvedersi della sua morte.
  • Per riuscir vivo e vero, lui non aveva che da seguire la sua natura. Quando volle compilare un'antologia per le scuole, mostrò e dimostrò anche meglio il suo gusto. Cercò in ogni secolo racconti, favole, ricordi, scene, novelle ; ed ecco il Cellini, il Lasca, il Doni, il Sacchetti, il Berni, il Redi; e li mescolò poi con le pagine che a lui più piacevano dei moderni. Tutt'un'aria di famiglia. E il Barboni, lì sotto, nelle note (oh, niente filologia!); «questo è bene»; «questo meno»; «ma che furbo!», o «che sciocco!». Gli venne fatto così di mettere insieme un'«Antologia ricreativa (della prosa e della poesia italiane)»; che non sembra nemmeno vero! Ma molti ragazzi ancora devono essergliene grati....
  1. Civinini era direttore del quotidiano fiorentino La Nazione.
  2. Vincenzio Nannucci (1787-1857), filologo e letterato italiano.
  3. toscanismo per "sbadiglio".
  4. Il Canova aveva preso a modello per la sua Venere Anadiomene la mano "candida, tornita mirabilmente" della contessa. (Leopoldo Barbiani, Fra matti e savi, p. 59).
  5. letterario per "lieve".
  6. Jean-Joseph-François Poujoulat (1808-1880), storico, giornalista e politico francese.
  7. Attualmente Ferney-Voltaire, comune francese della regione dell'Alvernia-Rodano-Alpi.
  8. Il filosofo ginevrino, pur celebrando il cantante nel suo Dictionnaire de musique, non poteva certo averlo ascoltato: Ferri era morto nel 1680, oltre trent'anni prima della nascita del filosofo!
  9. Francesco Bernardi, detto Senesino (1686-1758), cantante lirico castrato italiano.
  10. variante ant. di "bagordi".
  11. letterario per "alterezza"

Bibliografia

modifica

Altri progetti

modifica