Pietro Pancrazi

scrittore e critico letterario italiano (1893-1952)

Pietro Pancrazi (1893 – 1952), scrittore, critico letterario e giornalista italiano.

Ragguagli di Parnaso

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  • Più d'uno si dev'essere chiesto dove mai sarebbe andata a finire la vocazione letteraria di Alfredo Panzini se (metti caso) la donna non fosse stata ancora inventata. Sono diversi anni ormai (e diciamo pure che è dalla pubblicazione di Santippe) che la sensibilità e la prosa di Panzini vibrano di preferenza, e quasi esclusivamente, intorno a una sciarada femminile. Un pedinatore letterario assicura addirittura di aver sorpreso Alfredo Panzini, non è molto, sulla piattaforma di un tram romano che rivolgeva a se stesso, ma a voce alta e in tono interrogativo, i termini dell'indovinello: – La donna è una creazione di Dio? (No). Allora è una invenzione dell'uomo? (Nemmeno). La donna non è altro che un'invenzione della donna. (p. 11)
  • In meno di dieci anni il nome di Morselli è comparso due tre volte nelle cronache (piuttosto magre) della letteratura contemporanea con adesioni e consensi così onesti e anche lieti che sembravano ogni volta doverne consacrare la fama. E la fama poi, a dir vero, non venne mai.
    La notorietà di Morselli durava ogni volta il tempo giusto sufficiente ad esaurire l'edizione del suo libro nuovo, a portare in giro, per i principali palcoscenici, il suo ultimo dramma. (p. 21)
  • La Guglielminetti esordì nella letteratura femminile contemporanea con un tono di indipendenza, di passione, e persino di perversità che necessariamente doveva meravigliare. Almeno a quel tempo, le nostre scrittrici; o comparivano in pubblico in funzione di scrittori, e allora rientravano senza discussioni nei modi, nei difetti e nelle virtù della letteratura maschile, o se invece ci tenevano a essere e ad apparir donne anche nella carta stampata, allora la loro femminilità si presentava di preferenza, con aspetto materno e morigerato, talvolta con intenzioni di bontà e di umanitarismo sociale, o persino di patriottismo. I nomi e gli esempi tornano a mente a ciascuno. Insomma, in un modo o nell'altro, con in mano i ferri della domestica calzetta, o la bandierina patriottica, o il rosario, o magari la fiaccola della giustizia sociale, ci venivano incontro le nostre scrittrici: i soliti angioli destinati ad alleviare l'esistenza che conosciamo.
    Amalia Guglielminetti, invece, apparve ella stessa come un'ardente face in consunzione perpetua. Più che d'amore, ella avvampò per un quarto d'ora, come fiaccola vivente di passione e di voluttà. Due o tre dei critici italiani allora in corso, brandirono i tirsi disusati, e gridarono senz'altro alla Saffo rediviva. (pp. 72-73)
  • Forse Annie Vivanti non sente niente, forse non dice niente; ma è certo che questo suo non sentire e non dire lo esprime attraverso uno stile che è, lì, fatto apposta, pronto a giuocare, e a cavarsela a modo suo con tutto che gli capiti. L'espressione del niente, in arte, è già qualche cosa. E ad una signora, non è cortese domandare di più... (p. 110)
  • [...] Jahier con tutta la sua natura di scrittore e di uomo poggia sulla necessità, anzi sull'assoluta esigenza e talora sul risentimento di un giudizio morale: per cui tutte le azioni, i pensieri, i sentimenti, le istituzioni degli uomini, non offrono a lui altra possibilità di discernimento e di giudizio fuori delle categorie del bene e del male. (p. 130)
  • Riguardando bene è facile veder come la morale di Jahier manchi di carità: spesso in lui la commozione originaria, rivolgendosi su sé stessa, per difetto di simpatia, assume una specie di irritazione ironica. E l'attenzione che Jahier porta sugli aspetti della povertà sua e dei suoi, per quell'insistere freddo dello stile nelle sprezzature e nei giri finisce per avere un che di crudele o d'umoristico. «Il ragazzo, tra molti fratelli, nella casa quando s'imburrava una fetta di pane c'era sempre una sorella che, ripassandoci sopra il coltello, ce ne faceva sortire un'altra»; — c'è, nella crudezza, quasi la compiacenza d'una trovata. (133)

Venti uomini, un satiro e un burattino

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  • [Leopoldo Barboni] Fu un buono e caro scrittore: di quelli però che anche una «persona colta», un letterato o un critico, possono ignorare o dimenticare senza vergogna: e forse perciò – almeno a giudicar dai giornali – pochi han mostrato di avvedersi della sua morte. (p. 115)
  • [Leopoldo Barboni] Di idee, sue, ne ebbe poche; ebbe piuttosto le idee e, direi, il temperamento del suo tempo. Fu patriota, democratico e letterato alla Carducci: con in più uno strascico romantico che gli restò dalla scalmana giovanile per il Guerrazzi. (pp. 116-117)
  • [Leopoldo Barboni] Per riuscir vivo e vero, lui non aveva che da seguire la sua natura. Quando volle compilare un'antologia per le scuole, mostrò e dimostrò anche meglio il suo gusto. Cercò in ogni secolo racconti, favole, ricordi, scene, novelle ; ed ecco il Cellini, il Lasca, il Doni, il Sacchetti, il Berni, il Redi; e li mescolò poi con le pagine che a lui più piacevano dei moderni. Tutt'un'aria di famiglia. E il Barboni, lì sotto, nelle note (oh, niente filologia!); «questo è bene»; «questo meno»; «ma che furbo!», o «che sciocco!». Gli venne fatto così di mettere insieme un'«Antologia ricreativa (della prosa e della poesia italiane)»; che non sembra nemmeno vero! Ma molti ragazzi ancora devono essergliene grati.... (pp. 119-120)
  • [Mario Missiroli] Se tra i suoi amici volete trovargli un opposto, pensate a Sorel: al valore che hanno i fatti, le date, le citazioni, nel pensiero di Sorel. La filosofia di Sorel è tutta lì. Come nessun'altro, egli sa l'arte di far parlare filosoficamente, con una precisione minuta e quasi pettegola, la storia, e la cronaca.
    La forma mentis di Missiroli, che sembra aver qualche somiglianza con quella dello scrittore francese, è invece agli antipodi. La realtà non ha vera presa, non ha possibilità d'arresto sul suo pensiero. Di qui quello scattare pronto, ma spesso come esangue e innaturale, della sua logica. (p. 135)
  • [Adolfo Albertazzi] [...] questo scrittore, anche quando gli altri cambiarono strada, verso il più difficile, il più complicato, il più profondo (a ogni costo), lui li ha lasciati fare, neppure se n'è accorto, e ha continuato la sua. E oggi l'Albertazzi è in testa. Non saprei davvero quale dei nostri giovani novellieri non potrebbe invidiare all'Albertazzi: Faina; Un buon uomo; II benefattore; Buona gente; Il cane dello zio Prospero; tanto per scegliere da ciascuno dei recenti volumi una novella sola. (p. 139)
  • All'Albertazzi possono magari mancare pregi e doti che hanno gli scrittori che gli abbiamo mentovato vicino: ma egli ha un'asciuttezza, una precisione, un senso così rigoroso del limite e del necessario nel disegnare e nel condurre la novella – un linguaggio breve e schietto – che son doti sue e basta. Gli uomini e le cose, nelle sue pagine prendono subito una forma e una fisionomia ferme e precise. S'ha da nascere una tragedia, ebbene, s'arriverà alla tragedia con tutta naturalezza. (p. 141)
  • [...] l'Allodoli [non è uno scrittore regionale] è uno scrittore d'altra specie. Egli ha un suo sentimento intimo da esprimere e da mostrare, una poesia vera; e solo casualmente questa poesia, questo sentimento si esprimono nel ricordo familiare di Firenze «intorno al 1890». Non è casuale invece l'atteggiamento costante di ricordo e di nostalgia, in cui si mostra lo spirito dell'Allodoli in queste pagine [di Il domatore di pulci e altri fatti della mia vita]. Triste di una tristezza vaga e indefinita, malinconico senza inquietudine, lo scrittore sembra disarmato per il futuro, senza più desiderii, e senza speranze; né il presente lo turba o lo tocca... La sua tristezza, connaturale e disutile, si rivolge naturalmente sull'infanzia lontana, quasi a cercarvi quell'intima ragione di sé, quel perché che le sfugge. (p. 170)
  • S'è parlato di poesia e di classici, ai quali certo l'Allodoli, almeno nell'aspirazione, è più vicino che non agli scrittori regionali e regionalisti che hanno comune con lui soltanto la materia e l'ambiente. L'Allodoli si appoggia a una prosa viva, ma sapientemente letteraria, ben costrutta e ferma, molto lontana, e direi opposta, alle compiacenze e alle sprezzature del racconto d'ambiente, e dialettale: una prosa nella quale stonano, appena v'entrano, ed è raro per fortuna, quelle parole più crude e immediate (penso a certi epiteti per le povere donne di Santa Croce) che sono invece pane quotidiano alla prosa regionale. (pp. 172-173)
  • La vaga malinconia, il cruccio, l'indefinita tristezza, e insomma lo spirito di questo scrittore [Ettore Allodoli] che sembra senza più esperienze e senza curiosità verso la vita, oggi ci appare esaurito in questo ritorno all'origine: ai ricordi e alle figure dell'infanzia. Un pessimismo inerte che per vivere si è già rivolto a divorare se stesso, fin dal suo nascere. Tutto sembra finito.
    Quale sarà la sua nuova forma d'appoggio e d'espressione; e quale la sua ragione di vita, domani? (p. 174)
  • [...] che cosa cerca Giovannetti? È difficile dirlo, anche perché assai probabilmente Giovannetti non cerca niente. Verso gli uomini e le cose degli uomini, – i loro difetti, i vizii, o soltanto le «debolezze» e le distrazioni – da qualche anno Giovannetti ha preso un atteggiamento di vigilanza, che somiglia assai a quello d'un moralista. Soltanto che, lui, è un moralista senza morale. La sua critica basta a se stessa. Non solo non pretende di rifare la gente (compito difficile e leggermente assurdo, imponendo il quale un poeta epigrammatico condannò all'inutilità gli altri e se stesso) ma anche se ne avesse la possibilità e i mezzi, la critica di Giovannetti non saprebbe come e perché rifare gli uomini. (p. 177)
  • Giudice di gusto e di temperamento, che preferisce fare a meno di logica e di dimostrazioni, Giovannetti ha l'obbligo di esser leggero, evidente, e di far presto. Meglio quando questo gusto, questo temperamento letterario, senza più pretesto ironico o di canzonatura, si manifestano direttamente in rapidi quadretti, in racconti ariosi e nitidi, in semplici sottili arguzie e piacevolezze.
    E sono forse le sue pagine più felici; certo sono quelle che danno meglio una ragione di lui; che meglio lo spiegano e lo giustificano anche come scrittore satirico e burlesco. (pp. 179-180)
  • Giovannetti ha, come pochi, il gusto di scrivere (una virtù che si va perdendo); è un letterato paziente, che non lascia andar via un periodo senza essergli stato prima attorno con la pomice: arida pomice expolitus.
    D'una certa aridità, esteriorità di pomice, risentono la sua cultura e le sue frequentissime citazioni. Certo egli dimostra molte curiosità e letture. Nei suoi «Satyricon» tornano, frequenti, prosatori e poeti antichi e moderni; classici e romantici; e poi politici e storici d'ogni razza. (p. 180)
  • Giuseppe Brunati, di cui abbiamo rivisto due romanzi per le vetrine (L'oriente veneziano; e Quaresimale [...]) è un giovane uomo consumato, elegante e bello.
    Quant'a me, dirò che i suoi libri mi pare di averli conosciuti prima ancora di leggerli. (p. 186)
  • [...] Brunati, tra gli ultimi [nostri scrittori decadenti], è stato un decadente vero; se il bisticcio non dispiace, è stato un falso autentico. Uno di quelli (per intendersi) che, per vivere, hanno bisogno di speciosità, così come un altro ha bisogno dell'aria pura e del pane fresco. Antichi codici chiesastici, paramenti sacri, avorii sudati, vecchi legni consunti, santi e «cristi», sono per loro come per un buon borghese gli ingredienti di cucina. (pp. 186-187)
  • Leggete l'autobiografia dell'Oriente veneziano: e v'accorgete subito che in quella storia di voluttà complicate, di perversioni e di amori difficili, Brunati, reagendo con una sua acredine sardonica sui modi di uno stile dannunziano, si muove con verità e naturalezza perfette. A confronto, l'ottimo Guido da Verona è addirittura un parvenu. In Quaresimale, (il romanzo che seguì) il gioco si perfezionò: la voluttà si affinò nella coscienza del peccato, divenne casta e religiosa: un romanzo di digiuno e di sagrestia, nel quale anche la scrittura si macerò, sino a perdere, per troppa sapienza e consumo, le giunture e le concordanze. (p. 187)
  • Se è vero che gli umoristi sono stati sempre uomini malinconici e sconsolati, si direbbe che Bontempelli, a girare con quella sua faccia riservata e opaca di uomo triste, lo faccia apposta. (p. 188)
  • Se per caso c'è ancora qualcuno che sia comunque in possesso di un'idea balzana, faccia la carità: la metta in carta e in busta chiusa e la mandi a F. T. Marinetti. (p. 189)
  • {{NDR|Filippo Tommaso Marinetti]] [...] quest'uomo fa veramente pena. Dinanzi a sé e al prossimo, si è assunto un compito che per forza non riesce più a mantenere; si è imposto una maschera che lo scopre ormai da tutte le parti. Quanto gli è successo quest'anno[1], è triste davvero... Ha detto di avere inventato – ancora – un teatro... a sorpresa: nel quale poi l'unica sorpresa vera era il prezzo del biglietto; e l'originalità più apprezzata, nel listino dei prezzi, il rovesciamento del loggione in platea e viceversa. In palcoscenico è possibile vedere appena qualche riflesso della geniale grandezza di Petrolini. (pp. 191-192)
  • È sciocco credere che fare il matto sia più facile e più profittevole che mostrarsi saggio. Specie quando uno si obblighi ad una pazzìa cangiante e variabile, il mestiere del matto è aleatorio e difficile. Impone degli obblighi perentorii; delle esigenze addirittura crudeli. Guardate Marinetti: uomo di talento, scrittore ingegnoso e poeta decadente non senza finezza, da quando s'impose l'obbligo dell'originalità violenta, non s'è concessa un'ora di vacanza; neppure per un giorno ha potuto tornare ad esser quello che era, (forse quello che è); ormai egli stesso è preso come una ruota nella catapulta vuota e meccanica della sua originalità. Davvero che in lui c'è dell'eroico. Spiritato e teso, sbalorditivo e apopletico, egli ha dovuto trovare stabilità soltanto negli eccessi: e oggi la sua stessa maschera sembra quella di un eroe della follìa, costruito in cemento armato. E tanto non basta. (p. 193)

Visita al Tevere

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  • Al passo lungo e uguale mi godo il sole a piombo di mezzogiorno, l'ombra corta dell'asino sui ciottoli, il silenzio del ragazzo. Come per l'erta d'un santuario, mi pare dobbano essere meritori il sudore e la fatica sulla traccia della sorgente. A ravvivare il fervore, mi ripeto che questo è il «gioco di che Tever si disserra».
  • È giusto che la fantasia abbia in ogni tempo visto assiso, alle sorgenti, un santo o un profeta.
  • Poco o molto, era pur bella stamani, via via più alta nella luce e nel sole, la prima valle del Tevere! San Sepolcro lasciato al piano tra vigne digradanti e colti ricchi; Pieve Santo Stefano, già montana, tutta raccolta e stretta fra due porte, ruvida come una fortezza.

Citazioni su Pietro Pancrazi

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  • Pietro Pancrazi, crociano, antifascista, era fedele a un'immagine dell'Italia e dell'uomo che appartenevano alla destra. (Geno Pampaloni)

Bibliografia

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Altri progetti

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  1. 1921 [N.d.A.]