Candido Cannavò

giornalista e mezzofondista italiano (1930-2009)

Candido Cannavò (1930 – 2009), giornalista italiano.

Da sinistra: Candido Cannavò e Giorgio Napolitano nel 2006.

Citazioni di Candido Cannavò

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  Citazioni in ordine temporale.

  • [Sulla finale del campionato mondiale di calcio 1986] Quattro anni fa Zoff, ieri Maradona. La coppa d'oro varca nuovamente l'oceano sospinta verso i cieli messicani dal più grande «genio» del calcio contemporaneo: Diego Maradona. [...] Sino alla grande rimonta tedesca, non era avvenuto nulla che facesse balzar dalle sedie i due o tre miliardi di telespettatori del nostro pianeta. E lo stesso Maradona, marcato all'italiana in modo esasperato, aveva scelto l'unica via possibile: quella di porsi al servizio della squadra, facendo a tratti persino da regista ai limiti della difesa. [...] Ma proprio quando la finale è entrata nella sua fase più drammatica, con i tedeschi pervenuti al pareggio a undici minuti dalla fine, con una situazione psicologicamente capovolta, con la prospettiva dei tempi supplementari, ecco arrivare d'improvviso il colpo di genio. Il tocco, fra nugoli di avversari, col quale Maradona ha proiettato Burruchaga verso la solitaria «autostrada del trionfo» merita tutte le moviole più sofisticate. Ai «geni» basta un lampo e Maradona lo ha regalato: all'Argentina, a Napoli, al mondo.[1]
  • [Sulla finale del campionato mondiale di calcio 1990] Germania campione. Matthäus può sollevare finalmente la sospirata Coppa. [...] Un'espulsione dubbia e un rigore altrettanto sospetto a pochi minuti dalla fine hanno segnato la sorte dell'Argentina. In un sol colpo la squadra di Maradona ha pagato tutte le fortune, le astuzie, i privilegi che la avevano portata avanti. Ma questa sorta di «vendetta» non è un discorso di calcio, né solleva il tono orrido di una finale che solo per i tedeschi non è da dimenticare. Il Mondiale si chiude con una Germania felice e un altro catastrofico arbitraggio firmato stavolta dal messicano Codesal. E la gente non di parte ha il diritto di sfogarsi: «Italia, Italia». Quel trofeo, con tutto il rispetto, sembra proprio in mani sbagliate.[2]
  • Provate a trasferire in Italia [...] la trama dello scandalo Marsiglia. Dunque: il Milan o l'Inter o la Juventus (scegliete voi), per iniziativa del suo potentissimo presidente, dà mandato [...] di «comprare» l'ultima partita di campionato, decisiva per la conquista dello scudetto. La manovra va in porto, ma lo scandalo viene alla luce, i giornali e le tv imperversano, la magistratura si mette in movimento [...]. Immaginate pure [...] che [...] la federcalcio stia tranquillamente alla finestra, senza prendere il minimo provvedimento cautelativo, ma aspettando – campa cavallo – che la giustizia ordinaria dia le sue sentenze. Non basta, ma ad un certo momento il boss [...], personaggio spregiudicato e politicamente compromesso, trova il massimo sostegno possibile: quello del presidente della Repubblica [...] che [...] dice: guai a chi tocca quel mio amico e la sua squadra... Per incredibile che possa apparire, questo è avvenuto non in una repubblica delle banane, bensì nella civilissima Francia [...]. Ma questa del Marsiglia è una vicenda davvero sporca non tanto per lo scandalo in sé quanto per il modo – esso sì, vergognoso – con cui è stato gestito [...]. L'Uefa, cacciando il Marsiglia ha preso una decisione coraggiosa, forse anche temeraria [...]. C'è chi dice che l'ente europeo si è mosso più per amor di business che di moralità. Può darsi. Ma era impossibile non intervenire.[3]
  • C'è una sana e spicciola filosofia di vita: «Ricordati ogni giorno da dove sei partito...». Io mi riporto al lugubre 18 giugno, tra i bollori del Giants Stadium. Dove Italia e Irlanda gareggiarono per dimostrare agli americani quanto misero e brutto fosse quel calcio che pretendeva di invadere la loro cultura. L'errore di Pagliuca, l'inconsistenza di Baggio, quel cuocersi lento di cervelli logori e di gambe stanche. Il giorno peggiore, credo, della carriera di Sacchi. [...] Nel giorno del prodigio nigeriano cominciò il nostro vero mondiale e, con l'onestà popolare, a Sacchi venne riconosciuto, via via che l'Italia avanzava verso il suo destino, tutto ciò che c'è dietro al suo fanatismo estremo: tenacia, capacità di lavoro, intuito, oltre al coraggio dell'impopolarità. [...] Avremmo voluto veder Sacchi sollevato al cielo dai suoi ragazzi come Bearzot nel 1982. Lo abbiamo visto, invece, stremato e distrutto come gli altri azzurri. Su con la vita, fratelli, è stato bello, anzi bellissimo lo stesso.[4]
  • Con tutto il rispetto per l'europeismo, non possono esserci leggi cieche, da sottrarre a ogni utile forma di articolazione anche dove esse si rivelano palesemente dannose. Non c'è dubbio che il libero impiego dei giocatori comunitari danneggi il calcio, sia nella sua organizzazione di vertice, sia nelle sue basi. Si creerebbero privilegi singoli, a beneficio esclusivo delle categorie più privilegiate. Per il resto, andrebbero in crisi i campionati, le nazionali, le piccole società, i vivai. [...] E sì, perché la Comunità è una bella cosa, ma nel calcio [...] l'Europa è molto più vasta e merita identico rispetto. [...] C'è semplicemente da prendere atto che il calcio [...] ha bisogno di mantenere le fisionomie nazionali delle sue squadre per continuare a celebrare l'Europa. Compito impossibile se lo trasformiamo in un luna park.[5]
  • [Sulla finale della UEFA Champions League 1995-1996] La Juve assaggiava il trionfo senza coglierlo. Neanche a porta vuota, neanche nei tempi supplementari, quando l'Ajax finiva quasi di esistere. [...] Se i bianconeri avessero perso la coppa, il detestato titolo era già in mente: «Juve, te la sei mangiata». E invece, no, cari bianconeri, non frenate la vostra gioia. [...] L'avete riportata tra noi, dopo gli anni del Milan. [...] L'aspetto più eclatante del trionfo della Juve [...] sta nell'aver acceso molti dubbi sull'Ajax, sulla squadra che vive e prospera della sua prodigiosa memoria. Solo per una ventina di minuti nel primo tempo abbiamo temuto che potesse diventare padrona. Poi, con l'innesto di Di Livio e Padovano, nella notte dei giganti tutto è diventato Juve, fortissimamente Juve. Sino al rito solenne dei rigori, che ha spazzato via l'incubo della grande ingiustizia. Il tifo naviga tra campanili e capricci, ma è difficile non amare una Juve così.[6]
  • [Su Massimo Moratti] Grande industriale, impeccabile marito, padre di cinque figli, lui resta immutabile tifoso dell'Inter: nel senso antico, classico, esplosivo e doloroso. Dove lo trovate un presidente che, con tutti i suoi impegni, lascia l'ufficio di soppiatto il mercoledì per andarsi a vedere il Fenomeno, o Kanu, o magari Ganz oppure il suo pupillo Recoba a Busto Arsizio o a Fiorenzuola? Moratti non manca mai a queste scorribande di paese.[7]
  • [Sulla finale della Coppa UEFA 1997-1998] Al posto del mago Herrera, gran condottiero, irriducibile fabbricatore di slogan, c'è un uomo dai capelli che volgono al bianco, che si porta dietro i sapori e gli atteggiamenti della Serie B dove ha pascolato da protagonista. Saggio e gentile, talvolta prigioniero della sua semplicità, Gigi Simoni non avrebbe mai immaginato che la vita gli riservasse una notte come questa. La sua storia acquista toni un po' favolistici. La coppa Uefa nelle mani di Simoni, sullo sfondo del Parco parigino, è anche un invito, rivolto alla gente comune, a sperare nella illimitata fantasia della vita. [...] Il lancio di Simeone ha il potere sinistro di rendere liquida la difesa laziale. Tra Nesta e Negro s'infila, con la sua faccia da guerriero indio, Zamorano. Un tocco di classe: e per la squadra di Eriksson si apre la via della perdizione. [...] Zamorano ha appena colpito un palo, ma non fa in tempo ad arrabbiarsi che già offre a Zanetti l'invito a una folgore. Stavolta non c'è palo che tenga: è un gol da incorniciare. Non manca che lui, il Ronaldo che la Francia attende come re del mondiale. Arriva con uno slalom che aggiunge bellezza a una serata difficile da dimenticare, non solo per chi vive di pane e Inter. Trionfo straripante contro i resti della Lazio.[8]
  • [Sul campionato di Serie A 1997-1998] Punti avvelenati erano piovuti sul primato bianconero tali da costruire una classifica inquinata nei numeri, se non nei meriti. [...] La Juve si è trovata al centro di una situazione sgradevolissima che gettava ombra su meriti e sacrifici. Il che sembrava ingiusto. Non sarà questo in arrivo il più luminoso dei venticinque scudetti bianconeri, ma noi siamo pronti ad applaudire ugualmente quanto hanno fatto e faranno Lippi e i giocatori, da Peruzzi a quel fabbricante di capolavori che risponde al nome di Del Piero. [...] Di ogni vicenda della vita, anche delle più infelici, bisogna saper cogliere qualche aspetto positivo. Questo caso Juve ci ha fatto mettere le mani su una struttura arbitrale di vertice che ha l'aria di una combriccola parrocchiale, con amici, servitorelli, strizzatine d'occhio, telefonini che squillano negli spogliatoi, referti che si aprono o si ritoccano. Al servizio di chi, non so. Certamente non al servizio del calcio.[9]
  • Dalle Alpi francesi solcate da una tempesta, si leva solenne, al di là delle nuvole della fantasia, un dio dello sport: si chiama Marco, il nome forte di un evangelista. È andato lassù, in una bugiarda giornata di luglio, a predicare sulle montagne il mistero eterno dell'uomo ai confini della più spietata fatica. Eccolo, con i rivoli di forza vitale che gli restano addosso, nel suo ultimo gemito soave. È finita. Lo straordinario miscuglio di gioia e sofferenza che agita la sua anima produce una sorta di trasfigurazione nel volto di Pantani. C'è un senso profondamente drammatico nel suo trionfo. Ne ho viste tante in quasi mezzo secolo di sport, ma l'abbraccio di Marco con quel traguardo che gli sta davanti e che gli cambia la maglia e la vita, è un'immagine baciata dall'eternità.[10]
  • [Sulla finale della UEFA Champions League 2002-2003] E il Milan ha raccolto il giusto di una serata particolare. Non è facile inventare calcio, o alimentare i sussulti dell'imprevedibile, per due squadre che si conoscono a memoria. Nessuna sorpresa può esserci in duelli antichi, in movimenti che fanno scattare contromisure automatiche. A testimonianza delle loro buone intenzioni, Juve e Milan hanno cercato subito di sfuggire a questa sorta di prigione tecnica e psicologica con un avvio furente, ben lontano da ogni atteggiamento di studio. Non c'era nulla da studiare in effetti. La lezione la conoscevano tutti alla perfezione. Occorreva creare un diversivo rapido, prima che l'avversario si assestasse. Nella parte iniziale dell'incontro, il Milan è stato nettamente migliore della Juve: più disposizione al gioco, miglior controllo degli spazi e soprattutto più qualità. [...] Nella ripresa il «di più» del Milan si è smorzato. Devastata da acciacchi e correttivi, la grande sfida è scesa sul piano della pura lotta. Fantasia zero. Occasioni da gol, pochissime e mai limpide. La Juve è cresciuta in capacità di controllo, ma all'attacco non s'è vista salvo la bella traversa di Conte. La serata avara non poteva che avere quell'approdo. E l'avarizia è continuata persino nella sfida dei rigori. Solo la metà ne sono andati a segno. Ricorderemo con orgoglio questa finale italiana, ma che non si parli per carità di sfida del secolo. Il Milan sollevi felice la sua coppa. La storia dà gloria ai vincitori, non entra mai nei particolari.[11]
  • Felice Borel l'ho conosciuto direttamente. Lui, per carità, è stato un grande giocatore, ma non un grandissimo. Era... si distingueva perché faceva tanti gol e, soprattutto, perché era, per l'epoca, uno dei giocatori più eleganti, non solo sul campo, ma anche nella sua vita privata...[12]
  • [Su Pietro Anastasi] Un grande giocatore, per abilità, per destrezza, per generosità.[13]
  • Il Messico del '70 arrivò per miracolo alla seconda fase dove incontrò l'Italia di Riva e Rivera a Toluca, 2.800 metri di quota. Ricordo che a scalare la tribuna si finiva col fiatone. Ma gli azzurri vinsero ugualmente 4-1. E io tiro fuori sempre quell'episodio quando si parla della nostra vigliacca partita di quattro anni fa con la modesta Corea, padrona di casa, che ci costò l'eliminazione. L'Italia doveva far quattro gol, anziché prendersela con l'arbitro Moreno.[14]
  • Quando la Juve ha bisogno di lui, si toglie la tuta e dà il meglio: che è un meglio da Del Piero, roba di prima qualità. E nel notare questa sua preziosa umiltà, espressa come regola di vita, quasi ti scordi del suo passato, delle sue infinite glorie juventine, delle montagne di gol e persino del suo titolo mondiale trascinato in una serie B che, smaltita la tristezza, per la Juve sta diventando una favola. Ma lui tocca la palla e ti ricorda che, seppure a dosi limitate, c'è ancora un campione bianconero a vita che, come Roberto Baggio, è il campione di tutti.[15]
  • L'Olimpiade vince con gli sport poveri, ma vince anche con i campioni del superprofessionismo. L'Olimpiade è una parentesi tra le contraddizioni dello sport, viaggia tra le angustie e gli splendori del mondo, non maschera nulla, non ci fa dimenticare tragedie e ingiustizie, difende faticosamente valori. Benedetto sia chi la concepì e chi la fece rinascere. Nulla di più bello ho visto sgorgare dalla fantasia dell'uomo.[16]
  • Alessandro Del Piero, storia juventina che non finisce mai, ammaliante condanna. Lui ha scavalcato i miti del club più famoso d'Italia, lui è più forte dell'anagrafe, degli infortuni, degli allenatori che lo sostituiscono, dei critici che lo considerano un peso nella marcia verso il futuro. Lui è Del Piero e quel prodigioso tiro della rinascita non poteva essere che suo.[17]
  • Lui non esercita soltanto carisma, non è un semplice esempio di comportamento, non è rinchiuso nel suo ambito di indiscusso capitano: è anche un operaio specializzato. [...] Del Piero è proprio un caso da studiare. E io penso che un trattato su di lui unisca fisiologia, psicologia, stile di vita, arte del comando.[18]
  • È stata l'ultima domenica di calcio del 2008 ed io mi concedo il privilegio di assegnare un Oscar personale, senza giuria. Sento di avere milioni di persone alle spalle e di interpretare il loro sentimento. L'Oscar è per Alessandro Del Piero, un veterano del pallone che ho visto sbocciare quando nella Juve c'era Baggio e che all'improvviso, all'età in cui si parla di pensione, è tornato ragazzo. Non è la onirica visione di una favola natalizia: è l'incredibile realtà. Del Piero ha stravolto anagrafe e fisiologia. Era largo, greve e logoro a 28 anni, con muscoli gonfi e non saltava più l'uomo. È ringiovanito dai 32 anni in su: corre scioltissimo, dribbla come dodici anni fa. E in più inventa quei prodigiosi calci di punizione, frutto di un esercizio infinito.[19]

Michel nella galleria dei grandi juventini

Da Juve, lo scudetto di Platini, supplemento a La Gazzetta dello Sport dell'8 maggio 1984, p. 3.

  • Questo scudetto numero 21 odora di Michel: che non è un profumo francese ma il nome di un campione autentico che in Italia – anzi nella Juve – ha trovato una nuova dimensione, ha arricchito i suoi estri, ha solidificato la sua tempra, ha allargato il suo repertorio sino a diventare, per consacrazione spontanea, uno dei primi tre o quattro giocatori al mondo in attività di servizio. Michel Platini «firma» idealmente lo scudetto juventino che inaugura la terza decina. Senza spocchia e senza presunzione, ma con pieno diritto. La copertina è sua.
  • Platini [...] ha avuto alle spalle una squadra che [...] si è rivelata nettamente la migliore, la più coerente, la più continua: la solita Juve, insomma, mostro di esperienza e puntualissima, al meglio delle proprie risorse, nei momenti che contano. I meriti s'incrociano: Platini ha saputo capire questa squadra in modo da poterle offrire il suo genio, i suoi gol e anche la sua dedizione; la Juve ha saputo creare il piedistallo adatto per il suo maggior campione. I matrimoni felici non si realizzano senza una disponibilità spirituale reciproca.
  • Michel Platini è sicuramente uno dei migliori stranieri di ogni epoca, approdati in Italia. Lo è, naturalmente, in una visione moderna, aggiornata e professionalizzata del calcio. È la somma di molti illustri modelli ed è anche la fusione di diverse esigenze di comportamento (non soltanto sul campo). Il regista sconfina nell'uomo da gol; la spontanea attitudine al comando nella umiltà e nella gioia di un «servizio» in favore di altri. Ne vien fuori un senso di completezza che di Platini è forse la espressione più vera e più rassicurante. E poi c'è la pasta dell'uomo che ha saputo procurarsi ammirazione sì, ma anche stima e affetto. Non è facile.

La Gazzetta dello Sport, 3 luglio 2000.

[Sulla finale del campionato europeo di calcio 2000]

  • Dopo tante critiche al nostro calcio speculativo, l'Italia aveva dimostrato alla Francia campione del mondo di saper giocare come lei o meglio di lei. In una sfida dominata dalla tensione e da un rispetto reciproco, sin troppo esagerato, le cose più belle, più intelligenti erano state nostre, compreso il gol di Delvecchio, avviato da un colpo di tacco di Totti che sembrava estratto dal repertorio magico di Zidane. Ma in quei sessanta secondi di recupero le porte del paradiso improvvisamente si chiudevano. E davanti agli azzurri si apriva la voragine. Una lunga respinta del portiere Barthez, un pallone che rimpalla tra due teste verso il piede di Wiltord. Ne vien fuori un tiro velenoso che Toldo, il nostro angelo, sfiora appena prima di sprofondare nella disperazione.
  • Tempi supplementari. Stanchezza, speranze da ricostruire. Ma dura poco: il demonio ha scelto Trezeguet per completare la sua spietata operazione. E così la Francia campione del mondo diventa anche campione d'Europa. E noi dolorosamente ci inchiniamo, memori anche delle fortune pregresse e convinti che questo secondo posto, pur gonfio di rimpianto, resta un capolavoro, stampato sulle facce di quei ragazzi che si sono battuti da leoni e ora si abbandonano a lacrime liberatorie e dignitose. L'Italia ha subito una beffa proprio nel giorno in cui ha giocato la sua migliore partita.
  • Abbiamo ritrovato la nazionale con un Totti che può esserne leader per un decennio. L'Italia le ha dato amore e orgoglio. Zoff è stato rivalutato. Un popolo di individualisti ha offerto una esaltante immagine di gruppo. Ragioniamo, non è poco: è quanto basta per andare a letto e cercare di non sognare quell'odioso ultimissimo minuto.

La Gazzetta dello Sport, 1º luglio 2002.

[Sulla finale del campionato mondiale di calcio 2002]

  • Ronie era a casa come un pensionato, fingendo di essere sereno, con un'infinita tristezza addosso e sprazzi di quella filosofia spicciola che porta a scoprire «gli altri valori della vita». Si appartò con Pelé in una stanza. Il piccolo Ronald si era svegliato e io lo tenevo in braccio, come farebbe un nonno. Pelé gli parlò delle sue grandissime gioie del '58 e delle pene vissute ai Mondiali del '62 e del '66. Pedate criminali sulle sue preziose gambe, infortuni a catena, una serie nera che sembrava interminabile. Ma poi gli raccontò anche del Pelé del 1970, leader del più forte e compatto Brasile mai esistito, e di quel suo favoloso gol di testa che fece apparire il guerriero Burgnich un leone nano. «Ronie, se sono rinato io, anche tu un giorno griderai la stessa gioia». Questo fu il saluto di Pelé. E adesso che Ronaldo si è messo sulle spalle il Brasile riportandolo al titolo mondiale, come si fa a non voltarsi indietro?
  • La trama dei due gol sembra proprio una sintetica lezione brasilera anche se sul primo, tra il duetto Rivaldo-Ronaldo, c'è un bizzarro inciampo del portiere Kahn, appena proclamato il migliore del Mondiale. Ma il secondo gol è musica pura: il cross di Kleberson è impreziosito da una finta di Rivaldo. E riecco Ronie, impeccabile col suo destro, il piede benedetto di questa finale. Il discusso tecnico Scolari, partendo dalle pene di una qualificazione davvero scoraggiante, ha costruito strada facendo una squadra vera, forte anche di Marcos, bravissimo portiere.
  • Nella fantasia popolare, il Brasile è sempre di un altro pianeta. Ieri lo è stato anche sul campo. Ma se guardiamo a quello che ha fatto la Germania in questo torneo, due obblighi ci incombono: inchinarci al suo coraggio e pensare a quanto vigliacca sia stata la nostra uscita «coreana» dal Mondiale.

Dall'intervista di Claudio Sabelli Fioretti a Sette; citato in interviste.sabellifioretti.it.it, 12 dicembre 2002.

  • Esiste un mercato del cattivo gusto e il trionfatore è Aldo Biscardi. Imbattibile. I più casinisti, i presidenti peggiori li trova sempre lui. Ha fiuto. Siamo amici, ma la sua è una televisione che non mi piace. Come quella che fa Maurizio Mosca. Io gli voglio bene. È un ragazzo umanamente tenero. Ma non amo quello che fa in televisione.
  • Gli adulatori nascono attorno agli uomini potenti. Attorno a Berlusconi ce ne sono tantissimi. Fa impressione vedere alla televisione questo Schifani.
  • Ho tifato per il Milan, per la Juve, per l'Inter e per la Roma. Tutto purché il campionato fosse vivace, nell'interesse della mia ditta, la Gazzetta dello Sport.
  • La concorrenza tra Rai e Mediaset ha divorato lo sport. Abbiamo dovuto ripensare i giornali. Oggi devi dare per scontato che la gente sa già che cosa è successo quando compra il giornale. E devi costruire delle storie.

Citazioni non datate

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  • Chi avrà la fortuna e l'onore di vincere il titolo mondiale, non lo erediterà dai favolosi campioni di Spagna, ma da un drappello di fantasmi che, da ormai quasi quattro anni, non facevano più paura a nessuno.[20]
  • Fausto era ancora nella camera ardente. Arrivò Bartali. Prese la mano di Fausto e disse: «È incredibile, è incredibile». Pianse e pregò alla sua maniera. Il grande duello era finito per sempre.[21]
  • [Su Luigi Meroni] Scrostava la muffa dalle abitudini, smascherava le ipocrisie. Un tenero rivoluzionario che dava il meglio di sé nel lavoro e poi rivendicava libertà totale.[22]

E li chiamano disabili

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  • La domanda da porsi è questa: che cosa può fare un disabile per la collettività in cui vive? È una domanda rivoluzionaria, un cambio drastico di cultura e immagine.
  • La vita è un miracolo che può fiorire ovunque, anche dove sembra che la luce del giorno non sia mai arrivata.
  • Penso che talvolta i veri limiti esistano in chi ci guarda.
  • Vedi com'è la vita? C'è gente che va in chiesa, prega, si batte la mano sul petto e poi si comporta in modo vergognoso.

Pretacci: Storie di uomini che portano il Vangelo sul marciapiede

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  • Don Rigoldi è un missionario in patria, anzi in casa.Dovunque mette le tende, la sua prima mossa è aprire le porte, anzi spalancarle, a tutti.
  • Ho immaginato un marciapiede infinito. E uomini di Cristo che lo percorrono con il Vangelo in mano in un'azione rudemente terrena che recupera i valori primigeni del messaggio cristiano.
  • Preti antichi come don Oreste Benzi, legato sino alla morte alla sua tonaca, che ha lasciato odore di santità sulle strade della notte, tra ragazze schiave e vendute come merce.
  1. Da Quell'attimo di genio, La Gazzetta dello Sport, 30 giugno 1986.
  2. Da Il mondiale che abbiamo vinto, La Gazzetta dello Sport, 9 luglio 1990.
  3. Da Se Marsiglia fosse in Italia, La Gazzetta dello Sport, 7 settembre 1993, p. 1.
  4. Da Crudele, ma bello lo stesso, La Gazzetta dello Sport, 18 luglio 1994.
  5. Da L'Europa del buonsenso, La Gazzetta dello Sport, 18 gennaio 1996.
  6. Da Ora sì, sei campionissima, La Gazzetta dello Sport, 23 maggio 1996.
  7. Da La flotta aerea di Moratti, La Gazzetta dello Sport, 15 settembre 1997.
  8. Da Il «mago» dai capelli bianchi, La Gazzetta dello Sport, 7 maggio 1998.
  9. Da Una voce ragionevole nell'arrogante silenzio, La Gazzetta dello Sport, 9 maggio 1998.
  10. Da Attacca da lontano e sgretola tutti È in giallo: ora ha il Tour in mano Scrive così una pagina epica di sport, La Gazzetta dello sport, 28 luglio 1998.
  11. Da Cocktail eccitante, La Gazzetta dello Sport, 29 maggio 2003.
  12. Dall'intervento nel DVD La grande storia della Juventus: 1897-1956 "Il segreto della Juventus", a cura di Manuela Romano, con la collaborazione di Roberto Saoncella, RCS Quotidiani, RAI Trade, LaPresse Group, 2005.
  13. Dall'intervento nel DVD La grande storia della Juventus: 1966-1975 "Da Herrera a Parola", a cura di Manuela Romano, con la collaborazione di Roberto Saoncella, RCS Quotidiani, RAI Trade, LaPresse Group, 2005 (06:30).
  14. Da Cannavò: "quanti aiuti casalinghi, ma il mondiale non si vince con gli arbitri", La Gazzetta dello Sport, 3 giugno 2006.
  15. Da Del Piero, Baggio e la dolce memoria di Prisco, La Gazzetta dello Sport, 11 dicembre 2006.
  16. Da Il Federer olimpico e il dolore di Pelé, La Gazzetta dello Sport, 25 luglio 2008.
  17. Da Ale, vita da Juve che non finisce mai, La Gazzetta dello Sport, 23 ottobre 2008.
  18. Da Ale, un fenomeno da studiare, La Gazzetta dello Sport, 6 novembre 2008.
  19. Da Il mio premio al ragazzo Ale, La Gazzetta dello Sport, 22 dicembre 2008.
  20. Dalla conclusione di un editoriale dopo l'eliminazione dell'Italia dal campionato del mondo 1986, La Gazzetta dello Sport.
  21. Citato in Claudio Gregori, Il Bici-Calendario.
  22. Citato in Gian Antonio Stella, Ricordo di Meroni, bohémien del calcio, Corriere della Sera, 1º febbraio 2017, p. 27.

Bibliografia

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  • Candido Cannavò, E li chiamano disabili (2005), Rizzoli. ISBN 8817007811
  • Candido Cannavò, Pretacci: Storie di uomini che portano il Vangelo sul marciapiede, 2008.

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