Arminio Savioli

giornalista e partigiano italiano

Arminio Savioli (1924 – 2012), giornalista e partigiano italiano.

Citazioni di Arminio Savioli modifica

  • Dovendo tracciare un bilancio, bisogna riconoscere alla «gestione Numeiri » alcuni meriti storici. Il primo è quello di aver tentato di risolvere in modo pacifico la grave questione meridionale. Le province «sudiste» del Sudan sono abitate da popolazioni nilotiche pagane o cristiane, che non parlano arabo e non sono state toccate dalla penetrazione islamica. A queste popolazioni, in stato di ribellione endemica (ribellione incoraggiata, armata e finanziata, non bisogna nasconderselo, di servizi segreti angloamericani, dall'imperatore d'Etiopia, dagli israeliani, dalla Germania occidentale, e da una parte del clero cattolico) i precedenti governi avevano saputo mostrare soltanto il volto duro della repressione armata. El Numeiri seppe offrire una mano tesa, una proposta di autonomia nell'unità, grazie anche alla azione intelligente e tenace del ministro per gli Affari Meridionali, il comunista Joseph Garang, nilotico lui stesso e cristiano.[1]
  • El Numeiri cade vittima dei suoi pesanti errori, che hanno offuscato e infine cancellato i successi e i meriti del suo breve regime.[1]
  • Si sapeva già che l'accusa a Yasu di essere un pazzo e un «traditore» del popolo Amhara (cristiano ed egemone in Etiopia fino ad oggi) era falsa. Essa era servita a giustificare la deposizione del sovrano e quindi ad impedire che il Paese, alleandosi con turchi e tedeschi, prendesse alle spalle gli inglesi installati in Egitto e attaccasse gli italiani in Somalia (già alle prese con la rivolta guidata dal Mahdi somalo Mohammed Abdallah Hassan, un eroe popolare che naturalmente Yasu appoggiava e riforniva di danaro e di armi). Si sapeva anche che la deposizione di Yasu aprì la strada alla lenta presa del potere da parte di ras Tafari Makonnen, incoronato poi col nome di Haile Selassie I.[2]
  • [Sul Derg] I rappresentanti dei paesi socialisti e di quelli arabi progressisti, pur non essendo tutti unanimi nel giudicare gli avvenimenti e soprattutto nel formulare pronostici sul futuro immediato, manifestando apertamente, tallora con qualche riserva, spesso con entusiasmo, una grande fiducia, un profondo rispetto per gli uomini nuovi che hanno assunto il potere in Etiopia. Vi è chi evoca i nomi di Kemal Ataturk, di Nasser, dei generali peruviani, e chi invece vede nel carattere assembleare del nuovo gruppo dirigente o un ritorno alle più antiche tradizioni africane di democrazia tribale e di villaggio, o al contrario (ma in fondo è lo stesso) una anticipazione di sviluppi ancor più vigorosamente rivoluzionari.[3]
  • Ponte fra l'Africa settentrionale e quella centro-meridionale, il Sudan ha condiviso con l'Egitto, sia pure in modo periferico, la civiltà dei Faraoni, con l'Etiopia momenti di cristianità, con tutto il Nord Africa e il Medio Oriente l'impetuosa benché tarda penetrazione islamica. Il paese è diviso orizzontalmente in due, dal punto di vista etnico, religioso e culturale. Al Nord tribù di stirpe sudanese arabizzate e islamizzate; al Sud popoli nilotici, pagani o cristiani, che non parlano arabo e che hanno affinità più con l'Uganda, il Kenia, lo Zaire, che con i loro compatrioti settentrionali: dai quali, anzi, sono stati razziati e fatti schiavi per secoli, e infine massacrati durante la sanguinosa guerriglia degli Anya-Nya, che si erano fatti uno stemma con il bufalo cafro, una freccia e due serpenti intrecciati: tutti simboli dell'Africa Nera, non del mondo arabo.[4]
  • Oltre a quelli più noti e visibili (i petro-dollari, i reparti scelti della guardia imperiale, i torturatori della Savak, il presidente americano Carter, le cui preoccupazioni per i diritti umani svaniscono sulla soglia delle prigioni di Teheran), lo scià ha un altro alleato, «invisibile», ma purtroppo potente: la mancanza di unità fra le forze dell'opposizione.[5]
  • Gli ayatollah attaccano lo scià in nome di un Islam rivissuto nella sua antica semplicità e purezza. L'industrializzazione, la «modernizzazione», così come l'imperatore le ha volute e applicate, hanno significato: espropriazione di milioni di contadini, brutalmente trasformati in proletari, sottoproletari, emarginati, spostati; importazione di sottoprodotti culturali fra i più deteriori dell'Occidente; corruzione; distruzione di un patrimonio di idee, valori, sentimenti che ha radici profonde 11 secoli; asservimento del Paese all'imperialmismo.[5]
  • [Su Akbar] Egli è passato alla storia come un uomo tollerante, illuminato, scettico, convinto che in ogni fede religiosa vi fosse «del buono», aperto alle discussioni filosofiche e teologiche con bramini induisti, guru sikh, mullah musulmani, gesuiti, fachiri, asceti di ogni corrente spirituale. La violenta crisi che scuote «oggi» l'India ci dice, meglio di ogni dissertazione specialistica, quanto geniale (ma anche quanto disperata) fosse l'intuizione dell'imperatore: che proprio nelle rivalità religiose si annidasse il più pericoloso ostacolo alla «governabilità» (come sì direbbe oggi) dell'India, alla sua unificazione nazionale, al suo sviluppo, alla sua reale indipendenza.[6]
  • Quando, nel 1857, interi reggimenti di indù e musulmani si ammutinarono (sempre per complesse ragioni religiose, nazionali, culturali, regionali), accendendo il fuoco della Grande Rivolta, i sikh restarono a fianco degli inglesi, e diedero un contributo decisivo al successo della repressione. Da allora, per altri novantanni, i «discepoli» di Baba Nanak continuarono ad essere uno dei pilastri (o dei «bastoni») dell'impero britannico.[6]

Da La parabola dalla rivoluzione al crollo

L'Unità, 9 febbraio 1963

 
Abd al-Karim Qasim
  • Alto, ossuto, le guance scavate dall'ombra nerastra di una barba mal tagliata; occhi scintillanti sotto folte sopracciglia; mani e piedi grandi e robusti, sobrio nei gesti, prudentissimo nel linguaggio, cortese nei modi. Così ci apparve per la prima volta il gen. Abdel Karim el Kassem nel corso della sua prima conferenza stampa, in un'afosa stanzaccia del «Serraglio», la Presidenza del Consiglio irakeno, all'indomani del colpo di Stato che aveva spazzato via da Bagdad i capi di una corrotta monarchia e quel vecchio arnese dell'imperialismo britannico che era Nuri Es Said.
  • Quest'uomo dalle origini modestissime (era figlio di un falegname) e dal passato oscuro di ufficiale di carriera in un Paese senza più guerre dal '14-'18, aveva saputo agire con la destrezza, l'audacia e la tempestività di un consumato uomo politico.
  • Riccorrendo ad intrighi e provocazioni, lacerò in due tronconi i nazional-democratici, creò ad arte un grave attrito fra democratici kurdi e comunisti, e giunse fino al punto di creare un sedicente «Partito comunista» controllato dal governo, finanziato e autorizzato a stampare giornali legali.
    Decine di migliaia di cittadini ed ufficiali, fra cui molti comunisti, furono messi in campo di concentramento, o in prigione. Decine di comunisti furono condannati a morte. Kassem truccò le elezioni, sciolse e riorganizzò a suo modo il movimento sindacale, liquidò le associazioni giovanili, studentesche e femminili, soppresse il sindacato della stampa, e chiuse i giornali di sinistra. In una parola, distrusse ogni forma di vita democratica, raccogliendo tutto il potere nelle sue mani.
  • [Sulla Rivoluzione del Ramadan] Kassem si era messo, ormai, contro tutti. Contro i nasseriani, che sono ovviamente numerosi fra i giovani ufficiali; contro i comunisti, sempre più influenti - nonostante le persecuzioni - fra il proletariato, le masse studentesche e la elite intellettuale; contro gli inglesi, ponendo precise rivendicazioni sullo sceiccato del Kuwait; contro gli americani, che continuava ad attaccare con violenza verbale; contro i kurdi, che rappresentano una grossa minoranza nazionale in Irak. [...] Kassem, completamente isolato, prevedeva dunque la catastrofe imminente? È probabile. Il recente spostamento di una cinquantina di ufficiali sembra indicare che il dittatore si aspettava il colpo. È stata una mossa inutile. La sanguinosa parabola stava per chiudersi, e non c'era più scampo.

Da Persia: Technicolor e torture

L'Unità, 3 ottobre 1971

 
Marcia militare a Persepoli, ottobre 1971
  • [Sulla Celebrazione dei 2500 anni dell'Impero Persiano] Da dieci anni una commissione di cortigiani ha studiato, elaborato, infine varato un «programma favoloso» che si ispira con disinvolto eclettismo sia alle messe in scena dei «kolossal» hollywoodiani sia alle sfilate carnevalesche di Rio de Janeiro sia infine alle manifestazioni politico folkloristiche di Mussolini e soprattutto di Hitler. Costo complessivo 250 milioni di dollari, pari a 150 miliardi di lire.
  • Fra danze e feste di ogni genere (compresi matrimoni tribali), erezioni di archi di trionfo e saggi ginnici, spettacoli teatrali «suoni e luci» e congressi archeologici, i persiani avranno di che distrarsi dalle miserie quotidiane. Gli unici che non avranno alcun motivo per rallegrarsi saranno i familiari dei fucilati, dei torturati, dei condannati, dei «sospetti» che gremiscono nei commissariati, le caserme e le prigioni. Poiché nessun fuoco d'artificio, nessuna fanfara, nessun concione potrà far loro dimenticare che il regime persiano è una tirannia che nasconde molto male o non nasconde affatto dietro una facciata fastosa e pacchiana, una realtà di ferocia spietata.
  • L'accentuarsi della repressione [...] si spiega anche con la volontà del regime di trasformare la Persia in un cimitero di silenzio per poter svolgere in piena sicurezza i festeggiamenti per il 2.500º anniversario della monarchia.

Da Dietro il trono del vegliardo

L'Unità, 23 luglio 1972

  • [Su Asrate Kassa] [...] si vanta di essere il discendente autentico di ben tre dinastie regionali. Presidente del consiglio della corona, ex presidente del senato ed ex governatore generale dell'Eritrea, Kassa è al vertice di potenti clientele. Inoltre piace al dipartimento di Stato americano, secondo il quale esercitò le sue funzioni nella ex colonia italiana «con comprensione e saggezza».
  • L'Etiopia è un paese in cui convivono, dopo essere stati conquistati dagli amara, non meno di cinque altri popoli: galla, sciangalla, somali, sidamo e afar (o dancali). Gli amara sono cristiani copti, gli altri cristiani, o musulmani, o pagani. In Eritrea e nell'Ogaden sono in corso, o possono riesplodere da un momento all'altro, guerriglie e insurrezioni. Con la Somalia è sempre viva una disputa sul futuro assetto della Somalia francese (di recente ribattezzata « Territorio degli Afar e degli Issa »). I musulmani. probabilmente di poco inferiori numericamente ai cristiani (le statistiche sono vecchie o inattendibili, e lo stesso numero complessivo degli abitanti dell'Etiopia è incerto) simpatizzano per i paesi arabi, mentre il governo è filo-israeliano e (moderatamente) filo-americano.
  • Fra i motivi di tensione politico-sociale il più importante (per ora solo potenzialmente) è quello rappresentato dall'estrema miseria delle masse contadine, spietatamente sfruttate ed oppresse dai grandi proprietari feudali.
  • Il «clan» più potente in seno alla borghesia è quello che fa capo al primo ministro Aklilu Habteuold, i cui uffici «rigurgitano di consiglieri e specialisti americani ». Egli è considerato l'uomo «forte» dell'Etiopia, secondo solo all'imperatore. Lo dimostrerebbero le dure sconfitte subite dai suoi oppositori: il deggiasmach Aitila è finito in prigione. Altri, come Yilma Deressa o Zeu di Glabe Hiuot, sono stati costretti a dimettersi dai posti ministeriali che ricoprivano. Un altro «clan» è quello che fa capo al ministro delle poste e recente candidato al segretariato generale dell'ONU, Makonnen Endalkacciu. Si tratta di un gruppo «segreto », composto da giovani burocrati formatisi nei paesi occidentali, che si riuniscono all'Ethiopian Touring Club. «Il solo membro straniero del club è l'addetto militare americano».

Da Il difficile «dopo Peron»

L'Unità, 7 luglio 1974

  • Caratteristica di Peron, della sua grossa statura di «caudillo populista», del suo mito e della sua reale «presa» nella realtà argentina, fu la capacità di attirare le grandi masse popolari e proletarie, tenute per secoli ai margini della società, a dare il loro appassionato sostegno ad una politica che grosso modo si può definire di liberazione nazionale, sull'onda della crescita economica e del «boom» industriale provocato dalla seconda guerra mondiale, che mise in crisi l'assetto imperialistico dell'epoca, rovinò l'Europa e portò invece all'Argentina grandi vantaggi.
  • Nessuna manovra di uomini politici «in borghese», nessuna violenza repressiva di generali «gorilla» è riuscita a spezzare il vincolo di fedeltà che legava i lavoratori, la piccola borghesia nazionalista, gran numero di studenti sinceramente rivoluzionari, e tanti intellettuali antimperialisti e di sinistra alla persona fisica di Peron, al ricordo dei «bei vecchi anni» delle sue fortunate presidenze, alla suggestione del suo messaggio, pur così vago ideologicamente, così eterogeneo e facile a prestarsi alle più diverse interpretazioni.
  • Il ritorno di Peron non aveva posto fine ai contrasti fra l'ala destra e quella sinistra del peronismo, ma anzi li aveva aggravati. L'illusione della «pace sociale» è naufragata in un mare di sangue, in una ondata di assissinii politici, di vendette e rappresaglie in cui hanno trovato la morte esponenti di primo piano del «giustizialismo».

Da Il cupo tramonto di Haile Sellassie

L'Unità, 28 agosto 1975


  • [Su Haile Selassie] Aveva un viso tipicamente etiopico, cioè africano e semita allo stesso tempo. Era piuttosto basso, rispetto alla media del suoi sudditi, ma indubbiamente bello. Dall'infanzia fino alla vecchiaia, le fotografie lo dimostrano. Naso aristocratico, aquilino, sguardo fiero, da uccello rapace. Un volto da re, di quelli che incutono timore e rispetto. Era freddo e taciturno, abituato a controllare ogni parola, ogni gesto, ogni pensiero. Amava i cani più piccoli del mondo (i minuscoli chihuahua: ne aveva due, uno bianco e uno nero, Lulu e Papillon, che nutriva personalmente di carne di prima scelta) ma anche le belve più grandi e possenti, i leoni, che lasciava liberi di circolare nel Ghebbi imperiale, di spaventare e (si dice) di azzannare gli ospiti indesiderati.
  • Considerava il coraggio la dote più importante di un uomo, insieme con la dignità. Ma riteneva che un re «deve sapere come barcamenarsi, oscillare tra amici e nemici, tra il nuovo e li vecchio ». Egli aveva avuto, in abbondanza, tutte e tre le doti: coraggio, dignità e abilità manovriera. E tutte e tre gli erano state non utili, ma assolutamente indispensabili per conquistare il potere.
  • La pasta di cui era fatto somigliava piuttosto a quella di certi condottieri italiani, principi del Rinascimento, avventurieri geniali o papi dalla mano di ferro. La sua origine aristocratica era indubbia. Non così quella regale. L'accesso al trono non gli fu facile. Dovè aprirselo con lance, spade e fucili.
  • In sostanza, rafforzò il potere centrale contro la anarchia feudale, i regionalismi, i fermenti delle grosse minoranze etniche e religiose. Pece dell'Etiopia, mosaico di popoli, uno Stato: non uno stato moderno, semplicemente uno Stato, con una bandiera, un inno, forze armate obbedienti ad un solo capo, una sola moneta, un embrione di apparato statale, con funzionari docili all'Imperatore, non ai ras locali.
  • Con gli Italiani fu generosissimo. Vietò ogni forma di rappresaglia o vendetta, ordinò che fossero lasciati liberi di proseguire le loro attività. Ancora oggi, vivono in Etiopia migliaia di italiani e di figli di italiani, alcuni ricchi, altri agiati, altri ancora poveri.
  • Tutti i mali dell'Etiopia, fame, carestie, siccità, arretratezza, erano stati addossati sulle sue spalle, ormai curve e gracili. La storia lo giudicherà. Ieri, ad Addis Abeba, non e morto un uomo. È svanita una pallida ombra.

Da Lumumba. Quel che la leggenda gli ha tolto

Calendario del popolo, marzo 1976

 
Patrice Lumumba
  • Lumumba non era (nulla, infatti, lo prova) quel ribelle romantico che alcuni ci hanno voluto far credere (basti pensare a certe frasi del suo amico belga Jean Van Lierde). Perfino sulle sue «umili» origini ci sarebbe da discutere. Figlio di un contadino, era però un évolué, cioè uno di quegli africani a cui la «paternalistica» amministrazione belga, nel tramonto degli imperi, aveva concesso una sorta di cittadinanza di seconda classe. [...] Fece le elementari con i missionari cattolici, le medie con i protestanti. Inurbatosi a Stanleyville, riusci a conquistarsi un lavoro fisso, modesto, ma rispettato: impiegato delle poste. In mezzo a una marea di milioni di contadini analfabeti, e di sottoproletari turbolenti e disperati, Lumumba apparteneva dunque a una «felice» élite di non più di centomila persone.
  • Non possedeva, certo, la cultura di un Senghor o di un N'Kruma. Ma la sua poesia L'Africa sarà libera («Piangi, amato mio fratello negro... Tu, che non hai mai innalzato piramidi...») è singolarmente bella e colta, e i suoi discorsi sono eloquenti.
  • Non risulta affatto che avesse simpatie per il marxismo, per il comunismo; né che già mirasse ad affrontare, una volta conquistata l'indipendenza, i problemi sociali congolesi, del resto ancora embrionali in un paese dove il colonialismo non aveva permesso, o aveva ritardato e deformato, la nascita di vere classi nel senso moderno della parola.
  • Era, insomma, anche lui, come tanti altri protagonisti della decolonizzazione in Africa, un «negro bianco»; era il prodotto doloroso di un'acculturazione che ha sconvolto e annientato senza pietà le vecchie strutture e sovrastrutture tribali, senza ancora produrre altro che vuoti spaventosi, o, nella migliore delle ipotesi, sommarie impalcature, esili premesse, ruvide trame di un nuovo che stenta a sorgere. Anche Lumumba era, culturalmente, un «mostro», che il creatore europeo (nuovo dottor Frankenstein) ha aborrito e rinnegato nel momento stesso in cui gli ha dato la vita.
  • Mentre il tribalismo, il regionalismo, il federalismo di uomini come Kasavubu. Kalonji e Ciombè (tanto più «africani» nei loro legami clientelari con le masse arretrate, nella loro demagogia populista, nel loro estremismo parolaio) non facevano paura alle centrali imperialistiche, che anzi già pensavano al modo migliore di servirsene, la prospettiva unitaria di Lumumba, moderna, illuminata, «europea», anche se non socialista, anche se liberal-democratica nell'ispirazione, irritava e spaventava, perché conteneva in sé il germe di un Congo forte, evoluto e padrone delle sue ricchezze, capace di trattare da pari a pari con il mondo intero.
  • Si distaccò dalle masse, troppo semplici per capire un discorso tutto sommato ancora astratto, non nutrito di contenuti tangibili, prosaici, a portata di mano. E si alienò gli altri évolués, meschini e miopi, volgari nelle aspirazioni, smaniosi soltanto di rafforzare i propri privilegi senza troppo affaticarsi, di avere gradi più alti, militari e civili, di mettersi in tasca stipendi più cospicui, insomma di occupare «il posto dei bianchi», e di vivere «come i bianchi» a spese degli altri negri.
  • Lumumba non era un estremista, non rifiutava il compromesso. Ma erano i suoi interlocutori a rifiutarlo. Coloni, generali e amministratori belgi, compagnie multinazionali, CIA. servizi segreti di mezza Europa, non volevano trattare con un «eguale», ma con dei servi. Perciò provocarono il famigerato ammutinamento delle truppe africane, favorirono i movimenti secessionisti, gli aizzarono contro gli altri aspiranti al potere.
  • L'ironia della storia vuole che l’odierno presidente Mobutu, uno dei responsabili diretti della morte di Lumumba, si vanti di esserne l'erede, gli intitoli piazze, gli eriga monumenti. L'ipocrisia, come tutti sanno, è l'omaggio che il vizio rende alla virtù.

Da Ogaden, passato e presente

L'Unità, 31 luglio 1977

  • Il conflitto somalo-etiopico ha origini antiche e recenti. È naturale che entrambe siano presenti e vive nelle coscienze dei due popoli.
  • Sta di fatto [...] che l'Etiopia (più esattamente la parte amhara e cristiana dell'Etiopia) rappresenta una «eccezione», una singolare «anomalia», un «mistero», uno «scherzo» della storia, essendosi mantenuta fedele al cristianesimo in una regione del mondo, quella «sudanese» nel significato più vasto della parola, che per il resto, dall'Atlantico al Mar Rosso, è quasi ovunque ed esclusivamente musulmana: un cristianesimo, si badi bene, assorbito pacificamente ed «autonomamente» in seguito alle influenze del mondo greco-romano, fin dai primi secoli dopo Cristo; non imposto più o meno con la forza nell'epoca coloniale dagli europei, come è avvenuto in tante altre parti dell'Africa.
  • Il fatto è che l'Etiopia moderna ha raggiunto i suoi attuali confini (Eritrea a parte) e si è formata come Stato, in aperta ed esplicita concorrenza con le potenze europee che intanto si spartivano il continente nero. Approfittando di una serie di favorevoli circostanze anche geografiche (la difficile accessibilità dell'altopiano), giocando sulle rivalità fra gli europei, valendosi di solide tradizioni militari di tipo «mediovale» e «feudale», ma ancora efficaci in un'epoca che non conosceva né aerei, né carri armati. Menelik riuscì a ritagliarsi un suo impero nella carta dell'Africa, così come la regina Vittoria, l'imperatore Guglielmo, re Leopoldo del Belgio, la Francia repubblicana e l'Italietta di Umberto I si ritagliavano i loro.
  • I confini etiopici non sono più «arbitrari» di quelli di qualsiasi altro Stato africano. Sono confini stabiliti dal colonialismo.
  • Se si cominciassero a toccare i confini africani, ben pochi resisterebbero all'urto dell'uragano etnico, tribale e religioso: vecchie rivalità riprenderebbero vigore; popoli che oggi, bene o male, convivono in pace, ricomincerebbero a massacrarsi a vicenda; e l'Africa, trasformatasi in un immenso Biafra, sarebbe coperta di sangue e di stragi.

Da Gli uomini del «Derg»

L'Unità, 9 dicembre 1977

 
I capi del Derg; Menghistu Hailè Mariàm, Aman Mikael Andom e Atnafu Abate.
  • I nuovi dirigenti dell'Etiopia continuano a restare nell'ombra. Si dice che abbiano giurato di non concedere interviste personali, di non prendere mai decisioni senza prima essersi consultati con gli altri membri del «Derg», di non fare nulla che possa provocare dissidi e rancori, formazioni di correnti o, peggio, di fazioni Se un tale patto esiste, bisogna ammettere che esso è stato rigorosamente rispettato.
  • [Su Tafari Bante] Egli è stato scelto — come è stato ufficialmente spiegato — per le sue doti di patriottismo, integrità, adesione alla causa nazionalista che si esprime nello slogan «Etiopia innanzitutto» e per le sue umili origini.
  • Di Menghistu si sa comunque ben poco. La sua età dovrebbe oscillare fra i 39 e i 42 anni. È un ufficiale della terza divisione [...] La sua origine etnico - sociale sembra addirittura emblematica. È di sangue «walamo», un popolo fra i più oppressi dell'impero, da cui per secoli i mercanti di schiavi hanno attinto, soprattutto attraverso rapimenti e razzie, la loro merce umana. Nel 1894, migliaia di «walamo» furono fatti prigionieri da Menilik II, e portati in catene ad Addis Abeba. Diplomatici stranieri e semplice gente del popolo spiegano con tali origini l'odio di Menghistu per ogni forma di oppressione, il suo supposto rigore morale, l'implacabile severità della sua condotta.
  • Dopo quello «bianco» sud-africano, e quello egiziano (che si avvale del poderoso apporto sovietico) il potenziale bellico etiopico è il più forte del continente. Gli esperti affermano che la sua aviazione dispone di ottimi piloti e le sue trasmissioni, essenziali nella guerra moderna, di tecnici e mezzi elettronici eccellenti e altamente «sofisticati». Creando uno strumento militare moderno nel quadro di una società rimasta fondamentalmente feudale, Hailé Selassié ha provocato una contraddizione che alla lunga si è dimostrata insanabile e catastrofica per il sistema monarchico e nobiliare. Non a caso furono proprio alcuni ufficiali a tentare, nel 1960, il primo colpo di Stato contro l'imperatore. Il colpo non riuscì, soprattutto perché mancò un legame di alleanza fra i congiurati e le masse. Quattordici anni dopo tale legame è stato stabilito e il colpo ha avuto successo.

Da Quando Teheran acclamava Mossadek

L'Unità, 19 agosto 1978

 
Mohammad Mossadeq
  • Chi è Mossadek? Alle nuove generazioni, il suo nome non dice nulla. Ma chi ha vissuto (da protagonista, da spettatore, da cronista partecipe e partigiano) gli albori dei movimenti di liberazione, non può aver dimenticato il vegliardo temerario che osò sfidare, quasi da solo, quasi per primo, la poderosa struttura imperialistica, aggredendone uno dei pilastri: le società petrolifere.
  • Figlio di un ministro delle finanze di Persia, i Kajar, e di una principessa imperiale, aveva nelle vene un sangue «molto più blù» di quello di Reza Pahlavi, figlio di un ufficiale di cavalleria analfabeta e usurpatore.
  • Questo era l'uomo che il movimento nazionalista impose come primo ministro ad uno scià pieno di paura e di collera: un vecchio aristocratico liberale, dalla salute malferma, abile negli intrighi di palazzo, ma anche coraggioso nel difendere le sue idee, oratore eloquente, trascinatore di folle, grande «mattatore» della politica, capace di dirigere una battaglia di strada dal suo letto, in pigiama a strisce, fra una crisi di depressione e uno svenimento: un affascinante miscuglio di tradizioni consunte e di sogni rivoluzionari, un ponte insicuro, precario, lanciato fra passato e futuro.

Da Gli amici di Bokassa

L'Unità, 8 giugno 1979

  • Dopo Idi Amin, Jean Bedel Bokassa, un altro amico di una certa Europa. L'ex ufficiale dell'esercito coloniale francese, autoproclamatosi imperatore del territorio che un tempo si chiamava Ubanghi-Sciari, e poi Repubblica centro-africana, prima di diventare l'ultimo e il più povero impero del mondo, è accusato di orrendi massacri.
  • Al vertice franco-africano di Kigali, il presidente francese Giscard d'Estaing è costretto a fare salti mortali e piroette per evitare di stringere la mano a Bokassa.
  • Chi, infatti, ha consegnato alcuni milioni di franchi al primo ministro centro-africano Henri Maidou, affinché Bokassa potesse pagare gli stipendi degli statali? Giscard. Chi si è rivolto (fino a ieri) a Bokassa chiamandolo «caro parente»? Chi gli ha reso visita con straordinaria sollecitudine, non appena eletto presidente? Sempre Giscard. E chi possiede un «capanno» (una villa in una riserva di caccia) nell'impero centro-africano? Giscard. E chi è commendatore dell'Ordine dell'Operazione Bokassa? Un fratello di Giscard, François. E chi ha negoziato per conto della Francia la concessione di un terzo dei giacimenti di uranio di Bakouma? Un cugino di Giscard, Jacques.

Da Come può nascere un mostro

L'Unità, 12 agosto 1979

 
Francisco Macías Nguema
  • Non c'è crimine del quale Francisco Macias non si sarebbe macchiato. Avrebbe personalmente partecipato al massacro di tutti i suoi oppositori o concorrenti; avrebbe tentato di uccidere una delle sue tre mogli «ufficiali e legittime»; avrebbe introdotto (o reintrodotto) il bastone come strumento di morte, affermando che «la Guinea equatoriale è troppo povera per sciupare le munizioni, che costano care»; avrebbe fatto annegare, seppellire nel cemento, scuoiare vivi e tagliare a pezzi «gli eventuali contestatori»; dopo aver rinnegato il cattolicesimo e tentato di imporre la formula: «in nome del presidente Macias, del Figlio e dello Spirito Santo», avrebbe seviziato ed espulso decine di sacerdoti (giugno 1978); infine, colmo dei colmi, sarebbe tornato al paganesimo e ai sacrifici umani.
  • Come Idi Amin, come Bokassa, come Mobutu (e l'elenco potrebbe allungarsi), anche Francisco Macias non è piombato sulla terra da un altro pianeta, non è nato dal nulla. È entrato nella storia dalla storia.
  • Creatura mostruosa di molte culture e strumento di opposti interessi, Francisco Macias ha tentato, non senza una certa rozza abilità, di diversificare al massimo la sua politica estera, nella speranza di crearsi una vasta rete di protettori e di alleati. Si è così rivolto verso l'URSS, Cuba, la Cina, la Corea del nord, ottenendone aiuti e assistenza tecnica. Ma, nonostante momenti di crisi anche violenta, non ha affatto interrotto i rapporti con l'Occidente, e in particolare con la Spagna e con la Francia.

Da Oggi è un leader anche in Occidente

L'Unità, 2 marzo 1983

  • Il fatto è che Gandhi ha irritato un po' tutti, nemici e amici.
  • Il Gandhi che il regista ci propone, e che l'attore angloindiano Krìshna Bhanji (in arte Ben Kingsley) riesce a interpretare con affascinante bravura, non ha nulla di sentimentale, di zuccheroso, di rassegnato, e neanche di mistico. Dai gesti, dagli sguardi dell'avvocato che ha deciso di vivere come un mendicante, e che sembra così debole e malaticcio, si sprigiona une forza invincibile. La sua voce lenta e pacata, le sue parole semplici, che non incitano mai alla violenza, ma sempre (questo sì) al rifiuto rigoroso e inflessibile dell'ingiustizia e della menzogna, sono di una eloquenza travolgente.
  • La vita di Gandhi si è conclusa con una vittoria e al tempo stesso con una sconfitta, di cui il suo stesso assassinio per mano di un estremista indù (non musulmano) fu il segno più clamoroso. Non è vero, tuttavia, che «gli ideali di Gandhi se ne stanno rinchiusi nel bauli e nel solai di un umanità dimentica». Non è vero che «Un vecchio Indiano ci parla, ma siamo sordi». Stranamente, l'insegnamento di Gandhi non è mai stato così vivo e vitale come in quest'epoca di ripensamenti e autocritiche. Esso ispira (forse per vie indirette e traverse) le nuove generazioni umane, sensibili ai problemi della guerra e della pace, dell'inquinamento e della difesa dell'ambiente, della fame, del saccheggio delle risorse, dei rapporti fra Nord e Sud, Est e Ovest, della ricerca di vie nuove verso società più abitabili, più giuste, meno infelici.

Da Se vuoi diventare imperatore

L'Unità, 26 agosto 1979

  • [Su Jean-Bedel Bokassa] Questo «sinistro buffone», come è stato definito, controlla uno Stato membro dell'ONU e dell'OUA, ha solidi legami con la Francia, civetta con tutte le capitali, è un uomo politico. Anzi: uno statista.
  • Ora lo chiamano sbrigativamente l'Ogre, l'Orco, per aver fatto massacrare centinaia di scolaretti. Ma il suo vero nome è molto più lungo, troppo lungo per trascriverlo tutto: Jean-Bedel Mindogon N'Goundoulou Dondagdokanda Sesekelebolka A Da Diaye... Solo alla fine si arriva a Bokassa. O più esattamente: a «Sua Maestà Bokassa I, imperatore della Culla dei Bantu, imperatore dell'Africa Centrale, padre incontestato dell'Impero del Rinascimento e della Fine dei Complessi» (non sapremmo tradurre altrimenti la parola francese «Decomplexation»).
  • Il nuovo Stato non ha nulla di democratico. Dacko ha già fatto votare una legge che prevede lo scioglimento di ogni organizzazione politica o sindacale «suscettibile di turbare l'ordine pubblico»; ha messo nell'illegalità l'unico partito di opposizione; ne ha mandato al confino i principali esponenti (uno, guarda caso, è Abel Goumba); ha dichiarato partito unico il Movimento per l'evoluzione sociale dell'Africa Nera (MESAN): e ha affidato al capo dei servizi segreti, Mounouombaye, il compito di schiacciare ogni manifestazione di malcontento.
  • Un altro «mostro», dunque? Come Idi Amin, come Francisco Macias? Sì, certo. Ma i Frankenstein che l'hanno creato sono qui fra noi (ce lo ha rimproverato, giorni fa, perfino Senghor).
  • Nell'amore di Bokassa per la Francia c'è la stessa spaventosa sincerità, la stessa orrenda dedizione che spinse migliaia di ascari e dubat, sofas e laptos e zaptiè, a mettersi al servizio dei « bianchi »; e a uccidere, sacchegaiare, bruciare e stuprare sotto le loro «civilizzatrici» bandiere.

Da Guerra d'Etiopia Vietnam italiano

L'Unità, 3 ottobre 1985

  • [Sulla Guerra d'Etiopia] Fu la più grande impresa coloniale della storia e l'ultima da cui il paese colonizzatore sia uscito vittorioso (quelle successive, dal Kenya all'Algeria al Vietnam, sono state vinte dagli aggrediti).
  • Mussolini aveva stretto un patto di amicizia con il Negus nel 1928. Avrebbe potuto estendere pacificamente l'influenza italiana in Etiopia, già vasta e profonda. Ma gli serviva una guerra «nazionale», in cui coinvolgere tutti gli italiani, per assicurarsene il famoso «consenso». Si comportò con perfidia.
  • La guerra d'Etiopia — su questo tutti concordano — rafforzò Mussolini. La Società delle Nazioni si rivelò impotente. Inglesi e francesi, con ignobile ipocrisia, con simulata «imparzialità» bloccarono ogni invio di armi nella zona, lasciando soli gli etiopici, già privi di un autonomo sbocco al mare, disorganizzati e malissimo armati.
  • La guerra d Etiopia fu un trionfo per Mussolini, ma un trionfo effimero come quello di un attore invecchiato. Spinse l'Italia in braccio alla Germania e ne usaurì le risorse (la guerra di Spagna, anch'essa, in apparenza, vittoriosa, fu il colpo di grazia).

Da L'Etiopia non è sola

L'Unità, 27 novembre 1985

  • L'agonia africana ha radici profonde. Il sub-continente, già sfortunato dal punto di vista naturale (l'assenza di buoni porti ha ostacolato gli scambi commerciali e culturali con il resto del mondo, la mosca tze-tze ha impedito per millenni l'allevamento del bestiame in larghissime regioni, privando il «negro» del cavallo e del bue, del concime, del carro e dell'aratro, e costringendolo alla zappa e al semi-nomadismo agricolo), è stato devastato da tre secoli e più di traffico degli schiavi, e di guerre intertribali provocate ad arte dagli schiavisti con forniture di armi da fuoco ai capi «indigeni». Poi, un secolo fa, gli europei hanno fatto irruzione in Africa e se la sono spartita, lungo confini arbitrari, che hanno fatto a pezzi tribù popoli, regioni. Gli africani sono stati espropriati delle terre migliori, deportati, costretti al lavoro forzato con metodi spietati, che la pseudo-scienza giustificava con una presunta «innata pigrizia del negro» (nell'ex Congo belga, ai renitenti venivano tagliate le mani, come fu documentato in clamorosi rapporti e «pamphlet» da Sir Roger Casement e da Mark Twain). Tutta la struttura economica africana, dall'Egitto al Capo di Buona Speranza, dall'Atlantico air Oceano Indiano, fu trasformata in funzione degli interessi europei. Sembrava progresso (molti vi credettero in buona fede). Ma le conseguenze furono un reale regresso.
  • Vi sono «leaders» africani, come il presidente della Costa d'Avorio Houphouet Boigny, che hanno da tempo, con brutale franchezza, teorizzato la «necessità» del neocolonialismo, cioè della dipendenza dalle ex metropoli per un intero periodo storico di imprecisata lunghezza. Ma la vita stessa (come dicono i russi) si è vendicata di tale «filosofia».
  • Un mese fa, mentre gli etiopici morivano, diecimila tonnellate di cereali venivano trattenute sui moli di Rotterdam perché il porto eritreo di Assab era «imbottigliato» per deficienza di attrezzature ed eccesso di navi, mentre quello di Massaua era parzialmente inutilizzabile perché circondato dai guerriglieri, anch'essi affamati. Spesso, dopo che il cibo è stato sbarcato in Africa, si scopre che mancano i camion, gli aerei, e perfino le strade e le piste di atterraggio per farlo arrivare a destinazione. Abbiamo accennato alla guerriglia. La povertà acuisce i conflitti, questi aggravano la povertà.

Note modifica

  1. a b Da Numeiri: due anni di successi e di errori, L'Unità, 20 luglio 1971
  2. Da L'ex Negus comparirà di fronte alla Corte marziale?, L'Unità, 2 dicembre 1974
  3. Da Le misure per rinnovare l'apparato dello Stato, L'Unità, 5 dicembre 1974
  4. Da Un regime di terrore, L'Unità, 6 agosto 1976
  5. a b Da La lotta del popolo iraniano contro la tirannia, L'Unità, 1 novembre 1978
  6. a b Da La rivolta dei sikh che scuote l'India, L'Unità, 1 novembre 1984

Altri progetti modifica