Giorgio Tosatti
giornalista italiano (1937-2007)
Giorgio Tosatti (1937 – 2007), giornalista e opinionista sportivo italiano.
Citazioni tratte da articoli
modifica- [Sulla finale del campionato mondiale di calcio 1982] Alza la Coppa Dino, alzala perché il mondo la veda.[1]
- Stiamo già per sprecare la grossa occasione rappresentata dalla costruzione (o dal riadattamento) di diversi stadi in vista dei Mondiali '90. La vicenda sta immiserendosi in una serie di guerre tra gruppi di costruttori allettati dall'affare; tra amministratori locali e aziende private; fra partiti politici; fra chi vuole impianti destinati esclusivamente al calcio e chi si batte per inserirvi la pista d'atletica. Si discute sui terreni, sugli appalti, sui finanziamenti. Nessuno si pone il problema principale: come debba essere uno stadio degli anni Duemila in Italia.[2]
Corriere della Sera
modificaCitazioni in ordine temporale.
- Basta Bierhoff a fare la differenza in questi Europei mediocri, privati di alcuni fuoriclasse da c.t. presuntuosi; un Bierhoff che Vogts non ha utilizzato neppure quando, fra squalificati e feriti, non riusciva a mettere in campo undici giocatori. C'è una sorta di nemesi, c'è una beffarda morale nel ritrovarlo nei panni del trionfatore. Dimostra quanto dico da tanto tempo: abbiamo il miglior vivaio d'Europa, bastava gestirne la ricchezza con oculatezza e buon senso per vincere. Non servono geni, non servono sofisticate ingegnerie calcistiche. Oppure Sacchi ed i suoi reggicoda vorranno farci credere che Bierhoff è un campione leggendario, che individualmente (come disse il c.t.) i nostri sono inferiori ai tedeschi e solo applicando il suo magico gioco potremmo batterli? Senza di lui l'abbiam fatto sempre. È proprio sicuro che gli attaccanti italiani (compresi quelli da lui messi all'indice) valgano meno di Klinsmann, Bierhoff, Bobic e Kuntz? Non Bestemmiamo. Crede davvero che da queste parti non ci sia gente migliore di Sammer, Reuter, Moeller, Haessler, Kohler ecc., ripudiati dai nostri club perché non riuscivano più ad emergere in un campionato duro come quello italiano? Si possono sbagliare scelte, formazioni, cambi, tattica, strategia, allenamenti ma non la corretta valutazione dei valori. L'impresa di Bierhoff, i pasticci dei ceki, l'ansimare di questa Germania orgogliosa, ma piena di vecchi, faranno capire ai trinariciuti quale irripetibile occasione abbiamo sprecato. Bastava un c.t. qualsiasi, senza l'ossessione di coltivare la propria grandezza.[3]
- Ma l'impresa calcistica più straordinaria, da quando si gioca a pallone in questo paese, è la promozione del Chievo in Serie A. Un piccolo quartiere di Verona ha saputo esprimere in pochi anni un club così ben gestito da salire ai vertici del calcio iper-professionistico. Un incredibile miracolo di competenza e genialità, una storia commovente: altro che Cenerentola.[4]
- Per gli altri è una partita, un titolo. Per lui è tutto: riappropriarsi di quattro anni, dargli un senso, ricominciare ad essere una certezza, non un punto interrogativo. Significa lasciare un segno di sé per sempre, aver riconquistato quanto la natura gli aveva generosamente offerto e poi tolto. Significa essere stato artefice della propria resurrezione. Persino la fortuna si commuove, davanti alla feroce volontà di quel campione indistruttibile e gli spalanca le braccia con l'unico errore commesso dal formidabile portiere tedesco in tutto il Mondiale. Eppoi gli concede il bis. Capocannoniere, eguagliato Pelé, campione del mondo, eroe della partita, di nuovo sul trono. Ora può piangere come un ragazzino. Questo è il Mondiale di Nazario de Lima Ronaldo Luis e resterà nella storia per la più bella favola mai raccontata dal calcio.[5]
- [Sulla finale della UEFA Champions League 2002-2003] Il re di coppe respinge la regina degli scudetti dopo una partita chiusa sullo 0-0 ma non brutta. Semmai tosta, dominata dalle difese. Oggettivamente il Milan fa di più per conquistarla, specie nel primo tempo. Un premio a chi ha giocato quest’anno il calcio più nuovo e creativo.[6]
Corriere della Sera, 20 maggio 1994, p. 39.
[Sulla finale della UEFA Champions League 1993-1994]
- Cruyff mi ha ricordato Occhetto: troppa tracotanza prima della partita, troppo disprezzo degli avversari, troppi errori in campo. Ha agevolato Capello, come l'altro agevolò Berlusconi.
- Fra il 4-0 del 24 maggio '89 sulla Steaua ed il 4-0 di Atene c'è un baratro. Stesso discorso per lo stentato successo sul Benfica. Sacchi vinse perchè aveva fuoriclasse giganteschi (determinanti i gol degli olandesi) e uno squadrone infinitamente superiore agli avversari. Capello aveva contro il Barcellona (4 finali in 6 anni, 7 coppe europee come ora il Milan), l'attacco più forte del mondo, il tecnico più ricco di successi e di fama. Doveva sostituire la coppia cardine della difesa; vincere con una squadra che in campionato non ha mai fatto più di due gol a partita.
- Non era favorito. Eppure ce l'ha fatta segnando 4 reti (potevano essere di più); lasciando Rossi quasi inoperoso; facendo dimenticare gli assenti; umiliando il Barcellona; giocando un calcio così intelligente, aggressivo, fluido, autorevole da raggiungere la perfezione. Pur avendo dei dubbi sul reale valore del Barcellona (7 sconfitte in campionato, una difesa scadente, lo scudetto vinto fortunosamente all'ultima giornata, quel 3-1 subito a Kiev nel primo turno) temevo che senza i suoi pilastri la difesa avrebbe ceduto. Invece Capello è stato napoleonico nell'inaridire le sorgenti dei catalani (Guardiola, Koeman), bloccarne i killers (Romario, Stoichkov), sconvolgerne le retrovie con la propria cavalleria. Un'organizzazione di gioco così scientifica e funzionale da consentire anche alle riserve di essere adeguatamente protette e fare bella figura. Il trionfo della squadra su alcuni eccellenti solisti; dell'intelligenza e dello studio sulla superficialità.
- Il Milan ha potuto fare anche 10-12 passaggi di seguito scanditi da olè; da noi non può permetterselo neppure con una squadra di B. Cruyff ha fatto la figura di un dilettante come dimostra la libertà lasciata a Savicevic (purosangue nato per queste partite: fu una bestialità non schierarlo a Tokio e col Parma) e Massaro (cui la fortuna vuol restituire in un anno tutto ciò che non gli concesse prima: sembra lo Schillaci '90). Inutile fare distinzioni fra gli eroi di questa squadra indistruttibile, troppo orgogliosa per scoraggiarsi davanti alle difficoltà, troppo fiera per arrendersi. Anzi più la battaglia è dura, più merita fiducia: mi scuso di aver dubitato.
Guerin Sportivo
modificaCitazioni in ordine temporale.
- [Sulla Coppa UEFA] È il torneo che più di tutti illustra lo standard-medio delle varie scuole calcistiche e dei vari campionati, radunando le squadre di seconda, terza e quarta fila.[7]
- [...] i rapporti fra presidenti e tecnici sono sempre più labili, anche quando la bravura professionale dei secondi è fuori discussione. Come mai? La colpa è, probabilmente, dell'importanza eccessiva assunta dal loro ruolo agli occhi dell'opinione pubblica. [...] Non si vince più perché la scoietà ha comprato fior di campioni, perché la squadra è forte, perché gli avversari sono inferiori, perché un episodio fortunato ha deciso l'incontro, perché un gruppo è meglio preparato sul piano atletico. No, si vince grazie al modulo, agli schemi, alle magie del tecnico. Ciò ha fatto salire a dismisura i compensi degli allenatori, ma naturalmente li espone a maggiori rischi. Se sei così importante, la colpa dei risultati negativi è tua. Così i presidenti se la prendono con i tecnici non solo se perdono ma se non realizzano un calcio piacevole. Così cresce l'insofferenza nei confronti di questi maghi: io spendo un mucchio di soldi e se vinco i meriti vanno tutti all'allenatore.[8]
- Quando vennero assegnati i Mondiali del '90 all'Italia e si cominciò a parlare di come ristrutturare gli stadi, scrissi [...] suggerendo di non perdere un'eccellente occasione per aggiornare il rapporto fra pubblico e calcio. Il quale non era più uno dei pochissimi divertimenti domenicali e non muoveva più – salvo rare occasioni – masse imponenti. Sbagliato, quindi, puntare su grandi impianti; sbagliatissimo considerarli ancora un luogo dove si tiene ammassata la gente per due-tre ore, senza preoccuparsi dei disagi in cui incorre. L'invecchiamento della popolazione e la forte concorrenza di altri divertimenti spingevano a soluzioni innovative, privilegiando la qualità dell'offerta, rispetto alla quantità. Quindi stadi simili agli ippodromi: con ristoranti, spazi per i bambini, servizi di ogni genere. Un posto in cui si potesse trascorrere serenamente qualche ora, magari pranzando e chiacchierando con gli amici. Dotato di palchi e comodità tali da indurre anche persone di una certa età a recarvisi. Abolire le piste d'atletica, in modo da consentire al pubblico di godersi lo spettacolo da vicino. Ridurre le dimensioni degli impianti tenendo conto di fattori evidenti: la denatalità, la costante riduzione delle presenze, la preventivabile concorrenza della pay per view. Invece si è fatto tutto il contrario [...][9]
Addio, mitico stadio del Toro
Guerin Sportivo nº 25 (1001), 22-28 giugno 1994, p. 65.
[Sullo stadio Filadelfia]
- Un testimone del calcio che fu, dell'Italia che fu. Il monumento alla Torino del dopoguerra, orgogliosa, piena di slanci e di vita, laboratorio e motore della ricostruzione. [...] Il Filadelfia venne inaugurato nel 1926 e ospitò un Torino bellissimo, quello di Libonatti, Baloncieri e Rossetti, un trio d'attacco di straordinaria bravura tecnica. Ma nella storia resterà indissolubilmente legato al Grande Torino di cui fu il tempio. [...] La grandezza di quel Torino, la sua leggenda, la sua invincibilità erano strettamente legate al Filadelfia. Lì si esaltava il «tremendismo granata», come Arpino battezzò quelle sfuriate agonistiche di cui il Toro era capace e che non ho più rivisto in nessuna squadra.
- Le tribune incombevano sul campo, il pubblico sentiva l'ansito dei giocatori, lo scrocchiare delle ossa nei tackles, il rimbombo del pallone. Il tifo era ossessionante, potente, ritmato come usa in Inghilterra. Il bisillabo To-ro To-ro ti martellava le orecchie fino a stordirti: inesauribile, monotono, rabbioso. Per aumentarne l'effetto la gente batteva i piedi sul pavimento di legno: si levava dallo stadio una sorta di tuono, un tam-tam gigantesco. C'era un che di feroce in quell'accompagnamento; pochissimi i posti per i tifosi ospiti. Chi entrava in campo da avversario doveva avere un cuore ben temprato.
- Quando il Torino non riusciva a sbloccare il risultato, oppure giochicchiava, scherzava con l'avversario come un gattone pigro, i tifosi lo richiamavano all'ordine. L'incitamento saliva al diapason, poi si acquetava di colpo: nel silenzio un trombettiere, dalla gradinata di sinistra, suonava la carica. Allora Valentino Mazzola faceva il gesto di rimboccarsi le maniche, dava il «la» ai compagni e il Toro s'avventava mugghiando sull'avversario. Era quasi impossibile resistergli: sembrava un tornado. Bastavano pochi minuti di furore per chiudere la partita. C'era un che di tribale e misterioso in quella esibizione di potenza; come se l'invocazione dei fedeli avesse svegliato un dio dormiente, come se la loro preghiera potesse evocare forze sconosciute, trasformare i guerrieri in giganti. Per i tifosi, il Filadelfia era un immenso altare pagano [...]. Mazzola e gli altri non erano calciatori, ma eroi mitologici, stregoni, semidei.
- Forse bisognerebbe restaurare il Filadelfia, farne un museo, farne qualcosa di utile per i giovani, uno spazio dove vivere e ricordare. Ma è morto anche lui il 4 maggio del '49, quando la magia che aveva dentro scomparve con i suoi protagonisti.
La rivincita di Agnelli II
Guerin Sportivo nº 21 (1047), 24-30 maggio 1995, p. 12.
- [Sulla Juventus Football Club 1990-1991] La Juve [...] declinava: un po' perché il gruppo di fuoriclasse su cui aveva vissuto per anni era ormai al tramonto, un po' perché non riusciva a trovare la formula per rinnovarsi ed essere competitiva. L'Avvocato [Gianni Agnelli] soffriva i successi [del Milan] di Berlusconi e non risparmiava certo sulle spese pur di batterlo. Boniperti, considerato un tempo un oculatissimo amministratore, spendeva a piene mani arricchendo alcuni club (Atalanta, Verona, Avellino) suoi tributari, andando a prendere stranieri in tutto il mondo, fatta eccezione per il Sudamerica. Non ha mai avuto molta stima per i calciatori di quella scuola; preferisce il calcio europeo e quello britannico o nordico in particolare. Ma Rush, Zavarov e compagni non valevano gli olandesi del Milan, i tedeschi dell'Inter, Maradona, Careca ed Alemao. Così la Juve non decollava. [...] nel '90 l'Avvocato si convinceva che la colpa era di Giampiero, o meglio della sua inadeguatezza a capire il calcio moderno. Così lo giubilava scatenandone l'ira funesta e promuoveva Montezemolo [...]. Arrivano Maifredi (voluto e preso da Boniperti), Baggio, Hässler, Riedle, Corini, ecc. ecc. Un investimento colossale e un cambio drastico di gestione.
- [Sulla Juventus Football Club 1990-1991] Montezemolo, costretto a restare sovente lontano da Torino, avrebbe dovuto affidarsi ad un collaboratore come Bettega: competente, juventino Doc, in grado di controllare l'ambiente, di assistere e consigliare Maifredi. Non dava retta a chi lo consigliava in tal senso scegliendo Bendoni, nuovo a quel lavoro e alla città. Due romani per insegnare calcio alla società più scudettata d'Italia? Era quasi una provocazione; significava consegnarsi inermi agli strali di Boniperti e del suo partito. Il crollo della squadra di Maifredi spianava la strada alla restaurazione [...].
- [Sulla Juventus Football Club 1994-1995] Gianni cedeva la guida ad Umberto, da tempo critico con Boniperti e Trapattoni e i loro metodi di lavoro. E in una sola stagione il fratello minore riusciva dove il boss della famiglia aveva fallito. Conquistava lo scudetto, riportava la Juve ai vertici, migliorava il bilancio, dimostrava la bravura dei suoi uomini (Giraudi e Bettega), utilizzava al meglio Moggi [...], lanciava un allenatore [Lippi] giovane e ambizioso, valorizzava i giocatori (sia i nuovi, sia quelli ereditati), imponeva criteri amministrativi chiari: la società conta più del campione, chiunque sia e comunque si chiami. Una bella rivincita per l'Agnelli rimasto sempre in panchina.
Se questo è sport
modifica- Italia '90 si conclude con la finale più brutta della storia, una sorta da mostruosità da diffondere in tv con l'etichetta «Come non si deve giocare a calcio». [...] Tedeschi e italiani fischiano l'inno argentino ed ogni azione dei campioni. Maradona è trattato come se fosse un delinquente. L'inciviltà del pubblico è di gran lunga peggiore della partita, la faziosità becera di chi crede – fischiando gli argentini – di vendicare la patria è ributtante. Se questo è sport lasciamo perdere. [...] Maradona, ammonito e fischiato con un odio da far accapponare la pelle, piange senza pudore. Si può anche perdere una corona ma non così, fa rabbia. Mi alzo ad applaudirlo. Quando passa vicino ad Havelange per ritirare la medaglia il presidente della Fifa volta la faccia dall'altra parte: così Diego imparerà a rompere le scatole. Tutta questa gente che usa i calciatori come strumenti per i propri interessi veramente non lo merita. (da il Giornale, 9 luglio 1990)
- Abbiamo dato al mondo una bella prova di inciviltà; nessuna finalista era stata così maltrattata in passato, neppure giocando contro i padroni di casa. Stravagante (vero Carraro?) giustificare un simile comportamento con le dichiarazioni fatte da Maradona prima di incontrare l'Italia a Napoli. [...] Si può anche detestare Maradona ma ciò non autorizza a offendere un Paese fischiandone l'inno. Un sindaco dovrebbe saperlo e magari scusarsi a nome della città. [...] No, non c'è molta gloria in questo successo tedesco. Mi sono sembrati più forti (oltre l'Italia così mal gestita) anche l'Inghilterra e il Camerun. La prima ha perso Robson ed ha avuto un cammino durissimo; il secondo è stato senza dubbio l'eroe di questo Mondiale. (da il Giornale, 10 luglio 1990)
- Non c'è stato lieto fine, ma il pianto dirotto, straziante di Franco Baresi, il capitano di ghiaccio, il duro fra i duri, un tipo così tosto da giocare come un gigante – venti giorni dopo l'operazione al menisco – la prima e ultima finalissima mondiale della vita. Così desiderata, così vicina. [...] Cosa vuoi dire a questi giocatori se non ringraziarli? Cosa puoi rimproverare a Roberto Baggio se, stringendo i denti, ha voluto scendere in campo, sperando di compiere un altro miracolo e, invece, ha fallito due gol e un rigore? Non l'avevano accusato di scarso carattere? Cosa vuoi dire a Massaro se, inciucchito dalla fatica, ha tirato nelle braccia di Taffarel? Nessuno s'è tirato indietro; il traguardo raggiunto è di grande prestigio; il loro rimpianto è maggiore del nostro. Potevamo vincere questo mondiale, come potevamo vincere quello del '90. Li abbiamo persi entrambi ai rigori, ma né quell'Argentina né questo Brasile valevano gli azzurri. Unici ad esser finiti fra i primi quattro in entrambe le edizioni, a conferma della nostra supremazia, di quanto valga il movimento calcistico italiano. Sia Vicini sia Sacchi hanno commesso l'identico errore: schierare un attaccante (allora Vialli, adesso Baggio) in non buone condizioni fisiche. (dal Corriere della Sera, 19 luglio 1994)
Note
modifica- ↑ Dal Corriere dello Sport, 12 luglio 1982; citato in Tu chiamale, se vuoi, emozioni.
- ↑ Da il Giornale, 24 dicembre 1986; citato in Tu chiamale, se vuoi, emozioni.
- ↑ Da Bierhoff è la conferma che eravamo i migliori, Corriere della Sera, 2 luglio 1996, p. 41.
- ↑ Da L'impresa del Chievo la più grande del calcio, Corriere della Sera, 4 giugno 2001.
- ↑ Da La rivincita della poesia, Corriere della Sera, 1º luglio 2002, pp. 1, 37.
- ↑ Da Coppa al merito, corriere.it, 29 maggio 2003.
- ↑ Jugoslavia: campione delle coppe, dalla rubrica Variazioni; Guerin Sportivo nº 23 (848), 5-11 giugno 1991, p. 15.
- ↑ Sono allenatori, non maghi, dalla rubrica Variazioni; Guerin Sportivo nº 40 (1065), 4-10 ottobre 1995, pp. 32-33.
- ↑ Bisogna dare gli stadi alle società, dalla rubrica Variazioni; Guerin Sportivo nº 20 (1096), 15-21 maggio 1996, p. 25.
Bibliografia
modifica- Giorgio Tosatti, Tu chiamale, se vuoi, emozioni, Mondadori, 2005. ISBN 9788804549673
- Giorgio Tosatti, Se questo è sport, Mondadori, 2008. ISBN 9788804560036
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