Sandro Viola

giornalista italiano

Alessandro Bonaventura Viola (1931 – 2012), giornalista italiano.

Citazioni

modifica
  • Il problema curdo è diverso da quello delle altre minoranze, perché i curdi rappresentano più di un quarto della popolazione irakena: essi sono cioè una minoranza per modo di dire.[1]

La Stampa, 18 agosto 1968

  • La ribellione curda non è solo il problema-chiave irakeno, l'elemento che più di ogni altro rende instabile, così sdrucciolevole, la situazione politica del Paese. Essa rappresenta anche uno dei nodi più stretti dell'aggrovigliata matassa del Medio Oriente, al punto da condizionare in modo diretto la crisi arabo-israeliana.
  • Se non ci fosse Barzani, il fronte orientale degli israeliani sarebbe assai più pericoloso di quanto non è oggi. Se non ci fosse, i colpi di Stato in Irak non avverrebbero, come avvengono, con tanta facilità.
  • Barzani è un uomo sui sessantacinque anni, tozzo, la pelle cotta dal sole, i gesti e la voce autoritari. Fuma incessantemente infilando le sigarette in un lungo bocchino di legno aromatico, la mano sinistra poggiata sull'impugnatura di corno del pugnale che porta alla cintola. Qui, sulle montagne, è tutto: presidente del partito (il pdk che nel resto dell'Irak è clandestino), primo segretario del Comitato centrale, presidente del Consiglio della rivoluzione, Comandante in capo delle forze armate. L'interprete avverte che bisogna chiamarlo generale.

La Stampa, 19 settembre 1968

  • Nessuno parla del «dopo Salazar». Non si parla neppure nei caffè del Chado e del Rossio, i luoghi di ritrovo della borghesia liberale, dove Salazar aveva sempre tollerato (limitandosi a infittire le reti dei confidenti della polizia, i «bufos») che si raccontassero le storielle contro il regime e si facesse qualche critica. Dopo aver detto per anni che il futuro del Portogallo, un futuro migliore del presente, era legato all'evento biologico della morte di Salazar, gli «avocados» e gli intellettuali sembrano spaventati che l'evento sia ormai così vicino.
  • «I Paesi felici», aveva detto un giorno Antonio Oliveira de Salazar, «non hanno storia». Salazar si riferiva al Portogallo, e certo esagerava perché è difficile, molto difficile, poter definire il Portogallo un Paese felice. Il trentacinque per cento della popolazione è analfabeta, il reddito annuale pro capite è di centoquarantacinquemila lire, forse il più basso d'Europa. Ma lì dove aveva ragione era quell'affermare che il Portogallo non ha avuto in questi decenni, e non ha ora, «storia». La sua storia è ferma a quel giorno del 1929 in cui i militari al potere, incapaci di venire a capo della crisi economica che minacciava il Paese, richiamarono a Lisbona il giovane professore dell'Università di Coimbra Oliveira Salazar.
  • Gli anni della formazione (il seminario dei Gesuiti, dove prende gli ordini minori), le abitudini di vita (niente fumo, neinte alcool, pasti a base di uova), la misoginia. Erano questi gli elementi che influivano sulla sua visione del mondo, una visione apocalittica, paurosa, in cui tutto gli sembrava andare verso l'abisso, mentre nessuno, o quasi nessuno, credeva più alle cose in cui credeva lui: la missione civilizzatrice dell'Occidente in un universo barbaro, il Portogallo ultima diga contro l'ateismo e il comunismo, le élites, l'autorità.
  • [Su Carlos Marighella] Un uomo d'azione, più che un intellettuale, fisicamente fortissimo (tre anni fa sopravvisse a tre colpi di rivoltella sparatigli in pieno torace, all'uscita da un cinema, dalla polizia).[2]
  • Il problema numero uno del Portogallo resta quello della guerra in Africa: 150.000 uomini che da otto anni, spendono ogni anno il 40 per cento del bilancio nazionale, combattono contro i movimenti di liberazione dell'Angola, del Mosambico e della Guinea.[3]

La Stampa, 27 luglio 1969

  • A cinque anni dall'ascesa al potere dei militari, la cronaca brasiliana appare sanguinosa. Bombe, raffiche di mitra, incendi di stazioni televisive, rapine alle banche, furti d'armi nelle caserme. Da destra, da sinistra. Le bombe all'Università di Rio vengono da destra, come le raffiche contro l'arcivescovado di Recife, come gli attentati contro i leaders studenteschi: le bombe ai giornali legati al regime, gli incendi delle stazioni televisive, ma soprattutto le rapine alle banche e i furti d'armi, vengono da sinistra.
  • «Il Brasile - dicono gli oppositori - ha avuto il ciclo dello zucchero, quello dell'oro, quello del caffè: ora ha quello delle polizie».
  • Il Brasile ha un volto violento, dunque, né potrebbe essere altrimenti: perché è proprio dal di dentro del regime, nell'ambito delle forze che lo sostengono, che scaturisce la violenza.

La Stampa, 5 agosto 1969

  • La serie degli atti istituzionali promulgati dal '64 in poi - la «Lei de segurança» (paragonata in un documento del Consiglio episcopale latino-americano alle leggi della Germania nazista), che fa decadere dai diritti civili chiunque sia appena sospetto di attività contro lo Stato; la sottomissione del potere giudiziario; l'attività frenetica dei tribunali militari; una censura tanto rozza quanto implacabile - consentono alla «oficialidade» il controllo integrale del Paese. Un intreccio fitto e virulento di polizie civili e militari fornisce i mezzi con cui tale controllo viene esercitato.
  • Se all'apparenza il potere dei militari si presenta come un monolito, a un esame più attento esso mostra qualche crepa. Quella che si rileva immediatamente è la labilità, o meglio l'assenza, dei supporti ideologici. Presentatasi già nel '64 (quando rovesciò il governo legale di Goulart) con un «messaggio» alquanto sommario, la classe degli ufficiali non è riuscita ad allargare né a rinnovare i contenuti della rivoluzione: siamo ancora a un moralismo da middle class, assai simile a quello cui ci hanno abituato i colonnelli greci, e a un anticomunismo verboso e visionario.
  • Il sociologo chiamato a definire il «modello» di società del Brasile d'oggi si troverebbe in gravi difficoltà. Il solo connotato chiaro è di tipo fascista, vale a dire un programma di sviluppo economico da realizzare senza che intervengano modifiche nell'ordine sociale; per il resto, buio completo. La conseguenza è che il regime naviga tra i compromessi, e che tali compromessi stanno diventando ogni giorno più difficili.
  • Praticamente tutti i regimi africani non hanno, poiché mancano di strutture, una base popolare: il consenso politico riguarda solo le élites dirigenti e il distacco tra queste élites e le masse resta totale. Alla fragilità strutturale si aggiunge quasi ovunque la lacerazione del tribalismo, il sovrapporsi delle antiche rivalità di gruppo a quelle politiche. Questa fase sembra inevitabile in Paesi la cui fisionomia geografica, etnica e politica è casuale (uscita com'è dai calcoli contorti delle ex potenze coloniali) e nei quali gli adulti in grado di leggere e scrivere sono tuttora una piccola minoranza.[4]
  • La Guinea paga col marasma di oggi il prezzo d'un'indipendenza che è stata assai più tormentata delle altre indipendenze africane. Il no di Sekou Touré alla Comunità franco-africana nel '58 (con tutti i vantaggi che ne sarebbero derivati per la Guinea) è l'inizio d'un cammino difficile, disseminato di errori, ma di cui è giusto tenere presenti le ragioni ideologiche. Queste ragioni erano l'indipendenza totale, l'opzione socialista, il rifiuto d'uno sviluppo economico integrato agli interessi occidentali.[4]
  • La delazione, la repressione, la tortura sono i fondamenti del regime di Conakry. Basta che un guineano scriva una lettera all'estero, indirizzata a un nome europeo, perché venga chiamato alla polizia, interrogato e magari messo in prigione. Figurarsi che cosa può accadere a chi sia sospettato d'opposizione al regime.[4]
  • [Sulla guerra di liberazione bengalese] Dopo la Nigeria, il Pakistan. La seconda guerra civile scoppiata all'interno del Commonwealth si presenta già, in queste prime ore, non meno terribile e sanguinosa.[5]
  • Le radici del conflitto sono tipiche del mondo uscito dalla decolonizzazione: confini arbitrari improvvisati dall'ex potenza coloniale, gravissime crisi economiche, mancanza di vere strutture politiche e sociali. Nel caso specifico del Pakistan c'era poi il problema dei rapporti tra i due tronconi in cui il Paese è diviso e che distano 1700 chilometri l'uno dall'altro.[5]
  • Bhutto [...] è noto per nutrire sentimenti profondamente anti-indiani. «Indian dogs», i cani indiani, è una delle espressioni che questo intellettuale di bollente oratoria ha usato molte volte per parlare della classe dirigente di New Delhi.[6]

Sulla dissoluzione dell'Unione Sovietica, La Stampa, 5 dicembre 1990

  • Gli altri imperi della storia erano infatti caduti o lentamente attraverso decenni se non addirittura secoli di progressivo deperimento, oppure in seguito a una disfatta militare. Ma a parte questo (la quasi fulminea rapidità del crollo, l'assenza d'una sconfitta sul campo), la vera anomalia del caso sovietico è poi un'altra. È il fatto che l'esperienza storica del comunismo non si sia lasciata dietro, al momento della sua dissoluzione, alcunché di positivo, d'utilizzabile: non un'idea, un codice, un'istituzione. Non una cultura o un insieme di valori. Nulla, lo zero assoluto.
  • La Babele politica, il collasso degli approvvigionamenti, il trauma psicologico che paralizza il grande paese, scaturiscono tutti dalla stessa causa: l'assenza di un'istituzione, una burocrazia, un sentimento di solidarietà nazionale che consentano quanto meno in attesa del cambio di società il disbrigo di quelli che chiamiamo gli affari correnti. Questa è la differenza con le altre cadute degli imperi. Lì restava sempre in piedi qualcosa (una cultura, un apparato amministrativo, un complesso di leggi) che permetteva di sopportare il peso della sconfitta, storico-politica o militare che fosse, e di rallentare la spinta centrifuga delle varie membra dell' impero. Mentre in Urss la decomposizione è totale.
  • Anche il '17 fu per qualche mese una stagione di speranze. Anche allora, con l'abdicazione dello zar e lo scollarsi dell'impero, gli ucraini pensarono d'essere approdati all'indipendenza e alla democrazia. Ma si sa come andò a finire. La democrazia era debole, le masse erano stanche. Proprio come oggi. E così come allora vinse la forza organizzata, i bolscevichi, anche adesso rischia di prevalere la sola forza organizzata che resti nel caos generale: cioè l'esercito.
  • [Sull'Estado Novo] Proprio non riesco a capire le misteriose ragioni, la capziosità di chi vuole negare che il Portogallo fosse allora un paese fascista. Bastava dare un' occhiata nelle librerie, sfogliare un giornale, rasentare in un salotto, o a pranzo da Tavares e all'Aviz la coorte dei gerarchi e profittatori del regime. E la sensazione che se ne ricavava era la stessa che nella Spagna di quegli anni o nell'Italia di venticinque anni prima: il cattivo odore del fascismo. Quel che è certo, è che gli oppositori di Salazar erano ben altro che un gruppo sparuto di letterati senza successo. Gli amici che avevo allora a Lisbona, Mario Soares, Raul Rego, Fernando Sousa Tavares, Urbano Tavares e tanti altri, non scrivevano inutili poesie. Tentavano di campare con le loro professioni di avvocati, giornalisti, ma senza molto riuscirci perché ogni tanto finivano in galera, o al confino in un'isola dell'Atlantico, o addirittura in esilio. E quando non era la galera o il confino, erano comunque le visite della Pide in piena notte, le perquisizioni, le intimidiazioni, il terrore dei familiari.[7]

Sul putsch di agosto, La Repubblica, 20 agosto 1991

  • Molti, sovietici e occidentali, s'erano illusi. S'erano convinti che il trapasso dell'Urss dal comunismo alla democrazia fosse ormai cosa fatta, che i russi fossero ormai approdati, in questi sei anni di gorbaciovismo, alla libertà. Ma secoli di storia e sette decenni di comunismo non potevano essere ribaltati in poco più d'un lustro. Il decorso della transizione sovietica non poteva essere, cioè, rapido e lineare. Incruento. Non poteva concludersi senza che il dinosauro, il Comunismo Sovietico, sferrasse prima di morire i suoi colpi di coda. Ecosì, è stato. D'un tratto e proprio nel momento in cui il paese sembrava avvicinarsi ad un minimo di stabilità politica, ecco il colpo di Stato.
  • Preso com'era [Michail Gorbačëv] dal suo attivismo senza posa, dalla teatralità delle sue iniziative (e tradito da un'enorme, spropositata fiducia in se stesso), l'uomo che ha cercato in questi anni di cambiare la storia russa non s'era accorto della gravità delle minacce che incombevano sul suo cammino. E i suoi avversari non hanno neppure dovuto inventare, per defenestrarlo, un piano particolarmente sofisticato. Hanno messo mano ai vecchi copioni della tradizione bolscevica, l'arresto, l'interruzione delle trasmissioni radio-televisive, l'appello al popolo. E in poche ore la partita era giocata. Neanche questa, tuttavia, neanche il colpo di Stato, sembra la partita decisiva, finale, della vicenda cominciata in Urss sei anni e tre mesi fa con l'avvento di Gorbaciov. C'è qualcosa d'affannoso, infatti, di confuso, come di disperato, nell'uscita allo scoperto degli avversari del cambiamento. Nel loro tentativo di non cedere il potere. Essi mancano d'un leader, il loro isolamento internazionale è completo. Veri progetti per il futuro non ne hanno.
  • Che cosa ha sconsigliato i sediziosi dal ricorrere agli arresti in massa? Difficile dire. Ma anche senza volerne esagerare l'importanza, questa esitazione nel mettere fuori gioco i loro naturali avversari si presenta come un segno di debolezza, di non sufficiente determinazione, del piano messo in atto dai golpisti. Arrestare Gorbaciov in Crimea può essere stato facile, ma non sarà tanto facile neutralizzare tutti i partigiani del cambiamento. La Russia, cioè, che voleva voltare le spalle al passato.
  • Guerra civile? Le somiglianze col 1917 non sono poche, anche se di segno rovesciato. I golpisti di oggi non sono infatti avvicinabili ai bolscevichi d'allora: gli Yazov, i Krjuckov, i Pugo vanno semmai paragonati - in quanto difensori dell'"ancien régime", del vecchio ordine - alla prima Armata Bianca del generale Kornilov. In ogni caso, l'eventualità d'uno spargimento di sangue lungo una serie di focolai di guerra civile sembra oggi del tutto concreta. È vero, la memoria storica dei russi-sovietici, i ricordi del Terrore staliniano, giocano a favore dei defenestratori di Gorbaciov: di questa pattuglia acefala, lo sguardo annebbiato, priva di qualsiasi idea sul come uscire dal disastro economico del paese, che si oppone ad ogni cambiamento.
  • Troppi russi - se non, forse, la maggioranza - sanno infatti che dalla restaurazione [del comunismo] non potranno avere altro che nuove miserie. Insomma, in queste prime ore del dramma è difficile credere che la giunta politico-militare insediatasi ieri al Cremlino riuscirà a mantenere il potere a lungo. Così come ad alcuni osservatori era ormai divenuto evidente, nell' ultimo anno, che Mikhail Gorbaciov non aveva più un futuro politico, allo stesso modo non si può credere che il futuro appartenga agli autori di questo spasmodico tentativo di fermare la storia. Chi gestirà infatti il disastro dell' economia sovietica? Chi andrà in giro per l' Occidente a chiedere finanziamenti, aiuti, comprensione? Come verranno risolti i conflitti nazionali: con l' aviazione, con l' arma nucleare? Resta la difficoltà di capire come e perché Mikhail Gorbaciov non sia riuscito a sventare il complotto che veniva ordito contro di lui.
  • La verità è che Gorbaciov stava accumulando errori da almeno tre anni. La sua ambiguità ideologica (quel ripetere sino all'altro giorno d'essere un "comunista convinto"), l'eccesso di tatticismo, l'abitudine a improvvisare, lo avevano isolato all'interno del campo che chiedeva il cambiamento. Sino alla primavera di quest'anno, i suoi soli sostenitori erano proprio i golpisti di oggi. E l'errore ultimo - in tanti ondeggiamenti, in quel confuso cercare una posizione "centrista" tra i due campi avversi - è stato, probabilmente proprio questo: l'aver fatto durare troppo, non aver spezzato prima, il rapporto con quel che restava del vecchio potere comunista. Era ciò che gli rimproveravano i suoi vecchi amici. Di aver evitato le scelte più dolorose, d'aver fidato troppo nelle sue capacità di equilibrista. La scarsa conoscenza degli uomini.
  • Privo di sostegno elettorale, sempre più in calo nei favori del pubblico, Mikhail Sergeevic è rimasto abbagliato dal suo ruolo internazionale, dal fatto che l'Occidente fingesse per suo interesse di considerarlo ancora il pilastro della residua potenza sovietica. I "summit", i discorsi al mondo, la vanità, lo avevano forse illuso d'essere invulnerabile. Così, una notte, in una villa in Crimea, non lontano dalla piana di Balaklava, il suo destino politico si è concluso.

La Repubblica, 25 agosto 1991

  • Che grande spettacolo, la Politica in Urss, o ex Urss, o Russia che dir si voglia. Quale formidabile sommovimento, questo irrompere della Politica in un paese che non l'aveva mai conosciuta (salvo la fugace parentesi tra il febbraio e l'ottobre del '17) se non come imposizione dall'alto: ferreo autoritarismo, Utopia, Terrore. Erano sei anni che il nostro sguardo non riusciva a staccarsi dalla scena sovietica, da Gorbaciov e compagni, dalla vicenda messasi in moto con lo scoppio della miscela "glasnost- perestrojka". Ma se già questi sei anni c'erano sembrati la svolta storica più spettacolare (e la più strepitosa "story" giornalistica) dell'ultimo mezzo secolo, che dire adesso? Adesso che non esiste più il partito di Vladimir Ilich Lenin? Adesso che tutto sta davvero cominciando, che un terremoto è in atto e nulla potrà più arrestare la trasformazione dell'ex Urss o Russia che dir si voglia? Distogliamo l'attenzione, per un momento, dagli stupendi dettagli del Grande Spettacolo: le statue abbattute, la "Pravda" proibita, i santuari del Partito sigillati dall'ufficiale giudiziario, le folle che si incolonnano - il clero salmodiante - dietro le bandiere della Vecchia Russia. Tralasciamo l'episodio più clamoroso delle ultime ore, la dissoluzione, le esequie del Partito comunista sovietico. Cerchiamo di cogliere l'essenza, il significato ultimo dello spettacolo. Ebbene, questo significato è netto, privo di qualsiasi ambiguità, impressionante. La Russia è libera.
  • Se la Russia è libera, vuol dire infatti che la cesura, la frattura, le "differenze" che l'avevano sempre tenuta separata dall'Europa, potrebbero adesso ricomporsi. Che la Russia ha finalmente, per la prima volta, la possibilità di diventare Europa. È questo che verificheremo nei prossimi mesi e anni: se la Russia ("il paese con più europei d'ogni altro paese fuori dall'Europa") può davvero integrarsi all'Occidente. Se siano stati i trabocchetti e gli inganni della Storia a tenerla sinora divisa dall'Europa, o se si tratta d'un Destino che non le permette l'approdo alla tradizione, alla civiltà dell'Occidente. Che la costringe ad essere "diversa".
  • La grandiosità degli avvenimenti in corso smorza ogni velleità di discettare sull'incerto, sul probabile: induce ad attendere e vedere. Ciò che si può fare al momento è solo lo sforzo di capire meglio quel che è già avvenuto. Per esempio, come e perché la morte del Comunismo Sovietico sia avvenuta in modo così inatteso e stupefacente. Tutti avevamo pensato infatti ad una lunga e terribile agonia, mentre il trapasso è risultato brevissimo: meno d'una settimana tra il colpo di palazzo e lo scioglimento del Pcus. La Bestia ha scalciato un po', ha digrignato i denti nell'ultimo tentativo d'incutere paura, poi è morta. Segno che era ormai da tempo - senza che ce ne fossimo accorti - più morta che viva.
  • Ma quando aveva cominciato a morire il Comunismo Sovietico? No, non nell'85, con l'avvento di Mikhail Gorbaciov. La sua incurabile malattia era iniziata trentacinque anni fa, il giorno in cui Krusciov aveva processato lo stalinismo. Quel giorno, nel momento in cui era stata messa in discussione la sua vera e sola essenza - vale a dire il Terrore -, il Comunismo Sovietico aveva preso a boccheggiare. Basato sul Terrore, da allora il Sistema non era aveva preso a boccheggiare. Basato sul Terrore, da allora il Sistema non era più riuscito, infatti, a funzionare. Tutti i suoi meccanismi s'erano man mano inceppati. Nessuna efficienza era stata più possibile.
  • Gorbaciov aveva avallato in tutti questi anni l'ipotesi d'un Pcus ancora possente, nel pieno controllo di tutti gli strumenti repressivi, e capace - se sfidato frontalmente - di sferrare un colpo di maglio sulle nascenti libertà, sui germogli di democrazia della transizione sovietica. Egli lo faceva per controbilanciare la crescita dei cosiddetti "radicali", l'ascesa di Boris Eltsin, attribuendosi il ruolo necessario, fondamentale, del mediatore. Ma in questo modo ha soltanto ritardato e complicato il processo dell' uscita dal comunismo. La trasformazione economica, il riassetto istituzionale. E adesso, com'è naturale, i russi gli chiedono conto dei suoi errori.

La Repubblica, 21 marzo 1993

  • Di fronte ai rischi d'una Russia ingovernabile, in cui la contrapposizione dei poteri istituzionali impediva da mesi, ormai, qualsiasi decisione politica, Boris Eltsin ha dato battaglia ai suoi avversari. Il Parlamento non viene dissolto, ma è in pratica esautorato delle sue prerogative. E da oggi il Presidente governerà, da solo, per decreto.
  • Poiché sullo sfondo d'un paese senza tradizioni democratiche, immerso in un caos che dura ormai da quattro anni, il gesto di Eltsin potrà sembrare un attentato a quel po' di democrazia che andava affiorando, a poco a poco, in Russia, è bene che il lettore tenga presente due o tre cose. Primo: i pericoli legati all'uomo Eltsin - alle sue ambizioni, alla sua impulsività - sembrano poca cosa rispetto ai rischi che ormai rappresentava un Parlamento i cui membri avevano ricominciato a chiamarsi "tovarisch", compagno. Un "regime presidenziale" di poco più d'un mese, è niente rispetto ad un Parlamento dove [...] riemergevano ormai netti, perfettamente percepibili, i toni della più drastica contrapposizione tra Russia e Occidente. E infine, si tenga presente che la battaglia del Parlamento contro la riforma economica, non era una polemica di natura tecnica: su come, in quali tempi, debba essere riformata l'economia ex sovietica. Si trattava in realtà d'una battaglia politica, e di che portata, mirante a non consentire la dissoluzione della vecchia "nomenklatura" comunista.
  • La Russia sta vivendo, ancora una volta, ore decisive. Resta da sperare che l'autocontrollo, la maturità, la pazienza con cui i russi hanno affrontato le straordinarie traversie di questi ultimi quattro o cinque anni, trovino adesso - in mezzo a questa nuova bufera - una riconferma. La prova definitiva che non si può uscire da un universo di orrori come quello comunista, per ricominciare a spararsi.

Sull'incidente del K-141 Kursk, La Repubblica, 19 agosto 2000

  • Sembrò infatti chiaro che al vertice del governo russo era asceso un uomo senza passato, e soprattutto privo di qualsiasi esperienza politica. Un funzionario dei servizi segreti scelto dalla Famiglia eltsiniana e dai suoi accoliti non in quanto portatore d'una visione e d'una capacità di governo, ma solo in quanto "uomo di fiducia" del gruppo che l'aveva innalzato al potere. A un anno di distanza, divenuto intanto presidente della Federazione russa, Vladimir Putin ha dimostrato d'essere meno peggio di quel che s'era creduto. Putin ha ripreso in mano le redini d'un paese che andava allo sbando, si sta provando a sciogliere uno dopo l'altro i nodi dell'"anormalità russa". E se ancora una settimana fa si fosse dovuto dare un giudizio su questo suo primo anno di governo, il giudizio non sarebbe stato (malgrado le ombre che continuano ad avvolgere il personaggio) negativo. Poi, improvvisamente, ecco il dramma del Kursk.
  • Invece d'interpretare l'ondata d'emozione che aveva investito il paese, il presidente ha pensato - sbagliando malamente i calcoli - che potesse essere più utile per lui tenersi da parte. Invece di prendere subito le decisioni necessarie ai soccorsi dei marinai in pericolo di vita, anche a costo di dimostrare -ricorrendo all'aiuto straniero- lo stato disastroso delle Forze armate russe, ha perso tre giorni prima di ricorrere alla tecnologia della Nato: quel LR5 che mentre scriviamo viaggia verso il sottomarino schiantato sul fondo, ma ormai con scarse possibilità di riparare agli errori iniziali del Cremlino.
  • Il peggio sta infatti nell'altra giustificazione fornita ieri ai russi : non essersi mosso "anche perchè" i comandi militari gli avevano prospettato da subito che le possibilità di salvare l'equipaggio del Kursk erano poco più di zero. Come a dire che, vista la quasi ineluttabilità del disastro, tanto valeva restare a prendere il sole sulla spiaggia della residenza presidenziale a Soci.
  • Come mai quest'uomo ancor giovane, l'aspetto tanto diverso dai suoi predecessori, a capo d'una Russia uscita dal comunismo in cui oggi vige una democrazia almeno formale, s'è comportato più o meno come avrebbero fatto - quindici o vent'anni fa- un Cernjenko o un Breznev? Non è solo la mancanza d'esperienza politica, infatti, che è affiorata in questi giorni dalla condotta di Putin. Sono riemersi anche certi connotati, certe stimmate, tipici della classe dirigente sovietica. La stessa incapacità di chiarezza, o trasparenza che dir si voglia. La stessa insensibilità verso lo stato d'animo della nazione colpita da una tragedia. La stessa propensione alla menzogna di Stato, che stava al centro della concezione leninista del potere. Lo stesso gretto senso d'orgoglio nazionale, che ha indotto Putin a non ricorrere subito, quando ancora esisteva la possibilità di salvare decine di giovani vite, al soccorso straniero. La stessa noncuranza verso l'opinione pubblica interna e internazionale, che ieri gli ha suggerito di fornire - invece che una franca ammissione degli errori commessi, una prima plausibile spiegazione del disastro nel Mare di Barents - un mucchio di grottesche giustificazioni. Ebbene, questa somiglianza d'atteggiamenti tra il giovane Putin e la gerontocrazia sovietica non è molto difficile da spiegare. Non s'entrava infatti nel Kgb quando c'è entrato Putin, un quarto di secolo fa - e soprattutto non vi si restava a far carriera-, senza assimilare sino nel profondo i codici del sistema politico comunista. La sospettosità verso l'esterno, la totale indifferenza verso i sentimenti ed emozioni della società, il cinismo del potere. Questa fu la scuola dove Putin andò da giovane, questa è la sua formazione. Sicchè gli specialisti dell'immagine, i suoi esperti di pubbliche relazioni, hanno potuto lavorare solo sull'aspetto esterno : farlo apparire diversissimo dai vecchi e malandati predecessori, sportivo e scattante, sempre meno russo e sempre più simil-americano. E i risultati sono venuti: un'immagine moderna, dinamica, mai vista sinora al Cremlino. Ma quanto al "dentro", alla formazione, alla mentalità derivata da quella formazione, non c'era molto da fare. Non c'era un corso rapido di lezioni per mutare la natura di quella concezione del potere. Il tipo di istituzioni che s' è data la Russia post-comunista, le poche forze che la democrazia ha per ora nel paese, escludono che il disastro del Kursk possa stroncare la carriera politica di Vladimir Putin. Egli resterà quindi al suo posto, anche se dal mare di Barents dovesse tornare a galla una grande bara d'acciaio.

Sull'incidente del K-141 Kursk, La Repubblica, 26 agosto 2000

  • Quando nei giorni scorsi tutta la stampa russa rimproverava a Putin d'essere rimasto in vacanza nonostante l'agonia del Kursk, il "Moscow Times", quotidiano moscovita in lingua inglese, azzardò un paragone. Paragonò l'inabissamento del Kursk alla strage del Campo Khodynka nel giugno 1896. Su quello spiazzo alla periferia di San Pietroburgo, una grande folla stava festeggiando con le bande militari e un fiume di birra gratis l'incoronazione di Nicola II. A un tratto, per ragioni mai spiegate, sullo spiazzo si diffuse un moto di panico: la folla ondeggiò, poi tentò tutta insieme di fuggire, e fu la tragedia. Nella calca morirono infatti 1.400 persone. Nicola e la moglie Alessandra lo seppero subito: e tuttavia, poche ore dopo erano ad un ballo di gala dell'ambasciata francese.
  • La vicenda del Kursk ha bruscamente ridimensionato la figura di Putin. In pochi giorni, l'immagine di dinamismo ed efficienza, di prontezza nelle scelte e decisioni che egli era riuscito sinora a proiettare, è andata in fumo. La differenza di stile nei confronti della pachidermica lentezza e della sospettosità dei suoi predecessori, è risultata in gran parte illusoria. E adesso, agli occhi dei russi e dei non russi, Putin appare per quel che è realmente. Uno statista improvvisato, privo di vera esperienza politica.
  • Con la catastrofe del Kursk, la presidenza si è indebolita. Dovrà quindi farsi più prudente, cercare alleanze più che rese dei conti. E il primo segnale di questa necessità di cautela lo s'è già visto nei riguardi delle gerarchie militari: nella decisione, cioè, di non prendere alcuna misura nei confronti degli ammiragli e generali direttamente responsabili del ritardo nei soccorsi al sommergibile.

La Repubblica, 27 dicembre 2000

  • Adesso, per la prima volta dall'implosione dell'Urss, al Cremlino vengono prese delle decisioni: e qualcuna di esse viene anche attuata. Putin sta per esempio rimettendo in riga i boss regionali, governatori di regione o presidenti di repubblica autonoma, che sino a ieri s'erano mossi da grandi feudatari senza più alcun controllo da parte del governo di Mosca. Era una delle cose più urgenti da fare se si voleva ristabilire una qualche autorità dello Stato (riportando al centro la gran parte delle entrate fiscali), e Vladimir Putin la sta facendo.
  • Putin non ha mai detto una parola che suonasse come una condanna del passato. Ha fatto anzi l'elogio del Kgb, descritto l'entusiasmo e lo spirito patriottico con cui egli entrò a farne parte, risposto con un vago "Erano altri tempi" alle critiche contro i misfatti della organizzazione. Inoltre, pochi giorni fa ha ripristinato l'inno nazionale scelto da Stalin nel '44 (la musica: le parole sono ancora da comporre), e reintrodotto la bandiera rossa nelle forze armate. Questi gesti potrebbero avere come fine la riconciliazione nazionale. L'intento di ricucire la spaccatura apertasi nel popolo russo alla caduta del comunismo, di ridare una continuità alla storia del paese, conservando di fianco all' aquila imperiale - tornata ad essere l'emblema dello Stato - alcuni simboli del settantennio sovietico. E se di questo si tratta, ci sarebbe poco da discutere. Il paese è in effetti diviso: chi può quindi imputare al suo presidente di volerlo riunire?
  • Il fatto è che certi tratti della presidenza Putin, che si dichiara democratica e liberale, ricordano la Russia sovietica in modo un po' più che simbolico. Non c'è niente di democratico e liberale, per esempio, nella persecuzione cui sono stati sottoposti in questi mesi i giornali e la Tv del gruppo Mediamost, che in tutto il paese sono i più critici verso il governo e il presidente. Redazioni perquisite, giornalisti intimiditi. Mentre il proprietario del gruppo, Vladimir Gusinskij - che già era finito in galera l'estate scorsa a Mosca- ha dovuto fare anche un breve soggiorno nelle carceri spagnole su richiesta della procura moscovita. Non è liberale la legge in gestazione per limitare l'attività dei "media" stranieri in lingua russa (la Reuters e Radio Liberty), e non lo è l' insofferenza verso i gruppi ambientalisti. Ma ciò che più inquieta è che l'offensiva contro Mediamost, Reuters, Radio Liberty, gli ambientalisti e le associazioni che reclamano il rispetto dei diritti umani in Cecenia, è condotta con la vecchia accusa leninista di sabotaggio e collusione con agenti stranieri. Uno stile Kgb, per dirla in due parole, che induce a ripensare l'origine, la formazione, la cultura di Vladimir Putin. Un' idea Kgb del potere.

Sulla seconda guerra cecena, La Repubblica, 27 marzo 2001

  • In diciotto mesi i russi hanno avuto 2.500 morti secondo le fonti ufficiali (6.500 secondo l'associazione delle madri dei coscritti), e la guerriglia ne avrebbe persi 1213.000. Altre migliaia di morti ci sono stati tra la popolazione civile. Ma dopo tanta carneficina non c'è ancora un soldato o un ufficiale russo che s'azzarderebbe a percorrere, se non in un autoblindo, le strade devastate di Grozny.
  • Sullo sfondo [...] affiorano gli stessi segni d'indisciplina e degrado morale che caratterizzarono la campagna alla metà dei Novanta. I pochi soldi inviati da Mosca per la ricostruzione spariscono infatti nei meandri della burocrazia militare, i soldati vendono alla popolazione (pur sapendo che andranno alla guerriglia) armi e carburante, gli ufficiali riscuotono una taglia per far uscire i civili dai campi di concentramento.
  • La verità è che i timori d' un Putin «troppo potente» si sono rivelati, almeno sinora, senza fondamento. Troppo spesso dietro l'immagine del duro decisionista, costruita dalla Famiglia quando l' insediò al Cremlino, si scorge infatti un uomo indeciso, tentennante. Scelte cruciali non ne ha fatte. A Mosca è tutto un competere, un litigare: tra i vari settori militari, tra i ministri economici di tendenza liberista e la burocrazia, tra gli ex consiglieri di Eltsin e il nuovo staff presidenziale. Ma Putin non interviene, non trancia. E da queste esitazioni riemerge il ricordo dei giorni in cui affondò il sommergibile nucleare «Kursk». Quando fu chiaro che il giovane presidente aveva poche idee, e per di più confuse.

Sulla dissoluzione dell'Unione Sovietica, La Repubblica, 10 luglio 2001

  • Quella data, 1991, è a ben vedere una convenzione. La verità è che già da dieci anni l'Urss appariva un corpo inerte, senza più vita, mentre il comunismo era ridotto a un misto di farsa e tragedia: all'esterno una crosta di rituali, linguaggi e immagini grotteschi, e sotto la crosta le angustie della miseria. Ormai, la distanza col mondo non comunista risultava incommensurabile. E infatti quando si giungeva a Mosca, la prima sensazione (il tempo di salire all'aeroporto su un taxi puzzolente di cattiva benzina, cattivo tabacco, cipolla e altro ancora) era di ritrovarsi nell'Europa dell'immediato dopoguerra, trenta o trentacinque anni addietro. Giravi lo sguardo, e tutto appariva lacero, rappezzato, arrugginito, inequivocabilmente povero. Quanto a Mosca, la capitale del «paradiso dei lavoratori» era nel 1981 una città di mendichi. Un'immensa «Beggar's Opera» recitata in russo. Dirlo è triste, ma questo era, tra molti altri e tutti rovinosi, il risultato di sei decenni e più di comunismo.
  • Consapevoli dello stupore penoso, dell'imbarazzo con cui lo straniero guardava (senza dire una parola, ovviamente) a quel colossale disastro, gli amici di Mosca reagivano in due modi. O con una franchezza dai toni disperati, ammettendo di condurre una vita che in Occidente nessuno o quasi conduceva più da decenni, dai tempi della grande depressione o della guerra: oppure con ironie amarissime. Ritratti sarcastici dell'«homo sovieticus», racconti paradossali, il tutto impastato col fiele del risentimento e della frustrazione.
  • Proprio un giorno del 1981 mi capitò di vedere da vicino, in un teatro di Varsavia, Leonid Breznev. Il Segretario generale entrò dalla porta degli artisti circondato dalle guardie del corpo, infagottato in un cappotto pesante, in testa il colbacco. Era rigonfio di cortisone, e si muoveva a scatti guidato da due attendenti che, spingendolo leggermente alle spalle, gli indicavano la direzione da prendere. Quando il gruppo giunse a un guardaroba, Breznev venne prima liberato del cappotto come si fa con i bambini. Poi (lui sempre inerte, lo sguardo vuoto) gli tolsero il colbacco. Quindi uno degli attendenti impugnò un pettinino, e con pochi tocchi rapidi gli acconciò i capelli. Dove s'era mai vista una simile scena, una metafora così trasparente dell'agonia d'un sistema politico?

Sulla strage di Beslan, La Repubblica, 4 settembre 2004

  • Non intendevamo attaccare, siamo stati costretti a farlo. Questa è la tesi che sostengono le autorità russe: i terroristi hanno improvvisamente preso a sparare contro un gruppo d'ostaggi che cercava di fuggire dalla scuola, e a quel punto l'irruzione delle forze speciali è divenuta inevitabile. Ma è una tesi che va ancora verificata, perché in quasi tutti i maggiori episodi di terrorismo di questi anni le autorità russe non hanno detto la verità.
  • Chiunque abbia visto ieri alla televisione le scene che si svolgevano attorno alla scuola della cittadina osseta, ha potuto constatare che l'operazione di salvataggio somigliava più alla sequenza d'un film western che all'intervento d'una «truppa speciale» - vale a dire perfettamente addestrata, tecnicamente sofisticata - nel quadro d'una presa di ostaggi.
  • Un'immagine tra quelle viste ieri alla televisione, basta tuttavia a far capire quanto fosse sommaria, lacunosa, imprevidente, la preparazione dei servizi di sicurezza in un frangente di quella gravità. L'immagine delle automobili civili, piccole e malandate, su cui venivano caricati, ripiegati, accavallati i corpi dei feriti: e dunque il numero insufficiente di ambulanze, dopo due giorni in cui si sarebbero dovute far affluire a Beslan - nell'eventualità del peggio - tutte o quasi le ambulanze della Russia meridionale. Ma l'Fsb (ex Kgb), il ministero degli Interni, la polizia locale non avevano provveduto. Ancora una prova, dunque, dell'irrimediabile «diversità» del potere in Russia. Un potere che non deve rispondere all'opinione pubblica, e può perciò commettere errori gravissimi senza che sia possibile chiedergliene conto.

Sulla strage di Beslan, La Repubblica, 15 settembre 2004

  • Freddo, imperturbabile: è questa l'immagine di Vladimir Putin cui ci siamo abituati. Ma nei giorni successivi al massacro di Beslan, con i russi sgomenti e una parte della stampa capace finalmente di mettere sotto accusa l'operato del governo, Putin non sembrava più tanto imperturbabile. Il volto che ha mostrato alla televisione era infatti contratto, l'eloquio incerto. Le nuove misure antiterroristiche che si sforzava d'annunciare con tono fermo e rassicurante, suonavano in realtà vaghe, confuse. E intanto i ministri e i capi delle varie polizie continuavano a contraddirsi o a mentire: sul numero dei morti, sul numero e la nazionalità dei terroristi, sulle complicità - un giorno sostenute e l'indomani negate - che lo squadrone della morte ceceno avrebbe avuto in Ossezia del Nord. C'era insomma un forte turbamento, al Cremlino, e non soltanto per le centinaia di morti della scuola n° 1 o per l'ennesima prova d'inefficienza data dagli apparati di sicurezza russi.
  • Subito, i giornali e i pochi oppositori che siedono alla Duma avevano chiesto una commissione parlamentare d'inchiesta. Putin l'aveva scartata come «un inutile show politico», allo stesso modo che due anni fa, dopo la tragedia del teatro Dubrovka, aveva fatto respingere dalla sua maggioranza parlamentare una richiesta simile avanzata dai liberali.
  • [Sui siloviki] La loro visione è quella d'uno "Stato forte" governato da un'élite di professionisti, con istituzioni deboli e gruppi d'interesse legati ai vertici della burocrazia. E il loro primo riflesso in una situazione d'emergenza come quella creata dall'inarrestabile dilagare del terrorismo ceceno, è stato quello di pretendere un maggiore accentramento del potere.
  • La strage della scuola n°1 ha finito con l'avvantaggiare gli uomini che per la loro provenienza, e per gli incarichi che molti di essi ancora ricoprono nell'apparato della sicurezza, avrebbero dovuto evitarla. In altri paesi, Beslan sarebbe stato considerato il loro definitivo fallimento: nella Russia di Vladimir Putin è servita a rafforzarli.

Sulla rivoluzione arancione, La Repubblica, 3 dicembre 2004

  • La lunga turbolenza ucraina e i rischi che comportava hanno intanto provocato una serie di bruschi contraccolpi sulla scena internazionale. I rapporti tra Europa e Russia, e quelli tra Russia e Stati Uniti, non sono più gli stessi di due settimane fa. Su ogni versante sono state pronunciate parole grosse, le più aspre da molti anni a questa parte, e anche se a Kiev si dovesse profilare una soluzione accettabile per tutti, la polemica esplosa tra Mosca e le capitali dell'Occidente avrà comunque lasciato uno strascico di sospetti, diffidenze e risentimenti.
  • L'interesse di tutti è che la crisi resti circoscritta. Ma gli abbracci all'«amico Vladimir», l'illusione d'una Russia intenzionata ad una sempre maggiore integrazione negli organismi occidentali, appartengono ormai al passato. Gli umori sono cambiati in Occidente, dove d'ora in poi nessuno fingerà più di non vedere l'involuzione autoritaria del sistema politico russo; e sono cambiati in Russia, dove uomini assai vicini a Putin già accusano apertamente i servizi segreti americani d'aver finanziato e montato la protesta di massa a Kiev.
  • Come dev'essere [...] allarmante, per gli uomini che compongono la struttura di potere costruita da Putin in questi anni, la vista di folle immense riversatesi nelle strade per manifestare in nome della democrazia. Per i "cekisti", come si chiamano tra loro gli ex ufficiali del Kgb insediati al Cremlino, l'"ordine" (il concetto e la pratica dell'ordine) costituisce l'essenza stessa del proprio ruolo. Ed eccoli oggi assistere, proprio ai bordi della Federazione russa, quasi sulla porta di casa, all'esplosione d'un enorme "disordine". Quel che era accaduto un anno fa in Georgia, che adesso si ripete a Kiev, e che un giorno potrebbe succedere a Mosca.
  • Un'opposizione di massa, in Russia, non esiste. Non esiste un pensiero liberale, se non confinato in piccoli gruppi di politici e intellettuali. La frase che i russi ripetono più spesso è come sempre «Po figu»: non me ne importa niente. [...] La filosofia di chi è stato perennemente maltrattato senza ragione né spiegazioni, buona per fronteggiare le asprezze d'ogni giorno ma anche per tapparsi le orecchie dinanzi ai discorsi complicati, astratti, come quelli sulla democrazia, le libertà, i diritti umani e politici.

Sulle rivoluzioni colorate, La Repubblica, 12 luglio 2006

  • Per oltre mezzo secolo, la Russia sovietica non ebbe bisogno di lustrare la propria immagine. A occuparsene erano i partiti comunisti europei, i loro giornali e riviste e comizi, che magnificavano i successi dell'Urss "patria del socialismo" e "paradiso dei lavoratori".
  • Nei giorni di San Pietroburgo, è a questo che mirano Vladimir Putin e i suoi. A far risaltare l' attuale prestanza russa in confronto agli affanni delle democrazie del G8. Così da formalizzare il ritorno della Russia tra i protagonisti della politica internazionale, la sua ritrovata parità con i grandi del mondo, la sua rilevanza di partner in ogni progetto di gestione dell' economia globalizzata. E intanto il vecchio ruolo di antagonista della superpotenza americana si fa ogni giorno meglio visibile. Un antagonismo che non è più frontale come al tempo della Guerra fredda, non è più minaccioso: e tuttavia, anche se obliquo, è ormai sistematico.
  • Per molti versi il compito che Vladimir Putin e i suoi accoliti s' erano proposti, è infatti realizzato. La Russia non è più in pezzi com' era quando il gruppo s' installò al Cremlino. Non è più la postulante di prestiti del Fondo monetario, anzi è la meta cui si dirigono a capo scoperto i postulanti di forniture energetiche. Di questo, i leader occidentali convenuti a San Pietroburgo dovranno prendere atto. Ma senza dimenticare che la Russia d' oggi è soprattutto un "petro-state", uno smisurato Kuwait. Provvisto d' armi atomiche e industria spaziale, è vero, ma anche con decine di milioni di russi che vivono in condizioni disastrose, le peggiori di qualsiasi altra popolazione bianca del pianeta. Un paese che potrà risalire la china solo cooperando in modo trasparente, leale - se mai ne sarà capace -, con i suoi partner del G8.

Sulle rivoluzioni colorate, La Repubblica, 16 aprile 2007

  • La rivoluzione delle Rose a Tbilisi e quella Arancione a Kiev, ebbero infatti esiti trionfali. Imposero, contro il volere del Cremlino e le trame dei suoi servizi segreti, due governi pro-occidentali. Vale a dire anti-russi. Lo fecero pacificamente, senza morti e feriti, ma con manifestazioni enormi, di massa, che duravano giorno e notte e andarono avanti per settimane. Dunque, niente di paragonabile con le striminzite manifestazioni che si stanno succedendo dai primi di aprile in Russia.
  • Dopo la rivolta di Kiev, il vertice del regime russo era apparso molto preoccupato. Aveva capito che la folla, anche se inerme, può esercitare una pressione politica irresistibile. Aveva appurato che i servizi d'informazione e le Ong occidentali non erano stati estranei nella genesi di quelle grandi manifestazioni e anzi vi avevano contribuito con consulenze organizzative e finanziamenti. E s'era quindi messo a riflettere seriamente su come sventare in anticipo, ancor prima che si producessero delle vere turbolenze, un'eventuale ripetizione dei moti di Kiev.
  • Quale settore sociale, quanti russi, sono oggi contro il regime? La Russia e i russi stanno meglio, molto meglio di quanto non siano mai stati, forse, nella loro lunga storia. Persistono sacche di grande miseria, mentre una Sanità pubblica da Terzo Mondo è impossibilitata a contenere il dilagare dell'Aids e di altre malattie endemiche. Infrastrutture fatiscenti o addirittura mancanti, ritardi tecnologici, agricoltura ancora arretrata di mezzo secolo e più rispetto a quelle dei paesi sviluppati. E infine la corruzione sempre più estesa e sfrontata, indomabile. Ma i redditi, specie nelle grandi città, sono aumentati, si va delineando una classe media, il vertiginoso aumento del numero delle automobili rende una tortura ogni percorso nel centro di Mosca. E persino i russi cui Putin non ha portato un po' di prosperità hanno motivi di soddisfazione. Le ferite che il loro nazionalismo aveva subito con il crollo dell'Urss e il caos degli anni di Eltsin, sono ormai rimarginati.

Su Boris Nikolaevič El'cin, La Repubblica, 24 aprile 2007

  • Sarà difficile per tutti, russi e non russi, estrarre un giudizio conclusivo dal groviglio della vicenda umana e politica di Boris Nikolaievic Eltsin. Troppe volte, in quella vicenda, i gesti di grande coraggio politico e le scelte lungimiranti sono stati seguiti da errori madornali, decisioni irresponsabili, vaneggiamenti.
  • Certo, se si pensa alla Russia che Eltsin ha lasciato quando il 31 dicembre del '99 si dimise da presidente, il giudizio sugli anni del suo governo non può essere che negativo. Un Paese sull' orlo della bancarotta, senza più controllo politico e amministrativo, corrotto sin nelle midolla, terreno di scorrerie per potenti bande di speculatori. I cambi continui e strampalati dei primi ministri, le avide camarille attorno al capezzale di Eltsin malato, la schiuma fetida delle ruberie giunta a lambire la sua stessa famiglia. Una sorta di grande Albania, in cui tutto dalle Forze armate alla gestione economica, dall' identità nazionale alla salute pubblica, dal sistema giudiziario a quello scolastico appariva ridotto ad un ammasso di rottami. Su questo non ci sono dubbi.
  • Attorno ad Eltsin sempre più stralunato e ondeggiante, stagnò a lungo la cupa atmosfera d' un "Re Lear" della Moscova. Un vecchio re, due figlie del re intriganti e rapaci, una lotta spietata tra i cortigiani in vista della successione. Ma i primi cinque anni furono diversi. Da quell' agosto '91 in cui nello spazio di pochi giorni fronteggiò il tentativo di colpo di Stato dei vecchi dinosauri sovietici, mise fuori legge il Partito comunista e spinse fuori dalla scena il vacuo e tentennante Gorbaciov, Eltsin si mosse con un coraggio e un' energia stupefacenti. Fu l' insonne protagonista d' una seconda rivoluzione russa. Scardinò pezzo a pezzo la struttura di potere economica e politica su cui l' Urss aveva poggiato da Stalin in poi, trascinò il Paese fuori dalla palude comunista, indisse elezioni in cui i russi votarono per la prima volta come votano i popoli liberi.
  • Quante volte sono stati rimproverati ad Eltsin lo slancio irruento, l' avventatezza di quelle misure radicali e traumatiche. In specie l' avvio caotico, malamente concepito e ancor peggio attuato, delle privatizzazioni. Eppure furono quelle misure a produrre il rivolgimento russo. Ad estirpare le radici che il comunismo aveva affondato nel Paese.

La Repubblica, 27 aprile 2007

  • Questo tema delle trame internazionali contro «il paradiso dei lavoratori» era un ingrediente essenziale, invariabile, nei discorsi dei Segretari generali del Pcus all' apertura dei congressi. E adesso rispunta, con le stesse vibrazioni ossessive, nella Russia di Putin. Una Russia dove, così come accadeva nell' Urss, il parlamento è una pura sembianza, la magistratura uno strumento manovrato dal Cremlino, e i grandi mezzi di comunicazione sono nelle mani d' una specie particolare di «razza padrona»: gli ex agenti del Kgb - la cosiddetta Kremlin Inc - portati da Putin ai vertici dell' industria energetica.
  • I russi stanno capitalizzando furbamente la vulnerabilità dell' Europa in materia di forniture energetiche, puntando sulle divisioni tra i vari governi - e tra i vari gruppi industriali - dell' Unione. Ma concessioni non ne fanno, e il loro atteggiamento con gli europei sta diventando sempre più ruvido, sbrigativo, altezzoso.
  • Il declino demografico, se non lo si deve chiamare agonia, provocato dall' alcolismo e da strutture sanitarie fatiscenti, appare inarrestabile. L' Aids dilaga. Le infrastrutture sono quelle che c' erano sessanta o settant' anni fa in Occidente. Le campagne non sono ancora uscite dalla povertà e dal degrado dell' epoca comunista. La crescita economica è quasi totalmente dovuta all' aumento dei prezzi del petrolio e del gas, e dunque, come per ogni altro petro-stato, dovuta ad una congiuntura favorevole di durata incerta. La corruzione permea ogni segmento delle istituzioni e della società. Sulla decina di omicidi eccellenti commessi durante gli anni di Putin, non ce n' è uno su cui i tribunali abbiano fatto luce. In quanto tempo i successori di Putin (il quale ha ieri ribadito che l' anno venturo lascerà la presidenza) riusciranno a trasformare la Russia in un paese moderno? No, la trasformazione richiederà ben altro che gli sguardi di ghiaccio e gli atteggiamenti pettoruti dei «cekisti». Ben altro, e molti anni. Nel frattempo, l' Occidente dovrebbe forse andare a «vedere» almeno qualcuno dei «bluff» del Cremlino.

Sulla seconda guerra in Ossezia del Sud, La Repubblica, 13 agosto 2008

  • Le forze armate georgiane sono in rotta; Putin viene osannato in Russia come uno zar trionfatore, avendo vinto in cinque giorni la prima guerra esterna che i russi combattevano dal Natale 1979, quando avevano invaso l'Afghanistan; l'America conosce l'ennesimo scacco degli otto anni di George W. Bush. Putin aveva teso a Mikhail Saakashvili una trappola perfettamente congegnata, e il georgiano vi s'è ficcato senza esitare. Da quando la loro "intelligence" aveva capito che il bollente georgiano aveva deciso di muovere il suo esercito, i russi avevano ammassato truppe, spostato aerei, sul confine tra Russia e Ossezia meridionale. Si spiega così la fulminea controffensiva di giovedì 7 agosto con cui hanno sbaragliato i georgiani, facendo durare la guerra (come volevano, in modo da evitare una troppo rumorosa reazione internazionale) soltanto cinque giorni. Mentre quel che non si spiega è come mai i servizi d'informazione americani, presenti da tempo in Georgia, non abbiano fermato in tempo Saakashvili.
  • Le legittime pretese dei georgiani di ristabilire la propria sovranità sulle province secessioniste, Ossezia del sud e Abkhazia, si sono a questo punto dissolte. Il precedente del Kossovo verrà usato dal Cremlino per tacitare le proteste degli occidentali, e le due province non rientreranno più nella Georgia. Quanto a Saakashvili, per ora i russi eviteranno di buttarlo giù in modo da evitare che li si accusi d'una manovra di "regime change" come quella con cui gli americani liquidarono Saddam Hussein.
  • Se avverrà, l'uscita di scena dell' incauto Saakashvili sarà poi colma di significati per ogni altro governante dei paesi ex sovietici. Essa vorrà infatti dire che non ci si può fidare degli abbracci americani, dei prematuri inviti ad entrare nella Nato, perché i russi si sono dimostrati chiarissimi: quei paesi sono nella loro zona d' influenza, e la loro libertà di movimento è relativa.
  • Sembra d' essere tornati all'Ottocento? Sì, ed facile spiegare perché. Svuotata della zavorra ideologica, la rivalità tra Russia e Stati Uniti si configura ormai come pura politica di potenza, anche se resa meno pericolosa dalle esigenze dell' economia globalizzata.

La Repubblica, 20 febbraio 2009

  • Due anni e mezzo dopo l'assassinio, un colpo di rivoltella alla nuca mentre la giornalista usciva dall'ascensore della sua abitazione, la giustizia russa ha quindi sentenziato che il caso Politkovskaja è chiuso. Chi fossero i mandanti, dove si trovi l'assassino (forse il terzo dei fratelli Makmudov), perché la giornalista sia stata uccisa: a queste domande il tribunale di Mosca non ha neppure tentato di dare risposta. Gli imputati sono già tutti a casa per non aver commesso il fatto, il mistero Politkvoskaja resta quello che era: il più fitto, il più torbido, il più indecente tra i molti misteri della Russia di Vladimir Putin.
  • Le stragi, gli stupri di massa, l'incendio di abitazioni, i campi di concentramento in Cecenia, tutto questo discendeva dall'assenso che il potere aveva dato a quella ferocia. Senza l'assenso di Putin, il macello ceceno non avrebbe potuto proseguire per cinque lunghi anni, dall'ascesa al Cremlino dell'ex ufficiale del Kgb sino agli inizi del 2006.
  • Abbiamo dei sospetti, questo sì, largamente condivisi in tutto l'Occidente: sospetti di trame delle polizie segrete in un paese dove la maggioranza dei settanta-ottanta uomini più potenti della Russia d'oggi si sono formati nelle scuole del Kgb. E i quali, a differenza del personale politico nelle democrazie, hanno studiato lungamente come ordinare - e insieme mantenerla nel mistero - l'eliminazione fisica d'un avversario. Ma, vale la pena ripeterlo, certezze non ne abbiamo.
  • Il fatto è che noi continuiamo a parlare della Russia quasi fosse un paese come gli altri: i prezzi del petrolio e del gas che continuano a calare, la crisi finanziaria, la marea dei disoccupati, i piccoli segnali d'un possibile miglioramento dei rapporti con l'Occidente.
    Ma la Russia non è un paese come gli altri. Negli "altri" paesi i giornalisti non vengono sparati al cuore o alla nuca. E se domani ne venisse ammazzato uno, il presidente della Repubblica di quel paese dove è stato commesso l'omicidio non direbbe, come disse Putin dopo la morte della Politkovskaja, che si trattava di "persona senza vero ascolto nella società".
  • Eliade è un caso particolare, perché in Romania [...] egli ha partecipato attivamente alla vicenda di quello che fu il più lugubre, spiritato, febbrile movimento d'ispirazione fascista tra quanti ne affiorarono in Europa negli anni Trenta: le Guardie di ferro fondate da Corneliu Codreanu. Movimento élitista, antimonarchico, antiparlamentarista, antisemita, che tendeva ad esaltare il "romanism" - l'identità spirituale romena -, la nazione piuttosto che lo Stato, e la tradizione cristiano-ortodossa. In rivolta contro lo storicismo ancora imperante, nauseato da un ambiente intellettuale che si limita a scimmiottare la cultura occidentale, soprattutto francese, Eliade studioso di miti, riti e simboli primitivi, fervido spiritualista - s'avvicina alle Guardie di ferro. E vi s'avvicina tanto, con i suoi articoli e discorsi (assai più di quanto non osi il suo intimo amico Emil Cioran), che nel 1938, quando il re Carol II reprime e bandisce il movimento, finisce per due anni in un campo d'internamento.[8]
  • La verità, infatti, è che la Russia è un paese ancora in bilico tra la spaventosa arretratezza lasciata da sette decenni di comunismo, e i pochi, sconvinti tentativi che il regime di Vladimir Putin ha fatto dal 2000 ad oggi per portarlo nella modernità. Tutta la rete delle sue infrastrutture - condotte d'acqua, elettricità, trasporti, strade, fogne - è per vastissimi tratti vicina al collasso, nonostante gli enormi introiti da petrolio e gas venuti alle casse del regime tra il 2001 e il 2008.[9]
  • Qui non si parla d'un piccolo paese e d'una piccola capitale. Stiamo parlando della Russia, la cui Banca centrale dispone di riserve che sono tuttora (benché erose dalla crisi del 2008) tra le più pingui del pianeta. Ma queste risorse non sono state utilizzate in tempo come avrebbero dovuto per rinforzare, ammodernare, le capacità d'intervento della protezione civile.[9]
  • Da dove scaturiva l'emozione con cui gli italiani tra i venti e i trent'anni approdavano a quel tempo sulla piazza Rossa? Oggi mi sembra di sapere che proveniva innanzi tutto dall' esotismo della "patria socialista". Vale a dire tutto quel che non avevamo mai visto a Roma, a Parigi, a Londra. Le folle malvestite in fila sotto la neve davanti al mausoleo di Lenin (dal quale era appena stata tolta la mummia di Stalin), la rude scortesia dei camerieri e altri inservienti, un alcol da 40-42 gradi come la vodka con cui pasteggiare a pranzo già verso l'una del pomeriggio, le cipolle dorate delle chiese russe, i marmi e i lampadari a goccia della metropolitana, il brivido che si provava venendo interpellati da un semplice poliziotto. Ma altre suggestioni erano per così dire "indotte", venivano cioè dai libri, racconti e discorsi (tutti entusiastici) dei comunisti italiani e dei loro compagni di strada.[10]
  • Nessuna popolazione bianca al mondo viveva a quel tempo tanto miseramente come viveva l'homo sovieticus. Nei dormitori dell'università Lenin, Serena Vitale combatteva contro gli scarafaggi, e telefonava in Italia alla madre supplicando un urgente invio di Ddt. Ma non era diverso negli alberghi per stranieri. Anche in quello dove sono sceso quasi tutte le volte, il Nazional, in cui i sovietici ospitavano le delegazioni straniere di rango, sui pavimenti si muovevano notte e giorno ditteri, emitteri, psocotteri, cioè a dire scarafaggi ripugnanti, mentre ogni tanto si vedevano certi piccoli topi nerastri attraversare di corsa la stanza, Questa era l'Urss, e ancora non ho parlato della burocrazia, di quel riempire moduli e moduli per qualsiasi cosa, cambio di valuta, permesso di andare in taxi sino al bosco di Peredelkino alla periferia della città (quei taxi puzzolenti di cattiva benzina, cattivo tabacco, cipolla, aglio e chi sa che cos'altro ancora), permesso e attesa di 4-5 giorni per recarsi al vicino monastero di Zagorsk, due moduli con le risposte ad una trentina di domande per acquistare un biglietto aereo, tre moduli per prenotare un tavolo al ristorante Aragvi.[10]

La Repubblica, 23 marzo 2010

  • In Russia non si sta infatti preparando una rivolta arancione come quella ucraina del 2004. Primo, perché il consenso di cui godono nei sondaggi (sondaggi che si possono ritenere attendibili) Putin e il suo governo, tocca ancora il 65-70 per cento degli interpellati. Secondo, perché il brivido più forte che il regime abbia provato nei suoi dieci anni di vita, fu proprio quello venuto dall'"orange revolution" in Ucraina. E da allora Putin e i suoi hanno preso tutte le precauzioni del caso. Aumento massiccio degli effettivi di polizia, acquisto all'estero dei più moderni mezzi antisommossa, nuove leggi per raddoppiare la sorveglianza sui finanziamenti che giungono dall'Occidente in Russia alle Ong (diritti umani, libertà di stampa ecc.), il danaro che fu essenziale per l'organizzazione della rivolta in Ucraina. Terzo, perché in Russia non esiste un movimento d'opposizione degno di questo nome.
  • La storica apatia dei russi, e la paura del peggio (in un paese che per settant'anni ha conosciuto le massime privazioni di tutta l'Europa del Novecento), tendono ad escludere un largo e persistente movimento di protesta.
  • Nei prossimi anni saremo [...] allo stesso punto in cui siamo oggi. A chiederci quale sia la natura, l'effettivo funzionamento della diarchia moscovita. Medvedev un fantoccio manovrato dall'ex colonnello del Kgb Vladimir Putin, o un sincero liberale che crede alle riforme di cui parla, le riforme che dovrebbero condurre ad una Russia finalmente diversa? Nessun imbarazzo, se non riusciamo a dare una risposta credibilea questa domanda.
  • L'uno, Putin, parla ai russi di basso reddito che dipendono dal governo per i loro salari e pensioni. Gente d'età media o già anziana, che guarda ogni sera la TV del regime, e con un residuo di nostalgie per l'Urss superpotenza. L'altro, Medvedev, parla invece ai russi di reddito medio-alto che vivono nelle grandi città, viaggiano, non guardano la TV ma usano Internet, e quindi sanno bene sino a che punto il paese sia ancora arretrato, sino a che punto una corruzione senza freni stia flagellando i tentativi dei liberi imprenditori. E se il gioco delle parti è, come sembra al momento, la verità, la sola conclusioneè che la diarchia è stata ben congegnata, è scaltramente gestita, e andrà avanti ancora per un bel pezzo.

Sull'attentato alla metropolitana di Mosca, La Repubblica, 30 marzo 2010

  • Benché il suo vertice sia composto da due o trecento ex agenti segreti, il regime russo ha mostrato per l'ennesima volta una sua stupefacente vulnerabilità nei confronti del terrorismo interno. Proprio la materia in cui gli ex Kgb portati al potere da Vladimir Putin dovrebbero essere più esperti.
  • Uno scacco grave per un regime che aveva puntato tutto sulle promesse di ordine e stabilità, e che per far questo ha eroso negli ultimi sei o sette anni il ruolo d'ogni altra istituzione al di fuori del potere esecutivo.
  • A Mosca, il regime s'era illuso che delegando ai poteri locali la responsabilità di sconfiggere la guerriglia, inviando fondi sostanziosi per la ricostruzione (fingendo di ignorare che essi andavano ad arricchire notabili e funzionari della zona) e tollerando cinicamente le continue, spesso atroci violazioni dei diritti umani per giungere a una qualche stabilità, le convulsioni del Nord Caucaso si sarebbero progressivamente placate. Ma i morti di ieri a Mosca dimostrano il contrario. Sono la prova che il regime degli ex Kgb è ancora incapace di neutralizzare le offensive del terrorismo interno.
  • Mai, dopo una sciagura nazionale come quella di ieri, è stata creata una commissione d'inchiesta. Mai si sono interpellati esperti di terrorismo russi o stranieri, né è stato consentito un dibattito che coinvolgesse l'opposizione, il mondo accademico, i giornali. Così come accadeva nella Russia comunista, il silenzio viene imposto come salvaguardia del segreto di Stato. Come diaframma contro i complotti che dall'esterno (secondo quel che disse Putin all'indomani di Beslan) minacciano la sicurezza del popolo russo. I russi, quindi, sapranno poco o niente del perché sono tanto esposti ai massacri dei terroristi. Potranno soltanto tenersi in petto le loro ansie, in attesa della prossima bomba. Mentre il regime, che puntava il dito verso l'Occidente esigendo "rispetto per la Russia", appare più inarticolato, inefficiente che mai.
  • L'asservimento dei tribunali russi al potere esecutivo, è uno degli aspetti più scandalosi del regime di Vladimir Putin. Per un decennio, il decennio di Putin, i magistrati non hanno mai dato, al termine dei processi che avevano un qualche significato politico, un solo segno d'indipendenza. Le sentenze erano già scritte ben prima che venissero emesse, formulate negli uffici dell'ex presidente e oggi primo ministro. Col risultato che nessuno s'aspettava più di vedere nell'apparato giudiziario russo un cambiamento per il meglio, un sussulto dei giudici o una diminuzione delle pressioni da parte dell'esecutivo.[11]

Sulle proteste in Russia del 2011-2013, La Repubblica, 5 marzo 2012

  • Il ceto sociale che essendo uscito nell'ultimo decennio dai prefabbricati delle periferie desolate e dalla stretta delle penurie sovietiche, aspira adesso alla libertà, alla dignità e a un rispetto da parte del potere, che un regime poggiato su un paio di centinaia di ex Kgb non intende dargli. La "classe media" che ha manifestato negli ultimi due mesi a Mosca e a Pietroburgo, gridando "Putin vattene".
  • Sino a che punto questa parte dei russi è pronta a opporsi al regime? A rischiare una fase d'instabilità che sì aprirebbe sicuramente in un confuso, o addirittura drammatico, dopo-Putin? La risposta a queste domande non c'è. Gli oppositori sono tuttora molto divisi, non hanno un programma di governo né un leader. Ma essi, la cosiddetta "classe media", rappresentano tuttavia un nuovo capitolo della storia russa. Il capitolo del discontento organizzato, pianificato, rabbioso e rumoroso, qualcosa che in Russia s'era visto soltanto con la rivoluzione del '17.
  • Sul finire del suo secondo mandato, mentre si allestiva la sceneggiata della presidenza Medvedev, le cose cambiarono. Troppo lampanti erano ormai le magagne del regime. Lo smodato arricchimento dei sodali del "Voz", la corruzione dilagante senza che Putin desse segno di volere davvero mettervi fine, la soggezione del sistema giudiziario ai voleri del governo, la libertà di stampa mutilata. Era troppo, specie per le giovani generazioni, e il discontento cominciò a serpeggiare per poi esplodere con i brogli elettorali nelle politiche del dicembre scorso. Un po' come nelle rivolte arabe la parte più aspra della protestaè scaturita infatti dalla ferita della dignità negata. Da un potere che si permetteva qualsiasi abuso nella certezza che ogni abuso sarebbe stato ingoiato, senza mai una reazione, dai cittadini. Invece, stavolta la "classe media" ha alzato la testa. Il terzo mandato di Putin alla presidenza della Federazione si apre così in un' atmosfera ben diversa, più incerta, da com'erano cominciati nel 2000 e nel 2004 gli altri due.

Citazioni su Sandro Viola

modifica
  • Sandro VIOLA [...] è stato coltivato dal KGB ed era un contatto confidenziale della Residentura del KGB di Roma. Il suo nome in codice era "ZHUKOV". (Dossier Mitrokhin)
  1. Da Tra i curdi ribelli a Bagdad, La Stampa, 15 agosto 1968
  2. Da Le esplosioni del Brasile, La Stampa, 1 agosto 1969.
  3. Da Come ai tempi di Salazar, La Stampa, 24 ottobre 1969
  4. a b c Da Guinea, 12 anni di complotti, La Stampa, 2 febbraio 1971
  5. a b Da Perché la guerra in Pakistan, La Stampa, 28 marzo 1971
  6. Da Deposto il presidente Yahya del Pakistan. Data alle fiamme la sua casa a Peshawar, La Stampa, 21 dicembre 1971
  7. Da Lisbona bella e perduta, La Repubblica, 12 luglio 1991
  8. Da La profezia di Mircea Eliade — Sotto l'Urss il mio popolo sparirà, La Repubblica, 22 febbraio 2010
  9. a b Da Il paese senza modernità, La Repubblica, 8 agosto 2010
  10. a b Da Le bugie di Mosca, La Repubblica, 20 dicembre 2010
  11. Putin-Medvedev. Diarchi a Mosca, La Repubblica, 26 aprile 2011

Altri progetti

modifica