Fedro

favolista romano

Gaio Giulio Fedro (20/15 a.C. circa – 50 d.C. circa), scrittore romano.

Fabulae

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Originale

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Aesopus auctor quam materiam repperit, hanc ego polivi versibus senariis. Duplex libelli dos est: quod risum movet, et quod prudenti vitam consilio monet. Calumniari si quis autem voluerit, quod arbores loquantur, non tantum ferae, fictis iocari nos meminerit fabulis.

Progetto Ovidio

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Esopo è l'inventore. Fu lui a trovare gli argomenti che io ho elaborato artisticamente in versi senari. Due sono le doti di questo libretto: diverte e, se stai attento, consiglia come vivere. Se poi qualcuno avesse da ridire perché parlano gli alberi e non solo gli animali, si ricordi che noi scherziamo: le storie sono immaginarie.[1]

Giovanni Grisostomo Trombelli

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Con metro umil, né a dure leggi avvinto,
Ciò ch'Esopo inventò, resi più adorno.
Due pregi ha il libricciuol; il riso move,
E con saggio consiglio il viver regge.
Se' alcun mi rechi a biasmo che le piante,
Non che le fiere, abbia a parlare indotto;
Che son finti racconti gli sovvenga.

[da "Lucrezio tradotto da Alessandro Marchetti, con Fedro", traduzione di Giovanni Grisostomo Trombelli, 1797. (Disponibile su Wikisource)]

Citazioni

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Libro I

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  • Allo stesso rivo erano giunti il lupo e l'agnello spinti dalla sete; in alto stava il lupo e molto più in basso l'agnello.[1] (1. Il lupo e l'agnello)
Ad rivum eundem lupus et agnus venerant, siti compulsi. Superior stabat lupus, longeque inferior agnus.. (I. Lupus et Agnus)
  • Nel tempo in cui leggi egualitarie facevano prosperare Atene, la libertà sfrenata sconvolse lo stato e l'anarchia sciolse i freni di un tempo.[1] (2. Le rane chiesero un re)
Athenae cum florerent aequis legibus, procax libertas civitatem miscuit, frenumque solvit pristinum licentia.. (II. Ranae Regem Petunt)
  • È gravoso ogni peso per chi non è abituato.[1] (2. Le rane chiesero un re)
Grave [est] omne insuetis onus. (II. Ranae Regem Petunt)
  • Amittit merito proprium qui alienum adpetit. (IV. Canis per Fluvium Carnem Ferens)
Perde il proprio, e se lo merita, chi cerca di prendere l'altrui.[1] (4. Il cane che portava un pezzo di carne attraversando un fiume)
Ha quel che merita chi perde il proprio per arraffare l'altrui.
  • Nessuno è abbastanza difeso contro i potenti. (5. La vacca, la capretta, la pecora e il leone)
Numquam est fidelis cum potente societas. (V. Vacca et capella, ovis et leo)
  • O quanta apparenza! Ma il cervello manca. (7. La volpe e la maschera tragica)
O quanta species! Cerebrum non habet. (VII. Vulpis ad Personam Tragicam)
  • Sibi non cavere et aliis consilium dare stultum esse [...]. (IX. Passer ad Leporem Consiliator)
Non badare a sé e dare consigli agli altri è da sciocchi.[1] (9. Il passero consigliere della lepre)
Non provvedere a sé e dar consigli agli altri è cosa stolta.
  • Quicumque turpi fraude semel innotuit, etiam si verum dicit, amittit fidem. (X. Lupus et Vulpis Iudice Simio)
Chi si è fatto conoscere una volta per un inganno vergognoso, anche se dice la verità, perde il credito.[1] (10. Il lupo e la volpe al tribunale della scimmia)
Colui che di turpe frode una volta si macchiò, anche se dice il vero non è più creduto.
  • Qui se laudari gaudet verbis subdolis, fere dat poenas turpes poenitentia. (XIII. Vulpis et Corvus)
Chi gode a sentirsi lodare con parole sudbole, ne sconta vergognosa pena col tardo pentimento.[2] (13. La volpe e il corvo)
Chi si compiace di falsi elogi, di solito lo sconta e se ne pente, pieno di vergogna.[1]
  • Molto spesso, col cambiare del governo, per i poveri cambia solo il nome del padrone. (15. L'asino e il vecchio pastore)
In principatu commutando civium nil praeter domini nomen mutant pauperes. (XV. Asinus ad Senem Pastorem)
  • Chi perde il prestigio di un tempo, nella sua caduta rovinosa è schernito anche dai vili.[1] (21. Il vecchio leone, il cinghiale, il toro e l'asino)
Quicumque amisit dignitatem pristinam, ignavis etiam iocus est in casu gravi. (XXI. Leo Senex, Aper, Taurus et Asinus)
  • Inops, potentem dum vult imitari, perit. (XXIV. Rana Rupta et Bos)
Chi non ha possibilità e vuole imitare il potente, finisce male.[1] (24. La rana scoppiata e il bue)
Per il miserabile, voler imitare il potente è la rovina.
  • Gli umili ci rimettono quando i potenti si scontrano.[1] (30. Le rane che temono i combattimenti dei tori)
Humiles laborant ubi potentes dissident. (XXX. Ranae Metuentes Proelia Taurorum)

Libro II

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Verum est aviditas dives et pauper pudor. (I. Iuvencus Leo et Praedator)
  • Est ardalionum quaedam Romae natio, trepide concursans, occupata in otio, gratis anhelans, multa agendo nil agens, sibi molesta et aliis odiosissima. (V. Tib. Caesar ad Atriensem)
C'è a Roma una genia di faccendoni, sempre in giro di corsa, piena di fretta, indaffarata senza vere occupazioni, affannata senza pro, fa mille cose e non ne fa nessuna, dannosa a se stessa e insopportabile agli altri.[1] (5. Ancora Cesare all'Atriense)
Molti sono indaffarati a non fare nulla.
  • Tuta est hominum tenuitas, magnae periclo sunt opes obnoxiae. (VII. Muli Duo et Latrones)
La povertà mette l'uomo al sicuro; le grandi ricchezze sono esposte ai pericoli.[1] (7. I due muli da soma)
La povertà è al riparo da ogni rischio, le grandi ricchezze sono sempre esposte ai pericoli.

Libro III

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  • Seruitus obnoxia, quia quae uolebat non audebat dicere, affectus proprios in fabellas transtulit, calumniamque fictis elusit iocis. (Prologus)
La schiavitù, sempre soggetta al potere, poiché non osava dire quello che voleva, trasferì i propri sentimenti in favolette, e inventando storielle scherzose, evitò di essere falsamente incriminata.[1] (Prologo. Fedro a Eutico)
La schiavitù, ai padroni soggetta, non osando dire ciò che avrebbe voluto, traspose le sue opinioni in brevi favole, ricorrendo, per schivare le accuse di calunnia, a scherzose invenzioni.
  • Solet a despectis par referri gratia. (II. Panthera et Pastores)
Di solito l'offeso ripaga con la stessa moneta.[1] (2. La pantera e i pastori)
Chi è stato disprezzato suole ripagare con la stessa moneta.
  • [...] derideri [...] merito potest qui sine virtute vanas exercet minas. (VI. Musca et Mula)
Si può deridere a ragione chi non vale nulla e pronuncia vane minacce.[1] (6. La mosca e la mula)
Viene giustamente deriso chi, senza forza, fa vane minacce.
  • Vulgare amici nomen sed rara est fides. (IX. Socrates ad Amicos)
Dell'amico è comune il nome, ma rara la fedeltà.[2] (9. Socrate e gli amici)
Amico è parola usuale, ma raro è un amico fedele.[1]
  • È pericoloso credere e pericoloso non credere. (10. Il poeta su credere e non credere)
Periculosum est credere et non credere. (X. Poeta de Credere et non Credere)
  • Ti è noto solo chi conosci tu. (III, 10, 38)[3]
  • Sic lusus animo debent aliquando dari, ad cogitandum melior ut redeat tibi. (XIV. De Lusu et Seueritate)
Così, di tanto in tanto, devi lasciare svagare la mente, perché torni a te più pronta quando occorre pensare.[1] (14. Gioco e serietà)
La mente dovrebbe ogni tanto trovare qualche distrazione, perché con ciò possa meglio rivolgersi al pensiero.
  • Humanitati qui se non accommodat plerumque poenas oppetit superbiae. (XVI. Cicada et Noctua)
Chi non si adatta a vivere rispettando gli altri, per lo più paga il fio della propria arroganza.[1] (16. La cicala e la civetta)
Chi non si adatta alla gentilezza, per lo più paga il fio della propria superbia.
  • Noli adfectare quod tibi non est datum, delusa ne spes ad querelam reccidat. (XVIII. Pauo ad Iunonem de uoce sua)
Non pretendere quello che non ti è stato dato, perché la speranza delusa non si trasformi in lamentela.[1] (18. Il pavone a Giunone sulla propria voce)
Non aspirare a ciò che non ti è stato dato, affinché la tua speranza delusa non abbia motivo di lamentarsi.

Libro IV

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  • Chi è nato disgraziato, non solo trascorre una vita grama, ma anche dopo la morte lo perseguita il suo destino crudele e sventurato.[1] (1. L'asino e i Galli)
Qui natus est infelix, non vitam modo tristem decurrit, verum post obitum quoque persequitur illum dura fati miseria. (I. Asinus et Galli)
  • Non sempre le cose sono come sembrano. (2. Il poeta)
Non semper ea sunt, quae videntur. (II. Poeta)
  • Spesso c'è più buon senso in uno solo che in tutta una folla. (5 Il poeta)
Plus esse in uno saepe, quam in turba boni. (V. Poeta)
  • Giove ci impose due bisacce: ci mise dietro quella piena dei nostri difetti e davanti, sul petto, quella con i difetti degli altri. Perciò non possiamo scorgere i nostri difetti e, non appena gli altri sbagliano, siamo pronti a biasimarli. (10. I vizi degli uomini)
Peras imposuit Iuppiter nobis duas: propriis repletam vitiis post tergum dedit, alienis ante pectus suspendit gravem. Hac re videre nostra mala non possumus; alii simul delinquunt, censores sumus. (X. De Vitiis Hominum)
  • Delle ricchezze l'uomo di valore non può sopportare nemmeno la vista, e ben a ragione, perché il forziere pieno di tesori impedisce la vera gloria.[1] (12. Le ricchezze sono deleterie)
Opes invisae merito sunt forti viro, quia dives arca veram laudem intercipit. (XII. Malas esse divitias)
  • Prometeo ha plasmato la lingua della donna secondo il modello del membro virile. Da qui l'affinità oscena.[1] (14. Prometeo)
A fictione veretri linguam mulieris. Affinitatem traxit inde obscenitas. (XIV. Prometheus)
  • Le capre avevano ottenuto da Giove la barba, i caproni allora si indignarono, deplorando che le femmine avessero raggiunto una dignità pari alla loro. «Lasciate che godano di una gloria vana», disse Giove, «e che si approprino delle insegne del vostro grado, purché non vi siano alla pari in fortezza».[1] (17. Le capre barbute)
Barbam capellae cum impetrassent ab Iove, hirci maerentes indignari coeperunt, quod dignitatem feminae aequassent suam. «Sinite» inquit «illas gloria vana frui et usurpare vestri ornatum muneris, pares dum non sint vestrae fortitudinis». (XVII. De capris barbatis)
Fabella talis hominum discernit notas eorum qui se falsis ornant laudibus, et quorum virtus exhibet solidum decus. (XXV. Formica et musca)

Libro V

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  • La temerità per pochi risulta un vantaggio, per molti un male.[1] (4. L'orzo dell'asino e del porcello)
Paucis temeritas est bono, multis malo. (IV. Asinus et Porcelli Hordeum)
  • Gli uomini di solito prendono delle cantonate per la loro stolta parzialità, e, perseverando nel loro erroneo giudizio, sono poi costretti a pentirsene dinanzi all'evidenza.[1] (5. Il buffone e il contadino)
Pravo favore labi mortales solent et, pro iudicio dum stant erroris sui, ad paenitendum rebus manifestis agi. (V. Scurra [et] rusticus)
  • Quando un vanesio, accecato dal fragile favore popolare, perviene a una eccessiva stima di se stesso, è messo facilmente in ridicolo per la sua stolta vacuità.[1] (7. Il flautista presuntuoso)
Ubi vanus animus aura captus frivola arripuit insolentem sibi fiduciam, facile ad derisum stulta levitas ducitur. (VII. Procax tibicen)

Appendice perottina

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  • L'avaro non dà volentieri nemmeno quello che gli avanza.[1] (1. La scimmia e la volpe)
Auarum etiam quod sibi superest non libenter dare. (I. Simius et vulpes)
  • I vizi, se nascosti, talvolta giovano all'uomo, ma col passare del tempo appare la verità.[1] (6. Nulla rimane a lungo nascosto)
Simulata interdum vitia prosunt hominibus, sed tempore ipso tamen apparet veritas. (VI. Nihil diu occultum)
  • La fame dunque aguzza l'ingegno anche agli stolti.[1] (22. L'orso affamato)
Ergo etiam stultis acuit ingenium fames. (XXII. Ursus esuriens)
  • Se gli uomini riuscissero a rinunciare ai loro averi, poi vivrebbero sicuri; nessuno tenderebbe insidie a un corpo nudo.[1] (31. Il bivero)
Hoc si praestare possent homines, ut suo vellent carere, tuti posthac viverent; haud quisquam insidias nudo faceret corpori. (XXX. Fiber)

Citazioni su Fedro

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  • In parte sotto Tiberio e in parte sotto i suoi successori, Fedro di Pieria, liberto, pubblicò cinque libri di favole esopiche in ben costrutti senarii giambici. Alle favole propriamente dette sono frammischiati anche aneddoti di cose avvenute allora o non molto prima. Le varie persecuzioni ch'ebbe a soffrire l'autore, lo fanno qua e là prorompere in isfoghi di risentimento. Lo stile è scorrevole, negli ultimi libri spesso anche prolisso; il tuono sereno, talvolta risentito; la lingua corretta, ma non senza tracce del tempo. Del resto questa raccolta non ci venne intera. (Wilhelm Siegmund Teuffel)
  1. a b c d e f g h i j k l m n o p q r s t u v w x y z aa ab ac ad ae af ag Citato in Fedro, Favole, (link), Progetto Ovidio, 2002.
  2. a b Citato in Paola Mastellaro, Il Libro delle Citazioni Latine e Greche, Mondadori, Milano, 1994. ISBN 978-88-04-47133-2
  3. Citato in Dizionario delle citazioni, a cura di Italo Sordi, BUR, 1992. ISBN 88-17-14603-X

Altri progetti

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