Tito Lucrezio Caro
Tito Lucrezio Caro (in latino Titus Lucretius Carus) (98 a.C. circa – 55 a.C. circa), poeta e filosofo romano.
Attribuite
modifica- Fu la paura la prima nel mondo a creare gli dèi.
- Primus in orbe deos fecit timor.
- Si tratta in realtà di una frase da Petronio Arbitro, Frammenti, 27; o da Publio Papinio Stazio, Tebaide, 3, 661.
De rerum natura
modificaAlessandro Marchetti 1909
modificaAlma figlia di Giove, inclita madre
Del gran germe d'Enea, Venere bella,
Degli uomini piacere e degli dèi:
Tu che sotto i girevoli e lucenti
Segni del cielo il mar profondo e tutta
D'animai d'ogni specie orni la terra,
Che per sé fôra un vasto orror solingo:
Te dea fuggono i venti: al primo arrivo
Tuo svaniscon le nubi: a te germoglia
Erbe e fiori odorosi il suolo industre:
Tu rassereni i giorni foschi, e rendi
Con dolce sguardo il mar chiaro e tranquillo,
E splender fai di maggior lume il cielo.
Alessandro Marchetti 1975
modificaMadre degli Eneadi, delizia degli uomini e degli dei,
alma Venere, che sotto le erranti stelle del cielo
vivifichi il mare ricco di navi e le terre portatrici
di messi, poiché per opera tua ogni essere vivente
viene concepito e, nato, vede la luce del sole:
te, dea, te fuggono i venti, te e il tuo avvento
le nubi del cielo; per te l'industre terra
fa sbocciare fiori soavi, per te ridono le distese del mare,
e, rasserenato, il cielo splende di luce diffusa.
Francesco Giancotti
modificaGenitrice degli Eneadi, piacere degli uomini e degli dei,
Venere datrice di vita, che sotto i corsi celesti degli astri
dovunque avvivi della tua presenza il mare percorso dalle navi,
le terre fertili di messi, poiché grazie a te ogni specie di viventi
è concepita e, sorta, vede la luce del sole —
tu, o dea, te fuggono i venti, te le nuvole del cielo,
e il tuo arrivare; a te soavi fiori sotto i piedi fa spuntare
l'artefice terra, a te sorridono le distese del mare,
e placato splende di un diffuso lume il cielo.
Guido Milanese
modificaMadre degli Eneadi, gioia piena di uomini e dei,
alma Venere, sotto gli astri che scorrono in cielo
popoli il mare ricco di navi, e la terra che arreca
le messi: attraverso di te infatti ogni stirpe di viventi
è concepita, e scorge, nata, la luce del sole:
te, o dea, te fuggono i venti, e le nubi del cielo
il tuo giungere: per te la terra creatrice
sparge il suolo di fiori, per te sorride la piana del mare
e, tornato sereno, brilla il cielo di luce uniforme.
[Lucrezio, De rerum natura, traduzione di Guido Milanese, Mondadori, 1992]
Libro I
modifica- Tantum religio potuit suadere malorum. (v. 101)
- Occorre dunque che il terrore dell'animo e queste tenebre
non siano dissolte dai raggi del sole, né dai lucidi dardi del giorno,
ma dall'aspetto e dall'intima legge della natura.[1]
- Hunc igitur terrorem animi tenebrasque necessest
non radii solis neque lucida tela diei
discutiant, sed naturae species ratioque. (vv. 146-148)
- Dunque ogni cosa visibile non perisce del tutto,
poiché una cosa dall'altra la natura ricrea,
e non lascia che alcuna ne nasca se non dalla morte di un'altra.[2]
- Haud igitur penitus pereunt quaecumque videntur,
quando alit ex alio reficit natura nec ullam
rem gigni patitur nisi morte adiuta aliena. (vv. 262-264)
- La goccia scava la pietra.
- Stilicidi casus lapidem cavat. (da v. 313)
- Non si può dire che alcuno avverta il tempo
separato da movimento delle cose e da quiete tranquilla.[3]
- Nec per se quemquam tempus sentire fatendumst
semotum ab rerum motu placidaque quiete. (vv. 462-463)
- Perciò quanti ritennero che sostanza delle cose fosse il fuoco
e che di solo fuoco consistesse l'intero universo,
in grande misura appaiono aberrare dalla corretta ragione.
Entra per primo in battaglia il loro capo Eraclito,
famoso per l'oscurità del linguaggio più fra gli stolti
che fra i savi greci i quali ricercano il vero. (2006)
- Quapropter qui materiem rerum esse putarunt
ignem atque ex igni summam consistere solo,
magno opere a vera lapsi ratione videntur.
Heraclitus init quorum dux proelia primus,
clarus ob obscuram linguam magis inter inanis
quamde gravis inter Graios qui vera requirunt. (vv. 635-640)
- Infatti gli stupidi ammirano e amano tutte le cose
che distinguono appena, nascoste da parole astruse,
e accettano per vere quelle cose che accarezzano dolcemente
l'orecchio e che sono mascherate da un gradevole suono.
- Omnia enim stolidi magis admirantur amantque,
inversis quae sub verbis latitantia cernunt,
veraque constituunt quae belle tangere possunt
auris et lepido quae sunt fucata sonore. (vv. 641-644)
- Fra questi primeggia Empedocle di Agrigento,
che entro le sue rive triangolari produsse l'isola
intorno a cui fluttuando negli ampi anfratti il mare
Ionio spruzza dalle onde glauche le salse spume,
e per angusto stretto acque impetuose dividono
con le onde le rive della terra Eolia dal suo territorio.
Qui è la devastatrice Cariddi e qui i boati dell'Etna
minacciano di raccogliere di nuovo le ire delle fiamme,
sì che ancora la sua violenza vomiti fuochi prorompenti
dalle fauci e al cielo lanci di nuovo folgori di fiamma.
E se questa regione appare in molti modi grande, meravigliosa
alle genti umane, e si dice che sia degna di essere veduta,
opima di cose buone, munita di molta forza di uomini,
pure sembra che in sé non abbia avuto nulla di più glorioso
che quest'uomo, nulla di più santo e mirabile e caro.
E invero i canti del suo petto divino
svelano a gran voce ed espongono gloriose scoperte,
sì che a stento sembra nato da stirpe umana.
- Quorum Acragantinus cum primis Empedocles est,
insula quem triquetris terrarum gessit in oris,
quam fluitans circum magnis anfractibus aequor
Ionium glaucis aspargit virus ab undis
angustoque fretu rapidum mare dividit undis
Aeoliae terrarum oras a finibus eius.
hic est vasta Charybdis et hic Aetnaea minantur
murmura flammarum rursum se colligere iras,
faucibus eruptos iterum vis ut vomat ignis
ad caelumque ferat flammai fulgura rursum.
quae cum magna modis multis miranda videtur
gentibus humanis regio visendaque fertur
rebus opima bonis, multa munita virum vi,
nil tamen hoc habuisse viro praeclarius in se
nec sanctum magis et mirum carumque videtur.
carmina quin etiam divini pectoris eius
vociferantur et exponunt praeclara reperta,
ut vix humana videatur stirpe creatus. (vv. 716-733)
Libro II
modifica- È dolce, quando i venti sconvolgono le distese del vasto mare
guardare da terra il grande travaglio di altri;
non perché l'altrui tormento procuri giocondo diletto,
bensì perché t'allieta vedere da quali affanni sei immune. (2006)
- Suave, mari magno turbantibus aequora ventis
e terra magnum alterius spectare laborem;
non quia vexari quemquamst iucunda voluptas,
sed quibus ipse malis careas quia cernere suavest. (vv. 1-4)
- Come non vedere
che null'altro la natura ci chiede con grida imperiose,
se non che il corpo sia esente dal dolore, e nell'anima goda
d'un senso gioioso sgombra d'affanni e timori? (2006)
- Nonne videre
nihil aliud sibi naturam latrare, nisi ut qui
corpore seiunctus dolor absit, mente fruatur
iucundo sensu cura semota metuque? (vv. 16-19)
- Poiché tutta nelle tenebre la vita si travaglia.
- Omnis cum in tenebris [...] vita laboret. (da v. 54)
- Avanziamo dove il piacere ognuno di noi guida. (citato in Giuseppe Fumagalli, Chi l'ha detto?, Hoepli, 1921, p. 11)
- Progredimur quo ducit quemque voluptas. (v. 258)
- Conveniamo che nulla si origina dal nulla.
- De nilo [...] fieri nil posse videmus. (da v. 287)
- E ora se il numero degli atomi è così sterminato
che un'intera età dei viventi non basterebbe a contarli,
e persiste la medesima forza e natura che possa
congiungere gli atomi dovunque nella stessa maniera
in cui si congiunsero qui, è necessario per te riconoscere
che esistono altrove nel vuoto altri globi terrestri
e diverse razze di uomini e specie di fiere. (2006)
- Nunc et seminibus si tanta est copia quantam
enumerare aetas animantum non queat omnis,
vis‹que› eadem ‹et› natura manet quae semina rerum
conicere in loca quaeque queat simili ratione
atque huc sunt coniecta, necesse est confiteare
esse alios aliis terrarum in partibus orbis
et varias hominum gentis et saecla ferarum. (vv. 1070-1076)
Libro III
modifica- Giova osservare l'uomo nei dubbi e nei pericoli, | e nelle avversità conoscere chi è davvero; | allora finalmente parole vere escono fuori dal fondo | del cuore, la maschera è tolta, rimane la realtà.[4] (vv. 55-58)
- A volte, come i bambini che hanno
timore del buio, così noi temiamo, alla luce del giorno,
per cose altrettanto inconsistenti di quelle
di cui al buio ha paura il bambino.
- Nam veluti pueri trepidant atque omnia caecis
in tenebris metuunt, sic nos in luce timemus
inter dum, nihilo quae sunt metuenda magis quam
quae pueri in tenebris pavitant. (vv. 87-90)
- Perché non ti ritiri dalla vita come un commensale ormai sazio,
né serenamente ti prendi, o sciocco, un tranquillo riposo?
- Cur non ut plenus vitae conviva recedis,
aequo animoque capis securam, stulte, quietem? (vv. 938-939)
- Atque ea ni mirum quae cumque Acherunte profundo
prodita sunt esse, in vita sunt omnia nobis. (vv. 978-979)
- Spesso lascia il suo grande palazzo
chi si annoia a restare a casa; ma subito vi torna
perché non si trova affatto meglio fuori.
- Exit saepe foras magnis ex aedibus ille,
esse domi quem pertaesumst, subitoque ‹revertit›,
quippe foris nihilo melius qui sentiat esse. (vv. 1060-1062)
Libro IV
modifica- Quod aliis cibus est aliis fuat acre venenum. (da v. 637)
- Quel che l'oggetto forma dei nostri pensieri più caro, | O cui prima fu a lungo rivolta la nostra fatica, | O che più veemente destò de lo spirito l'acume, | Ci compare sovente nei sogni. S'illude il legale | Di difender processi e norme comporre di dritto; | Il capitano vede battaglie ed eserciti... (4. 959 e sgg., traduzione di P. Perrella, Zanichelli, Bologna, 1965)[5]
- Et quo quisque fere studio devinctus adhaeret, | Aut quibus in rebus multum sumus ante morati | Atque in ea reatione fuit contenta magis mens, | In somnis eadem plerumque videum obire; | Causidici causas agere et componere leges, | Induperatores pugnare ac proelia obire...
- Di mezzo al fonte della gioia
sgorga una vena d'amaro che pur nei fiori già duole. (2006)
- Medio de fonte leporum
surgit amari aliquid, quod in ipsis floribus angat. (vv. 1133-1134)
Libro VI
modifica- [Descrivendo la peste] Una tal causa di contagio un tale | mortifero bollor già le campagne | ne' cecropi confin rese funeste, | fe' diserte le vie, di cittadini | spopolò la città. Poiché, venendo | da' confin dell'Egitto ond'ebbe il primo | origin suo, molto di cielo e molto | valicato di mar, le genti al fine | di Pandïone assalse. Indi appestati | tutti a schiere morían. Primieramente | essi avean d'un fervore acre infiammata | la testa e gli occhi rosseggianti e sparsi | di sanguinosa luce. Entro le fauci | colavan marcia; e da maligne e tetre | ulcere intorno assediato e chiuso | era il varco alla voce; e degli umani | sensi e segreti interprete la lingua | d'atro sangue piovea, debilitata | dal male, al moto grave, aspra a toccarsi. | Indi, poi che 'l mortifero veleno | sceso era al petto per le fauci e giunto | all'affannato cuor, tutti i vitali | claustri allor vacillavano. Un orrendo | puzzo volgea fuor per la bocca il fiato, | similissimo a quel che spira intorno | da' corrotti cadaveri. Già tutte | languian dell'alma e della mente affatto | l'abbattute potenze, e su la stessa | soglia omai della morte il corpo infermo | languiva anch'egli. Un'ansïosa angoscia | del male intollerabile compagna | era: e misto col fremito un lamento | continuo e spesso un singhiozzar dirotto, | notte e dì, senza requie, a ritirarsi | sforzando i nervi e le convulse membra, | sciogliea dal corpo i travagliati spirti, | noia a noia aggiugnendo | e duolo a duolo. (1909, pp. 143-145)
- Haec ratio quondam morborum et mortifer aestus | finibus in Cecropis funestos reddidit agros | vastavitque vias, exhausit civibus urbem. | Nam penitus veniens Aegypti finibus ortus, | aeëra permensus multum camposque natantis, | incubuit tandem populo Pandionis omni. | Inde catervatim morbo mortique dabantur. | Principio caput incensum fervore gerebant | et duplicis oculos suffusa luce rubentes. | Sudabant etiam fauces intrinsecus atrae | sanguine et ulceribus vocis via saepta coibat | atque animi interpres manabat lingua cruore | debilitata malis, motu gravis, aspera tactu. | Inde ubi per fauces pectus complerat et ipsum | morbida vis in cor maestum confluxerat aegris, | omnia tum vero vitai claustra lababant. | Spiritus ore foras taetrum volvebat odorem, | rancida quo perolent proiecta cadavera ritu. | Atque animi prorsum [tum] vires totius, omne | languebat corpus leti iam limine in ipso. | Intolerabilibusque malis erat anxius angor | adsidue comes et gemitu commixta querella, | singultusque frequens noctem per saepe diemque | corripere adsidue nervos et membra coactans | dissoluebat eos, defessos ante, fatigans. (vv. 1138-1162)
Posizione nell'opera sconosciuta
modifica- Sono poche, dunque, le cose davvero necessarie per natura al nostro corpo, e sono quelle che, allontanando il dolore, ci procurano allo stesso tempo una sensazione di piacere. (p. 20; 2007)
- Tutti i fenomeni naturali che accadono in cielo e sulla terra e che lasciano sospesi e spaventati gli uomini, mortificando i loro animi per la paura del divino e schiacciandoli a terra, hanno una precisa spiegazione materiale. Ma l'ignoranza delle cause induce gli uomini a riferirli all'arbitrio delle divinità e a sottomettersi al loro potere. (p. 22; 2007)
- Di natura divina, semmai, è da ritenere proprio Epicuro, il quale per primo scoprì quella legge dell'esistenza che è chiamata sapienza; egli con l'uso della ragione ha portato in salvo la nostra vita dalle tempeste e dall'oscurità verso un porto tranquillo e verso la luce. Giustamente è a lui che dovremmo attribuire il nome di divinità, poiché ha diffuso tra le genti quei dolci rimedi che danno sollievo alla vita e conforto all'animo. (p. 23; 2007)
- Il principio fondamentale di questa dottrina è che nessuna cosa nasce dal nulla, per creazione divina. La paura si impadronisce degli uomini perché essi vedono accadere sulla terra molte cose delle quali non riescono a cogliere la causa e quindi la attribuiscono a una divinità. (p. 28; 2007)
- Poiché l'universo, oltre i limiti di questo nostro mondo, è infinito, la mente vuole sapere che cosa vi sia al di là, fin dove essa riesce a spingersi con la sua intelligenza. (p. 30; 2007)
- Se riesci ad avere chiaro tutto questo[6], la natura ti apparirà improvvisamente libera e priva di superbi padroni, capace di realizzare ogni cosa spontaneamente da se stessa, senza interventi divini. (p. 36; 2007)
- Fin dall'origine della vita, dunque, corpo e anima percepiscono i medesimi moti vitali e li condividono, anche quando l'essere umano si trova ancora nel grembo materno, così che la loro separazione ne determina la reciproca fine: unica è la loro sopravvivenza, come unica è la loro natura. (p. 43; 2007)
- Le cose che ci sembra di vivere nei sogni sono solitamente quelle a cui siamo più legati, come il lavoro a cui ciascuno si dedica o le attività nelle quali ci siamo impegnati prima di dormire, o ciò su cui la mente si è più concentrata. (p. 58; 2007)
- Non appena l'età adulta rafforza gli arti, si produce nell'uomo questo seme che, attraverso le membra, percorre tutto il corpo e, concentrandosi in alcune parti più ricche di terminazioni nervose, eccita in particolare gli organi genitali. […] Questo è l'Amore per noi. (pp. 60; 2007)
- La terra, dunque, non fu aggiunta all'improvviso come un corpo estraneo, scagliata da un altrove, ma fu concepita analogamente agli altri elementi fin dall'origine del mondo, al quale appartiene come le membra del corpo appartengono a noi. (p. 66; 2007)
- Non c'è alcuna devozione nel mostrarsi spesso col capo velato, nel rivolgersi a statue di dei e ad altari, nell'inchinarsi a terra, prostrati, e tendere le mani aperte davanti a templi, o nell'offrire sangue di vittime sacrificali e accumulare promesse e voti. Devozione, semmai, è saper osservar ogni cosa con mente serena. (p. 75; 2007)
- Lascia pertanto che gli altri si affatichino invano e sudino sangue, lottando tra loro lungo la strada angusta dell'ambizione; essi sono convinti di sapere ma si fondano sulle opinioni altrui, e concepiscono le proprie aspirazioni in base a ciò che sentono dire più che a ciò che realmente provano. E questo accade e continuerà ad accadere non diversamente da come già in passato è accaduto. (p. 83; 2007)
E a molti orrori li indussero gli eventi repentini e la povertà.
Così con grande clamore ponevano i propri consanguinei
sopra roghi eretti per altri, e di sotto accostavano
le fiaccole, spesso rissando con molto sangue
piuttosto che lasciare i corpi in abbandono.
Citazioni sul De rerum natura
modifica- È raro trovare nella letteratura latina opere senza un modello di riferimento greco: il De rerum natura è una di queste. Ed è un miracolo vero e proprio, un'astronave proveniente da un'altra galassia che atterra su un pianeta vecchio e poco disposto alle novità. Un capolavoro di chiarezza espositiva e di maestria nella costruzione dei versi. Un libro che, riscoperto nel mondo moderno, ha avuto l'effetto di una scintilla in una polveriera. Un libro carico di idee nuove. Di tipo morale, certo: la religio è uno degli obiettivi contro cui il nostro si scaglia più violentemente, in versi indimenticabili, come quelli in cui ne mostra i lati più folli raccontando il sacrificio umano di Ifigenia, la figlia di Agamennone. Ma anche, e soprattutto, di idee scientifiche, sul materiale invisibile di cui è costituito il nostro mondo e sul modo in cui si può interagire con esso. (Marco Malvaldi)
- L'opera poetica di Lucrezio è proprio come mi scrivi: rivela uno splendido ingegno, ma anche notevole abilità artistica. (Cicerone)
- La sua fantasia possiede una forza che non si ferma alla superficie, ma persegue le cose nell'intimo della loro essenza.
Quindi egli ottiene l'effetto di rendere vivo e concreto tutto quel che tocca e descrive, anche se siano concetti ardui e astratti. Questi escono come per incanto dal nebuloso dell'astrazione: o che si vestano (come per lo più accade) di immagini metaforiche; o che ostentino una loro nuova e quasi primigenia nudità.
Lucrezio è infatti un grande creatore di espressioni. Per questo egli è riuscito nella poesia della scienza, in cui tanti altri sono falliti. . d'ogni tempo e d'ogni letteratura. (Augusto Rostagni)
Citazioni su Tito Lucrezio Caro
modifica- Lucrezio soprattutto infosca le tinte dei danni arrecati dalla religione, di questo mostro, egli dice, che col capo tra le nubi sovrasta alla misera ed ignorante razza umana: incalzato da questo spettro egli ha accettato la dottrina di Epicuro, i cui Dei sono tanto tranquilli. Una cosa egli cerca: cum Epicuro quiescere, per usare una frase di Seneca. (Francesco Fiorentino)
- Pazzia e suicidio non sono punto in contraddizione coll'animo di Lucrezio, quale ci rifulge vivido dal suo poema. Una vivezza e determinatezza di fantasia che rasenta l'allucinazione; una accensione violenta di sensi e di sentimenti; all'appassionato entusiasmo per il vero, per la sapienza, per la serenità dell'animo, mescolato un cupo rancore contro l'amore, contro la natura, oggetto del suo canto, contro la vita, oggetto della sua dottrina; un iroso sprezzo pel timore della morte, come d'animo cupido del nulla. (Carlo Giussani)
Note
modifica- ↑ Versi uguali a III, 91-93.
- ↑ Cfr. Eraclito, Sulla natura, Diels-Kranz 62: «Immortali mortali, mortali immortali, viventi la loro morte e morienti la loro vita».
- ↑ Cfr. Zenone di Elea, L'argomento della freccia.
- ↑ Federico Condello e Ivano Dionigi (a cura di), Il grande classico. Lucrezio e la luce della ragione, traduzione di Ivano Dionigi, Repubblica.it, 13 aprile 2020.
- ↑ Citato in Sigmund Freud, L'interpretazione dei sogni, traduzione di Elvio Fachinelli e Herma Trettl, Bollati Boringhieri, 1994.
- ↑ L'origine non divina del mondo.
Bibliografia
modifica- Lucrezio, De rerum natura, traduzione di Alessandro Marchetti, a cura di Mario Saccenti, Einaudi, Torino, 1975.
- Lucrezio, La natura, traduzione di Francesco Giancotti, Garzanti, 1994.
- Lucrezio, La natura delle cose. Testo latino a fronte, traduzione di Luca Canali, a cura di Ivano Dionigi, BUR, Milano, 2006, 14a edizione. ISBN 978-88-17-16954-7
- Lucrezio, Della natura delle cose, traduzione di Alessandro Marchetti, Sonzogno, Milano, 1909.
- Lucrezio, Vivere laico, a cura di Paolo Marsich, Oscar Mondadori, 2007.
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