Teofilo Folengo

poeta italiano

Teofilo Folengo, pseudonimo di Gerolamo Folengo (1491 – 1544), poeta italiano. Fu anche soprannominato Merlino Coccajo o Limerno Pitocco.

Teofilo Folengo

Citazioni di Teofilo Folengo

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  • La terra già indossa la sua variopinta gonnella | e i bei prati offrono nuovi fiori. | Ridono le montagne, i boschi si fan verdi, | ogni uccelletta cerca il suo caro compagno.
Multicoloritam recipit iam terra camoram, | bellaque florettos dat pradarìa novos. | Montagnae rident, boscamina virda fiuntur, | quaeque sibi charum cercat osella virum.[1]
  • Per cibare l'affamato inverno madre natura | stipa nei suoi magazzini molti alimenti. | La formichetta trascina carichi di messi ai granai | e l'apina sistema il miele nelle casette incerate.
Ut cibet invernum mater natura famatum | multa magazenis stipat edenda suis. | Formichetta trahit segentum ad granaria somas, | mellaque caeratis condit apetta casis.[2]
  • Una parete bianca è la carta degli sciocchi.[3]

Il caos del triperuno

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Paola. Tu piagni, figliuola, e che ti senti tu?
Corona. Nol sai, madre, senza che me lo chiedi?
Paola. Se 'l sapessi già, non tel dimandarei.
Livia. Dicerottilo io, dapoi che le molte e abbondevoli lagrime t'interrompeno la voce.
Corona. Taci là tu, pazzarella, ché pur troppo è di soperchio a me sola questo cordoglio, senza che tu v'involvi dentro e lei ancora.

Citazioni

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  • Merlino. Ed a te quanto la lingua toscana viene in grazia? in che openione l'hai tu?
    Limerno. Sopra tutte le altre quella reputo degna, laudo, magnifico, e contra li detrattori di essa virilmente lei deffendo; ché, quando talora per sotto queste ombre mi trovo le belle rime del mio Francesco Petrarca aver in mano ovvero quella fontana eloquentissima del Boccaccio, uscisco, leggendo, fora di me stesso, devengone un sasso, un legno, una fantasma, per soverchia maraviglia di cotanta dottrina! Qual più elegante verso, limato, pieno e sonoro di quello del Petrarca si può leggere? qual prosa orazione si può eguagliare di dottrina, di arte, di arguzia, di proprietade a quella del facondissimo Boccaccio? Dilché io reputo gli uomini litterati, li quali nulla delettazione di questa lingua si pigliano, essere non pur di lei ma di cortesia, gentilezza ed umanitade privi. (Selva seconda, p. 267)
  • [...] Vinegia, di tutta Italia nutrice. (Selva seconda, p. 269)
  • Merlino. De l'onorevol fama tanta io me ne acquisto col mio botiro e lardo, quanto tu con quelli toi zibetti e ambracani. Ma de l'utilitade io t'ho saggiamente da rispondere: niuna cosa essere più utile che 'l mangiare e bere. Non dicoti le antiche giande da tutti lodate e non toccate se non da' porci, anzi parlo di questi miei delicatissimi liquori, ove la vera e dritta via di ben vivere già molti anni passati mi ricondusse.
    Limerno. Qual immortalitade di animo vi consegui tu per bere o mangiare?
    Merlino. Or come potrai tu, grossolano che tu ti sei, vivere senza queste due parti?
    Limerno. Anzi tu vivi allora sol per mangiare, e questa è vita bestiale.
    Merlino. Va' al diavolo! Vivi tu forse senza mangiare?
    Limerno. Ben mangio, ma sol per vivere.
    Merlino. Ed io vivo per mangiare.
    Limerno. Grandissima differenzia è cotesta.
    Merlino. Anzi è una istessa cosa, ma non la comprendi.
    Limerno. Ben io la conosco, ché assai ti fôra meglio mangiare per vivere che vivere per mangiare.
    Merlino. Ed io quell'istesso ti replico: che meglio sarebbeti mangiare per smaltire che smaltire per mangiare. (Selva seconda, p. 271)
  • [Il parlare] proprio de' lombardi è lo barbaro, da' longobardi derivato: ma di' meglio (forsennato che tu ti sei!), che 'l proprio idioma de gli abitatori di Lombardia sarebbe lo latino, perché Lombardia non fu Lombardia se non dapoi che i longobardi la barbarie così del parlare come de' costumi portarono in quelle parti. Li costumi se ne sono in sua malora partiti, e lo parlare vi è restato [...]. (Selva seconda, pp. 273-274)
  • Sia pur contrario a noi l'aspro furore | d'ogni stella crudel, d'ogni elemento, | ché l'ira sua non piega un stabil cuore: | latri chi vol latrar, io gli 'l consento, | ché tanto si alza più la fiamma accesa | quando lei spegner vole un picciol vento. | Qual più lodevol, qual più chiara empresa | d'una costante, d'una fede pura, | ch'odio non teme né di sorte offesa? (Selva seconda, p. 278)
  • Sol ne gli affanni si conosce il saggio, | lo qual, per ch'un bersaglio sia di sorte, | non parte mai dal cominciato viaggio. (Selva seconda, p. 279)
  • Quando 'l Foco d'Amor, che m'arde ognora, | penso e ripenso, fra me stesso i' dico: | — Angiol di Dio non è, ma lo nemico | che la Giustizia spinse del ciel fora. (Selva seconda, p. 305)
  • Per che Cristo, umile e mansuetissimo signore e obbedientissimo figliuolo al suo Padre, non volse montare suopra gli cavalli né suopra gli muli, superbissimi animali e oltre a modo ostinati, ma sì voluntieri si degnò ascendere suopra il mansueto asinello. O beati gli asini e vie più ch'ogni altro animale felici! O beati quelli che asini divengono e sono degni di portare il Re de la gloria in Gierusalem, città de li angioli e de tutti i santi! (Selva seconda, p. 323)
  • Padre, Figliol e l'almo Spirto un Dio | eterno siamo, fuor d'ogni vantaggio. | Tre siam un, ed un tre, securi e franchi | che l'un vegna de l'altro mai rubello; | non cape in noi speranza né desio, | non spazio tra 'l comun voler né oltraggio. | Io del tuo lume e tu del mio t'imbianchi; | né dal nodo che tien l'alto suggello | unqua, Padre, mi svello. | Però d'ogni bontá nostra è la stampa, | che l'amorosa vampa | del Paracleto imprime; onde 'l «Motore | del Tutto» siamo detti e «Creatore». (Selva terza, pp. 343-344)
  • [...] al dolce nome sovra ogni altro grato, | nome amoroso, nome aureo e soave, | nome del mio Iesù forte, sacrato, | nome di grazie ponderoso e grave! | Non è macchia sì lorda di peccato, | che 'l dolce nome di Iesù non lave; | nome che chi noma in spirto, sente | mordersi 'l cuore d'un pietoso dente! (Selva terza, p. 377)

Orlandino

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Molte malizie copre in sé la volpe,
e perde chi le crede fin al gallo;
ragion però non era che 'l cavallo,
l'ossa tenendo, a lei desse le polpe.

Citazioni

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  • Magnanimo signor, se 'n te le stelle | spiran cotante grazie largamente, | piovan più tosto in me calde frittelle, | ché seco i' possa ragionar col dente: | dammi bere e mangiar, se vuoi più belle | le rime mie; ch'io d'Elicon niente | mi curo, in fé di Dio; ché 'l bere d'acque | (bea chi ber ne vuol!) sempre mi spiacque. (I, 1)
  • Ed io dico, ch'Amor è un bardassola | più che sua madre non fu mai puttana; | chi 'l chiama «dio» si mente per la gola, | ché in Dio non cape furia e mente insana: | Amor è un barbagianni che non vola, | benché abbia l'ali ed usi in ogni tana; | guardatevi da lui, ché 'l ladro antico | lascia la porta ed entra nel postico. (I, 64)
  • Dammi perdono, priegoti, Cupidine, | s'or ti biasmai con la tua madre Venere: | so ben che mai, senza vostra libidine, | possibile non è ch'uomo s'ingenere. | Tu sei degno d'onor e di formidine; | ché senza te saria già 'l mondo in cenere; | onde, talor s'io straparlassi, tollera; | la colpa non è mia, ma de la collera. (II, 1)
  • Italia bella, Italia, fior del mondo, | è patria nostra in monte ed in campagna, | Italia forte arnese che, secondo | si legge, ha spesso visto le calcagna | de l'inimici, quando a tondo a tondo | ebbe talor tedeschi, Franza e Spagna; | ché se non fusser le gran parti in quella, | dominarebbe il mondo, Italia bella. (II, 59)
  • [...] officio è del poeta | giovar e dilettar con tal maniera | di stile, che 'l lettore non s'attedia; | e ciò fa Dante ne la sua Comedia. || Quel Dante, sai, lo qual «Omer toscano» | appellar deggio sempre, come ancora | Virgilio è detto «Omero mantovano», | per cui la patria mia tanto s'onora; | e chi 'l Petrarca fa di lui soprano, | ne l'arte matematica lavora, | ché Dante vola più alto, e questo dico | col testimonio di Giovanni Pico. (III, 16-17)
  • Pàrtiti dunque, ché non è curabile | lo mal che 'n le medolle i' sento pungere; | ogni altra peste creggio esser sanabile | a mille vie di cibo, taglio ed ungere; | amor sol è quel tòsco inevitabile | cui morbo alcun egual non si può giungere: | né vi si trova al mondo un sol rimedio, | for che morir d'affanno e lungo tedio! (III, 45)
  • De tutti gli animali non è 'l più | impaziente d'una amante donna, | che ogni rispetto lascia e manda giù | di Lete al fiume, ove drento l'assonna. | Poscia 'l desio le sale tanto in su, | ch'in capo non si vede aver la gonna; | e tanto il folle suo pensier la punge, | ch'al fin si trova da se stessa lunge. (IV, 10)
  • Speranza è la nutrice de' pensieri [...]. (IV, 32)
  • Milon che ben l'intende, una parola, | piangendo tuttavia, disse per gioco: | — Tre cose l'uomo cacciano di casa: | il fumo, il foco e la moglie malvasa. — || Berta risponde: — E pur non cura l'uomo | spiccarsi da le spalle tal urtica; | cotanto dolce fu l'acerbo pomo | ch'Adam gustò, porgendol Eva antica, | che, benché sol per lei di propria domo | scacciato fusse, parvegli fatica | lasciar la causa drieto del suo male, | perché dura è ragion al sensuale. (V, 69-70)
  • Chi fia di tanto mal cagion? Amore, | amor che sempre fu la peste lorda | de' miseri mortali. Ah, in quant'errore | ci spinge questa fiamma tant'ingorda! | Odo già l'alte strida, il gran rumore | d'arme, ch'aggira in foco e 'l ciel assorda; | ché dove fischia Amor, così fier angue, | subito appare ferro, foco e sangue. (VI, 22)
  • Però, Signor, che sai gli cuori umani | e vedi la tua chiesa in man de' frati, | a te col cor contrito alzo le mani, | sperando esser già spenti e' miei peccati: | e se, Dio mio, da questi flutti insani | me scampi, che mi veggio intorno irati, | ti faccio voto non prestar mai fede | a chi indulgenze per dinar concede! (VI, 45)
  • Nasce dunque l'infante in quella grotta, | senz'ullo testimonio de commadre. | Ma cosa di stupor apparve allotta: | poscia che spinto for l'ebbe sua madre, | ecco de lupi arrivavi una frotta, | di quelle selve uscendo folte ed adre, | ch'andavano d'intorno forte urlando, | onde per nome poi fu detto Orlando. (VII, 10)
  • [...] e se ti voglion predicar la fede, | dilli che 'l laico più del frate crede. (VII, 57)
  • Io dunque d'Orlandino canto poco | e molto piango de l'altar di Cristo; | io fingermi «pitocco» movo a gioco | e del fallir de' chierici m'attristo; | di for Cerere e Bacco, dentro invoco | lo mio Iesù, che faccia omai sia visto | sott'ombra spesso del nobil vangelo | regnar Satán d'un cherubin col pelo. (VIII, 3)
  • Ben meglio credo in l'alta Trinitade, | Padre, Figliolo e insieme Spirto Santo; | e credo di Maria l'integritade, | poi che di carne in lei Dio prese il manto; | credo ne la mirabil potestade | da Dio concessa a l'uomo, per cui vanto | darsi egli pò, se fusse ben nefario, | non esser Dio, ma sol di Dio vicario. (VIII, 74)
  • Credo che 'l bon Iesù facesse prima | quello che venne predicar in terra: | credo che 'l suo coltello in ogni clima | venesse porre al mondo pace e guerra: | credo che d'un rubaldo una lagrima | dal cor, lo inferno chiude e il ciel disserra: | credo che del Vangelo il saldo piede | altro non sia, salvo la mera fede. (VIII, 75)
  • Cred'anco che, ad istanzia d'un malegno | pontifice de l'anno e farisei, | Pilato l'inchiodasse al crudo legno | con tanto scorno fra doi ladri rei. | Io credo ch'ivi a noi lasciasse un pegno | ed una tal memoria, che per lei | si cognoscesse a noi placato il cielo, | levando giù da gli occhi a Mòise il velo. (VIII, 77)

Incipit di alcune opere

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Phantasia mihi plus quam phantastica venit
historiam Baldi grassis cantare Camoenis.
Altisonam cuius phamam, nomenque gaiardum
terra tremat, baratrumque metu sibi cagat adossum.
Sed prius altorium vestrum chiamare bisognat,
o macaroneam Musae quae funditis artem.
An poterit passare maris mea gundola scoios,
quam recomandatam non vester aiuttus habebit?

La umanità del Figliuolo di Dio

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Da più persone, secondo il mondo, a me benevole sono stato importunamente sollecitato di dovere a' ricchi e poderosi uomini, si come a grossi pesci, gittar l'amo di questi miei semplicissimi ragionamenti per adescarne, oltra il favore, eziandio qualche cosetta de li dati a loro beni di fortuna. Io che, la Dio mercé, con meco mi godo di non aver terreno più di quello si mi appiccia in andando sotto le piante, me ne sono liberamente riso; parendo egli a me non e ser prodezza di fede! cavalliero di povertà il così voler fare, tuttoché se ne potesse non meno empier de ambiziosi perfumi la testa che del loro argento la borsa. E tanto più che essi valorosi principi né più né meno portano bisogno di questi miei cosi fatti componimenti perché ne possano esser fatti per lode immortali, che io di quelle facultà loro perché ne resca più beato di quello mi sono.

Le maccheronee

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Forte caleffabit gens me citadina vilanum,
quod sic Zanninae brusor amore meae,
quod ve, bovum stallas usus nettare boazzis,
sforzor amorosas fora butare doias.

  1. Da Multicoloritam recipit....
  2. Da Ut cibet invernum....
  3. Da Il Baldo.

Bibliografia

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Altri progetti

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