Leonida Repaci

scrittore, saggista e poeta italiano (1898-1985)
(Reindirizzamento da Leonida Rèpaci)

Leonida Rèpaci (1898 – 1985) scrittore italiano.

Leonida Repaci

Calabria grande e amara

modifica
Quando fu il giorno della Calabria
(a Ernesto Treccani)

Quando fu il giorno della Calabria Dio si trovò in pugno 15000 kl.² di argilla verde con riflessi viola. Pensò che con quella creta si potesse modellare un paese di due milioni di abitanti al massimo. Era teso in un maschio vigore creativo il Signore, e promise a se stesso di fare un capolavoro. Si mise all'opera, e la Calabria uscì dalle sue mani più bella della California e delle Hawaii, più bella della Costa Azzurra e degli arcipelaghi giapponesi.

Citazioni

modifica
  • Operate tutte queste cose nel presente e nel futuro il Signore fu preso da una dolce sonnolenza, in cui entrava il compiacimento del creatore verso il capolavoro raggiunto. Del breve sonno divino approfittò il diavolo per assegnare alla Calabria le calamità: le dominazioni, il terremoto, la malaria, il latifondo, le fiumare, le alluvioni, la peronospera, la siccità, la mosca olearia, l'analfabetismo, il punto d'onore, la gelosia, l'Onorata Società, la vendetta, l'omertà, la violenza, la falsa testimonianza, la miseria, l'emigrazione. (p. 13)
  • Quando aperti gli occhi, poté abbracciare in tutta la sua vastità la rovina recata alla sua creatura prediletta, Dio scaraventò con un gesto di colera il Maligno nei profondi abissi del cielo. Poi lentamente rasserenandosi disse: — Questi mali e questi bisogni sono ormai scatenati e debbono seguire la loro parabola. Ma essi non impediranno alla Calabria di essere come io l'ho voluta. La sua felicità sarà raggiunta con più sudore, ecco tutto. Utta a fa juornu c'a notti è fatta —.
    Una notte che contiene già l'albore del giorno. (pp. 13-14)
  • Per me Calabria significa categoria morale, prima che espressione geografica. Calabrese, nella sua miglior accezione metaforica, vuol dire Rupe, cioè carattere. È la torre che non crolla giammai la cima pel soffiar dei venti. (p. 14)
  • La banda di Melissa

    Fame, ossessione. Eppure, quando agli amministratori di Melissa, dopo i fatti di Fragalà, fu chiesto di che cosa avessero più urgente bisogno, risposero che avrebbero gradito gli strumenti musicali per ricostituire la banda comunale
    Da allora, e son passati quattordici anni, trombe e tamburi a Melissa suonano da soli, e i loro inni li ascoltano solo i morti della gran giornata contadina, per i quali è stato ucciso il sonno della vita e il sonno della bara. (p. 26)
  • È facile vedere, alle spalle di quella bambina, catene di generazioni negate a qualunque conforto, a qualunque misericordia. — Il contadino non è prossimo — ho spesso sentito dire da qualche benpensante in Calabria. Non fa parte, cioè il contadino, di quel prossimo che bisognerebbe amare come noi stessi, secondo il precetto evangelico. Per lui anche il rintocco funebre è sprecato, giacché il terrazzano è nessuno, nuddhu. (p. 25)
  • Il più alto di questi poeti è Calogero, una recente scoperta di Sinisgalli e di Tedeschi, sulla quale sta convergendo l'attenzione di chi tiene in mano la bilancia letteraria. La poesia di Calogero è fan-poesia aggrovigliata, spremuta, intellettualizzata, terribile soliloquio da muro a muro, dal muro della vita al muro della tomba. (pp. 110-111)
  • «È questo il momento in cui la stessa collera della natura scatenata sul Mezzogiorno dà un tono perentorio alla protesta delle popolazioni meridionali. Le quali, ed è qui la novità, non vogliono elemosine, provvidenze paternalistiche che ripugnano alla loro coscienza civile e politica. Conoscendo i limiti del proprio diritto, e misurando su quei limiti, senza alcuno zelo servile, il loro dovere, le popolazioni meridionali vogliono soltanto quel che loro spetta come facenti parte della famiglia italiana, nella quale, con l'Unità, si sono illuse di entrare a parità di diritti, non avendone che lo sfruttamento e la degradazione. Tutto questo è stato reso possibile dal tradimento della classe politica che aveva in mano le sorti del Mezzogiorno. La borghesia terriera del Sud accettò lo sfruttamento perpetrato dal protezionismo industriale del Nord per avere, in cambio, qualche posticino nel branco delle maggioranze governative, il possesso indisturbato della terra e la continuità dell'oscurantismo.
    «In omaggio alla verità, nostra sola padrona, aggiungeremo che, al banchetto protezionista, se pur prendendo solo le briciole, parteciparono alcune aristocrazie operaie del Nord portate dalla dinamica di classe a realizzare migliori salari, anche se ottenuti con una maggiorata soffocazione economica delle popolazioni rurali del Sud. […] La Questione Meridionale è tutta la questione italiana. Se la piaga della degradazione non si chiude, la cancrena che potrebbe seguirne non minaccerebbe solo la distruzione della parte malata ma l'intero organismo nazionale. […]» (pp. 162-163)
  • Scilla Villa Catona, ed eccomi a Reggio. Scendo quasi sempre all'inizio del Lungomare, una delle più belle passeggiate del mondo, che sarebbe la più bella se si riuscisse a scavare un tunnel tra le due stazioni di Reggio per nascondervi il traffico ferroviario. Davanti a me è Messina. Ogni volta che la guardo non posso impedirmi di pensare a quel terribile terremoto che la ingoiò nel 1908. Ora la città è nuovamente tutta in piedi e brilla al sole. Il dialogo con Reggio non è fatto di case, di gettate, di scogli, di navi, di bagliori che si confrontano. C'è qualche cosa che va oltre questi aspetti della realtà sensibile. Il dialogo tra le due città supera la cronaca e supera anche la storia. Sono due divinità che si parlano dalle opposte rive, sdraiate al sole, avendo le montagne per cuscino, e, al suono delle loro antiche parole, il tempo brucia la sua vecchiezza e i suoi lutti, ritorna giovane e senza memoria, risale alla sorgente da cui scaturì la prima alba dell'uomo. (p. 168)
  • Non sono difficile in fatto di gastronomia e, dovessi fare una scelta, assegnerei a mia sorella Orsa la palma della più saporita cucina del mondo: quella calabrese. Ancora oggi datemi una buona minestra di ceci, quelli che si ammammano, cioè fan da mamma, coi maccheroni, in una saporosa liquescenza; datemi una fetta di pescespada col «sarmuglio», che ci stupiamo di non trovare descritto nei banchetti omerici; datemi, per stimolare l'appetito fino in fondo, un pugnellino di «'mbiscatini», cioè di quei sottaceti che alternano il peperone col cappero, la melanzana con lo zenzero; datemi una ricotta di quelle che il pastorello dell'Aspromonte vi porta fino a casa, facendola colare tiepida dalla fiscella nel piatto; datemi, per consolidare il tutto, un bicchiere di Cirò, un vino che ha il colore rosso cupo delle pupille delle donne malate d'amore e il profumo del vigneto squassato dal vento sulle balze marine: datemi tutto questo e io alzo bandiera ammiraglia sulla mia tavola di calabrese radicato. (p. 218)
  • […] E qui soccorre un'espressione tipica del calabrese: «Non mi fido» per significare «non ce la faccio», «non posso». A questo punto l'impotenza a fare una certa cosa ci aggancia oscuramente alla coscienza di una servitù da portare. Egli non si fida perché questa è la sua natura. E la sua natura è questa perché tutta la natura umana è cosí: una forza contro l'altra in una guerra non dichiarata ma egualmente implacabile, anche se condotta col sorriso, con la «commedia», con la finzione dell'assoluto rispetto. (p. 232)
  • Caduto in potere del clero di Cosenza, avendo cessato di essere una forza qualificata della nostra società culturale, il [premio] Sila vivacchia in una voluta semioscurità che serve a smorzare gli scandali di certi riconoscimenti, come quello, per esempio, a Idilio Dell'Era, un tipo resosi famoso a suo tempo, per aver scritto della più grande scrittrice calabrese degli ultimi cento anni, Giovanna Gulli, che il Signore aveva fatto bene a chiamarsela (a vent'anni), tanto empio era il suo romanzo Caterina Marasca, da lei lasciato alla sua morte. (p. 233)
  • Crotone 1956

    Prima che il Crotone mi venga consegnato, arrivato sulla mezzanotte con una macchina da Catanzaro Lido, fa il suo ingresso all'Ariston, Ungaretti. Messinetti è il primo ad avvistare il poeta mentre entra in teatro, e dice con voce a stormo:
    — Abbiamo in sala il poeta Giuseppe Ungaretti!
    A questo annunzio platea e galleria rizzatesi in piedi prorompono in un galoppo di cavalleria inciso con le mani, mentre Ungaretti, pallido, rollante, si fa strada tra la gente, guadagnando il palcoscenico come una bàttima scandita dai marosi. Saluta tutti con un sorriso sbalordito, siede sempre un po' pallido, ringrazia la sala agitando a più riprese la mano, poi dice a se stesso più che agli altri:
    — Mai mi era successa una cosa cosí… Dei contadini… Degli operai… (p. 236)
  • Reggio 1959

    La Calabria è all'ordine del giorno della Nazione per due ragioni. Per le alluvioni e per il banditismo. Ogni anno leggiamo di abitati che le alluvioni travolgono a valle, di ponti che crollano, di montagne che si spaccano per effetto di erosioni secolari, di fiumare che allagano i còlti, di creature umane e di bestie che galleggiano sulla cresta dei torrenti. È una specie di catastrofe ecologica quella che si prospetta sulla Calabria, alla cui minaccia si deve porre riparo senza indugio se non si vuole che il suolo minato dalla vecchiezza, non protegga contro le frane e contro le piogge, non tenga più la trama come un vestito troppo liso. […] L'altra ragione è il banditismo. […] Ora la verità è che ci sono banditi in Calabria come dappertutto. Se il fenomeno in Calabria appare più preoccupante è perché, messo in rapporto con la situazione politica e sociale che ne determina l'esistenza, non si vede come si possa risanare l'albero malato senza bonificargli la terra intorno. (pp. 254-255)
  • Se la strada che porta l'aroma dell'Aspromonte allo Jonio è raccomandabile, essa non regge al confronto con quella che da Gioia Tauro sul Tirreno raggiunge Cittanova e Gerace per toccare il mare a Locri. […] e sempre il viaggio mi ha stregato per l'originale bellezza del paesaggio, un paesaggio inventato da un artista di genio nemico dei luoghi comuni e della scenografia oggettiva, allusivo, fantastico, surreale nella presentazione di queste montagne modellate o tagliate in profili che si compongono e scompongono allo sguardo secondo la variazione della luce, il veleggiare della nebbia anche d'estate, i vapori atmosferici. Solennità di silenzi, profumo di selve, mormorio di acque nei botri, sguardi accoglienti nei piccoli casali che costeggiano il cammino (pp. 297-298)
  • Per conoscere Catanzaro, l'antica Catàsaron, bisogna andarla a cercare nel suo castello arroccato sul piano come un maniero feudale, in faccia al Golfo di Squillace, ed è un castello che abbassa i ponti levatoi dell'ospitalità piena solo se chi sbarca ai suoi piedi sia debitamente informato della grande storia della città, che i bizantini fondarono, Carlo V dichiarò «magnifica e fedelissima», i tessitori di damasco e broccato resero famosa in tutto il mondo, i sanfedisti pugnalarono, e i garibaldini di Bixio liberarono dalla peste borbonica (p. 303)

Citazioni su Leonida Repaci

modifica
  • Che tipo straordinario! Ha scritto decine di libri di cui conosci l'importanza e ha conservata un candore infantile. Io mi domando da dove gli venga tanto ottimismo, tanta fede. Mi fa piacere che venga qui e lo guardo sempre con stupore. A volte mi chiedo persino se non l'invidio. (Steiner, La dolce vita)

Bibliografia

modifica

Altri progetti

modifica