Don DeLillo

scrittore, drammaturgo e saggista statunitense

Don DeLillo (1936 – vivente), scrittore statunitense.

  • Essere un turista significava sfuggire le responsabilità. I fallimenti e gli errori non ti restano attaccati come invece accade in patria. Si possono attraversare lingue e continenti, sospendendo l’operazione del pensiero razionale. Il turismo è la marcia della stupidità. Tutti si aspettano che tu sia stupido. L’intero meccanismo del luogo ospite è diretto verso turisti che si comportano da idioti. Ci si aggira imbambolati, strizzando gli occhi per leggere le mappe pieghevoli. Non si sa come parlare alla gente, come raggiungere i vari posti, come usare il denaro, che ora è, cosa mangiare e come mangiarlo. Si può esistere a questo livello per settimane e mesi senza rimproveri né atroci conseguenze. Assieme a migliaia di altri, si ha immunità e ampia libertà garantita. Si fa parte di un’armata di sciocchi, in abiti sintetici dai colori sgargianti, a cavallo di cammelli, ci si fotografa a vicenda, sbattuti, dissenterici, assetati. Nulla a cui pensare tranne il prossimo avvenimento informe.[1]
Don DeLillo nel 2011

Americana

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E così arrivammo alla fine di un altro stupido e lurido anno. Le luminarie sormontavano scintillanti le porte dei negozi. I venditori di caldarroste spingevano i carretti fumanti. Di sera, la folla in strada era immensa e il fragore del traffico saliva a trasformarsi in un'ondata di piena. I Babbi Natale della Quinta Avenue scampanellavano con una delicatezza strana e quasi dolente, come a spargere sale su un taglio di carne guasta. In tutti i negozi risuonavano musichette, canti e osanna natalizi, e le trombe dell'Esercito della Salvezza diffondevano i lamenti marziali di antiche legioni cristiane. L'effetto sonoro in quel luogo e in quel momento era bizzarro, fragore di piatti e rullare di tamburi, come un rimprovero impartito a dei bambini per un peccato imperdonabile, e la gente era infastidita.

Citazioni

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  • Era una di quelle feste talmente noiose che ben presto la noia diventa argomento principale di conversazione. Dove ci si sposta da un gruppetto all'altro e si sente la stessa frase almeno dieci volte: «Sembra di stare in un film di Antonioni». Con la differenza che le facce non sono altrettanto interessanti. (pag. 6)
  • A sud della Quarantaduesima la gente aveva più libertà di decidere il passo, eppure i volti parevano grigi e afflitti, i corpi intabarrati davano un'impressione di clandestinità, e allora pensai che forse in quella metropoli la folla era davvero essenziale all'individuo, perché senza di essa non c'era nulla contro cui rivolgere la propria rabbia, mancava l'eco del proprio dolore, si dissolveva ogni prova concreta dell'esistenza di persone ancor più sole al mondo. (Pag. 33)
  • Qualsiasi film vedessimo era invariabilmente un grande capolavoro. Merry ne parlava per due giorni, poi lo dimenticava per il resto della vita. Non avevamo tempo per ricordare niente, perché c'era sempre qualcosa di nuovo e straordinario in arrivo: un altro film, un altro bar o ristorante, un negozio d'abbigliamento per uomo, una boutique, una stazione sciistica, una casa in riva al mare, un gruppo rock. (pag. 39)
  • Avevo imparato il significato di una porta chiusa, che l'amicizia era una moneta fuori corso e che era importante mentire anche quando non ce n'era bisogno. Parole e significato erano sempre in contrasto. Le parole non dicevano mai quello che dicevano, e neppure il contrario. Avevo imparato una lingua nuova, e ben presto ne dominai le regole più essenziali. (pag. 41)
  • L'America assisteva al risveglio della primavera e la campagna ritrovava la sua gloria, almeno quel poco di campagna che riuscivamo a vedere oltre il fumo e i tabelloni pubblicitari. Nulla al mondo è più emozionante dei primi giorni di un lungo viaggio su quattro ruote in direzione delle fauci bramose di un paese straordinario e inquieto. (pag. 120)

Body Art

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Il tempo sembra passare. Il mondo accade, gli attimi si svolgono, e tu ti fermi a guardare un ragno attaccato alla ragnatela. C'è una luce nitida, un senso di cose delineate con precisione, strisce di lucentezza liquida sulla baia. In una giornata chiara e luminosa dopo un temporale, quando la più piccola delle foglie cadute è trafitta di consapevolezza, tu sai con maggiore sicurezza chi sei. Nel rumore del vento tra i pini, il mondo viene alla luce, in modo irreversibile, e il ragno resta attaccato alla regnatela agitata dal vento.

Citazioni

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  • In passato, ha abitato i corpi di adolescenti, predicatori fondamentalisti, una donna ultracentenaria, che viveva di yogurt e, performance davvero memorabile, un uomo incinto. Ma in questa opera la sua arte è oscura, lenta, difficile e a volte tormentosa. E non è mai il tormento grandioso di nobili immagini e ambienti. È un tormento che ha a che fare con me e con voi. Quello che inizia come solitaria alterità diventa familiare e addirittura personale. Ha a che fare con chi siamo quando non stiamo recitando chi siamo.

Cosmopolis

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Ora il sonno lo abbandonava più spesso, non una o due bensì quattro, cinque volte la settimana. Che cosa faceva in quei momenti? Non passeggiava a lungo dentro gli arabeschi dell'alba. Non aveva un amico tanto intimo da sopportare il tormento di una telefonata. Cosa dirgli? Era una questione di silenzi, non di parole.

Citazioni

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  • Con gli scarti della gente si potrebbe costruire una nazione.
  • Tutto è qualche settimana appena. Tutto è questione di giorni. La vita è fatta di minuti.
  • Non c'era nessun posto in cui volesse andare, niente a cui pensare, nessuno ad attenderlo. Come poteva muovere un passo in una direzione se tutte le direzioni si equivalevano?

L'uomo che cade

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Non era più una strada ma un mondo, un tempo e uno spazio di cenere in caduta e semioscurità. Camminava verso nord tra calcinacci e fango e c'erano persone che gli correvano accanto tenendosi asciugamani sul viso o giacche sulla testa. Avevano fazzoletti premuti sulle bocche. Avevano scarpe in mano, una donna gli corse accanto, una scarpa per mano. Correvano e cadevano, alcuni, confusi e sgraziati, fra i detriti che scendevano tutt'intorno, e qualcuno cercava rifugio sotto le automobili.

Citazioni

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  • Si fermò davanti allo sbarramento e guardò dentro la foschia, vide i frammenti di filigrana ritorta che erano gli ultimi resti ancora in piedi, un rimasuglio scheletrico della torre in cui aveva lavorato per dieci anni. I morti erano ovunque, nell'aria, tra le macerie, sui tetti vicini, nei venti che soffiavano dal fiume. Si posavano con la cenere e piovevano sulle finestre lungo ogni strada, sui suoi capelli e sui vestiti. (p. 27)
  • Aveva sentito parlare di lui, un artista performativo noto come L'uomo che cade. Era apparso diverse volte, la settimana prima, senza preavviso, in vari punti della città, appeso a questa o quella struttura, sempre a testa in giù, con indosso giacca e pantaloni, una cravatta e scarpe eleganti. Richiamava alla memoria, naturalmente, quei momenti assoluti nelle torri in fiamme, quando la gente era precipitata, o era stata costretta a saltare. (p. 35)
  • Interessante, no? Dormire con tuo marito, una donna di trentotto anni e un uomo di trentanove, e mai un sospiro di sesso. Lui è il tuo ex marito, che ufficialmente non è mai stato davvero ex, lo sconosciuto che hai sposato in un'altra vita. Lei si vestiva e si svestiva, lui la guardava e non la guardava. Questo sì che era strano. (p. 37)
  • Mai più se ne sarebbe ricordato, se non ne avesse parlato lei. Non significa niente, pensò. E invece non era così. Qualunque cosa fosse successa a quell'uomo, si collocava al di fuori del fatto che entrambi l'avessero visto, in punti diversi della discesa, eppure in un certo senso era importante, in maniera indefinibile, che l'uomo fosse stato conservato in quei ricordi incrociati, portato giù, fuori dalla torre e in quella stanza. (p. 59)
  • «Esiste un certo tipo d'uomo, un archetipo, per i suoi amici maschi è un modello di affidabilità, tutto ciò che un amico dovrebbe essere, alleato e confidente, uno che presta soldi, dà consigli, fedele e tutto quanto, ma che per le donne è un incubo. Un incubo fatto essere umano. Più una donna gli si avvicina, più per lui diventa chiaro che non è uno dei suoi amici maschi. E più le cose per lei si fanno difficili. Keith è così. L'uomo che stai per sposare è così». (p. 61)

Rumore bianco

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Le station wagon arrivarono a mezzogiorno, lunga fila lucente che attraversò il settore occidentale del campus. In fila indiana girarono con cautela attorno alla scultura metallica in forma di I, color arancio, dirigendosi verso i dormitori. I tetti delle auto erano carichi di valigie assicurate con cura, piene di abiti leggeri e pesanti; scatole di coperte, scarponi e scarpe, cancelleria e libri, lenzuola, cuscini, trapunte; tappeti arrotolati e sacchi a pelo; biciclette, sci, zaini, selle inglesi e western, gommoni già gonfiati. A mano a mano che rallentavano fino a mettersi a passo d'uomo e infine fermarsi, saltavano fuori velocissimi gli studenti, che si precipitavano agli sportelli posteriori per cominciare a scaricare gli oggetti sistemati nell'interno: gli stereo, le radio, i personal computer; piccoli frigo e fornellini portatili; scatole di dischi e cassette; asciuga e arricciacapelli; racchette da tennis, palloni da calcio, mazze da hockey e da lacrosse, frecce e archi; sostanze illegali, pillole e strumenti anticoncezionali; junk-food ancora nei sacchetti della spesa: patatine all'aglio e alla cipolla, nachos, tortini di crema di arachidi, wafer e cracker, cicche alla frutta e popcorn caramellato; gazzose Dum-Dum, mentine Mystic.
È uno spettacolo cui assisto ogni settembre da ventun anni. Un evento infallibilmente superbo.

Citazioni

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Parte prima – Onde e radiazioni
  • – Continua a comperare quella roba.
    – Ma non la mangia mai, – fece eco Steffie.
    – Perché pensa che se continua a comperarla, poi le toccherà mangiarla per liberarsene. È come se cercasse di imbrogliarsi da sola.
    – Occupa mezza cucina.
    – Ma la butta sempre via prima di arrivare a mangiarla, perché va a male, – continuò Denise.
    – Così poi ricomincia tutto da capo.
    – Ovunque si guardi, – riprese Steffie, – ce n'è un po'.
    – Si sente in colpa se non la compera, si sente in colpa se la compera e non la mangia, si sente in colpa quando la vede nel frigo, si sente in colpa quando la butta via.
    – È come se fumasse anche senza farlo, – insistette Steffie.
    Denise aveva undici anni, ragazza dal muso duro. Portava avanti una contesa più o meno giornaliera contro le abitudini materne che le sembravano sciupone o dannose. Io Babette la difendevo. Le dicevo che ero io quello che doveva mostrare disciplina in materia di dieta. Le ricordavo quanto mi piacesse così com'era fatta. Facevo intendere che, insita nella voluminosità, se contenuta nei giusti limiti, c'è una forma di onestà. Una certa mole, negli altri, ispira fiducia.
    Ma Babette non era contenta dei propri fianchi e delle cosce, per cui camminava a passo rapido e correva su per i gradini dello stadio, alla scuola superiore in stile neoclassico. Diceva che dei suoi difetti facevo virtù perché era nella mia natura di mettere le persone amate al riparo dalla verità. Nella quale verità, sosteneva, sarebbe stato in agguato qualcosa. (cap. II; p. 11)
  • Abbiamo sede nella Centenary Hall, oscura struttura in mattoni che dividiamo con il dipartimento di cultura popolare, ufficialmente nota come Ambienti americani. Curioso gruppo. Il personale docente è composto quasi unicamente di emigré, transfughi da New York, svegli, duri, pazzi del cinema, folli per i «trivia». Sono qui per decifrare il linguaggio naturale della cultura, per trasformare in metodo formale le splendide piacevolezze da loro conosciute nell'infanzia trascorsa all'ombra dell'Europa, un aristotelismo fatto di involucri di chewing-gum e di canzoncine dei detersivi. Il preside del dipartimento è Alfonse «Fast Food» Stompanato, fosco individuo dalle spalle larghe, la cui collezione di bottiglie di gazzosa anteguerra è esposta in permanenza in una nicchia. Tutti i suoi insegnanti sono di sesso maschile, portano abiti stazzonati, hanno bisogno di farsi tagliare i capelli, tossiscono senza mettersi la mano davanti alla bocca. Messi insieme sembrano una banda di camionisti riuniti per identificare il corpo di un collega fatto a pezzi. L'impressione che danno è di diffusa irritazione, sospetto e intrigo. (cap. III; pp. 12-13)
  • – Capisco la musica, capisco i film, capisco persino come i fumetti possano insegnarci qualcosa. Ma in questo posto ci sono docenti ordinari che non leggono altro che le scatole dei cereali.
    – È l'unica avanguardia di cui disponiamo. (cap. III; p. 13)
  • Calore. Ecco che cosa significano per me le città grosse. Si scende dal treno, si esce dalla stazione e si è presi dalla scalmana. Il calore dell'aria, del traffico, della gente. Il calore del cibo e del sesso. Il calore dei grattacieli. Il calore che esce dalla metropolitana e dalle gallerie. Nelle città grosse ci sono almeno cinque gradi di più. Il calore si leva dai marciapiedi e cala dal cielo inquinato. Gli autobus sbuffano calore. Emana dalle folle di acquirenti e impiegati. Tutta l'infrastruttura si basa sul calore, lo usa disperatamente, ne produce altro. La definitiva morte per calore dell'universo, di cui gli scienziati amano parlare, è già ben avviata a verificarsi: in qualsiasi città di dimensioni grandi o medie si sente ovunque che si sta realizzando. Calore e umidità. (cap. III; pp. 13-14)
  • C'era qualcosa di commovente nel fatto che Murray vestisse quasi sempre di velluto a coste. Avevo la sensazione che fin dall'età di undici anni, nel suo popoloso agglomerato di cemento, avesse associato l'idea di quella stoffa resistente con un più elevato livello di cultura, proprio di un posto impossibilmente distante e alberato. (cap. III; p. 14)
  • Che divertimento parlare con una donna intelligente, con le calze, quando accavalla le gambe. Il leggero rumore di elettricità statica, prodotto dal nylon che fruscia, sa rendermi felice a diversi livelli. (cap. III; pp. 14-15)
  • Quando i tempi sono incerti, la gente si sente costretta a mangiare in eccesso. Blacksmith è piena di simili adulti e bambini obesi, pance cascanti, gambe corte, che si muovono come anatre. Faticano a emergere dalle utilitarie, si mettono in tuta e corrono a famiglie intere in campagna; camminano per strada con il cibo dipinto in faccia; mangiano nei negozi, in auto, nei parcheggi, nelle code degli autobus e nelle sale del cinema, sotto la maestosità degli alberi. (cap. IV; p. 18)
  • La questione del morire si fa saggio strumento di memoria. Ci guarisce della nostra innocenza nei confronti del futuro. Le cose semplici sono fatali, o è una superstizione? (cap. IV; p. 20)
  • Una sera del genere mi misi a letto accanto a Babette e le dissi come il rettore mi avesse consigliato, ancora nel '68, di fare qualcosa circa il mio nome e il mio aspetto, se volevo essere preso sul serio come innovatore in campo hitleriano. Jack Gladney, aveva detto, non andava bene, chiedendomi quali altri0 nomi potessi avere a disposizione. Avevamo finito con il convenire che dovevo inventarmi un'ulteriore iniziale, chiamandomi J.A.K. Gladney, etichetta che portavo come un vestito preso in prestito. (cap. IV; p. 21)
  • Dopo cena, mentre salivo di sopra, sentii la T.V. dire: – Ora assumiamo la posizione del mezzo loto e pensiamo alla spina dorsale. (cap. V; p. 23)
  • Quella sera, qualche secondo dopo essere andato a dormire, mi parve di cadere dentro me stesso, un leggero sprofondamento da tuffo al cuore. Svegliato di colpo, fissai lo sguardo nel buio, rendendomi conto di aver sperimentato la più o meno normale contrazione muscolare nota come scossa mioclonica. È così, dunque: una cosa improvvisa, perentoria? La morte, pensai, non dovrebbe essere invece come l'immersione del cigno, ali bianche, levigato, che lascia la superficie intatta? (cap. V; p. 23)
  • Mi parve che Babette e io, nella massa e varietà dei nostri acquisti, nella grassa abbondanza suggerita da quei sacchetti – il peso, le dimensioni e il numero, i disegni familiari delle confezioni e la vivacità dei caratteri, le scatole giganti, i formati famiglia con il contrassegno fosforescente dell'offerta speciale – nonché nella sensazione che provavamo di esserci riempiti di scorte – il senso di benessere, la sicurezza e l'appagamento che quei prodotti apportavano a una sorta di casetta annidata nel nostro intimo -, mi parve, dicevo, che avessimo conseguito una pienezza dell'essere che doveva risultare ignota a coloro che hanno bisogno di meno, si aspettano di meno, incentrano tutta la loro vita su solitarie passeggiate serali. (cap. V; p. 26)
  • L'attaccatura dei capelli di Heinrich sta cominciando ad arretrare. Mi domando come mai. Che sua madre abbia consumato qualche tipo di sostanza perfora-geni quando era incinta? O forse ho qualche colpa io? Che lo abbia tirato su, involontariamente, in prossimità di uno scarico di sostanze chimiche, nel flusso di correnti d'aria gonfie di residui industriali capaci di produrre una degenerazione del cuoio capelluto, oltre che splendidi tramonti? – Secondo la gente, da queste parti, trenta o quarant'anni fa, i tramonti non erano affatto così straordinari -. La colpevolezza dell'uomo nei confronti della storia e dei flussi del proprio stesso sangue è stata complicata dalla tecnologia, dal diuturno diffondersi della malfida morte. (cap. VI; p. 28)
  • – Questa sera piove.
    – Sta già piovendo, – precisai.
    – La radio ha detto questa sera.
    [...]
    – Guarda il parabrezza, – replicai. – È pioggia o no?
    – Sto soltanto dicendo quello che ho sentito.
    – Il semplice fatto che l'abbiano detto alla radio non significa che dobbiamo sospendere il giudizio sull'evidenza dei nostri sensi.
    – I nostri sensi? Si sbagliano molto più spesso di quanto abbiano ragione. È stato dimostrato in laboratorio. Non conosci tutti i teoremi secondo i quali nulla è come appare? Non c'è passato, presente o futuro fuori della nostra mente. Le cosiddette leggi del moto sono una grossa mistificazione. Anche il suono può ingannare la mente. Soltanto perché non lo si sente, non significa che non ci sia. I cani lo sentono. E anche altri animali. Ma sono sicuro che ci sono suoni che anche i cani non possono sentire. Tuttavia nell'aria ci sono, in forma di onde. Forse non si fermano mai. In tonalità alte, più alte, sempre più alte. Arrivati da chissà dove.
    – Piove, – replicai, – o no?
    – Preferirei non dover rispondere.
    – E se qualcuno ti puntasse una pistola alla testa?
    – Chi, tu?
    – Qualcuno. Un uomo in trench e occhiali affumicati. Ti punta una pistola alla testa e dice: «Piove o no? Non devi fare altro che dire la verità e io metto via la pistola e sparisco».
    – Che verità vuole? Quella di chi stia viaggiando quasi alla velocità della luce in un'altra galassia? Quella di chi sia nell'orbita di una stella neutrone? Magari, se potessero vederci attraverso un telescopio, potremmo apparirgli alti settanta centimetri e potrebbe star piovendo ieri invece che oggi.
    – È contro la tua testa che quell'individuo sta puntando la pistola. Quindi vuole la tua, di verità.
    – A che cosa serve la mia verità? Non significa niente. E se invece questo tizio con pistola venisse da un pianeta di un sistema solare del tutto diverso? Ciò che noi chiamiamo pioggia, lui lo chiama sapone. E invece ciò che chiamiamo mele lo chiama pioggia. Che cosa dovrei dirgli?
    – Si chiama Frank J. Smalley ed è di Saint Louis.
    – Vuole sapere se sta piovendo adesso, esattamente in questo istante?
    – Qui e adesso. Esatto.
    – Esiste un adesso? L'«adesso» viene e se ne va non appena lo si è pronunciato. Come faccio a dire che adesso piove, se il tuo cosiddetto «adesso» diventa «allora» non appena lo pronuncio?
    – Ma se hai detto che non esiste passato, né presente, né futuro.
    – Soltanto nei nostri verbi. È l'unico posto dove li si trova.
    – Pioggia è un sostantivo. C'è della pioggia qui, in questo preciso luogo, in qualsiasi momento nell'ambito dei due minuti successivi a quello che sceglierai per rispondere alla domanda?
    – Se intendi parlare di un luogo preciso, mentre sei in una vettura in evidente movimento, allora penso che il problema di questa discussione stia proprio lì.
    – Dammi una risposta e basta, Heinrich, d'accordo?
    – Il massimo che posso fare è cercare di indovinare.
    – O piove o no, – ribattei.
    – Esattamente. Proprio quello che intendo io. Si tirerebbe a indovinare. Se non è zuppa è pan bagnato.
    – Ma lo si vede che sta piovendo.
    – Si vede anche il sole che si muove nel cielo. Ma è lui che si muove, o la terra che gira?
    – Un'analogia che non accetto.
    – Tu sei sicurissimo che si tratti di pioggia. Come fai a sapere che non è acido solforico proveniente dalle fabbriche oltre il fiume? Come fai a sapere che non sono i residui radioattivi di una guerra in Cina? Tu vuoi una risposta qui e adesso. Puoi dimostrare, qui e adesso, che quella roba è pioggia? Come faccio a sapere che quella che tu definisci pioggia lo è veramente? E comunque, che cos'è la pioggia?
    – Quella cosa che cade dal cielo e ci – come si dice – bagna.
    – Io non sono bagnato. E tu?
    – D'accordo, – dissi. – Benissimo.
    – No, davvero: sei bagnato?
    – Ottimo, – risposi. – Vittoria dell'incertezza, del caso, del caos. L'ora più bella per la scienza.
    – Fa' il sarcastico.
    – Sofisti e pignoli si godono il loro trionfo.
    – Continua, fa' il sarcastico. Non mi importa. (cap. VI; pp. 29-31)
  • – Che cosa vuoi fare? – chiese Babette.
    – Quello che vuoi tu.
    – Io voglio fare quello che preferisci tu.
    – Quello che preferisco è piacerti, – replicai.
    – Io voglio farti felice, Jack.
    – Lo sono quando ti piaccio.
    – Voglio solo fare quello che vuoi fare tu.
    – E io quello che preferisci tu.
    – Ma tu mi piaci quando mi consenti di piacerti, – ribatté lei.
    – In quanto maschio della coppia, ritengo che piacere sia responsabilità mia.
    – Non capisco bene se è una dichiarazione di affettuosa sensibilità o un'affermazione sessista.
    – È sbagliato che il maschio sia sollecito nei confronti della propria compagna?
    – La tua compagna lo sono quando giochiamo a tennis, cosa che, tra l'altro, dovremmo ricominciare a fare. Altrimenti sono tua moglie. Vuoi che ti legga qualcosa?
    – Ottima idea.
    – Lo so che ti piace che legga roba sexy.
    – Credevo che piacesse anche a te.
    – Non è fondamentalmente la persona a cui viene letto qualcosa, quella che ne gode il beneficio e la gratificazione? Quando leggo al Vecchio Treadwell, non lo faccio certamente perché quei tabloid li trovo stimolanti.
    – Treadwell è cieco, io no. Credevo che ti piacesse leggere i brani erotici.
    – Se ti piacciono, allora ho piacere di farlo.
    – Ma devono piacere a te, Baba. Altrimenti come dovrei sentirmi?
    – A me fa piacere che a te piaccia la mia lettura.
    – Ho la sensazione che ci stiamo palleggiando un peso. Il peso di essere quello che prova piacere. (cap. VII; pp. 35-36)
  • – E io leggo, – consentì lei. – Ma non voglio niente in cui ci siano uomini che hanno penetrato donne, tra virgolette, o che le stanno penetrando. «La penetrai». «Mi penetrò». Noi donne non siamo degli atri, né degli ascensori. «Lo volevo dentro di me», come se lui potesse entrare completamente, firmare il registro, dormire, mangiare eccetera. D'accordo? Non mi interessa quello che fanno, basta che non penetrino o non siano penetrate. (cap. VII; p. 36)
  • La T.V. disse: – Finché i chirurghi della Florida non hanno applicato una pinna artificiale. (cap. VII; p. 37)
  • Babette e io ci diciamo tutto. Personalmente ho sempre detto le cose come stavano, pari pari, a tutte le mie mogli.
    Naturalmente, con l'accumularsi dei matrimoni, le cose da dire aumentano. (cap. VII; p. 37)
  • L'amore ci aiuta a sviluppare un'identità sufficientemente sicura da poter essere affidata alle cure e alla protezione di un'altra persona. (cap. VII; p. 37)
  • Il tedesco. Carnoso, distorto, sputacchione, porporino e crudele. (cap. VIII; p. 39)
  • Dunlop stava seduto sul margine di una sedia dallo schienale diritto e declamava principi generali di grammatica. Quando passava dall'inglese al tedesco, era come se nella laringe gli fosse stata strizzata una corda. Nella sua voce compariva un'emozione improvvisa, un raschiare e gargarizzare che parevano il risvegliarsi di un'ambizione animalesca. Mi guardava a bocca spalancata e gesticolava, gracidava. Rischiò lo strangolamento. Dalla radice della sua lingua arrivavano suoni di rigurgito, aspri rumori intrisi di passione. Stava soltanto mostrandomi certe strutture basilari della pronuncia, ma la trasformazione avvenuta nel suo volto e nella sua voce mi fecero pensare che stesse compiendo una transizione tra due diversi livelli dell'essere. (cap. VIII; pp. 40-41)
  • Il martedì la scuola elementare dovette essere evacuata. I bambini vennero colti da mal di testa e irritazione agli occhi, oltre ad avvertire un sapore metallico in bocca. Una maestra si mise a rotolare sul pavimento, parlando lingue straniere. Nessuno capiva che cosa stesse succedendo. Gli incaricati delle ricerche dissero che poteva dipendere dal sistema di ventilazione, dalla vernice o dallo smalto, dalla schiuma isolante, dall'isolante elettrico, dal cibo della mensa, dai raggi emessi dai microcomputer, dall'amianto antincendio, dall'adesivo dei contenitori per il trasporto, dalle esalazioni di cloro della piscina, o forse da qualcosa di ancora più profondo, più sottile, più intimamente insito nello stato essenziale delle cose. (cap. IX; pp. 44)
  • [Nel supermercato]
    – I tibetani credono che vi sia uno stato di transizione tra la morte e la rinascita. La morte sarebbe fondamentalmente un periodo di attesa. Dopo poco tempo l'anima sarà accolta da un nuovo grembo. Nel frattempo essa restituisce a se stessa una parte della divinità che ha perduto al momento della nascita -. Studiai il profilo di Babette per cogliervi una reazione.
    – È la stessa cosa che penso io ogni volta che vengo qui. Questo posto ci ricarica sotto il profilo spirituale, ci prepara, è un passaggio o una transizione. Guarda quant'è luminoso. È pieno di dati sovrannaturali. Mia moglie gli sorrise.
    – Tutto è celato nel simbolismo, nascosto da veli di mistificazione e strati di materiale culturale. Ma si tratta senza ombra di dubbio di dati sovrannaturali. Le grandi porte si aprono scorrendo e si chiudono spontaneamente. Onde di energia, radiazione incidente. E poi ci sono lettere e numeri, tutti i colori dello spettro, tutte le voci e i rumori, tutte le parole in codice e le frasi convenzionali. È soltanto questione di decifrare, ricombinare, eliminare gli strati di impronunciabilità. Non che sia il caso, non che ne possa derivare alcuno scopo utile. Questo non è il Tibet. E neanche il Tibet è più quello di una volta.
    Continuai a esaminare il profilo di Babette, che mise dello yogurt nel carrello.
    – I tibetani cercano di vedere la morte per ciò che essa è. Ovvero la fine dell'attaccamento alle cose. Una verità semplice ma difficile da capire. Tuttavia, una volta che si sia smesso di negare la morte, si può procedere tranquillamente a morire e poi ad affrontare l'esperienza della rinascita uterina, o l'aldilà giudaico-cristiano, o l'esperienza extracorporea, o un viaggio su un Ufo, o come che lo si voglia chiamare. E possiamo farlo con chiarezza di visione, senza timore riverenziale o terrore. Non dobbiamo aggrapparci artificialmente alla vita, e neanche alla morte. Non si fa altro che procedere verso le porte scorrevoli. Onde e radiazioni. Guarda come è tutto ben illuminato. Questo posto è sigillato, conchiuso in sé. E senza tempo. Un altro motivo per cui penso al Tibet. Morire, in Tibet è un arte. Arriva un sacerdote, si siede, dice ai parenti in lacrime di andarsene e fa sigillare la stanza. Porte e finestre, tutte sigillate. Ha cose serie da fare. Salmodie, numerologia, oroscopi, recitazioni. Qui non moriamo, facciamo acquisti. Ma la differenza è meno marcata di quanto si creda.
    Ormai stava praticamente mormorando, per cui cercai di avvicinarmi senza andare a sbattere con il mio carrello in quello di Babette. Volevo sentire tutto.
    – I supermercati così grandi, puliti e moderni, per me sono una rivelazione. Ho passato la vita in negozietti di gastronomia con banchi sbilenchi pieni di vassoi su cui erano disposti mucchietti mollicci e umidi di sostanze di svariate colorazioni chiare. Banchi tanto alti da costringere a stare in punta di piedi per ordinare. Grida, accenti diversi. Nelle città nessuno più nota la specificità del morire. Il morire è una componente dell'aria. Si trova ovunque e in nessun luogo. Morendo gli uomini gridano, per farsi notare, per farsi ricordare per un paio di secondi. Morire in un appartamento di città può deprimere l'anima, penso, per diverse vite a venire. Nelle cittadine di provincia invece ci sono le villette, le piante nei bovindi. La gente nota di più la morte. I morti hanno volti, automobili. Se non si sa un nome, si sa però quello di una strada, di un cane. «Aveva una Mazda arancione». Di una persona si sanno un paio di cose inutili che diventano importanti elementi di identificazione e collocazione cosmica, nel caso in cui essa muoia all'improvviso, dopo una breve malattia, nel proprio letto, con trapunta e cuscini rivestiti uguali, in un mercoledì pomeriggio piovoso, febbricitante, un po' congestionata nei seni nasali e al petto, pensando alla lavatura a secco. (cap. IX; pp. 47-48)
  • Chi lo sa che cosa ho voglia di fare? Chi lo sa che cosa ha voglia di fare in genere la gente? Come si fa a esserne sicuri? Non è tutta una questione di chimica cerebrale, di segnali che vanno avanti e indietro, di energia elettrica nella corteccia? Come si fa a sapere se una cosa è esattamente ciò che si vuole fare, oppure soltanto una qualche specie di impulso nervoso nel cervello? Una minuscola attività secondaria ha luogo da qualche parte, in un punto privo di importanza dentro uno degli emisferi cerebrali, ed ecco che di punto in bianco mi viene voglia di andare nel Montana, oppure no. Come faccio a sapere se ho veramente voglia di andarci e non sono soltanto un po' di neuroni che fanno fuoco, o qualcosa del genere? Magari capita soltanto un lampo, per caso, nel midollo e di punto in bianco eccomi lí nel Montana, dove scopro che in realtà non avevo nessunissima voglia di andarci. Se non sono in grado di controllare quello che mi succede nel cervello, come faccio a essere sicuro di quello che avrò voglia di fare fra dieci secondi, per non parlare di quest'estate e del Montana? È tutta questione di attività cerebrale, per cui non si sa che cosa dipenda dalla propria persona e che cosa da un neurone che ha appena fatto fuoco o magari cilecca. (Heinrich: cap. X; pp. 57-58)
  • – La settimana prossima faccio cinquantun anni.
    – Non significa poi essere tanto vecchi, no?
    – Sono venticinque anni che me lo continuo a ripetere. (cap XI; p. 60)
  • – Che effetto fa avere quasi cinquantun anni? - chiese.
    – Niente di diverso dai cinquanta.
    – Con la differenza che uno è pari e l'altro è dispari, - precisò lei. (cap XI; p. 61)
  • – La T.V. costituisce un problema soltanto se si è dimenticato come guardare e ascoltare, – replicò Murray. – Ne discuto continuamente con i miei studenti. Cominciano a pensare di doversi ribellare al mezzo televisivo, esattamente come una generazione precedente si è rivoltata contro i genitori e il paese. Io invece dico loro che devono imparare di nuovo a guardare da bambini. A scavare il contenuto. A decifrare i codici e messaggi, per usare la tua espressione Jack.
    – E loro che cosa dicono?
    – Che il termine televisione non sarebbe altro che un modo diverso di indicare la pubblicità postale, quella che si butta via. Ma io dico loro che non posso essere d'accordo. Dico loro che da più di due mesi sto seduto in questa stanza a guardare la T.V. fino alle ore piccole, ascoltando con attenzione, prendendo appunti. Grande esperienza, che rende umili, consentitemi di dirlo. Prossima al mistico.
    – E la tua conclusione qual è?
    Murray incrociò compostamente le gambe e rimase seduto con la tazza in grembo, sorridendo direttamente al vuoto che aveva davanti.
    – Onde e radiazioni, – disse poi. – Sono giunto a capire che il mezzo televisivo è una forza di fondamentale importanza nella casa tipica americana. Conchiusa in sé, senza tempo, autolimitata, autoriferente. È come un mito nato qui nel nostro soggiorno, come una cosa che conosciamo in modo preconscio, quasi in sogno. Ne sono molto intrigato, Jack.
    E mi guardò, ancora sorridendo in modo vagamente sfuggente.
    – Bisogna imparare a guardare. Bisogna aprirsi ai dati. La T.V. offre un'incredibile quantità di dati sovrannaturali. Porta allo scoperto ricordi della nascita del mondo, ci accoglie nella grata, nel reticolo di macchioline ronzanti che formano la struttura dell'immagine. C'è la luce, c'è il suono. Ai miei studenti chiedo: «Che cosa volete di più?» Guardate la ricchezza di dati celata in quella grata, in quel bell'involucro, le canzoncine, i quadretti di vita famigliare pubblicitari, i prodotti che balzano in primo piano emergendo dalle tenebre, i messaggi codificati e le ripetizioni interminabili, simili a tanti mantra. "Coke is it". "Coke is it". "Coke is it". Il mezzo televisivo trabocca praticamente di formule sacre, se riusciamo a ricordarci come rispondere con innocenza e a superare l'irritazione, la stanchezza e il disgusto.
    – Ma i tuoi studenti non sono d'accordo.
    – Peggio della pubblicità per posta, dicono: da buttare via. Secondo loro la televisione rappresenterebbe gli spasimi agonici della coscienza umana. Si vergognano del proprio passato televisivo. Vogliono parlare di cinema. (cap. XI; pp. 63-64)
  • – L'oblio è penetrato nell'aria e nell'acqua. Si è introdotto nella catena alimentare.
    – Forse è per via della gomma che mastico. Ti sembra inverosimile?
    – Forse dipende da qualche altra cosa.
    – A cosa ti riferisci?
    – Oltre ai chewing gum, tu prendi qualcos'altro.
    [...]
    – Stai dicendo che forse prendi qualcosa che ha l'effetto collaterale di danneggiare la memoria.
    – O prendo qualcosa e non me lo ricordo, o non prendo niente e non me lo ricordo lo stesso. La mia vita è tutta un o – o. O mastico la gomma con zucchero, o mastico quella senza. O fumo o ingrasso. O ingrasso o corro su per i gradini dello stadio.
    – Vita piuttosto noiosa, direi.
    – Spero che duri per sempre, – ribatté lei. (cap. XI; pp. 65-66)
  • – Che cos'altro insegna?
    – Greco, latino, navigazione oceanica a vela.
    – E la gente viene qui a impararla?
    – Non più tanto.
    – È sbalorditivo quanta gente ci sia al giorno d'oggi che insegna, – dissi. – C'è un insegnante per persona. Tutti quelli che conosco sono o insegnanti o allievi. Secondo lei che cosa significa?
    Dunlop rivolse lo sguardo verso la porta di un armadio. – Insegna qualcos'altro? – chiesi.
    Meteorologia.
    – Meteorologia. E come mai?
    – La morte di mia madre ha avuto su di me un effetto tremendo. Sono letteralmente entrato in crisi, ho perduto la fede in Dio. Ero inconsolabile, mi sono chiuso completamente in me stesso. Poi un giorno ho visto per caso le previsioni del tempo alla T.V. Un giovane dinamico, con una bacchetta luccicante, stava in piedi davanti a una foto multicolore, ripresa dal satellite, e dava le previsioni per i cinque giorni successivi. Ero lì ipnotizzato dalla sua sicurezza di sé e dalla sua bravura. Sembrava quasi che un messaggio venisse trasmesso dal satellite meteorologico attraverso quel giovanotto fino a me, che ero lì seduto nel mio sedile di tela. Quindi mi sono rivolto alla meteorologia per averne conforto. (cap. XI; pp. 68-69)
  • La T.V. disse: – Nonché altri fattori che potrebbero influire in maniera gravissima sul vostro portafoglio. (cap. XIV, p. 76)
  • – Nei nomi tedeschi c'è qualcosa, come nella lingua e nelle cose tedesche in genere. Non so che cosa sia esattamente. C'è e basta. E in mezzo a tutto sta Hitler, naturalmente.
    – L'ho visto alla televisione anche ieri sera.
    – C'è sempre. La televisione non sarebbe la stessa, senza di lui.
    – Hanno perso la guerra, – replicò lei. – Quanto potevano essere grandi?
    – Obiezione valida. Ma non è questione di grandezza. Non è questione di bene o male. Non so che cosa sia. Mettiamola così. Certe persone portano sempre un colore preferito. Altre un'arma. Altre ancora indossano un'uniforme e si sentono più grosse, più forti, più sicure. È questo l'ambito della mia ossessione. (cap. XIV, pp. 78-79)
  • Gli chiesi: – Alfonse, come mai c'è gente rispettabile, piena di buone intenzioni e responsabile, che si trova intrigata dalle catastrofi, quando le vede in televisione? Quindi gli parlai della recente serata a base di lava, fango e infuriare d'acqua, che i ragazzini e io avevamo trovato tanto emozionante.
    – Ne volevamo ancora, sempre di più.
    – E naturale, è normale, – rispose lui, con un rassicurante cenno del capo. – Succede a tutti.
    – Perché?
    – Perché soffriamo di svanimento cerebrale. Di quando in quando abbiamo bisogno di una catastrofe per spezzare l'incessante bombardamento dell'informazione. [...] Il flusso è costante, – riprese Alfonse. – Parole, immagini, numeri, fatti, grafici, statistiche, macchioline, onde, particelle, granellini di polvere. Soltanto le catastrofi attirano la nostra attenzione. Le vogliamo, ne abbiamo bisogno, ne siamo dipendenti. Purché capitino da un'altra parte. Ed è qui che entra in ballo la California. Smottamenti, incendi nei boschi, erosione delle coste, terremoti, massacri di massa eccetera. Possiamo metterci lì tranquilli a goderci tutti questi disastri perché nell'intimo sappiamo che la California ha quello che si merita. Sono stati loro a inventare il concetto di stile di vita. Basta questo a condannarli. [...] La gente soffre di svanimento cerebrale. È perché abbiamo dimenticato ad ascoltare e guardare come se fossimo bambini. Abbiamo dimenticato come raccogliere dati. In senso psichico un incendio in una foresta in T.V. occupa un livello più basso di dieci secondi di spot pubblicitario di un detersivo per lavastoviglie. La pubblicità emette onde più profonde, più profonde emanazioni. Ma noi abbiamo ribaltato la significanza relativa di queste cose. Ecco perché occhi, orecchi, cervelli e sistemi nervosi si sono stancati. È un semplice caso di uso improprio. (cap. XIV, pp. 82-83)
  • Non ci sono molti dubbi che Hitler fosse quello che definiamo un cocco di mamma. (Jack; cap. XV, p. 88)
  • Per il resto della sua vita Hitler non sopportò mai di trovarsi in qualsiasi modo vicino a delle decorazioni natalizie, dal momento che sua madre era morta accanto all'albero di Natale. (Jack; cap. XV, p. 89)
  • [Parlando dei nazisti che accorrevano ai discorsi di Hitler] Poi arrivarono le folle, masse di gente che invadevano il cortile cantando canzoni patriottiche e dipingendo svastiche sulle pareti e sui fianchi degli animali. Accorrevano folle alla sua villa in montagna, tanta di quella gente che gli toccava stare chiuso in casa. Raccoglievano i ciottoli su cui aveva camminato e se li portavano a casa per ricordo. Accorrevano folle a sentirlo parlare, folle in preda a carica erotica, le masse che un tempo aveva definito la sua unica sposa. Lui parlando chiudeva gli occhi, serrava i pugni, torceva il corpo madido di sudore, faceva della propria voce un'arma elettrizzante. «Assassinii di natura sessuale» furono definiti da qualcuno, questi discorsi. Accorrevano folle per farsi ipnotizzare dalla sua voce, dagli inni di partito, dalle parate alla luce delle torce. [...] Le folle continuano ad arrivare, a venire eccitate, a toccare, a schiacciarsi... gente bramosa di essere trascinata. Non è una cosa comune? Tutto ciò lo conosciamo anche noi. In quelle folle, invece, doveva esserci qualcosa di diverso. Che cosa? Ve la dirò a bassa voce, la terribile parola, che viene dall'inglese antico, dal tedesco antico, dall'antico norreno. Morte. Gran parte di quelle folle si raccoglievano in nome della morte. Erano lì per partecipare a una cerimonia funebre. Processioni, canti, discorsi, dialoghi con i morti, recitazioni di nomi di morti. Erano lì per vedere pire e ruote infuocate, migliaia di bandiere inchinate per l'addio, migliaia di persone nell'uniforme del lutto. Erano disposte in file e squadre, su sfondi elaborati, con vessilli color sangue e uniformi nere. Quelle folle accorrevano per fare da scudo alla propria morte. Farsi folla significa tenere lontana la morte. Uscire dalla folla significa rischiare la morte individuale, affrontare la morte solitaria. Quelle folle accorrevano soprattutto per questa ragione. Erano lì proprio per essere folla. (Jack; cap. XV, pp. 90-91)
  • È un timore che informa da lungo tempo i miei rapporti con i medici, quello che perdano interesse nei miei confronti, che ordinino all'infermiera di far passare altri prima di me, che diano per scontata la mia morte. (Jack; cap. XVI, p. 94)
  • Gli studi medici mi deprimono ancora più degli ospedali a causa della loro atmosfera di previsioni negative, nonché dei pazienti che di quando in quando se ne vanno con buone notizie, stringendo la mano asettica del medico e ridendo rumorosamente, ridendo di tutto ciò che egli dice, esplodendo risate, con energia bruta, facendo ben caso, mentre attraversano la sala d'aspetto, a ignorare gli altri pazienti, sempre ridendo in tono provocatorio: ormai se n'è liberato, non partecipa più della loro cupezza settimanale, né del loro morire ansioso, di serie B. Preferisco andare in un pronto soccorso, pozzo urbano di tremori, dove arriva gente sparata, accoltellata, con l'occhio spento a causa degli oppiacei, con aghi spezzati nelle braccia. Cose che non c'entrano niente con quella che sarà finalmente la mia morte, non violenta, da città di provincia, per bene. (Jack; cap. XVI, p. 94)
  • La famiglia è la culla della disinformazione mondiale. Nella vita di famiglia dev'esserci qualcosa che genera gli errori di fatto. L'eccesso di vicinanza, il rumore e il calore dell'essere. Forse anche qualcosa di più profondo, come il bisogno di sopravvivere. Murray sostiene che siamo creature fragili, circondate da un mondo di fatti ostili. I fatti minacciano la nostra felicità e sicurezza. Più a fondo investighiamo nella natura delle cose, più incerta può sembrar diventare la nostra struttura. Il processo famigliare tende a escludere il mondo. Piccoli errori diventano capitali, le finzioni proliferano. Io gli replico che ignoranza e confusione non possono essere le forze motrici che stanno dietro la solidarietà famigliare. Che idea, che sovversione! Lui mi chiede perché mai, allora, le unità famigliari più forti si trovano nelle società meno sviluppate. Il non sapere è lo strumento della sopravvivenza, sostiene. Magia e superstizione si ossificano a diventare la poderosa ortodossia di clan. La famiglia è più forte là dove è più probabile che la realtà oggettiva venga malintesa. (cap. XVII, p. 102)
  • Pertiene alla natura e al piacere di chi abita in una città di provincia di diffidare della metropoli. Tutti i principi guida che possono emanare da un centro di idee ed energie culturali vengono considerati cose corrotte, in qualche misura pornografia. (cap. XVIII, p. 106)
  • Se le nostre lagnanze hanno un punto focale, esso deve risiedere nell'apparecchio T.V., dove si annida il tormento proveniente dall'esterno, provocando timori e desideri segreti. (cap. XVIII, p. 106)
  • – Janet è finita nel Montana, invece, in un ashram, – replicai.
    – Janet Savory? Buon Dio, e perché mai?
    – Adesso si chiama Madre Devi. Si occupa delle attività finanziarie dell'ashram. Investimenti, proprietà fondiarie, sistemi per ridurre le tasse. È quello che ha sempre desiderato. La pace mentale in un contesto orientato al profitto. (Jack e Tweedy; cap. XVIII, p. 109)
  • Malcolm e io una volta abbiamo preso il tè con il colonnello Gheddafi. Uomo affascinante e spietato, uno dei pochi terroristi di nostra conoscenza che viva secondo la propria immagine pubblica. (Tweedy; cap. XVIII, p. 110)
  • – Portavi i guanti a letto.
    – Lo faccio ancora.
    – Guanti, mascherina per gli occhi e calze.
    – Li conosci i miei difetti. Li hai sempre conosciuti. Sono ultrasensibile a molte cose.
    – Sole, aria, cibo, acqua, sesso.
    Cancerogeni, tutti. (Tweedy e Jack; cap. XVIII, p. 110)
  • Quando Malcolm entra in stretta clandestinità, è come se non fosse mai esistito. Sparisce non soltanto qui e ora, ma anche retroattivamente. Di lui non rimane traccia. A volte mi chiedo se l'uomo che ho sposato sia effettivamente Malcolm Hunt o una persona completamente diversa, anch'essa operante in stretta clandestinità. Una cosa francamente preoccupante. Non so quale metà della sua vita sia autentica e quale metà spionistica. (Tweedy; cap. XVIII, p. 110)
  • – Come sta Hitler?
    – Bene, è concreto, affidabile. (Tweedy e Jack; cap. XVIII, p. 111)
  • All'aeroporto aspettammo in una nebbia di polvere di intonaco, tra fili esposti, mucchi di detriti. Mezz'ora prima dell'arrivo di Bee, nella zona arrivi presero ad affluire attraverso un tunnel ventoso i passeggeri di un altro volo. Erano grigi e scossi, stremati da stanchezza e shock, e trascinavano i bagagli sul pavimento. Venti, trenta, quaranta persone, senza proferir parola, con lo sguardo fisso a terra. Alcuni zoppicavano, altri piangevano. Attraverso il tunnel ne arrivarono ancora altri, adulti con bambini che frignavano, vecchi tremanti, un sacerdote nero con il colletto di traverso e senza una scarpa. [...]
    L'aereo aveva perso potenza in tutti e tre i motori, precipitando da undicimila metri a quattromila. Qualcosa come settemila metri. Quando era cominciato il brusco tonfo, i passeggeri si erano alzati, erano cascati, andando a sbattere gli uni contro gli altri, si erano librati sui sedili. Poi erano cominciati sul serio gli strilli e i lamenti. Quasi immediatamente all'altoparlante si era sentita arrivare dal ponte di comando una voce che diceva: – Precipitiamo dal cielo! Andiamo giù! Siamo una macchina di morte argentea e lucente! – Uno sfogo che i passeggeri avevano preso come il segno di una totale perdita di autorità, competenza e presenza ai comandi, provocando una nuova esplosione di lamenti disperati.
    – Oggetti rotolavano fuori dalle cambuse, i corridoi erano pieni di bicchieri, utensili, cappotti e coperte. Una hostess, appiccicata alla paratia per effetto dell'angolo acuto di caduta, stava cercando nel «Manuale dei disastri aerei» il passo adeguato alle circostanze. Poi si era sentita arrivare dal ponte di comando una seconda voce maschile, questa, invece, notevolmente calma e precisa, che aveva fatto capire ai passeggeri come in definitiva ai comandi ci fosse ancora qualcuno, dando loro un motivo di speranza: – Qui American due-uno-tre al registratore della cabina di comando. Ora sappiamo com'è. È peggio di come abbiamo mai immaginato. Al simulatore della morte, a Denver, non ci hanno preparato a niente di simile. La nostra paura è pura, così totalmente spoglia di distrazioni e pressioni da costituire una forma di meditazione trascendente. In meno di tre minuti toccheremo per così dire terra. I nostri corpi verranno trovati in un campo fumoso, sparpagliati nelle orribili posture della morte. Ti amo, Lance -. Questa volta, prima che il lamento di massa riprendesse, c'era stato un attimo di silenzio. Lance? A che razza di gente era affidato quell'aereo? Il pianto aveva assunto un tono amaro e disilluso. [...]
    Sull'aereo che precipitava una hostess aveva proceduto carponi per il corridoio, sopra corpi e macerie, dicendo alla gente delle due file di togliersi le scarpe, di levarsi di tasca gli oggetti taglienti, di mettersi in posizione fetale. All'altro capo dell'aereo qualcuno era alle prese con un'apparecchiatura di galleggiamento. Alcuni membri dell'equipaggio avevano deciso di fingere che ciò che li aspettava nel giro di pochi secondi non fosse un atterraggio con disastro, ma un atterraggio di fortuna. In definitiva si trattava soltanto di una leggera differenza di termini. Il che suggeriva come forse le due forme di conclusione del volo fossero più o meno intercambiabili. Ipotesi incoraggiante, date le circostanze, se non si stava troppo a pensarci, come del resto non c'era tempo di fare. La differenza di base tra un atterraggio con disastro e un atterraggio di fortuna sembrava essere che al secondo ci si può preparare sensatamente, come si stava appunto facendo. La notizia si era diffusa per l'aereo, l'espressione era stata ripetuta fila dopo fila. «Atterraggio di fortuna, atterraggio di fortuna». Si era visto quanto fosse facile, cambiando un'espressione, mantenere una presa sul futuro, estenderla in termini di consapevolezza, se non proprio di fatto. I passeggeri avevano preso a tastarsi in cerca di penne a sfera, avevano assunto la posizione fetale sul sedile. [...]
    Fu a quel punto della caduta, mentre l'espressione «Atterraggio di fortuna» si diffondeva per l'aereo, con particolare sottolineatura della seconda parte di essa, che attraverso le tende, procedendo carponi e aggrappati con le unghie, arrivarono i passeggeri di prima, che si inerpicarono letteralmente verso la sezione turistica, in modo da evitare di essere i primi a impattare con il terreno. Secondo alcuni di turistica, tuttavia, li si sarebbe dovuti rimandare indietro. Un sentimento non tanto espresso a parole e atti, quanto per mezzo di tremendi rumori inarticolati, per lo più una sorta di muggito, un mugghio pressante e forzato. Poi all'improvviso i motori ripartirono. Senza nessun motivo. Potenza, stabilità, controllo. I passeggeri, pronti all'impatto, ci misero un po' ad adeguarsi alla nuova ondata di notizie. Rumori nuovi, una rotta diversa, il senso di essere rinchiusi in una tubazione solida e non in un involucro di poliuretano. Si accese il segnale che permetteva di fumare, un'internazionale mano con sigaretta. Apparvero hostess munite di tovagliolini profumati per ripulire sangue e vomito. La gente emerse lentamente dalla posizione fetale, si rilasciò con difficoltà sui sedili. Settemila chilometri di terrore primigenio. Nessuno sapeva che cosa dire. Essere vivi era un coacervo di sensazioni. Dozzine di cose, centinaia. Il primo ufficiale percorse il corridoio, sorridendo e chiacchierando in modo piacevole, vacuo, aziendale. Sul suo volto c'era il lucore roseo e fidente proprio di chi è responsabile di grossi aerei di linea. Guardandolo, si chiesero tutti perché mai avessero avuto paura.
    La gente che si era affollata per ascoltare, ben più di cento persone, che si trascinavano dietro sul pavimento polveroso bagagli a mano e valigie, mi aveva spinto lontano dal narratore. Proprio nel momento in cui mi resi conto di essere fuori portata di ascolto, in piedi accanto a me vidi Bee, il visino liscio e bianco tra una massa di capelli ricci. Mi saltò tra le braccia, odorosa di scarichi di jet.
    – Dov'è la televisione? – chiese.
    – A Iron City non c'è.
    – Allora tutta quella roba l'hanno vissuta per niente? (cap. XVIII, p. 112-115)
  • – Ogni bambino dovrebbe avere l'opportunità di viaggiare per migliaia di chilometri da solo, – disse Tweedy, – per lo sviluppo del rispetto di sé e dell'apertura mentale, con abiti e articoli da toilette di loro scelta. Prima li facciamo volare e meglio è. Come nuotare o pattinare sul ghiaccio. Bisogna farli cominciare da giovani. È una delle cose che sono orgogliosa di avere fatto con Bee. L'ho mandata a Boston con la Eastern Airlines a nove anni. E a nonna Browner ho detto di non andarla a prendere all'aereo. Uscire dall'aeroporto è importante come il volo in sé. Troppi genitori ignorano questa fase dell'evoluzione infantile. Ora Bee è cittadina a pieno titolo di entrambe le coste. È salita su un jumbo per la prima volta a dieci anni, ha cambiato aereo allo O'Hare, ha quasi perso la coincidenza a Los Angeles. Due settimane dopo ha preso il Concorde per Londra. [...]
    Salvo incidenti meccanici, tempo turbolento e atti terroristici, affermò Tweedy, un aereo in volo alla velocità del suono può essere l'ultimo rifugio della vita confortevole e delle buone maniere rimasto. (cap. XVIII, p. 116)
  • A volte Bee ci faceva sentire a disagio, pena che talvolta gli ospiti infliggono senza intenzione ai cortesi padroni di casa. La sua presenza sembrava irradiare una luce chirurgica. Cominciavamo a vederci come un gruppo che agiva senza logica, che evitava di prendere decisioni, che, a turno, procedeva ad atti stupidi ed emotivamente instabili, che lasciava asciugamani bagnati ovunque, che perdeva di vista i propri membri più giovani. Qualsiasi atto compissimo, diventava subito una cosa che sembrava aver bisogno di una spiegazione. [...] Se Denise era un commissario in miniatura, impegnato a spingerci con le sue critiche verso un livello più elevato di coscienza, Bee era piuttosto un testimone silenzioso, capace di mettere in discussione il senso intimo della nostra vita. (cap. XIX, p. 117)
  • La T.V. disse: – Questa creatura ha sviluppato uno stomaco estremamente complesso adattandosi alla sua dieta a base di foglie. (cap. XIX, p. 118)
  • La T.V. disse: – Adesso applicheremo i piccoli sensori alla farfalla. (cap. XIX, p. 120)
  • La forza dei morti è che secondo noi ci vedono sempre. Sono una presenza. Forse esiste un livello di energia composto soltanto da loro. Sono anche sotto terra, ovviamente, addormentati e avviati a decomporsi. Forse noi siamo ciò che essi sognano.
    Possano i giorni essere senza meta. Le stagioni scorrano. Non si prosegua l'azione secondo un piano. (cap. XIX, pp. 121-122)
  • Quando leggo gli annunci funebri, guardo sempre l'età del defunto, confrontando automaticamente la cifra alla mia età. Ancora quattro anni, penso. Ancora nove. Due anni e sono morto. La forza dei numeri non appare mai più evidente di quando li usiamo per speculare sul momento della nostra morte. A volte contratto con me stesso. Sessantacinque anni mi vanno bene. L'età di Gengis Khan al momento della morte? Solimano il Magnifico ce l'ha fatta fino a settantasei. A me andrebbe bene, almeno adesso, ma come sarà quando ne avrò settantatré? (cap. XX; p. 123)
  • È difficile pensare a simili uomini in preda a mesti pensieri di morte. Attila l'Unno è morto giovane. Sulla quarantina. Gli sarà dispiaciuto, si sarà sentito pieno di compassione per se stesso, e depresso? Era il re degli Unni, l'invasore dell'Europa, il Flagello di Dio. Voglio credere che sia rimasto disteso nella sua tenda, avvolto in pelli di animali, come in un film epico a finanziamento internazionale, dicendo cose coraggiose e crudeli ai propri aiutanti di campo e seguaci. Nessun cedimento dello spirito. Nessun senso dell'ironia insita nell'esistenza umana, del fatto che siamo la forma più elevata di vita sulla terra, eppure ineffabilmente tristi, perché sappiamo ciò che nessun altro animale sa, ovvero che dobbiamo morire. Attila non guardò oltre l'apertura della tenda, indicando un cane storpio fermo ai margini del fuoco, in attesa che gli venisse gettato un brandello di carne. Non disse: – Quel patetico animale pieno di pulci sta meglio del più grande dominatore di uomini. Non sa quello che noi sappiamo, non sente quello che noi sentiamo, non può essere triste quanto lo siamo noi.
    Voglio credere che non avesse paura. Che abbia accettato la morte come un'esperienza che segue naturalmente alla vita, una folle cavalcata nella foresta, come si conviene a un uomo chiamato il Flagello di Dio. (cap. XX; pp. 123-124)
  • MasterCard, Visa, American Express. (cap. XX; p. 125)
  • – Hai visto che cos'hai fatto? Hai portato con te il barattolo del caffè sul ripiano della credenza.
    – E allora?
    – Non occorreva farlo. Avresti potuto lasciarlo vicino al fornello, dov'eri, e poi andare a prendere il cucchiaio nella credenza.
    – Vuoi dire che ho portato con me il barattolo senza che ce ne fosse bisogno?
    – L'hai tenuto nella mano destra fino a che sei arrivato alla credenza, l'hai posato per aprire il cassetto, cosa che non hai voluto fare con la sinistra, quindi hai preso il cucchiaio con la destra, l'hai passato nella sinistra, hai ripreso il barattolo del caffè con la destra e sei tornato al fornello, dove sei tornato a posarlo.
    – Così fanno tutti.
    – Movimento sprecato. La gente spreca una quantità immensa di movimenti. Dovresti qualche volta guardare Baba che prepara l'insalata.
    – La gente non sta lì a ponzare su ogni minimo movimento o gesto. Un po' di spreco non guasta.
    – Ma in tutta una vita?
    – Che cosa si risparmia, a non sprecare?
    – In una vita? Una spaventosa quantità di tempo ed energia, – replicò.
    – E che cosa ce ne facciamo?
    – Usiamoli per vivere di più. (Heinrich e Jack; cap. XX; pp. 126-127)
  • Denise è il tipo di bambina che prova una sorta di tenerezza protettiva per le sue origini. In un mondo di situazioni alla deriva, appartiene alla sua strategia di fare ogni sforzo per restaurare e conservare, tenere le cose insieme per il loro valore di ricordi, come un modo per legarsi alla vita.
    Non si equivochi. Questi bambini io li prendo sul serio. Non è possibile vedervi troppo, indulgere troppo all'eventuale capacità di studiare i caratteri. È tutto lì, a piena forza, carico di onde di identità ed essenza. Nel mondo dei bambini non ci sono dilettanti. (cap. XX; p. 128)
  • Il viso sullo schermo era quello di Babette. Dalle nostre bocche esalò un respiro cauto e profondo come il ringhio di un animale. Dai nostri volti grondavano confusione, paura, stupefazione. Che cosa significava? Che cosa ci faceva lì, in bianco e nero, rinchiusa in quella cornice geometrica? Che fosse morta, scomparsa, che si fosse smaterializzata? Quello era forse il suo spirito, il suo io segreto, un facsimile bidimensionale trasmesso dalla forza della tecnologia, lasciato libero di fluttuare per le gamme di lunghezza d'onda, tra i livelli di energia, fermandosi un attimo a dirci addio dallo schermo fluorescente?
    Fui preso da un senso di straniamento, di disorientamento psichico. Era assolutamente lei, il viso, i capelli, il modo come sbatte rapidamente gli occhi, due, tre volte di seguito. L'avevo vista soltanto un'ora prima, che mangiava le uova, ma la sua comparsa sullo schermo mi faceva pensare a lei come a una figura di un passato lontano, un'ex moglie e madre fuggitiva, un essere vagante nelle nebbie dei morti. Se non era morta lei, forse lo ero io. [...]
    Quella che contava era l'immagine, il viso in bianco e nero, animato ma anche piatto, distante, impenetrabile, senza tempo. Era lei ma non era lei. Ancora una volta presi a pensare che forse Murray aveva colto nel segno. Onde e radiazioni. Attraverso le maglie qualcosa filtrava. Babette ci irradiava di luce, stava divenendo reale, assumeva continuamente nuove forme, a mano a mano che i muscoli del suo volto si adoperavano a sorridere e parlare, a mano a mano che i puntini elettronici sciamavano.
    Eravamo fulmineamente attraversati da lei. La sua immagine veniva proiettata sui nostri corpi, aleggiava dentro e fuori di noi. Una Babette di elettroni e fotoni, o di quali che fossero le forze che producevano quella luce grigia che ritenevamo essere il suo viso. (cap. XX; pp. 128-130)
Parte seconda – L'evento tossico aereo
  • – Abbandonare tutte le abitazioni. Subito, subito. Evento tossico, nube chimica.
    La voce diveniva più forte, si indeboliva, tornava forte, mentre i veicoli si immettevano o uscivano dalle strade secondarie. Evento tossico, nube chimica. Quando le parole svanivano, la cadenza in sé continuava a rimanere distinguibile, sequenza ricorrente in lontananza. Pare che il pericolo imponga alle voci pubbliche la responsabilità di assumere un ritmo, quasi che nelle unità metriche risieda una coerenza capace di controllare quale che sia l'evento insensato e furioso che stia per scatenarsi sulle nostre teste. (cap. XXI, pp. 145-146)
  • La radio disse: – È l'ologramma con l'arcobaleno a conferire a questa carta di credito il suo fascino di marketing. (cap. XXI, p. 148)
  • Alcune persone sedevano come istupidite sull'erba, accudite da un paio di infermieri barbuti. Due di esse erano insanguinate. Altro sangue si vedeva su un finestrino sfondato. Altro ancora sgorgava attraverso la neve appena caduta. Gocce di sangue macchiavano una borsetta color beige. Lo spettacolo di feriti, infermieri, acciaio fumante, tutto immerso in una luce violenta e arcana, aveva l'eloquenza di una composizione formale. Lo superammo in silenzio, con una sensazione di reverenza curiosa, persino sollevati dalla vista delle auto accatastate e della gente caduta. (cap. XXI, p. 149) [passando lungo il luogo di un incidente stradale]
  • Non l'avevo mai sentito occuparsi di qualcosa con godimento tanto caloroso. Era praticamente euforico. Evidentemente sapeva che potevamo morire tutti. Che fosse una specie di esaltazione da fine del mondo? Che cercasse una distrazione dalle proprie minuscole miserie in un evento violento e travolgente? La sua voce tradiva una voglia matta di un po' di orrori. (Jack parlando di Heinrich; cap. XXI, pp. 149-150)
  • – Gli viene il cancro? No, – ribatté Denise. – Il che deve significare che i ratti sono più simili all'uomo che gli scarafaggi, anche se sono nocivi tutti e due, dal momento che a loro può venire il cancro, mentre agli scarafaggi no.
    – In altre parole, – disse Heinrich, – quella lì dice che due animali che siano mammiferi hanno più cose in comune di altri due che siano soltanto nocivi.
    – Vorreste farmi credere, – concluse Babette, – che i ratti non soltanto sono nocivi e roditori, ma anche mammiferi? (cap. XXI, p. 151)
  • Steffie immaginava veramente di avere già visto l'incidente stradale oppure immaginava soltanto di esserselo immaginato? È possibile avere la falsa percezione di un'illusione? Esistono un déjà vu vero e uno falso? Mi chiesi se avesse veramente avuto i palmi sudati oppure si fosse soltanto immaginata un senso di umidità. Ed era talmente suscettibile alla suggestione da manifestare tutti i sintomi che venivano annunciati?
    Mi sentii triste per il genere umano e per la strana parte che giochiamo nei nostri stessi disastri.
    Ma se invece non aveva sentito la radio e non sapeva che cosa fosse il déjà vu? E se le fossero venuti i sintomi veri per mezzi naturali? (cap. XXI, p. 152-153)
  • Era possibile che una ragazzina di nove anni avesse un aborto per forza di suggestione? O avrebbe dovuto prima essere incinta? Era possibile che la forza di suggestione fosse tale da agire a ritroso, dall'aborto alla gravidanza alla mestruazione all'ovulazione? Che cosa viene prima, la mestruazione o l'ovulazione? Stiamo parlando di semplici sintomi o di condizioni profondamente radicate? I sintomi sono segni o cose? Che cos'è una cosa e come facciamo a sapere che non è un'altra? (cap. XXI, p. 153)
  • Il Nyodene D. è un sacco di cose messe assieme, che sarebbero poi i sottoprodotti della fabbricazione di un insetticida. Il prodotto principale ammazza gli scarafaggi, i sottoprodotti ammazzano tutto il resto. È una battuta del nostro insegnante. [...] In forma di polvere è privo di colore e di odore, nonché molto pericoloso, anche se pare che nessuno sappia esattamente che cosa provochi nell'uomo e nella sua prole. Sono anni che fanno prove, ma, o non lo sanno con certezza, oppure lo sanno e non lo dicono. Certe cose sono troppo sgradevoli per essere rese pubbliche. [...] Una volta che sia penetrato nel suolo, il suo effetto dura quarant'anni. Molto più di quanto viva un sacco di gente. Dopo cinque anni si notano diversi tipi di funghi comparire tra i doppi vetri, come pure sugli abiti e negli alimenti. Dopo dieci anni le zanzariere cominciano ad arrugginire, a riempirsi di buchi e a marcire. I rivestimenti si deformano. Vi saranno rotture di vetri e traumi negli animali domestici. Dopo vent'anni ci si deve probabilmente rintanare in solaio e aspettare di vedere che cosa succede. (cap. XXI, p. 159)
  • – Ti ricordi se le hai spiegato che cosa significa déjà vu? Tolse un po' di yogurt dal cartone con il cucchiaio, parve avere un'esitazione, immersa nei suoi pensieri.
    – È già successo, – disse finalmente.
    – Che cosa?
    – Che mangiavo lo yogurt, seduta qui, parlando di déjà vu.
    – Non voglio neanche sentirtelo dire.
    – Lo yogurt l'avevo sul cucchiaio. Ho visto tutto in un lampo. Tutta questa esperienza. Naturale, latte intero, magro.
    Lo yogurt era ancora sul cucchiaio. La guardai metterselo in bocca, pensosa, cercando di confrontare l'azione con l'illusione di un originale identico. (cap. XXI, p. 162)
  • Non crede che valga la pena di essere divertente e pieno di fascino davanti alla sua famiglia. I figli sono fatti così. Per loro noi siamo lo stimolo sbagliato. (Jack parlando di Heinrich; cap. XXI, p. 162)
  • – Ma lei prima ha detto che siamo in presenza di una situazione problematica.
    – Non l'ho detto io. E stato il computer. Lo dice tutto il sistema. È quello che definiamo un massiccio riscontro di dati base. Gladney, J.A.K. Io inserisco nome, sostanza, tempo di esposizione e poi digito il suo curriculum computerizzato. I suoi dati genetici, quelli personali, quelli sanitari, quelli psicologici, eventuali schedature di polizia e ospedale. E mi tornano indietro degli asterischi intermittenti. Non vuol dire esattamente che stia per succedere qualcosa a lei, almeno non oggi o domani. Vuol solamente dire che lei è la somma totale dei suoi dati. Non si sfugge.
    [...]
    Rimasi assolutamente immobile. Se avessero pensato che fossi già morto, avrebbero potuto valutare l'opportunità di lasciarmi in pace. Credo di essermi sentito come se un medico avesse sollevato davanti alla luce una mia radiografia in cui comparisse un buco a forma di stella al centro degli organi vitali. Vi è penetrata la morte. L'hai dentro. Si dice che stai morendo eppure sei distaccato dal fatto di morire, puoi meditarci a tuo piacimento, letteralmente vederne l'orribile logica aliena nella radiografia o sullo schermo del computer. E quando la propria morte è resa graficamente, viene, per così dire, trasmessa in televisione, che si avverte un'inquietante separazione tra il proprio stato di salute e se stessi. È stata introdotta una rete di simboli, un'intera tecnologia, spaventosa, trappata agli dei. Ti fa sentire un estraneo nella tua stessa morte. (Jack e l'addetto all'esposizione velenosa; cap. XXI, p. 171-172)
  • – Alcuni scienziati del famoso Istituto per gli Studi Avanzati presso l'Università di Princeton hanno sbalordito il mondo presentando inoppugnabili prove dell'esistenza di una vita dopo la morte. Un ricercatore del suddetto Istituto – ente di importanza mondiale – si è servito dell'ipnosi per indurre centinaia di persone a ricordare le precedenti vite da loro vissute in veste di costruttori di piramidi, di studenti in viaggio di scambio culturale e di extraterrestri. (Babette; cap. XXI, p. 172)
  • – È come se ci avessero ricacciato indietro nel tempo, – disse. – Siamo nell'Età della pietra: conosciamo tutte le cose che sono state prodotte da secoli di progresso, ma che cosa sappiamo fare per rendere più agevole la vita di questa Età? Sappiamo forse fare un frigorifero? Sappiamo anche solo spiegare come funziona? Che cos'è l'elettricità? Che cos'è la luce? Sono cose che sperimentiamo ogni giorno della nostra vita, ma a che cosa serve tutto ciò se ci troviamo ricacciati indietro nel tempo e non siamo nemmeno in grado di spiegare alla gente i principi di base, per non parlare di fare effettivamente qualcosa che possa migliorare la situazione. Indicami una sola cosa che saresti capace di fare. Saresti capace di costruire un semplice fiammifero di legno, che produca fiamma strofinandolo su una roccia? Noi siamo convinti di essere tanto grandi e moderni. Atterraggi sulla luna, cuori artificiali. Ma se fossimo coinvolti in un ribaltamento temporale e ci trovassimo a faccia a faccia con gli antichi greci? Sono stati loro a inventare la trigonometria. Facevano già autopsie e dissezioni. Tu che cosa potresti dire a uno di loro, senza che lui rispondesse: «Bella roba». Potresti parlargli dell'atomo? È una parola greca. I greci sapevano già che gli eventi fondamentali del mondo non possono essere visti dall'occhio umano. Sono onde, raggi, particelle. (Heinrich; cap. XXI, p. 178-179)
  • – Abbiamo il calore, abbiamo la luce.
    – Cose da Età della pietra. Ce le avevano anche loro. E anche il fuoco. Strofinavano insieme due pietre focaie e producevano delle scintille. Tu saresti capace? Riconosceresti una pietra focaia, se la vedessi? Se un uomo dell'Età della pietra ti chiedesse che cos'è un nucleotide, sapresti dirglielo? Come facciamo a fare la carta carbone? Che cos'è il vetro? Se domani ti svegliassi nel medioevo e stesse infuriando un'epidemia, che cosa potresti fare per fermarla, con le nozioni che hai sul progresso di medicine e malattie? Siamo praticamente nel ventunesimo secolo e hai letto centinaia di libri e riviste, nonché visto centinaia di programmi T.V. di scienza e medicina. (Jack e Heinrich; cap. XXI, p. 179-180)
  • – Che cos'è una radio? Quale ne sarebbe il principio? Forza, spiega. Sei lì seduto in mezzo a questa cerchia di persone. Usano utensili fatti con i sassi. Mangiano larve. Spiegagli la radio.
    – Non c'è nessun mistero. Potenti apparecchi di trasmissione inviano segnali, i quali viaggiano nell'aria per essere colti da ricevitori.
    – Viaggiano nell'aria. Che cosa, come uccelli? Perché non li chiami magici? Viaggiano per l'aria in onde magiche. Che cos'è un nucleotide? Non lo sai, vero? Eppure sono le fondamenta della vita. A che cosa serve il sapere, se aleggia nell'aria? Va da computer a computer. Cambia e cresce a ogni secondo di ogni giorno. Ma in realtà nessuno sa niente. (Heinrich e Jack; cap. XXI, p. 180)
  • Una radio disse: – Il futuro incerto induce a minore pazienza, provocando sul mercato una tendenza al ribasso. (cap. XXI, p. 181)
  • – Quell'alito di Nyodene D. mi ha seminato la morte in corpo. Ormai, stando al computer, è ufficiale. Ho la morte dentro. È solo questione se riuscirò o meno a sopravvivere. Gli effetti hanno una loro durata. Trent'anni. Anche se non sarà direttamente il Nyodene D. ad ammazzarmi, probabilmente mi sopravviverà dentro il mio corpo. Potrei morire in un incidente aereo e lui continuerebbe a prosperare nei miei resti inviati al riposo eterno.
    – È la natura della morte moderna, – considerò Murray. – Ha una vita indipendente da noi. Sta crescendo in prestigio e dimensione. Dispone di uno slancio mai conosciuto prima. Noi la studiamo obiettivamente. Possiamo predirne l'aspetto, seguirne il corso nel corpo. Possiamo ritrarla in sezione, registrarne su nastro tremori e onde. Non le siamo mai stati tanto vicini, mai abbiamo avuto tanta famigliarità con le sue abitudini e i suoi atteggiamenti. La conosciamo nell'intimo. Ma lei continua a crescere, ad aumentare in dimensione e portata, ad acquisire nuovi sbocchi, nuovi passaggi e mezzi. Più ne apprendiamo, più cresce. Che sia una legge della fisica? Ogni progresso in conoscenza e tecnica viene pareggiato da un nuovo tipo di morte, da una nuova specie. La morte si adatta, come un agente virale. Forse è una legge di natura. O forse una mia superstizione personale. Sento che i morti ci sono più vicini che mai. Avverto che abitiamo la loro stessa atmosfera. Ricorda Lao Tse: «Non vi è differenza tra i vivi e i morti. Sono un unico canale di vitalità». L'ha detto seicento anni prima di Cristo. Ed è ancora una volta vero, forse più che mai. (Jack e Murray; cap. XXI, p. 182)
  • Il presentatore di uno spettacolo radiofonico con ospiti disse: – Sei in onda. (cap. XXI, p. 183)
  • – C'è una teoria, sul déjà vu.
    – Non voglio saperla.
    – Perché pensiamo che queste cose siano già successe? Semplice. Perché sono effettivamente successe, nella nostra mente, come visioni del futuro. Essendo precognizioni, è materia che non possiamo adattare al sistema della nostra coscienza così com'esso è attualmente strutturato. Si tratta di roba fondamentalmente soprannaturale. Vediamo nel futuro, ma è un'esperienza che non abbiamo ancora imparato ad analizzare. Quindi l'evento se ne sta rimpiattato finché la precognizione non si avvera, finché non ci troviamo a faccia a faccia con esso. In quel momento siamo liberi di ricordarlo, di avvertirlo come famigliare.
    – Perché c'è così tanta gente che soffre episodi del genere proprio adesso?
    – Perché la morte è nell'aria, – rispose in tono soave. – Significa liberare materiale rimosso. Significa arrivare più vicini a qualcosa di noi stessi che non abbiamo appreso. La maggior parte di noi ha probabilmente visto la propria morte, ma non sapeva come far affiorare questa visione. Forse, quando moriremo, la prima cosa che diremo sarà: «Questa sensazione la conosco. Qui ci sono già stato». (Murray e Jack; cap. XXI, pp. 183-184)
  • La pronuncia di quelle parole era stata bella e misteriosa, indorata da un miracolo incombente. Era come il nome di un antica potenza celeste, incisa in segni cuneiformi su una tavoletta. Mi fece sentire che lassù c'era qualcosa. Ma com'era possibile? Una semplice marca, una comune auto? Com'era possibile che quelle parole quasi prive di senso, mormorate nel sonno inquieto di una bambina, mi avessero fatto avvertire un significato, una presenza? Stava solamente ripetendo delle voci televisive. Toyota Corolla, Toyota Celica, Toyota Cressida. Nomi sovrannazionali, generati dal computer, più o meno universalmente pronunciabili. Parte del rumore cerebrale di ogni bambino, di regioni subliminali troppo remote per essere indagate. Qualunque ne fosse la fonte, la loro pronuncia mi aveva colpito con l'impatto di un istante di splendida trascendenza. (cap. XXI, p. 188)
  • Attraverso la maschera Heinrich chiese: – Vi siete mai veramente guardati l'occhio?
    – In che senso? – ribatté Denise, mostrando un interesse immediato, come se stessimo pigramente godendoci una giornata d'estate sulla veranda.
    – L'occhio. Sai quali sono le diverse parti?
    – Vuoi dire l'iride, la pupilla?
    – Quelle sono le parti conosciute da tutti. Ma il corpo vitreo? E la lente? È la lente che frega. Quanta gente non sa nemmeno di averla? Pensano che «lente» voglia dire «macchina fotografica».
    – E l'orecchio, allora? – chiese Denise con voce smorzata.
    – Se l'occhio è un mistero, non parliamo dell'orecchio. Prova a dire «coclea» a qualcuno: ti guarderà con l'aria di dire «Ma questo qui chi è?» C'è un intero mondo all'interno del nostro corpo.
    – Nessuno se ne interessa nemmeno, – convenne la ragazzina.
    – Come fa la gente a vivere tutta la vita senza sapere come si chiamano le varie parti del proprio corpo? (cap. XXI, pp. 192)
  • Krylon, Rust-Olium, Red Devil. (cap. XXI, pp. 193)
Parte terza – Dylarama
  • Il supermercato è pieno di persone anziane che si aggirano disorientate tra siepi dai colori abbaglianti. Alcuni sono troppo bassi per arrivare ai ripiani più elevati; altri bloccano le corsie con i carrelli; altri sono goffi e hanno i riflessi lenti; altri si aggirano borbottando, con l'aria diffidente della gente che si incontra nei corridoi degli ospizi. (cap. XXII, pp. 203)
  • Dristan Ultra. Dristan Ultra. (cap. XXII, p. 201)
  • [Al supermercato] – Carne non confezionata, pane fresco, – continuò. – Frutti esotici, formaggi rari. Prodotti di venti paesi. È come essere a un crocevia di un mondo antico, un bazar persiano o una prospera città sul Tigri. (Murray; cap. XXII, p. 203)
  • Dopo l'evento tossico aereo, i tramonti erano diventati quasi intollerabilmente belli. Non che vi fosse una connessione misurabile. Che fossero state le caratteristiche specifiche del Nyodene D. (aggiunte all'afflusso quotidiano di effluenti, inquinanti, contaminanti e deliranti) a causare questo salto estetico da tramonti già bellissimi agli attuali paesaggi celesti, vasti, torreggianti, rosseggianti, visionari, pervasi di timore, nessuno era stato in grado di provarlo. (cap. XXII, p. 205)
  • – Com'è andata la lezione? – chiese Denise.
    – Sta andando talmente bene che vogliono farmi tenere un altro corso.
    – Di che cosa? – Jack non ci crederà.
    – Di che cosa? – chiesi a mia volta.
    – Mangiare e bere. Si chiama «Mangiare e bere: parametri di base». Il che, ammetto, è un po' più stupido di quanto la cosa debba essere in senso assoluto.
    – Che cosa potresti insegnare? – chiese Denise.
    – È questo il bello. È un argomento praticamente inesauribile. Mangiare leggero quando fa caldo. Bere moltissimi liquidi.
    – Ma lo sanno tutti.
    – Le nozioni cambiano giorno per giorno. Alla gente piace che le cose in cui crede vengano confermate. Non stendersi dopo un pasto pesante. Non bere liquori a stomaco vuoto. Se si deve nuotare, aspettare almeno un'ora dopo aver mangiato. Il mondo è più complicato per gli adulti di quanto lo sia per i bambini. Noi non siamo cresciuti in mezzo a tutto questo cambiare di fatti e modi di pensare: un giorno è comparso e via. Quindi la gente ha bisogno che una persona autorevole la rassicuri, le dica se ciò che sta facendo lo fa in maniera giusta o sbagliata, almeno in quel dato momento. E io sono l'unica persona disponibile che abbiano trovato. Tutto qui. (cap. XXII, p. 206)
  • I dati terrificanti ormai sono un'industria. Diverse ditte si trovano in competizione per vedere fino a che punto possono arrivare a farci paura. (cap. XXIII, p. 211)
  • Nella testa prese a scorrermi il motivetto pubblicitario dei Ray-Ban Wayfarer. (cap. XXVIII, p. 254)
  • Alla T.V. davano il Quiz Nazionale del Cancro. (cap. XXVIII, p. 256)
  • Il volto degli emigrati newyorkesi era velato da un pallore particolare. [...] Il pallore dell'ossessione, dei poderosi appetiti ristretti in piccoli spazi. Murray disse che Elliot Lasher aveva una faccia da film noir. Aveva i lineamenti nettamente definiti, i capelli profumati con un'essenza. Mi venne il curioso pensiero che avessero nostalgia del bianco e nero, che le loro aspirazioni fossero dominate da valori acromatici, estremi personali di un grigiore urbano postbellico. (cap. XXVIII, pp. 256-257)
  • – Chi ha esercitato l'influenza più profonda sulla tua vita? – chiese in tono ostile.
    Richard Widmark in Il bacio della morte. Quando ha spinto quella vecchia in quella carrozzella giù per quella rampa di scale, per me è stato come una conquista personale. Ha risolto una serie di conflitti. Ho copiato la sua risata sadica, adottandola per dieci anni. Mi ha fatto superare alcuni periodi difficili. Richard Widmark nella parte di Tommy Udo, ne Il bacio della morte di Henry Hathaway. Ricordi quella risata raccapricciante? Con un ghigno da iena. Un risolino demoniaco. Che ha chiarito una serie di cose nella mia vita. Mi ha aiutato a diventare un individuo. (cap. XXVIII, p. 257)
  • – Chiudi mai gli occhi, – chiese ancora Lasher, – guidando in autostrada?
    – Sulla 95 Nord li ho tenuti chiusi per otto secondi pieni. Il mio record. Sono arrivato a tenerli chiusi per sei secondi su strade tortuose di campagna, ma andavo al massimo a quaranta cinquanta. Sulle autostrade a più corsie di solito prima di chiuderli mi porto a cento. Lo si fa nei rettilinei. In simili condizioni sono arrivato a tenerli chiusi cinque secondi con altre persone in macchina. Per farlo, però, bisogna aspettare che siano mezzo addormentate. (cap. XXVIII, p. 258)
  • Ogni volta che sono giù di corda per qualcosa, penso a tutti i miei amici, parenti e colleghi raccolti attorno alla mia bara. Gli dispiace molto, ma molto di non essere stati più gentili con me da vivo. L'autocompatimento è una cosa che ho faticato molto per mantenere. Abbandonarlo soltanto perché si è cresciuti? Neanche per idea. L'autocompatimento è una cosa in cui i bambini eccellono, il che significa che dev'essere naturale e importante. Immaginarsi morti è la forma più economica, squallida e soddisfacente di autocompatimento infantile. Come sono tristi, pieni di rimorso e di sensi di colpa, tutti quelli lì, in piedi accanto alla grande bara di bronzo. Non riescono nemmeno a guardarsi negli occhi perché sanno che la morte di quest'uomo rispettabile e pio è il risultato di una congiura a cui hanno partecipato tutti. La bara è sepolta sotto i fiori e circondata da un nastro color salmone o pesca. In che meravigliosi risucchi di autocompatimento e autoconsiderazione si è capaci di sguazzare, vedendosi lì stesi in abito scuro e cravatta, con un aspetto abbronzato, ben messo e riposato, come si dice dei presidenti dopo le vacanze. Ma c'è dentro qualcosa di ancor più infantile e gratificante dell'autocompatimento, qualcosa che spiega perché cerco con regolarità di vedermi morto, omone circondato da lamentatori che tirano su con il naso. È il mio modo di punire gli altri per il fatto di pensare che la loro vita sia più importante della mia. (cap. XXVIII, pp. 258-259)
  • Rivolto a Murray, Lasher disse: – Dovremmo avere un Giorno dei Morti ufficiale. Come i messicani.
    – Ce l'abbiamo. Si chiama Settimana del Super Bowl. (cap. XXVIII, p. 259)
  • – Come va il tuo seminario sugli incidenti d'auto?
    – Ne abbiamo guardato centinaia di sequenze. Auto con auto. Auto con camion. Camion con autobus. Moto con auto. Auto con elicotteri. Camion con camion. Secondo i miei studenti si tratta di film profetici. Indizi del desiderio suicida della tecnologia. Della spinta al suicidio, della corsa a precipizio verso il suicidio.
    – E tu che cosa gli dici?
    – Si tratta per lo più di film di serie B, televisivi, da drive in di campagna. Ai miei studenti dico di non andarci a cercare l'apocalisse. Questi incidenti d'auto io li vedo come parte di una lunga tradizione di ottimismo americano. Sono eventi positivi, pieni del vecchio spirito pragmatico. Ognuno di essi è inteso a essere migliore del precedente. Vi è un continuo miglioramento di mezzi e capacità, si affrontano sempre nuove sfide. [...] Io dico loro che non è decomposizione quella a cui stanno assistendo, ma innocenza. Il film si stacca dalle passioni umane complesse per mostrarci qualcosa di elementare, qualcosa di fiero, stentoreo, pieno di orgoglio. È un appagamento conservatore, un'aspirazione all'innocenza. Vogliamo tornare a essere semplici. Vogliamo ribaltare il flusso dell'esperienza, della mondanità, con tutte le sue responsabilità. [...] Gli dico che non possono pensare a un incidente d'auto cinematografico in termini di atto di violenza. È una celebrazione. Una riaffermazione di valori e credenze tradizionali. Io li collego con festività come il Giorno del Ringraziamento e il Quattro di Luglio. Non ci piangiamo i morti, né ci rallegriamo di miracoli. Si tratta di occasioni dedicate all'ottimismo secolare, all'autocelebrazione. Miglioreremo, prospereremo, ci perfezioneremo. Guarda un qualsiasi incidente d'auto di un film americano. È un momento di alta gaiezza, come il volo dei vecchi piloti acrobatici, il moto alato. Coloro che li mettono in scena sono capaci di cogliere un'allegria, un godimento spensierato che gli incidenti dei film stranieri non sapranno mai raggiungere.
    – Guardano al di là della violenza.
    – Esattamente. Guardano al di là della violenza, Jack. C'è dentro un meraviglioso, traboccante spirito di innocenza e divertimento. (cap. XXVIII, pp. 260-262)
  • – Non posso insegnare Hitler, senza.
    – Perché?
    – Ne ho bisogno e basta.
    – Sono stupidi e inutili.
    – Mi ci sono fatta una carriera, – ribattei. (cap. XXIX, p. 264)
  • Al buio la mente continua a funzionare come una macchina divoratrice, l'unica cosa sveglia dell'universo. Cercavo di distinguere le pareti, il cassettone nell'angolo. La vecchia sensazione di essere indifeso. Piccolo, debole, mortale, solo. Panico, divinità dei boschi e dei luoghi selvaggi, mezzo caprone. Girai la testa sulla destra, essendomi venuta in mente la radiosveglia. Guardai i numeri cambiare, la progressione dei minuti digitali, da dispari a pari. Baluginavano verdi nel buio. (cap. XXX, p. 267)
  • La voce di sopra affermò: – Secondo un istituto di ricerca californiano, la prossima guerra mondiale potrebbe essere combattuta per il sale. (cap. XXX, p. 269)
  • – Penso che quello che dovresti fare, Jack, sia dimenticare la medicina contenuta in quella pastiglia. Non c'è cura per questo male.
    Aveva ragione. Avevano ragione tutti. Continuare la mia vita, tirare su i miei figli, insegnare ai miei studenti. Cercare di non pensare a quella figura elettrostatica, al Grayview Motel, che mette le sue incompiute mani su mia moglie.
    – Continuo a essere triste, Winnie, ma tu hai dato alla mia tristezza una ricchezza e profondità mai conosciute prima.
    Si girò da un'altra parte, arrossendo.
    – Tu sei più di un'amica delle ore liete, – continuai. – Sei una vera nemica.
    Divenne incredibilmente rossa.
    – Le persone in gamba non pensano mai alle vite che schiantano, proprio per il fatto di essere in gamba, – continuai. (cap. XXX, p. 274)
  • Vi siete ricordati: 1) di preparare l'assegno per la Waveform Dynamics? 2) di metterci il numero di conto? 3) di firmarlo? 4) di mandare l'intera cifra, visto che non accettiamo pagamenti a rate? 5) di includere nella lettera il documento originale di pagamento, visto che non accettiamo fotocopie? 6) di inserire il documento nella lettera in maniera tale che l'indirizzo compaia nell'apposita finestrella? 7) di staccare lungo la linea tratteggiata la parte verde del detto documento, da conservare per il vostro archivio? 8) di indicare il vostro indirizzo esatto, completo di codice postale? 9) di informarci almeno tre settimane prima di un eventuale trasloco? 10) di chiudere la busta? 11) di metterci il francobollo, visto che le poste altrimenti non la consegnano? 12) di imbucare la busta almeno tre giorni prima della data indicata nella casella azzurra?
    Salute via cavo, tempo via cavo, notizie via cavo, natura via cavo.
    (cap. XXXI, p. 275)
  • Si diventa vecchi e si scopre di essere pronti per qualcosa, ma non si sa che cosa. Ci si continua a preparare. Ci si pettina, si sta alla finestra a guardare fuori. A me sembra di avere sempre un piccolo rompipalle che mi gira intorno. (Vernon; cap. XXXIII, p. 297)
  • Per sfuggire alle cose di tutti i giorni, che possono essere mortali, Vern, se portate all'estremo. Secondo un mio amico, è per quello che la gente va in ferie. Non per riposare o divertirsi o vedere posti nuovi. Per sfuggire alla morte insita nelle cose di tutti i giorni. (Vernon; cap. XXXIII, p. 297)
  • – In senso assolutamente reale non importa che cosa ci sia in quelle pastiglie. Potrebbe essere zucchero, spezie. Io ho una voglia tremenda di essere imbrogliato, preso in giro.
    – Non ti sembra un po' una scemenza?
    – Così succede alla gente disperata, Denise. (cap. XXXIII, p. 301)
  • Vernon stava seduto al tavolo, completamente vestito, a fumare e tossire. La cenere della sigaretta era lunga più di due centimetri e stava cominciando a piegarsi. Era una sua abitudine lasciarla penzolare. Secondo Babette lo faceva per provocare negli altri dei sentimenti di suspense e ansia. Rientrava nel clima di inquietudine in cui viveva lui. (cap. XXXIII, p. 302)
  • – Non preoccupatevi per me, – disse. – Quel poco che zoppico non significa niente. Capita, alla gente della mia età. È normale. E anche la tosse: non è niente. Fa bene, tossire. Si smuove la roba che si ha dentro. Non può fare del male, se non si blocca in un posto, restando lì per anni. Quindi la tosse va benissimo. E idem l'insonnia. Va benissimo. Che cosa ci guadagno, a dormire? Si arriva a un età in cui ogni minuto di sonno è un minuto in meno per fare qualcosa di utile. Come tossire o zoppicare. E non parliamo delle donne. Vanno alla meraviglia. Si affitta una videocassetta e si fa un po' di sesso. È una cosa che pompa il sangue nel cuore. E anche le sigarette. Mi piace dire a me stesso che la passerò liscia. Lascia che siano i mormoni a smettere di fumare. Tanto crepano lo stesso. I soldi non sono un problema. Le mie entrate sono a posto. Niente pensione, niente risparmi, niente azioni e titoli. Quindi non c'è da preoccuparsi. Va tutto liscio. E non parliamo dei denti. Sono perfetti. Più ballano, più si può farli ballare con la lingua. Così ha qualcosa da fare anche lei. E non preoccupatevi del tremito. Prima o poi capita a tutti. E comunque è solo la sinistra. Per divertirsi, basta pensare che sia la mano di un altro. E l'improvviso e inaspettato calo di peso? Niente. Non ha senso mangiare quello che non si vede. E non preoccupatevi degli occhi. Possono sempre peggiorare. Quanto alla testa, poi, non pensiamoci neanche. Se ne va prima del corpo. Così dev'essere. Quindi non preoccupatevi della testa. Va benissimo. Pensiamo piuttosto alla macchina. Lo sterzo tira tutto da una parte. I freni sono stati rifatti tre volte. Sul terreno sconnesso il cofano salta su. (cap. XXXIII, pp. 305-306)
  • Mi faceva pensare alla Legge delle Rovine.
    Spiegai a Murray che Alfred Speer avrebbe voluto costruire delle strutture che si disfacessero in maniera gloriosa, solenne, come rovine romane. Niente ammassi rugginosi né rozzi casermoni di acciaio. Sapeva che Hitler sarebbe stato favorevole a tutto ciò che potesse lasciare senza parola i posteri. Quindi aveva fatto il disegno di una struttura del Reich da costruire con materiali speciali, che le consentissero di sgretolarsi in maniera romantica, un progetto a base di mura cadute, mezze colonne avvolte nel glicine. La rovina è già inclusa nella creazione, spiegai, che dimostrava l'esistenza di una certa nostalgia dietro il principio del potere, oppure di una tendenza a programmare in anticipo la malinconia delle generazioni future.
    Lui replicò: – Io non credo nella nostalgia di nessuno all'infuori della mia. La nostalgia è prodotto di insoddisfazione e rabbia. È un regolamento di conti tra il presente e il passato. Più forte è, più vicini si arriva alla violenza. La guerra è la forma assunta dalla nostalgia quando gli uomini sono forzati a dire qualcosa di bene del proprio paese. (cap. XXXIV, p. 308)
  • Aprii il frigorifero e scrutai nel freezer. Dagli involti in plastica degli alimenti, dalle pellicole avvolte intorno alle cose mezze mangiate, dai sacchetti ermetici di fegato e cotolette, tutti luccicanti di cristalli nevosi, veniva uno strano rumore crocchiante. Uno sfrigolio secco e freddo. Un rumore come di qualcosa che andasse in frantumi, trasformandosi in vapori di freon. Elettrostatica inquietante, insistente eppure quasi subliminale, che mi faceva pensare ad anime ibernate, a una forma di vita in letargo ma prossima a raggiungere la soglia della percezione. (cap. XXXIV, p. 308)

Underworld

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Parla la tua lingua, l'americano, e c'è una luce nel suo sguardo che è una mezza speranza. È un giorno di scuola, naturalmente, ma lui non c'è proprio, in classe. Preferisce star qui, invece, all'ombra di questa specie di vecchia carcassa arrugginita, e non si può dargli torto – questa metropoli di acciaio, cemento e vernice scrostata, di erba tosata ed enormi pacchetti di Chesterfield di sghimbescio sui tabelloni segnapunti, con un paio di sigarette che sbucano da ciascuno. Sono i desideri su vasta scala a fare la storia. Lui è solo un ragazzo con una passione precisa, ma fa parte di una folla che si sta radunando, anonime migliaia scese da autobus e treni, gente che in strette colonne attraversa marciando il ponte girevole sul fiume, e sebbene non siano una migrazione o una rivoluzione, un vasto scossone dell'anima, si portano dietro il calore pulsante della grande città e i loro piccoli sogni e delusioni, quell'invisibile nonsoché che incombe sul giorno – uomini in cappello di feltro e marinai in franchigia, il ruzzolio distratto dei loro pensieri, mentre vanno alla partita.

Citazioni

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  • E mi piaceva che la storia qui non circolasse a piede libero. Qui la segregavano, la storia visibile. La ingabbiavano, la fondevano e la brunivano, la conservavano in musei e piazze e in parchi commemorativi. Il resto era geografia, tutto spazio, luci e ombre, e un indicibile calore incombente. (p. 118)

incipit di alcune opere

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L'angelo Esmeralda

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Creazione

Era un'ora di macchina, la strada perlopiù in salita, sotto una pioggia caliginosa. Tenevo il finestrino abbassato di pochi centimetri nella speranza di catturare un profumo, la fragranza di un qualche arbusto aromatico. Il nostro autista rallentava nei tratti più malagevoli, nelle curve più strette o quando incrociavamo altre auto nella foschia. A intervalli la vegetazione a bordo strada si diradava e comparivano alla vista squarci, intere vallate di vera e propria giungla che si stendeva tra le colline.

La stella di Ratner

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Il piccolo Billy Twillig salì a bordo di un Sony 747 diretto verso una terra lontana. Questo si sa per certo. che salì sull'aereo. L'aereo era un Sony 747, come indicato sull'aereo stesso, ed era previsto che arrivasse in un luogo prestabilito un certo numero di ore dopo il decollo. Questa parte è comprovata, solida come roccia (khalix, calculus), vera come il numero uno. Davanti c'era però l'orizzonte sonnolento, pulsante fra polvere e fumi, una finzione i cui limiti erano determinati dalla prospettiva individuale, un po' come quelle quantità immaginarie (la radice quadrata di meno uno, per esempio), che conducono a dimensioni nuove.

Citazioni su Don DeLillo

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  • Credo proprio che i lettori italiani, intenti come sono a contemplare le eleganti volute di fumo che Kundera riesce a sprigionare dalle ceneri del romanzo mitteleuropeo o, peggio ancora, a farsi deliziare dai suoi aforismi da Scettico Blu, non troveranno né tempo né cuore per rendere giustizia a un exploit come quello di Don DeLillo, che nelle cinquecento pagine di Libra rivive e ci fa rivivere una delle grandi tragedie storiche del secolo, l'assassinio del presidente Kennedy. Peggio per loro. A parte la grandiosa accuratezza della ricostruzione e l'interesse della tesi politica (DeLillo è convinto che nel progetto originario della CIA, modificatosi poi strada facendo su "ispirazione" della United Fruit e di altri potentati economici, Kennedy dovesse uscire illeso dall'attentato, la cui paternità sarebbe stata attribuita a Fidel Castro per rilanciare in grande stile l'offensiva contro Cuba), il libro riflette come pochissimi altri in questi anni l'idea, per me fondamentale, che compito supremo di un romanzo non sia tanto formare con la scrittura una metafora della realtà, quanto riuscire a fare della realtà una nuova metafora romanzesca. (Giovanni Raboni)

Bibliografia

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  • Don DeLillo, Americana, traduzione di Marco Pensante, Il saggiatore.
  • Don DeLillo, Body Art, traduzione di Marisa Caramella, Einaudi, Torino.
  • Don DeLillo, Cosmopolis, traduzione di Silvia Pareschi, Einaudi, Torino.
  • Don DeLillo, I nomi, traduzione di Amalia Pistilli, Tullio Pironti Editore.
  • Don DeLillo, L'angelo Esmeralda, traduzione di Federica Aceto, Einaudi, Torino, 2013. ISBN 978-88-06-21185-1
  • Don DeLillo, L'uomo che cade, traduzione di Matteo Colombo, Einaudi, Torino, 2009. ISBN 978-88-06-19959-3
  • Don DeLillo, La stella di Ratner, traduzione di Matteo Colombo, Einaudi, Torino, 2011. ISBN 978-88-06-18985-3
  • Don DeLillo, Rumore bianco (White Noise, 1985), traduzione di Mario Biondi, Einaudi, Torino, 1999. ISBN 88-06-17391-X
  • Don DeLillo, Underworld, traduzione di Delfina Vezzoli, Einaudi, Torino, 1999

Filmografia

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Altri progetti

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  1. Da I nomi; citato in ilpost.it, 26 aprile 2018.