Domenico Rea

scrittore e giornalista italiano (1921-1994)

Domenico Rea (1921 – 1994), scrittore e giornalista italiano.

Citazioni di Domenico Rea

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  • [Su Lo Cunto de li Cunti] [...] c'è sempre un incontro fatale nella vita, un bel giorno ebbi maggiori informazioni di un certo Basile che per la verità avevo già letto nel libro di mia sorella [...] ma nella sua forma di canzoniere. [...] Quando venni in possesso di quell'immenso testo in poche giornate divenni uomo. Basile mi dimostrava che in dialetto, come in lingua, si poteva dire tutto; si poteva giungere fino alle scorregge e alle cacate perché ogni cosa dell'uomo è pulita e va compatita, compresa e apprezzata. È inutile che io riporti una delle gigantesche parti di qualche novella. Si sale alla più inimmaginabile bellezza, degna in pieno dello stile attorcigliato di Shakespeare e si scende alle quadriglie di Rabelais. Sia Boccaccio, sia Folengo, in confronto sono poca cosa. Da allora questo libro non mi ha mai lasciato. Me lo porto in viaggio e ce l'ho sul comodino. Dopo le sbornie della zavorra contemporanea il Basile [...] è sempre in grado di restituirmi la salute morale.[1]
  • [Il Monte Faito] Collocato in posizione primaria e, direi, vistosa nel panorama del Golfo di Napoli, dirimpetto al Vesuvio di cui ne contende l'altezza con una differenza di poche decine di metri, passa inosservato. Sta li, bello, alto, con un che di possente, a pinnacolo, acuto, ultima selvaggia gobba a nord dei Lattari, domina il mare come lo sterminator Vesevo; ma Leopardi non lo inserisce nella sua tragica orografia.[2]
  • [Il panorama dal balcone di una casa di Napoli] Da Punta della Campanella a Capo Miseno[3]era un cerchio perfetto nella metafisica luce della luna. Ogni punto era un riferimento archeo-storico-sociologico, un «a capo del mito»: il Vesuvio, Pompei, la costa di Stabia, il promontorio di Sorrento, Capri e il Salto di Tiberio, lo sperone di Ischia, la prua della virgiliana Posillipo e il vasto mare a cerchi concentrici come l'eco, frastagliato dalle luci delle lampare... Ora mi spiego perché Giacomo Leopardi dettò gli ultimi sei versi del divino (e mai aggettivo fu più effettuale) Tramonto della luna da un giardino del golfo, dopo avere amato e odiato Napoli.[4]
  • Garella è il marziano di Flaiano, sorprendente e sorpreso, che è sceso [...] da pianeti lontani, non ha niente del portiere, neanche le mani che usa pochssimo. È un portiere senza i sette dolori dei portieri. Non fa l'eroe ma non si atteggia neanche a vittima. Para come un maggiordomo, a volte scivolando col vassoio in mano. Ha una faccia serena e ironica. Il gol non lo umilia mai. Perché Garella è al di sopra del gol e delle prodezze che compie. Non è uno di quei portieri mistici che poi si consegnano alla leggenda. È un impiegato di concetto che poi passa a ritirare lo stipendio. Per diventare famoso ha dovuto inventare una serie di errori definiti pittorescamente "garellate". Quando ha conquistato questa subdola popolarità, Garella ha rimesso a posto il meccanismo delle sue parate ed ha vinto anche uno scudetto. [...] non ricorda nessuno dei grandi portieri del passato. Perché Garella è come i portieri del futuro. Para senza sorridere, si fa battere senza piangere. Un robot con l'occhio grande e il piede lungo. Se ha un cuore, se lo toglie e lo sistema in fondo alla rete come facevano i vulnerabili portieri antichi coi loro berrettini.[5]
  • Il napoletano è fuori dalla storia; o meglio vi è stato così addentro e così maltrattato, deriso e beffato che ha finito per uscire dal tempo, creandosi un suo ambiente eterno dominato, è ovvio, da San Gennaro e dalla cabala
    Che cosa poteva fare di diverso con i suoi problemi in sospeso e procrastinati all'infinito?[6]
  • Il rilievo del mendicante, che sarebbe violento in un'altra città, a Napoli, rientra nel quadro generale della grande miseria. Si distinguono solo quei mendicanti coperti di piaghe o di altre brutture fisiche, esposte con arte provetta. Ma se piaghe, infermità e mutilazioni, stracci e insetti muovono a ribrezzo la maggioranza degli uomini, ai napoletani suggeriscono una profonda emozione. Il napoletano vecchio tipo nutriva una cieca sfiducia nel Progresso, ma confidava nella Provvidenza. In cuor suo non approvava che un mendicante, ossia un uomo colpevole di non essersi maturato nel grembo di una regina, doveva essere gettato nel fetore e nella promiscuità di un ospizio, togliendogli, in pratica, la libertà. Era considerato un colmo d'ingiustizia.[7]
  • Il romanzo ha raggiunto tali perfezioni, prima dello sfacelo di Joyce, fino alla rottura che Joyce compie sui personaggi e sulla parola, mettendo a nudo gli organi interni dell'uomo, che adesso si possono fare solo dei flashes sulla vita, riportare delle impressioni, delle testimonianze, come faccio io.[8]
  • In tutta la mia opera narrativa e saggistica ho annesso sempre un'enorme importanza al dopoguerra a Napoli. Truppe d'occupazione furono quelle americane, ma apportatrici di un vastissimo concetto di democrazia nel significato più comune e umano del termine. Il fatto che un capitano alleato potesse amare fino a sposarla una popolana fu una rivelazione (e una rivoluzione) sociale d'inaudita importanza. Una conquista memorabile, che restò nel fondo del cuore dei napoletani. Per questa ragione la società fittizia e illegale che si instaurò a Napoli per due o tre anni lasciò dei beni morali e spirituali che sono ancora motori di progresso più di mille teorie.[9]
  • [...] io ritengo di essere un credente, anche se la mia fede non ha niente a che fare con le religioni del mondo. È una fede che viene fuori ascoltando Bach, Beethoven, Händel.[8]
  • Ma se di Croce restasse un solo pensiero, quello secondo il quale lui prestava fede alla lettera delle cose espresse, alla resa concreta di ogni arte, basterebbe da solo a tener diritta per la vita la spina dorsale di uno scrittore contro ogni confusione di lingua, distrazione dall'uomo e dalla «parola» nel significato «floriano[10]» del termine.[11]
  • [Il Monte Faito] [...] montagna globale dove, per così dire, le nevi si mescolano con le sabbie dorate sottostanti e, viceversa, dove non si può gustare una cosa senza tener presente l'altra, lasciata una manciata di minuti prima [...].[2]
  • Peppino ricordava quei napoletani che camminano e parlano da soli; che cambiano direzione all'improvviso, torturati da una serie di pensieri e di monologhi che tirano da tutte le parti.[12]
  • Portiere è un ruolo tipicamente napoletano. È il povero cristo che si prende tutte le pallonate della vita, che sta come in croce tra due pali per essere solo battuto, è il giocatore più umiliato e offeso, ed è sempre solo nelle sfortune, nelle disgrazie, nelle sconfitte. Piace quando vola, come il napoletano quando canta. Ma quando finisce a terra irrimediabilmente battuto, non fa neanche più simpatia. È un poveraccio che è andato incontro al suo inevitabile destino. Sì, ci sono i kamikaze, i gatti volanti. Ma anche loro hanno un destino segnato. un destino irrimediabile, un destino napoletano: quello di cadere in ginocchio e prendersela col mondo.[5]
  • [...] questa società così presuntuosa da pensare che inventeranno la pasticca contro la morte, che resta un mistero insondato, come la nascita.[8]
  • Scartati i re, i loro delfini, parenti, congiunti e amici, ai napoletani rimase il patrono, proprio nel significato di padre da cui solo sperare non miracoli, ma il pane allo stato brado. Da questo legittimo desiderio a «un culto di sangue di stampo barbarico[13]» ce ne passa. San Gennaro largamente manovrato dai chierici per tener buoni gli sprovveduti si trasformò in un'arma di ricatto nelle mani di questi ultimi nell'immarcescibile speranza di addomesticare chi aveva e poteva.[14]
  • Si resta a Napoli perché i napoletani nella collettivizzazione universale, conservano un loro preciso comportamento; perché non provano il rigetto del loro prossimo. Lo accettano, ne sopportano e comprendono i difetti. È per questo motivo che la notte napoletana è ancora tra le più fulgide notti del mondo. Alle tre del mattino si può invitare un amico a gustare un piatto di spaghetti con pomodori, triglie in cartoccio e babà flambé. In molti luoghi d'Europa si vocifera di libertà sessuale: ma soltanto a Napoli, da illo tempore, una creatura di qualsiasi sesso può coltivare i propri sfizi. Il vizio della libertà sessuale a una certa ora della notte si respira nell'aria. Certo, rimane una città difficile. È per palati dal gusto forte. Possono capitare tante cose, tante avventure, tanti guai, tante invenzioni del vivere e tanti delitti. La ragione è semplice. Non c'è mai stata una borghesia a dettare le leggi dell'ipocrisia. La città è rimasta sostanzialmente plebea, incline al «dialettale», al versante greco, quello liberatorio degli istinti, più che mai socratica e legata al superiore ordine divino (umile, semplice) che a quello storico e politico: potere e violenza. Una città con ancora le carni e le piaghe esposte, dolenti e alla ricerca di una giustizia più vicina al diavolo che a Dio.[15]
  • Tra noi e il mare vi era lo spazio della strada. L'odore salino era dovunque. Inebriava. Sul castello avevano innalzato una bandiera in onore di chi sa chi. All'improvviso un formidabile rombo assordò ogni cosa. Era un piccolo aereo a bassa quota. Lanciava manifestini pubblicitari. Non era stata mai tanto domenica. Arrivavano e partivano macchine, giovanotti e ragazze, gente bene, ilare, donne sigillate da abiti perfetti. Restandone al difuori effettivamente «gli altri» si potevano considerare salvi e felici. Non si vedevano i trucchi, gl'imbrogli, i dolori, le cattiverie. Una domenica di primavera con l'odore salino o con quello di noce moscata che giungeva a ondate dal forno dei dolci del bar.[16]
  • [Chi ha detto la peggiore inesattezza sul tuo conto?] Tutti quelli che mi definiscono scrittore neorealista. Io ho cominciato prima, l'Americano che sta in Spaccanapoli lo pubblicai sul giornale del GUF di Salerno nel 1942! E poi io vengo dalla cultura classica. Ignoro il neorealismo e ignoro tutta la narrativa contemporanea italiana.[8]
  • [...] a Napoli Boccaccio si preparò non solo a diventare uomo, ma intanto divenne sommo scrittore in quanto subì una profonda napoletanizzazione. A Napoli acquistò il vastissimo sentimento tragico della vita, di una vita in movimento, senza scrupoli, consumata dalla e nell'azione, senza mezze misure, intensa nel bene e nel male, nell'amore celeste e nel profano. (pp. 1395-1396)
  • [...] Napoli, una commedia perpetua recitata in pubblico, gridata e urlata [...]. (p. 1400)
  • [Sull''Andreuccio da Perugia] Non c'è una sola volta che io rilegga questa novella senza che ne resti profondamente turbato e vinto, riconoscendomi incapace d'inserirmi nella strada maestra aperta dal Boccaccio nell'interpretare la mia città. Che è per l'appunto un infernale miscuglio di casi umani piccoli e piccolissimi, ma ugualmente fatali e terribili, potenti nella gioia e nella tristezza, che riceve, raccoglie e nasconde gente di ogni risma e razza. L'idea di metropoli Boccaccio l'ha afferrata e rappresentata fino in fondo in uno spaccato miserabile e in rilevo direi quasi abitabile. Chi prova ad affacciarsi su Napoli dall'estremo balcone della Certosa di San Martino e mira quel dedalo di vicoli, popolati da tante strane creature e afferra quel suono affascinante e misterioso come di conchiglia e rimira il porto pieno di navi e alberature, non può non pensare a Giovanni Boccaccio. (pp. 1400-1401)
  • Boccaccio lontano da Napoli vive come un emigrante. Non sa porre radici profonde in nessun altro luogo. Si rassegnerà a rimanere in Certaldo. E il paese che sempre l'attirerà, anche dopo l'amara delusione del 1362, sarà Napoli, ed è a Napoli, come gli emigranti, che penserà sempre di ritornare. A Napoli, non a Firenze, che non gli ricorda le donne ingrate ma appassionate di Napoli, le scampagnate a Baia, i bagni e e le cacce, quel mare, quel cielo, quella città piena di gente, amante di una vita gridata, che tira a campare senza preoccuparsi se domani sarà domenica o lunedì, giacché sarà un bel giorno se la fortuna avrà dato un segno della sua benevolenza.
  • [...] il mare a Napoli è un maestro. Il mare è una lenta fatica.[17]
  • Il polipo, col suo corpo a raggiera, è una specie di sole che si porta in tavola nelle notti estive e, mangiandolo, si compie un rito: si ottiene il permesso di entrare in mare con tutti i crismi.[17]
  • Il pomodoro lampadina, rosso come il fuoco, è oblungo e come una lampadina è trasparente. Se lo si mette contro il sole all'interno rivela di possedere delle ramificazioni da orafo che si articolano ora in strani disegni, ma più spesso in forma di alberature di velieri di quelli che alcuni uomini pazienti riescono a inserire nelle bottiglie. È questo il pomodoro, privo quasi di semi, che va al macero in fabbrica. Come se fossero dei neonati, le operaie li lavano uno per uno prima di buttarli, spelati, nei giganteschi bollitori. Il barattolo li attende sulla catena di montaggio. E il gioco è fatto.[18]
  • Ora l'anno è pieno. Siamo agli sgoccioli. I giorni non passano mai, ma gli anni passano come i lampi. Ma a Napoli se ne fregano. Tutto in questo mese concorre verso il presepe, ossia verso un mondo immaginario pieno di pace e di bendidio. Il presepe è questo: la metafora di come dovrebbe essere la terra governata più che dagli uomini dall'ingenuo Bambino Gesù. Il presepe è il regno dell'armonia e della fine dell'ingiustizia.[19]

Le due Napoli

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  • Dovunque si parli di Napoli, c'è una disposizione a comprendere Napoli, che è in sostanza un'accusa alla sua pulcinelleria, alla sua corruzione in politica e in morale. Popolo sporco, dedito all'ozio, alla prostituzione, impoeticissimo! E la nostra meraviglia si leva in dubbio; per come sia stato possibile che un popolo corrotto, da quando se ne ha una memoria, sia ancora tanto vivo, anzi nella piena capacità d'insegnare qualche cosa agli uomini, di dare a loro, se non altro, uno spettacolo che gli stranieri chiamano vita piena. (p. 1334)
  • Come un popolo tanto disposto al farsesco sia poi giunto a certi suoi grandi giorni, a Masaniello, al netto rifiuto dell'Inquisizione (anche se a Napoli in fatto d'impiccagioni, arrotamenti, squartamenti, supplizi in pubblico se ne contarono a migliaia fino al Settecento), alla Repubblica del '99 e ai moti del 1820, non ce lo sapremo spiegare se dovessimo prendere sul serio la sua letteratura che si è lasciata attrarre quasi sempre dagli effetti e non dalle cause, che ha sottomesso la miseria al colore, non il colore ad essa. Chi ha parlato delle 4 giornate? E donde sono uscite? Dalla pulcinelleria? (pp. 1340-1341)
  • [Napoli] [...] una città in cui l'ingiustizia è diventata edilizia, plastica, rilevo. (p. 1343)
  • [Napoli] [...] la porta misteriosa di tutta l'Italia meridionale [...]. (p. 1343)
  • Per noi resta il fatto che ovunque troviamo quattro righe su Napoli, prostituzione, furto, arrangiamento e compromesso sono i punti di forza. Ma il sentimento tragico della vita, spogliato e nudo, che qui regna su tutto, come la violenza di vivere almeno una volta, perché una volta si vive, rimangono forze oscure. (p. 1346)
  • Re, governanti, turisti e poeti passano e se ne vanno. Anche il napoletano se ne andrebbe a vivere in riva al mare, dove l'aria sveltisce il cuore, o sulla collina del Vomero o ai Camaldoli, dove c'è odore di campagna e di cielo fresco. Egli invece è costretto a restare nel pozzo. Questa certezza ha trasformato il vicolo in una casa in comune, ha sviluppato l'istinto del mutuo soccorso – si prestano tutto: pentole, cibi, panni, scarpe, abiti – ma ha anche sollecitato un'indifferenza politica fatalistica, che ne ha fatto un popolo politicamente rachitico. (p. 1349)

Pulcinella

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  • Pulcinella era parte integrante della mitologia infantile, come l'altro ieri Pinocchio e in questi anni Topolino. A disperdere l'apoplettica raffigurazione del "mammone" interveniva il nostro saltimbanco: quattro capriole su una tavola e il bambino ritornava a sorridere. E chi sa poi se con questo "pupazzo" in movimento la plebe del Seicento non cominciava a sciogliersi nell'unico modo a sua disposizione dalle catene infernali e dalle fiamme purgatoriali e a prender parte a suo modo a un "rinascimento". (p. 1408)
  • Non bisogna peraltro dimenticare che Pulcinella fu un dono elargito al popolo dall'alto e con il permesso incondizionato «delli superiori». La sua è una tematica paternalistica e di tutto riposo; e ove mai lo si volesse rendere a ogni costo rappresentativo di una classe, alla plebe si dovrebbe aggiungere la nobiltà che, quanto a «libidine di servitù», scherzava poco, né aveva qualcosa da imparare da essa e anzi parecchio da insegnarle. Volendo continuare su questo tasto, su questo fuori tema, Pulcinella si fa le ossa durante la dominazione spagnola (e l'accompagna sino alla fine), quando cioè la vita napoletana, già provata, viene come travolta dalla soggezione. Il pulcinellismo diventa una sorta di riparazione di danni da parte dei potenti e apre una via di sbocco ai sudditi, che possono permettersi di saltare e ballare e ridere di se stessi, trasformando i vizi in straordinarie virtù. (p. 1415)
  • A Pulcinella tutti si rivolgono, compreso il basso popolo della città, con la riserva mentale di star trattando con un minorato, affetto da parafrasia; condizione di cui la maschera approfitta per collocarvi lo strepitoso lessico e farvi esplodere l'istinto oltre ogni immaginabile limite.
    Da qui ha origine la sua radicale mancanza di complessi e la sua disponibilità. Egli è meno di un uomo e può permettersi atti e gesti e parole più che qualsiasi uomo responsabile. Da qui ha inizio, con tutti i crismi della speciale legge di cui gode, la tolleranza, la sua straordinaria carriera nel mare della visceralità e la sua disarmante contraffazione del quotidiano caratterizzata da una preponderante tendenza onirica. (p. 1419)
  • Per assistere a uno spettacolo del primo e più classico Pulcinella si rendeva necessario un atteggiamento spregiudicato. Termini come: «cacalietto», «peretaro», potevano spingere al riso un'umanità che considerava i capricci del mondo corporale e ogni sorta di malattia senza ribrezzo, ritenendoli eventi della vita. Pulcinella, uomo globale, non conosceva mezze misure. Con un corpo grosso, dominato e governato da istinti animaleschi, i suoi organi potevano parlare, lamentarsi, ragionare tra loro senza svergognarsi di nulla perché tutto rientrava nella fragilità della carne. «La radica, il salame, la sciusciella» ovviamente «erano simboli priapeschi» che maneggiava come scettri davanti a un pubblico che coerentemente vi si uniformava ed esaltava. (p. 1420)
  • A suo modo e in maniera stupefacente anticipa di trecento anni il monologo interiore joyciano. Nel suo discorso onirico e triviale, in un'ininterrotta acrobazia linguistica e anagrammatica, Pulcinella pianifica la vita in un blocco unico in cui presente e passato si scambiano i tempi per costituire un intrico senza nesso, motivazioni, cause ed effetti. In questo modo egli può aggirare l'ostacolo della storia e dei fatti e infischiarsi della responsabilità di risponderne. (p. 1421)
  • Pulcinella, per essere se stesso, grande e inimitabile, deve rimanere senza peso e seguire, sempre, quel suo itinerario senza inizio, né fine, come una piuma, che appare e scompare, un'allucinazione o una visione di un popolo abituato alla rêverie per i suoi frequenti digiuni. (p. 1426)
  • [...] il capocomico di un balletto sull'orifizio dell'inferno. Più vicino alla musica che alle parole [...]. (p. 1428)

Ninfa plebea

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Il carro si fermò davanti al basso da cui fu lanciata la scaletta per far salire Nunziata, Miluzza, la figlioletta di tredici anni, Nannina, la capera, e un caporal maggiore, molto religioso, che aveva avuto il permesso dal comando militare di partecipare alla festa della notte del 14 agosto dedicata alla madonna di Mater Domini. Il carro era carico di devote vecchie e giovani, alcune delle quali stavano sedute sui trapuntini del lato destro e le altre del lato sinistro.

Citazioni

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  • Cantavano al Bùvero, il borgo dove abitava Nunziata, una sarta del quartiere militare, a Sperandei, a Liporta, al Mercato, alla Rèndola, a Pietraccetta, a Capofioccano, a Capocasale, al Casale del Pozzo, al Casale Nuovo fino alla Marrata dove abitava Nannina. Tanti grossi borghi popolari, che si sarebbero potuti considerare veri e propri quartieri. (p. 8)
  • È in terra che si deve vivere come corpi celesti. In cielo si può fare quello che si vuole. (p. 10)
  • [A Napoli] Troppa folla, troppo disordine, troppo rumore. Non pioveva, ma le strade erano bagnate e umide peggio che in campagna, e dappertutto bucce e cartacce, semi di zucca, scheletrini di pesci, valve di cozze, banchi di pizzaiuoli di paste cresciute esposte alla polvere in un acre fetor d'olio fritto. (p. 100)
  • «Ma Napoli, Napoli bella della mia gioventù, com'è diventata?»
    «È orribile. Altro che odore di mare, che mi dicevi. Odore di merda come qua. Ma qua è la nostra merda». (p. 102)

Incipit di La dismissione

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«L'espressione malinconica dei tuoi occhi, la tua aria tra rassegnata e distratta, i tuoi gesti molli... ecco un buon punto di partenza. Che cosa c'è dentro di te in questo inizio avanzato di millennio?»
Bella domanda per cominciare un libro. Una grande desolata radura, che cos'altro potrebbe esserci? Quanto ai miei «immediati dintorni» (strano modo di alludere a mia moglie Rosaria), hai fatto bene a tirarli in ballo tra le prime quattro domande che mi hai sottoposto, "tanto per entrare in argomento". Giusto una settimana fa Rosaria mi ha preannunciato infatti di essere io in procinto di partire «per un periodo di riflessione» (si dice sempre così quando un matrimonio comincia a traballare).

  1. Da Molto dialetto e molta lingua, in Il risveglio della ragione: quarant'anni di narrativa a Napoli 1953-1993, a cura di Giuseppe Tortora, Avagliano, Cava dei Tirreni, 1994, pp. 132-133. Citato in Annalisa Carbone, La scrittura critica di Domenico Rea, Napoli, 2008, p. 81, core.ac.uk.
  2. a b Citato in Luigi Vicinanza, Monte Faito, il gigante verde che domina il Golfo, la Repubblica Napoli, riportato in vicoequenseonline.blogspot.com, 12 agosto 2020.
  3. Le due estremità che delimitano il Golfo di Napoli. Cfr. Letteratura delle regioni d'Italia, Campania, p. 341, nota 12.
  4. Da Napoli, l'indomabile furore, in Il fondaco nudo, Rusconi, Milano, 1985. Citato in Raffaele Giglio, Letteratura delle regioni d'Italia, Storia e testi, Campania, Editrice La Scuola, Brescia, 1988, p. 341. ISBN 88-350-7971-3
  5. a b Citato in Mimmo Carratelli, Il marziano, Guerin Sportivo nº 4 (626), Bologna, Conti Editore, 21-27 gennaio 1987, pp. 44-47.
  6. Da San Gennaro, in Opere, Mondadori, 2005, p. 1520.
  7. Da Fate bene alle anime del Purgatorio, pp. 1363-1364.
  8. a b c d Dall'intervista di Gino Agnese, Domenico Rea in volontario "esilio" compone storie come sinfonie, Il Tempo, 5 marzo 1985.
  9. da Grandezza e decadenza della canzone napoletana, in Opere, Mondadori, 2005, p. 1357.
  10. "Perché la poesia e la filosofia propriamente dette, che altro sono se non le custodi sacre di una comune facoltà degli uomini, anzi della facoltà che li fa uomini? essere uomini significa essere poeti, dar nome alle cose e alle azioni: ma poeti, nel senso eccellente di questa voce, chiamiamo coloro che hanno l'ufficio sacrale di custodire la purezza della parola e perciò dell'umano e difenderla dall'inerzia e dall'abitudine, e finalmente dalla menzogna, che non è parola ma antiparola, e vale per la verità che vuol celare e non per il falso che proclama, traendoci assai spesso in inganno. E tutte le colpe degli uomini sono sempre una menzogna: l'antiparola, l'antipoesia, l'anticreazione." (Francesco Flora)
  11. Da Il messaggio meridionale, in Francesco D'Episcopo, «Le ragioni narrative» 1960-1961, Antologia di una rivista, Tullio Pironti Editore, Napoli, 2012, p. 42. ISBN 978-88-7937-408-8
  12. Citato Peppino De Filippo, Pappagone e non solo, a cura di Marco Giusti, Mondadori, 2003.
  13. La citazione è tratta dalla voce San Gennaro nell'Enciclopedia delle religioni, edita da Vallecchi. Cfr. San Gennaro, Opere, Mondadori, 2005, p. 1520.
  14. Da San Gennaro, in Opere, Mondadori, 2005, p. 1521-1522.
  15. Da Napoli, l'indomabile furore, in Il fondaco nudo; in Letteratura delle regioni d'Italia, Storia e testi, pp. 340-341.
  16. Da A domenica..., in AA.VV., Nuovi racconti italiani, di Arpino, Bassani, Berto, Buzzati, Cassola, Dessì, Gadda, Ginzburg, La Capria, Levi, Manzini, Marotta, Moravia, Pasolini, Piovene, Pratolini, Prisco, Rea, Repaci, Soldati, Strati, Tecchi, Testori, Fratelli Melita Editori, La Spezia, 1992, p. 262.
  17. a b Da Giugno, p. 1480.
  18. Da Settembre, p. 1484.
  19. Da Dicembre, pp. 1487-1488.

Bibliografia

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  • Domenico Rea, Boccaccio a Napoli, in Opere, a cura e con un saggio introduttivo di Francesco Durante e uno scritto di Ruggero Guarini, I Meridiani, Arnoldo Mondadori Editore, Milano, 2005, pp. 1386-1407. ISBN 88-04-54884-3
  • Domenico Rea, I mesi', in Opere, a cura e con un saggio introduttivo di Francesco Durante e uno scritto di Ruggero Guarini, I Meridiani, Arnoldo Mondadori Editore, Milano, 2005, pp. 1473-1489. ISBN 88-04-54884-3
  • Domenico Rea, La dismissione, BUR, Milano 2004. ISBN 88-17-10768-9
  • Domenico Rea, Le due Napoli, in Opere, a cura e con un saggio introduttivo di Francesco Durante e uno scritto di Ruggero Guarini, I Meridiani, Arnoldo Mondadori Editore, Milano, 2005, pp. 1333-1351. ISBN 88-04-54884-3
  • Domenico Rea, Ninfa plebea, Oscar Mondadori, Milano 1994. ISBN 88-04-38645-2
  • Domenico Rea, Pulcinella, in Opere, a cura e con un saggio introduttivo di Francesco Durante e uno scritto di Ruggero Guarini, I Meridiani, Arnoldo Mondadori Editore, Milano, 2005, pp. 1408-1428. ISBN 88-04-54884-3

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