Daniele Del Giudice
Daniele Del Giudice (1949 – 2021), scrittore e giornalista italiano.
Citazioni di Daniele Del Giudice
modifica- Non pensavo di essere uno scrittore. Quando morì mio padre... prima di morire mi regalò una macchina da scrivere e ho pensato: sarà quello che dovevo fare. Così, semplice... Voleva che io fossi uno scrittore. Quando mi ha dato questa macchina da scrivere, per me è stata una gioia. Mi piaceva il rumore dei tasti e... ed era... e questa macchina era la macchina che faceva i racconti. Io avevo pensato subito che era la macchina che faceva i racconti, non che li facevo io, ma che era la macchina per... scrivere.[1]
Atlante occidentale
modificaAll'inizio del campo d'erba provò il timone; poi, dondolando le ali, cominciò a rullare. Il volantino gli spingeva i gomiti vicini ai fianchi e la coda bassa dell'aereo gli spostava il viso in avanti, spartendo la visuale tra gli orologi del cruscotto e gli alberi lontani, come una lente bifocale. Ciò che pensava come una sua posizione era in realtà l'adeguamento a tutto quanto, dall'aereo e da fuori, gli veniva incontro, compresa la sua faccia resa anamorfica dal sole sulla curvatura del plexiglas.
Citazioni
modifica- La posta può somigliare a una battaglia. Opuscoli pubblicitari e inviti cadevano sulla spiaggia, fanti immacolati senza nemmeno il tempo di provare se stessi, o almeno di provare l'attrezzatura. Pensati e scritti da persone cui non importava niente arrivavano a persone cui non importa niente, comunicando soltanto il loro essere arrivati. Erano muti, spesso non avevano nemmeno il francobollo; la loro vita, la loro illusione postale consisteva nel semplice trasporto. Era un delitto mandarli avanti così. Fatture e rendiconti, seppure della stessa specie, si guadagnavano in virtù di un altro valore una prigionia in zone speciali controllate da personale addetto. Le buste intestate erano già effettivi, in servizio regolare, e bisognava trattarle con prudenza e secondo le convenzioni. Ma il vero cuore dell'armata erano le buste private, le lettere vere; venivano lette subito, una prima volta per apici di intensità e calligrafia, e poi rilette piano, seguendo gli avvallamenti degli incisi. (p. 25)
- «Dunque è di questo che si tratta», ha sorriso Epstein, senza insistere nel tono, ma come se ne fosse già convinto. Si è girato verso Brahe, ma nel buio vedeva soltanto la camicia chiara sotto la giacca estiva, il profilo del naso, le sopracciglia. È tornato con gli occhi al lago, ha detto: «Sí, piacerebbe anche a me parlare di un sentimento e del modo di produrlo come parla dell'anello di una trentina di chilometri. Potrei mai invitarla a visitare dei tempi verbali, dei giunti per incastrare le frasi in modo che si tengano una contro l'altra, come per controspinta? Potrei mai farle vedere il punto esatto dove si genera un'immagine, un gesto, lo snodo di una storia, l'intreccio di un sentimento, indicandole la differenza tra il prodotto e ciò che lo produce? Potrei dirle: una storia è fatta di avvenimenti, un avvenimento è fatto di frasi, una frase è fatta di parole, una parola è fatta di lettere? È la lettera è irriducibile? È l'"ultimo"? No, dietro la lettera c'è un'energia, una tensione che non è ancora forma, ma non è già un sentimento, ma chissà quale potenza occorrerebbe per sconnettere quel sentimento dalla parola che lo rende visibile, dal pensiero che lo pensa istantaneamente, e capire il mistero per cui le lettere si dispongono in un modo e non in un altro e si riesce a dire: "Lei mi piace", e il miracolo per cui questo corrisponde a qualcosa». (p. 129)
- Ha smosso il ghiaietto con la scarpa, ha ripreso: «Ci vogliono così tanti aggettivi per la luce! Con gli oggetti era diverso, si lasciavano descrivere per il loro funzionamento, per la loro consistenza, per ciò cui somigliavano, per le azioni attraverso cui erano costruiti e per l'infinita varietà di azioni che producevano nel comportamento di chi li usava. Potrei dirle luce pallida, luce meridiana, luce fredda, luce struggente: la luce resta sempre uguale a se stessa, cambiano soltanto i sentimenti. E poi, di qualunque tipo di luce io le parlassi, sicuramente lei ne penserebbe un'altra, diversa da quella che sto pensando io. È così strano, la luce è la cosa più comune che ci sia, molto più comune del legno e del metallo, eppure è la più privata, come se lei o io o chiunque altro producesse in proprio la sua». (p. 137)
«Credevo che non sarei mai arrivato in tempo».
«C'è ancora qualche minuto».
«Ho sentito la radio».
«Anche per te ci sono novità».
«È una giornata di molte novità, per me e per te».
«Bene».
«E adesso?»
«Adesso dovrebbe cominciare una storia nuova».
«E questa?»
«Finita».
«Finita finita?»
«Finita finita».
«La scriverà qualcuno?»
«Non so, penso di no. L'importante non era scriverla, l'importante era provarne un sentimento».
Lo stadio di Wimbledon
modificaAnche se è stato un sonno breve, come questo di mezz'ora, dopo bisogna ricominciare tutto da capo. Sono procedure normali della continuità, e seduto in treno posso farle con delicatezza. Ho cominciato solo ascoltando: siamo fermi, ma non in una stazione, c'è troppo silenzio; e d'altra parte sembra una sosta troppo rassegnata perché si tratti di un segnale chiuso. Ho aperto gli occhi, e forse non ero pronto.
Citazioni
modifica- Anche stamattina, appena arrivato, ho fatto le solite chiamate dalla stazione. Le conversazioni diventano più lunghe e vaghe, segno che finalmente non hanno più argomento. (p. 79)
- La carta sarà stata una sezione, il foglio dell'Europa Centrale della più generale e mondiale carta di navigazione aerea. Questa è basata sulla più antica Carta di Mercatore, la carta con cui si costruiscono quasi tutte le altre, dato che si può immaginare come la proiezione della terra su un cilindro tangente alla sfera dell'equatore, sul quale il mondo tagliato con le forbici venisse arrotolato e poi srotolato e messo in piano. I meridiani restano equidistanti; i paralleli si piegano convessi verso i poli, bocche sempre più sorridenti al Nord e sempre più tristi al Sud. Ma la Carta di Mercatore non è una proiezione geometrica, è inventata con un calcolo preciso, e con una matematica quasi perfetta. Il suo secondo nome è Rappresentazione. (pp. 91-92)
- Guardo il bastone bianco appoggiato al mobiletto. Lei sorride: «Essere ciechi è tutt'altro che essere sordi. I sordi sono diffidenti, credono che si sparli sempre di loro. I ciechi invece sono pieni di fiducia, e fanno un sacco di scherzi». (p. 116)
Sono fermo davanti al treno di alluminio, con alle spalle un sole basso, di taglio. Non sono mai stato così all'inizio, determinato e incerto. Aspettando che le porte si aprissero ho cercato nella tasca il margine del biglietto. Ho sollevato la borsa. Nell'altra mano tenevo il pullover, con la delicatezza con cui si tiene un bambino.
Orizzonte mobile
modifica- Sono arrivato con una missione di biologia marina di cui fa parte Jeremy Miller, un gallese di Cardiff che si occupa dei Gentoo, i pinguini più alti tra quelli di taglia piccola. (pp. 6-7)
- I pinguini Gentoo valutano ogni passo prima di fare un saltino da una pietra all'altra. Considerano intensamente la pietra successiva: se è levigata o ruvida, se umida o asciutta, con muschio o senza, e quando l'approdo è stato valutato nei dettagli si raccolgono in un'espressione finale da «Cosa sarà di me!», aprono le natatorie e fanno il salto, pochi centimetri, arrivando leggermente sbilanciati, stupiti di essere ancora in piedi. (p. 6)
- Molti anni fa, nel mio primo viaggio in Antartide, ero venuto qui accompagnando un'altra missione che lavorava con i pinguini Adélie, dei veri acrobati al confronto: schizzavano fuori dal mare come pupazzi a molla, perfettamente eretti, e atterravano sulla banchisa un paio di metri più in alto. Non sempre atterravano, qualche volta si impiantavano contro la parete bianca ed eretti ricadevano in acqua, sbucando nuovamente fuori senza perdere contegno, sbattendo e ricadendo e risaltando, finché ci riuscivano. (p. 6)
- Può darsi che i pinguini siano portati a pinguinomorfizzare gli umani e questo certamente accadde qualche settimana dopo, quando in una traversata a piedi, mentre accompagnavo una missione internazionale di dieci biologi, incontrammo una carovana di Imperator, la specie più grande. Loro, i pinguini in fila, noi, umani in fila. Due comunità ugualmente in marcia, i pinguini dall'interno verso le coste per procurarsi cibo, noi dalle coste verso l'interno per raggiungere le regioni più fredde abitate dagli Imperator. Loro, noi, vivevamo la stessa solitudine in un oceano di ghiacci e nevi, e le stesse preoccupazioni. (p. 7)
- Giunti a una rispettosa distanza il capo dei pinguini Imperator, un individuo voluminoso e importante della loro specie, allungò il collo verso di noi in un profondo inchino e con il becco contro il petto fece un lungo discorso gorgogliando. Finito il discorso, da quella posizione di riverenza fissò negli occhi Jacques, capo di quella missione, per vedere se aveva capito. Né Jacques, l'etologo più esperto, né chiunque di noi poteva comprendere quel discorso. Allora il pinguino ripeté di nuovo il lungo gorgoglio con la testa china, senza spazientirsi. Chi si spazientiva erano gli altri pinguini dietro di lui, cominciavano a dubitare che il loro capo avesse combinato qualche pasticcio. Si fece avanti un altro di loro, spingendo da parte il suo predecessore. Con lo stesso inchino e lo stesso sguardo in alto tenne un nuovo discorso che sarebbe rimasto per noi altrettanto incomprensibile. (pp. 7-8)
- Ma la grande passione dei pinguini erano i cani. Se li scoprivano in una base antartica andavano a trovare solo loro, senza più passare dagli uomini. Facevano molti inchini e lunghi discorsi, i cani seguivano abbaiando e schiacciandosi sulle zampe anteriori; poi qualcuno riusciva a sciogliersi dalla catena e succedeva un massacro. (p. 8)
- Nei giorni successivi Jeremy si è ripreso abbastanza in fretta, a dire il vero anche perché ha conosciuto una ricercatrice italiana, Teresa Montaruli, impegnata nel gruppo di studio sulla neutrino-astronomia e il Progetto Nemo. (p. 10)
- Teresa gravita tra l'Università di Bari e quella di Madison, Wisconsin, e ci ha parlato dei nuovi orizzonti osservativi, stanno costruendo enormi infrastrutture per rivelare altri messaggeri dell'universo, i neutrini, particelle neutre e molto elusive perché risentono solo della 'forza debole', una delle forze fondamentali della materia; e quelle particelle, i neutrini, sono di carica nulla e hanno massa nulla o quasi nulla al contrario dei fotoni che interagiscono con la materia elettromagneticamente. (p. 10)
- Teresa è gentile, e la sera dopo, a cena nel ristorante della base, nel punto più basso del pianeta e nel ghiaccio più avvolgente, ha cercato di tradurre il tutto per noi non in altri termini, piuttosto in concetti, ma non è stato facile. Ci ha spiegato con pazienza che se le sorgenti accelerassero non solo elettroni ma anche protoni, la produzione dei neutrini insieme ai fotoni sarebbe garantita; e che i neutrini potrebbero prodursi anche grazie all'annichilimento della materia oscura che la forza di gravità accumula al centro del Sole o della Terra, o al centro della galassia. Teresa indicava i neutrini con le sue belle mani quasi fossero lì presenti [...]. (pp. 10-11)
- Gli aborigeni del vasto arcipelago che delimita a nord lo stretto di Magellano, sebbene conosciuti sotto il generico nome di 'fuegini', appartengono a tre gruppi che sensibilmente differiscono tra di loro per linee, idiomi e costumi: Alakaluf, Yagan e Ona. Gli Alakaluf sono i fuegini più miserabili, e la loro razza e oggi quasi spenta. Vivono sulle rive del mare nutrendosi di pesci, molluschi e chiocciole. Si deve al loro carattere rivierasco se, come gli Yagan, furono scoperti dai primi navigatori giunti in questa regione, compreso Magellano che li segnala nel 1520. (p. 35)
- Sono di piccola statura, il viso largo e abbronzato, le gambe arcuate per l'abituale postura rattrappita; sono sporchissimi e tali vennero giudicati a Parigi dove nel 1881 si diede mostra di un gruppo di questi disgraziati. (p. 35)
- Gli Alakaluf non hanno quasi alcun rapporto con i bianchi, e nelle missioni se ne trovano ben pochi. (pp. 35-36)
- Gli Yagan, presso i quali si possono osservare gli stessi caratteri fisici degli Alakaluf, sono meno sudici; anch'essi vivono di pesca ma vanno a caccia di uccelli adoperando fionde che manovrano abilmente, e anche a caccia di foche, con arpioni in legno dalle punte d'ossa di balena. (p. 36)
- Gli ultimi individui di questa popolazione, un tempo numerosa, industriosa e potente, sono quasi tutti concentrati attorno alle missioni evangeliche di Ushuaia e Tekenika, se non altro al sicuro dalla fame. Qualche viaggiatore li ha fatti passare per antropofagi; ed è vero che dopo ininterrotti giorni di burrasca, impossibilitati a procurarsi qualsivoglia alimento, spinti dalla fame, si vedono costretti a sacrificare uno di loro per la salvezza della loro tribù. (p. 36)
- Non seguono il costume del tatuaggio ma in cambio si dipingono il viso di bianco o di rosso. In altri tempi il loro abbigliamento consistette in una pelle di foca gettata sulle spalle; oggi vestono gli avanzi europei, spesso provenienti dagli ospedali delle grandi città, come essi stessi ci dissero. (p. 36)
- La strada corre attraverso chilometri e chilometri di pampa desertica, ogni tanto una estancia, ogni tanto una 'foresta morta'. Le estancias sono bellissime, curate, ben dipinte, colorate, con le loro staccionate bianche. Sono casa e fattoria, non hanno il carattere rustico dei nostri agglomerati agricoli, scuri, di mattoni, con le masserizie a vista, qui tutto è pettinato e allegro, almeno a vederlo dal di fuori. Dev'esserci un'idea forte della casa se al cancello della lunga strada che porta alla estancia vera e propria la cassetta della posta è a forma di casa, una casa in miniatura che a volte riproduce quella vera, visibile sullo sfondo. (p. 37)
- A Port Famine, sede del centro geografico del Cile, sono arrivato a Punta Arenas [...]. Poteva darsi che di Punta Arenas, che una volta non era dov'è oggi, restasse qualcosa del primo insediamento: una colonia penale cilena della metà del diciannovesimo secolo i cui reclusi si ammutinavano periodicamente e facevano a pezzi i pochi immigrati cileni che provavano a vivere lì intorno. [...] Ma di quella colonia penale non c'è traccia. E nemmeno di Port Famine, a parte un cartello e una lapide per ricordare che Pedro Sarmiento, mentre andava alla ricerca della mitica Ciudad de los Césares, fondò qui nel Cinquecento, quando gli indigeni ci vivevano già da migliaia d'anni, la prima città e la chiamò Rey Felipe. Nessuno la conobbe mai con quel nome. (p. 71)
- Circa tre anni dopo la sua fondazione ci passò l'inglese Thomas Cavendish, e trovò solo i resti di persone morte per freddo e per fame. Con la concretezza dei corsari sostituì al nome regale quello più rispondente di Port Famine, "Porto Carestia". (p. 71)
- Di fronte c'è l'isola plumbea di Dawson che fu l'ultima residenza degli indios custoditi dai missionari italiani. E che fu la prima nuova residenza dei ministri di Allende quando venne il loro turno. (pp. 71-72)
- [Sugli Yagan] Erano il popolo più meridionale del mondo, tremila chilometri più a sud del Sudafrica, venticinque paralleli più di Buenos Aires e trenta gradi di temperatura in meno. Tenevano i fuochi accesi anche nelle canoe [...]. (p. 73)
- [Sugli Yagan] Dell'aldilà non pensavano nulla, né premi né castighi, e se qualcuno parlava loro dei morti si offendevano. Erano beffardi, imprevedibili, bugiardi. Avevano una lingua complessa e poetica, una di quelle lingue "di situazione" o deissi; conoscevano almeno cinque parole per dire neve e per spiaggia ne avevano ancora di più perché la scelta del vocabolo dipendeva dagli stati d'animo di chi parlava o dalla sua ubicazione rispetto all'interlocutore o dalla posizione dell'interlocutore rispetto al paesaggio, se a separarli c'era terra o acqua, oppure all'orientamento geografico della spiaggia. (pp. 73-74)
- FitzRoy riportò in Inghilterra quattro di loro [indios Yagan] con la lodevole intenzione di indurli a una vita migliore e più felice: un giovane che fu battezzato Boat Memory, 'Ricordo della Nave', un altro chiamato York Minster, "Monastero di York", il nome di un'isola vicina a Capo Horn, una bambina di nove anni, Fuegia Basket dunque "Cesta Fuegina", e infine Jemmy Button perché dicono che l'avesse pagato a suo padre un bottone. Ma è un racconto ridicolo, nessun indio avrebbe venduto suo figlio nemmeno per l'intero Beagle con tutto il carico che aveva a bordo; almeno scrisse così Lucas Bridges nel suo El Ùltimo Confín de la Tierra, osservando semplicemente che quando gli uomini bianchi battezzano gli indigeni amano scegliere i nomi più fantasiosi. (p. 74)
- A Londra gli indios furono oggetto di studi, esposizioni esotiche e cortesi attenzioni da parte dei regnanti, e la regina Adelaide si tolse la cuffia e la mise sul capo della piccola Fuegia Basket. Poco tempo dopo tornarono in Terra del Fuoco con FitzRoy, che questa volta aveva imbarcato anche Darwin e parte delle osservazioni naturalistiche che lo avrebbero portato alla teoria dell'evoluzione per selezione naturale. (p. 74)
- Ma appena arrivati, Jemmy Button scomparve nei canali e si ripresentò seminudo solo quando la nave stava per andare via; ci fu un'ultima cena a bordo, e come nel finale di un film epico ciascuno si convinse della propria natura e che mai avrebbe potuto cambiare l'altro. (p. 74)
- Passano vent'anni e dalla contea di Nottingham arrivano il pastore George Despard e il figlio adottivo Thomas Bridges, padre di quel Lucas che sarà il suo biografo, per evangelizzare gli indigeni fuegini. Per prima cosa cercano Jemmy Button e incredibilmente lo trovano; gli spiegano l'idea della stazione evangelica e lui è d'accordo. (pp. 74-75)
- Dalle Falkland, dove sono andati a prendere il materiale, spediscono una nave completa di equipaggio e catechisti, ma non avendo più notizie dopo un po' si precipitano a Wulaia. La nave è lì, spoglia di tutto; dentro, sottocoperta, c'è il cuoco Cole, nudo e impazzito, racconta che all'inizio gli indios erano amichevoli, alla prima messa sono venuti addirittura in trecento, hanno cominciato a cantare ma poi hanno smesso subito. Hanno ucciso tutti. Jemmy Button fu processato alle Falkland, condannato, riportato a Wulaia e messo in libertà, perché non si poteva punite chi doveva essere evangelizzato. (p. 75)
- Thomas Bridges col tempo rinunciò alla missione, ottenne terreni dall'Argentina e fondò una grande estancia, vivendo con gli indios come su una lama, ma diventando un'autorità per loro, e raccogliendo la loro lingua in quello straordinario dizionario yaman-inglese che comperai una mattina di pioggia ad Ushaia dagli eredi degli eredi degli eredi. (p. 75)
- Gli Yagan devono questo nome a Thomas Bridges che lo derivò da Yaganashaga, il canale tra l'isola di Navarino e quella di Hoste, al centro delle terre che essi popolano. Tra di loro si definiscono "Yamana", che significa "essere umano", e sotto questo nome si credono i soli esseri dotati di ragione. È questa un'idea comune a ogni selvaggio. (p. 82)
- King George Island è al novantacinque per cento coperta da ghiacciai che scendono a barriera fino in mare, o si arrestano poco prima creando baiette di sassi e terriccio morenico che le basi delle diverse nazioni contendono agli elefanti marini, ai pinguini, agli skua, oltre a reclamarsele tra loro. (p. 94)
- Passo ore a guardare gli elefanti marini, enormi bestioni che dormono addosso l'uno all'altro sulla riva; la pelle coriacea che ricopre il grasso è macchiata di muschio e gli occhi grandissimi secernono una lacrima densa, che impedisce al vento di asciugare il liquido corneale, e che cola lentamente fino ai loro baffi. (p. 95)
- Edward Wilson, biologo e pittore, il personaggio più amato della 'banda antartica', vide il suo primo perielio nel 1902. Tirò fuori di corsa il teodolite e misurò tutti gli angoli e le distanze dei cerchi luminosi tra di loro e annotò: «Era una visione stupenda ma molto difficile da descrivere, però sono riuscito a fare degli schizzi che credo potranno rendere l'idea». (p. 96)
- Le lastre fotografiche dell'epoca avevano tempi di posa troppo lunghi, e poi erano in bianco e nero, e i fenomeni ottici troppo mobili perché potesse restarne qualcosa. Così Wilson faceva degli schizzi a matita durante le marce e accanto a ogni forma luminosa appuntava il colore, arancio, giallo, violetto, trasformandoli poi in acquarelli nei momenti di riposo della baracca. (p. 96)
- Morì con Scott nel 1912 nel disperato ritorno dal Polo Sud, dove avevano piantato la bandiera norvegese di Amundsen e una lettera che li invitava a rendere omaggio al re Haakon VII. I suoi acquarelli danno l'immagine più bella e adeguata di questo paesaggio: chiuso nella sua differenza da tutto quanto conosciamo e che mai ci accoglierà. (p. 96)
- La Terra di Alessandro, scoperta da Thaddeus von Bellingshausen nel 1819, apparve ai nostri occhi in modo superbo, con i suoi poderosi ghiacciai appena separati tra loro da un qualche picco più scuro che si distacca in un bianco giallastro contro l'azzurro cupo del cielo. (p. 100)
- L'isola era un vulcano spento, coperto da nevi perenni, scavato da una profonda baia con quel nome, Pendulum Cove, un nome alla Poe certamente, dovuto invece agli esperimenti dell'ufficiale inglese Henry Foster che nel 1829 osservò qui con il pendolo il magnetismo terrestre e la gravità. Si sdraiò bocconi sulla superficie gelata, guardò lo strumento fatto di specchi e lenti, misurò le oscillazioni del filo a piombo. (p. 120)
- Fuori nevicava, parlammo della ionosfera e dei campi magnetici, e di quel fenomeno straordinario che sono le aurore astrali, gigantesche vampe guizzanti che colano luce colorata nel cielo buio. (p. 121)
- Mi raccontarono come a produrle fosse il vento solare carico di particelle subatomiche, emanato nello spazio dalla corona del Sole e catturato al Polo dal campo magnetico terrestre. Le particelle eccitavano i gas della ionosfera e deformavano il campo magnetico, aprendovi una cavità mobile che insieme alla rotazione della Terra produceva il guizzare e l'evolvere delle aurore. (p. 121)
- I colori e l'intensità, che io avrei giudicato come "più o meno bello", dipendevano dal tipo di atomi e molecole eccitati, viola per l'azoto e rosso fino al verde per l'ossigeno, e dall'energia delle particelle in arrivo dal Sole. Così i colori, disse il professore americano, potevano essere analizzati e interpretati come informazioni su quanto avviene nell'alta atmosfera e sulla natura dei venti solari. (pp. 121-122)
- Ho pensato spesso a Scott e a Shackleton, a Wilson e a Mawson, a David o Bowers o altri perché furono una "banda antartica" e presero parte nei primi vent'anni del secolo scorso a quasi tutte le spedizioni, sempre loro, sempre gli stessi, una volta partivano con uno una volta con un altro, e il miglior marinaio antartico, Frank Wild, partì quasi con tutti, nel 1902 con Scott sul Discovery, nel 1907 con Shackleton sul Nimrod, nel 1911 con Mawson sull'Aurora, nel 1914 con Shackleton sull'Endurance, nel 1922 ancora con lui sul Quest e quando Shackleton morì durante il viaggio prese lui il comando, riportò la nave in Inghilterra e poi se ne andò in Africa dove tra una spedizione e l'altra aveva aperto una fabbrica di cotone. (p. 136)
- Amundsen? Rispettato, non molto di più. Fu un professionista nell'epoca di grandi amatori, venne in Antartide quando Scott aveva già iniziato la marcia verso il Polo, scelse una via migliore, arrivò primo. Piantò la sua bandiera e se ne andò. Un lavoro ben fatto, dicevano qui, ma quella spedizione fu la più povera di bagaglio scientifico e di risonanza umana. (p. 138)
Staccando l'ombra da terra
modificaNon c'è un momento preciso né un giorno fissato, non ti sarà preannunciato da alcun segno esteriore, nulla nei comportamenti e nel paesaggio sarà diverso dall'abituale, il sole a filo della pista, la pista che finisce nel mare, niente comunque ti farà presagire che è giunto il momento, per te, di trovarti su un aeroplano senza passeggeri, senza piloti, senz'altri che non sia tu stesso, come nel peggiore dei sogni. Puoi parlare ad alta voce, non v'è divieto, puoi cantare o sudare, non v'è chi se ne accorga, puoi girarti verso destra e guardare al posto vuoto dove abitualmente siede il tuo maestro, considerare quel vuoto come la più sconsolata rappresentazione del vuoto assoluto, la più struggente sensazione d'abbandono. Puoi tirare indietro le manette, fermare l'elica, aprire il portello, sganciare le cinture e scendere sollevando le braccia: qualcuno venga a prendere l'aeroplano che stai lasciando lì, allineato all'inizio della pista per il tuo primo decollo da solo. Una decisione di grande saggezza, una decisione onorevole. Ma con quale coraggio?
Citazioni
modifica- La corsa di decollo è una metamorfosi, ecco una quantità di metallo che si trasforma in aeroplano per mezzo dell'aria, ogni corsa di decollo è la nascita di un aeroplano, anche questa volta l'avevi sentita così, con lo stupore di ogni metamorfosi; verso la fine della trasformazione e della pista senti che l'aeroplano prorompe, non è più terrestre, troppi sobbalzi, troppe imbardate di qua e di là, a terra non lo tieni più, meglio volare che correre così, aspetti solo che diventi definitivamente un aeroplano, vorresti che lo fosse già, a quel punto talvolta viene su da solo, e appena viene su s'acquieta, altre volte basta una leggera, leggerissima chiamata con il volantino. (p. 5)
- Se nella memoria esistesse un comparto per le prime volte, pensi controllando che tutto sia spento, metteresti il primo decollo da solo nella stessa regione della prima volta in amore, perché l'intensità è quella; curioso che la prima e più travolgente compenetrazione con un'altra creatura si trovi per te in compagnia della prima e più grande solitudine, radicale, "solista" nell'aria. (p. 13)
- L'ultima posizione certa era Abeam Boa, un punto mitico sulla carta una decina di miglia a est di Bologna sulla verticale di piccoli agglomerati di case tutti uguali, poteva essere Budrio o Medicina o San Lazzaro di Savena, sui tetti non ci sono i nomi dei paesi, nessuno ha esaudito il desiderio di Rodčenko[2]per il quale i tetti avrebbero dovuto essere la facciata delle case rivolte verso il cielo, affinché le case offrissero agli aeroplani qualcosa di meglio della monotonia delle tegole; questo accadeva negli anni Trenta, da allora il tetto come facciata non si è realizzato, i tetti sono tutti uguali, uguali i paesi senza nome sui tetti, ed è così che ti sei perso, mentendo all'Ente su un riporto. (pp. 67-68)
- La nebbia era una nube infeconda, così la pensava Aristotele, non fidatevi del suo carattere avvolgente, pervadente, quell'acqua è solo umidità, non è pregnanza di pioggia che feconda i campi e gonfia il corso dei fiumi. La nebbia è arredamento, la nebbia si appoggia: sui campi, nello spazio tra terra e cielo, buona per i delitti. E inconsapevoli, ad essa indifferenti. Ma sono delitti quelli che commette. (pp. 68-69)
- Il Quebec Delta Mike che hai chiesto, QDM, è una vecchia voce del vecchio codice Q, codice che usavano già Faggioni e Buscaglia[3], nulla al mondo è più conservativo dell'aeronautica e della marina, QDM, qudimike, vecchia voce, la più amata di ogni pilota, voce che porta a casa, intraducibile perché non una sigla ma tre lettere che codificano e suggellano la seguente, salvifica domanda: per come voi mi rilevate qual è la prua che devo mettere volendo giungere alla mia destinazione?, destino in spagnolo, una lingua in cui il fine geografico coincide col compimento della propria personale avventura. (p. 72)
- In nessun luogo la parola ti sembrava così importante come in cielo, o ascoltata con tanta avidità; il volo aveva un suo alfabeto, minore come il Morse o il Braille, un alfabeto senza ambizione di creare parole, un semplice alfabeto fonetico, non simboli che traducevano lettere né lettere che componevano parole, ma solo parole di uso comune per compitare inequivocabilmente le lettere dell'alfabeto normale, Bravo per B, Sierra per S, un lessico al servizio di un alfabeto e non viceversa, Juliet, Charlie, Mike, Oscar, Romeo e Victor, sei nomi di persona, due balli, il fox-trot e il tango, due nazioni, il Quebec e l'India, una sola città, Lima, due etnie, Yankee e Zulu, un hotel, un liquore, una divisa, un mese per tutti, november, un'analisi clinica come i raggi x. (p. 82)
Ho tirato il volantino, ho fatto quota sufficiente, ho battuto due tre volte le ali in segno di saluto. Bruno adesso è più tranquillo. Nizza e Mentone sfilano via sulla sinistra. Non parliamo, del resto non parliamo quasi mai durante il volo. Ciascuno di noi pensa già a Genova e a Milano, a Verona e al filo quasi rettilineo che ci riporta a casa, a Venezia. Al tramonto, dopo l'atterraggio, faremo lunghi ed elastici passi per rilassarci dalle fatiche dei comandi. Sorrideremo, di nuovo ricongiunti alla nostra ombra.
Note
modifica- ↑ Citato in Francesco Palmieri, Il rumore dei tasti, Il Foglio Quotidiano, 8 ottobre 2022.
- ↑ Aleksandr Michajlovič Rodčenko è stato un pittore, fotografo e grafico russo che ha partecipato alla costituzione del movimento costruttivista. Cfr.voce su Wikipedia.
- ↑ Carlo Faggioni e Carlo Emanuele Buscaglia sono stati due assi dell’aviazione italiana nella Seconda guerra mondiale. Entrambi sono stati abbattuti in missione nel 1944. Cfr. voce e voce su Wikipedia.
Bibliografia
modifica- Daniele Del Giudice, Atlante occidentale, Einaudi, Torino, 1985. ISBN 88-06-58222-4
- Daniele Del Giudice, Lo stadio di Wimbledon, Einaudi, Torino, 2021. ISBN 978-88-06-25239-7
- Daniele Del Giudice, Orizzonte mobile, Einaudi, Torino, 2009. ISBN 978-88-06-19793-3
- Daniele Del Giudice, Staccando l'ombra da terra, Einaudi, Torino, 1994. ISBN 88-06-13584-8
Altri progetti
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