Giuseppe Guerzoni

patriota e politico italiano (1835-1886)
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Giuseppe Guerzoni (1835 – 1886), patriota, storico, scrittore e drammaturgo italiano.

Giuseppe Guerzoni

Arte e politica

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Manzoni gode con una virginale modestia un'anticipazione d'immortalità, e prossimo all'Olimpo dimentica la terra: Azeglio sta in campagna colla fantasia, colla persona e col pennello; e non rompe i silenzi delle sue selve e del suo pensiero che per bofonchiare gli uomini con la eroicomica figura di Ferraù o per scozzonarne il sonno coll'improwiso ariete di Quistioni urgenti, or fatte urgentissime. Prati, un dì trovatore della fede e dell'amore, oggi Byron ansimante, canta il dubbio, la superstizione e la stregheria in un Armando squallido e nebbioso, e non trova più l'estro antico se non per destare dalle corde stracche della lira sua cauti epitalamici e cortigianeschi oroscopi: Aleardi dopo icarei voli tocca meritamente il destino del figlio di Dedalo e capitombola affogato in un padule fumoso di rifritti secentismi, facendoci accorti che la splendida ora della sua giovinezza passò e che già le ore inesorabili della vecchiezza l'incalzano e lo tengono: Revere sconta banconote e bisbiglia cinici epigrammi nell'orecchio degli amici: Carcano è consigliere, Regaldi professore, ambidue cavalieri: Giusti, Berchet, Grossi, Pellico, Nicolini, per ricordare soltanto quelli co' quali la più recente generazione convisse, sono nella tomba e nella gloria.

Citazioni

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  • Cattaneo, come un egiziano antico adorante l'Iside velata, si chiude in arcani colloqui colla natura e ce li nasconde. (p. 266)
  • Ferrari, incompreso e incomprensibile alla Camera, raro e interrotto sulla cattedra, non pensa ch'egli solo o per primo almeno potrebbe fondare «la scuola critica italiana» che non ha da noi né sistema, né maestri, né cultori, né cattedre, né giornali, il che torna a dire che il pensiero soccombe o tiraneggia senza esame, senza discussione, senza tace. (p. 266)
  • Guerrazzi, mentre rintraccia studiosamente la vena della giovanile poesia, s'innamora lungo la via, aspra di triboli e di esperienza, dell'ira di Tacito e dello stile di Guicciardini, e ridona di continuo all'Italia squarci di storia, pagine di eloquenza sublimi, opere ammirande, ma insufficienti, impotenti oserei dire a commovere, ad agitare, a suscitare la fede e l'entusiasmo, a dar battaglia, come un tempo l' Assedio di Firenze, al materialismo che ci impaluda, all'egoismo che ci infanga. (p. 267)
  • Mazzini, il grande sacrificato; l'ostia vivente d'Italia, mantiene fedelmente il voto compito trent'anni or sono quando l'imangine d'un Italia una, virtuosa, libera, apparendo come una celeste fidanzata in mezzo alle artistiche ispirazioni ed alle poetiche larve della sua giovinezza, le disse: «Tu rinuncierai per me ogni cosa diletta più caramente, mangerai il pane dell'esilio, berrai la cicuta della calunnia, e fin anco le divine consolazioni delle-Grazie e delle Muse tu ricuserai, perocché il mio amore non tolleri rivali e solamente colui che molto offre e combatte sia degno d'avermi.» (p. 267)
  • Gli autori e gli attori adulano le passioni più volgari e gli istinti più bassi del pubblico; il pubblico riconoscente adula il gusto corrotto e l'arte bislacca degli autori e degli attori, e si depravano a vicenda, e il risultato finale della mutua associazione è una sentina. (p. 267)
  • Oggi, il teatro, privo di concetto, di modelli, di forme, malato del comune contagio de'subiti guadagni e delle subite glorie, brancola e barcolla come un briaco od un esanime; ed anche allorquando crede d'esser naturale è artefatto, quando crede essere scuola è appena trastullo, quando pensa d'essere originalmente italiano pute servilmente di francese. Esso dà lampi perché in tutti i tempi qualcosa lampeggiò sempre in Italia, ed anche il decrepito seicento s'apre con Galileo e si chiude con Testi e con Filicaja; e Giacometti e Ferrari, e il lacrimato Cicconi e lo sviato Fortis potrebbero formare nucleo e corona; ma teatro, teatro veramente nazionale, veramente morale, veramente artistico, non v'è in Italia. (p. 268)
  • Quanto alla musica poi....... l'Italia ricorda e ripete.
    Fortuna per essa che i capi d'opera dei suoi grandi maestri sono davvero la musica dell'avvenire, e che essi per molto secolo ancora terranno onoratamente il campo contro l'irruzione delle nordiche armonie, innanzi alle quali il genio stesso di Verdi, sfidato o smarrito sembra arretrarsi e vacillare. (p. 268)
  • V'è forse qualche cosa di più alto e magnanimo della stampa quotidiana, quando essa, gelosa della sua origine, e fedele alla sua missione, sa d'esser custode della libertà messaggera del progresso, vulgarizzatrice della scienza, sorvegliatrice del potere, Nemesi vivente ed assidua dei costumi, delle leggi, della vita di un popolo? V'è qualche cosa di più abbietto e di più sordido della stampa periodica, quando essa corteggia il potere, sbraveggia la moralità, alimenta le passioni, adula la corrente, diffonde pensatamente la menzogna e fabbrica tenebrosamente la calunnia?
    Io non vorrei nulla dire della stampa politica italiana dopo le rivelazioni d'un deputato e le confessioni d'un ministro in Parlamento. (p. 268)
  • Tenere il sacco a un ladro colla scusa ch'egli è forte e voi siete piccino, equivale ad adulare un popolo colla scusa ch'egli lo vuole. (p. 269)
  • Quando un uomo non ha il coraggio di resistere alla corrente, di bandire apertamente la verità e di sostenere contro tutti, anche contro il proprio interesse, la giustizia, smetta la penna, perocché la audace e tempestosa milizia del giornalismo non è fatta per lui. Quando voi obbliate che lo scrittore, poeta o giornalista, esercita un sacerdozio, non un traffico, che a lui è principalmente affidato l'educazione e il miglioramento della società, che la civiltà d'un popolo sta in diretta ragione della moralità della sua stampa; quando obliate tutto ciò per l'aura d'un giorno, per la limosina d'uno scudo, allora lasciate anche che vi dica che non v'è opera nefanda che uguagli la vostra, e che io, Potere, vi rizzerei tutti quanti sopra una gogna, affinché le moltitudini conoscessero chi ha loro ritardato i giorni della rivendicazione della giustizia.» (p. 269)
  • Alla stampa cui non cale corrompere il pensiero e la coscienza che importa corrompere la lingua? Ed alla nazione che non si cura delle idee come può essere sacra la parola? È un doppio sacrilegio che la reciproca ignoranza permette di compiere a chi scrive come a chi legge, senza che né l'uno né l'altro abbiano il fastidio della vergogna e del rimorso. (p. 270)
  • Ormai è consenso comune che il popolo italiano non legge i giornali, li ripassa; ch'egli non sa che farne degli articoli di fondo, poiché gli basta il notiziario. (p. 270)
  • Una Rivista che riprendesse in Italia le nobili tradizioni dell'Antologia, del Conciliatore, del Crepuscolo, e nel nome d'un principio e d'una scuola raccogliesse sotto i pacifici stendardi della scienza i giovani di mente, di studio e di fede, la vedrei tanto volentieri quanto un esercito di volontari in mano a Garibaldi. Con questi si andrebbe a Roma e Venezia; con quelli si andrebbe alla libertà. (p. 271)
  • Garibaldi avria potuto essere il Byron, e Mazzini il Victor Hugo dell'Italia, se in luogo di conquistar Roma, avesser dovuto glorificarla. Non abbiamo poeti, abbiamo soldati, non scriviamo romanzi, facciamo la storia. Manzoni tace, ma parla il cannone, Pepoli non scrive più commedie, manipola trattati; Visconti Venosta non commenta più Prudhon nel Crepuscolo, ma persuade alla Camera. (p. 271)
  • Noi non abbiamo, no, la poesia di far l'Italia; noi non abbiamo che la prosa di vederla fatta; ed a questi patti sarebbe meglio che Pepoli continuasse a scriver commedie e Visconti articoli; il cannone a tacere e Manzoni a parlare. (p. 271)
  • Quando nell'anima c'è un Dio, cioè la fede negl'ideale, il pensiero compone sillogismi di ferro, la volontà vuole propositi di ferro, il braccio compie opere di ferro, il fiat dello spirito plasma col caos i colossi; i popoli intendono le magnanime imprese, le compiono e le cantano. (p. 274)
  • Il pensiero è il patrimonio comune dell'umanità, ed è per esso che i popoli comunicano attraverso il tempo e lo spazio e formano davvero una sola famiglia. Esso è l'anima dell'universo di Platone, e conviene onorarlo dovunque si manifesta. (p. 274)
  • E un dì la Francia ci inviava co' veleni i loro antidoti, e questi eran certo più possenti di quelli, e noi stessi per il domestico nutrimento eravamo più temprati a sopportarli. Una pagina di Chateaubriand, un canto di Lamartine o di Berrier, un dramma di Victor Hugo o di De Vigny, un racconto di Nodier o di Giorgio Sand, misti ad un'ode di Manzoni e ad una tragedia di Nicolini potevano rifare il sangue corrotto da un romanzo di Balzac e di Paolo De Kock ... Erano quelli i giorni gloriosi delle lettere francesi, ed il trionfo del genio gallico pareva legittimo. (p. 274)
  • Oggi la Francia mette orrore a chi la conosce e paura a chi l'ama. Leggete la Nouvelle Babylone di Pelletan, uno dei pochi che osino con affetto pari all'ardire infiggere lo specillo nelle piaghe della sua patria e che l'amino davvero castigandola. (p. 275)
  • Io non getterò mai a mia madre ignuda l'insulto di Cam, e non perderò mai l'orgoglio d'essere e di dirmi Italiano, perocché so che l'Italia è migliore delle apparenze che la condannano e della fama che la vitupera. (p. 278)
  • La nazione ha quello che merita, e se egli sequestra ogni dì un giornale liberale in nome dell' ordine, e lascia passare impuniti i volumi della Biblioteca nuovissima, galante e dilettevole, illustrata in nome della libertà, non bisogna pigliarsela con lui che sa conciliare con tanta machiavellica arguzia i due termini opposti del suo programma «ordine e libertà», sibbene colla nazione che se ne accontenta e batte le mani. (p. 280)
  • Se v'ha da essere una decima Musa, Venere afrodisiaca, siccome tutto ciò ch'è anormale, ributtante, malefico, resti essa pure appiatta nell'ombra, divisa dal mondo, chiostrata nei cupi fondacci dove abitano i di lei immondi sacerdoti e fedeli. (p. 281)

Bibliografia

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  • Giuseppe Guerzoni, Arte e politica, Rivista contemporanea, Vol. XI, Augusto Federico Negro Editore, Torino, 1865.

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