David Hume

filosofo e storico scozzese
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David Hume (1711 – 1776), filosofo scozzese.

David Hume nel 1766

Citazioni di David Hume

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  • Gli ambiti in cui i ricchi ricavano poco, devono contribuire in gran parte alla soddisfazione delle necessità publiche.[1]
  • In tutte le epoche del mondo i sacerdoti sono stati nemici della libertà.
In all ages of the world, priests have been enemies to liberty.[2]
La consuetudine [...] è la grande guida della vita umana.[4]
  • La bellezza non è una qualità delle cose stesse: essa esiste soltanto nella mente che le contempla ed ogni mente percepisce una diversa bellezza.[5]
  • La natura, per un'assoluta e incontrollabile necessità ci ha determinati a giudicare come a respirare e a sentire.[6]
  • Nei nostri ragionamenti riguardo ai fatti esistono tutti i gradi immaginabili di certezza. L'uomo saggio, quindi, proporziona la sua credenza all'evidenza.
In our reasonings concerning matter of fact, there are all imaginable degrees of assurance [...] A wise man, therefore, proportions his belief to the evidence.[7]
  • Quale particolare privilegio ha questa piccola agitazione del cervello che chiamiamo pensiero, perché la si debba prendere a modello dell'intero universo? Indubbiamente la parzialità a nostro favore ce lo presenta realmente a ogni occasione, ma la sana filosofia deve attentamente guardarsi da un'illusione tanto naturale.[8]
  • [...] qualsiasi questione di filosofia, che sia così oscura e incerta da non permettere alla ragione umana di giungere ad alcuna posizione definitiva, se proprio se ne deve trattare, sembra che ci porti in modo naturale allo stile del dialogo e della conversazione.[9]
  • Se disporre della vita umana fosse una prerogativa peculiare dell'Onnipotente, allora per gli uomini sarebbe ugualmente criminoso salvare o preservare la vita. Se cerco di scansare un sasso che mi cade sulla testa, disturbo il corso della natura, prolungando la mia vita oltre il periodo che, in base alle leggi generali della materia e del moto, le era assegnato. Se la mia vita non fosse del tutto mia, sarebbe delittuoso sia porla in pericolo sia disporne![10]
  • Se dobbiamo essere sempre in preda ad errori e illusioni, preferiamo che siano almeno naturali e piacevoli.[11]
  • Sii filosofo; ma in mezzo a tutta la tua filosofia, sii sempre un uomo.[12]
  • Supponete ancora che parecchie società distinte mantengano dei rapporti per il vantaggio e l'utilità che essi potrebbero reciprocamente derivare; i confini della giustizia si allargherebbero ancora, in proporzione alla larghezza delle vedute umane ed alla forza delle connessioni reciproche. La storia, l'esperienza, la ragione ci istruiscono abbastanza su questo naturale progresso dei sentimenti umani e sul graduale allargarsi della nostra considerazione per la giustizia, in proporzione alla conoscenza che acquistiamo dell'ampia utilità di questa virtù.[13]
  • Un notevole vantaggio dovuto alla filosofia è l'antidoto sovrano che offre contro la superstizione e la falsa religione. Tutti gli altri rimedi contro codesta peste sono vani, o almeno in certi. Il semplice buon senso e la pratica del mondo, sufficienti di solito nei frangenti della vita, restano qui inefficienti. La storia e l'esperienza quotidiana forniscono esempi di uomini dotati di ottime capacità negli affari, la cui vita è guasta dalla schiavitù di gravissime superstizioni.[14]

Storia d'Inghilterra

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Vol. II

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  • La condiscendenza di Saladino, nel permettere ai Cristiani di compiere i loro pellegrinaggi a Gerusalemme, era per parte di lui un agevole sagrifizio; e le guerre ostinate ch'ei sostenne in difesa dello sterile territorio della Giudea, non erano in lui, come negli avventurieri d'Europa, il risultamento della superstizione, ma della politica. Il vantaggio della scienza, della moderazione, dell'umanità stava a que'tempi dal lato dei Saracini: ed il valoroso Imperatore di costoro spiegò, durante il corso della guerra un coraggio ed una generosità, cui gli stessi suoi bigotti nemici dovettero confessare, ed ammirare. Riccardo, prode guerriero ugualmente, peccava alquanto di barbarie, e si rese colpevole di feroci azioni, che impressero una macchia sulle sue illustre vittorie. (cap. XX, pp. 25-26)

Vol. III

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  • L'unica grazia concessa dal Re [Edoardo IV d'Inghilterra] al fratello [Giorgio Plantageneto, duca di Clarence] dopo la sentenza fu di lasciargli a sua scelta il modo di morire, e fu nella Torre annegato segretamente in una botte di malvasia: strano capriccio che mostra in lui una gran passione per questo liquore. (cap. XXII, p. 314)
  • Col cessare delle guerre civili svanì tutta la gloria d'Edoardo [IV d'Inghilterra]; oltreché i conseguìti allori li macchiò col sangue, colla violenza e colla crudeltà. Sembra che dopo gli s'intorpidisse lo spirito in seno al libertinaggio, o che, mal cauto e senza previdenza, mandasse a male egli stesso i suoi provvedimenti. (cap. XXII, p. 314)
  • [Edoardo IV d'Inghilterra] Principe splendido e sfarzoso, anziché cauto e virtuoso, prode ma crudele, dato al libertinaggio, quantunque capace di attività nelle grandi emergenze, idoneo piuttosto a rimediare al mal fatto collo spiegare una condotta vigorosa e energica, di quello che a prevenirlo mediante una saggia precauzione. (cap. XXII, p. 316)
  • Giammai si diè il caso d'un'usurpazione più evidente di quella di Riccardo, o più ripugnante a qualunque principio di giustizia e di pubblico interesse. Le sue pretese si fondavano sopra imprudenti asserzioni, né vi fu mai chi tentasse provarle, giacché talune erano non suscettibili di prova, e tutte coprivano d'obbrobrio la sua famiglia e le persone a cui era più davvicino legato. Nessun'Assemblea nazionale aveva mai riconosciuto il suo titolo; appena avevalo applaudito la feccia del popolo a cui s'era vôlto, e il suo trionfo proveniva meramente dalla mancanza di persone distinte, che, col disputargli la palma, ponessero in orgasmo que' sentimenti d'esecrazione ch'egli eccitava in petto ad ognuno. (cap. XXIII, p. 335)
  • L'impavido tiranno, veduta ogni cosa perduta, girava lo sguardo attorno al campo, e scoperto il rivale non molto lungi da lui, gli si precipitò ferocemente all'incontro nella speranza, che la morte d'Enrico o la propria, avrebbero deciso della vittoria. Ucciso di sua mano sir Guglielmo Brandon, porta-stendardo del Conte, e balzato d'arcione sir Giovanni Cheyney, già si trovava in faccia ad Enrico che non ricusava la tenzone, allorquando sir Guglielmo Stanley, penetrato co' suoi, circondò Riccardo, il quale combatté fino agli estremi, finché sopraffatto dal numero, perì della morte dei prodi; destino troppo dolce e onorevole per chi era macchiato da tante orrende scelleratezze. (cap. XXIII, p. 346)
  • Gli Storici favorevoli a Riccardo, giacché questo tiranno trovò anch'esso encomiatori fra' più moderni Scrittori, sostengono, che avrebbe ben governato, qualora fosse salito al trono per diritto legittimo, e non avesse commesso delitti oltre i necessarii per mantenersi in seggio. Meschina apologia in vero, se è d'uopo confessare ch'egli fosse pronto a commettere i più orrendi delitti per conseguire il suo scopo. Certo si è che né il coraggio né i talenti, di cui non pare mancasse, potevano indennizzare il popolo del periodo in cui viveva, e mal coprivano l'esempio contagioso del vizio e dell'assassinio innalzati al trono. Riccardo era piccolo e gobbo, per lo che la deformità del suo corpo corrispondeva perfettamente a quella dell'animo suo. (cap. XXIII, p. 347)

Vol. IV

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  • Surrey era più destro cortigiano, e sebbene pochi più di lui partecipassero nel sistema economico del re defunto [Enrico VII], nondimeno sapeva benissimo uniformarsi all'umore del suo nuovo padrone, e nessuno lo superò nel promuovere l'amore della liberalità, del piacere e della magnificenza, che si scorgeva nel giovane monarca [Enrico VIII]. Per tal modo entrò destramente in grazia al re; trasse, quanto gli altri cortigiani, partito dall'indole prodiga del medesimo, e lo avviò talmente sulla carriera de' passatempi e dell'ozio, che lo rese trascurante del maneggio delle cose, e propenso ad abbandonare le redini del governo a’ suoi ministri. (cap. XXVII, p. 7)
  • Enrico [VIII] scialacquò a poco a poco in ispese fantastiche gl'immensi tesori ammassati dal defunto re [Enrico VII]. Una partita di piacere succedeva ad un'altra, e s'offrivano al pubblico, colla magnificenza tutta propria del secolo, giostre, tornei e caroselli; mentre alle cose d'importanza poco s'attendeva, tanto più che la pace lasciava tutto l'agio alla corte di darsi in preda a qualunque passatempo. (cap. XXVII, p. 7)
  • Insaziabile nel procacciarsi danari, ma più magnifico ancora nello spendere; dotato d'esimii talenti, intraprendente oltre ogni credere, [Thomas Wolsey] ambiva il potere, ma ambiva maggiormente la gloria. Sapeva insinuarsi, cattivarsi gli animi, persuadere, ed a sua posta mostrarsi dignitoso, sublime, imperioso. Altero co' suoi pari, co' dipendenti affabile, oppressore col popolo, liberale cogli amici, generoso anziché grato, lo feriva più dell'oltraggio lo sprezzo, e nato per sollevarsi, ogniqualvolta entrasse in relazione con chichessia, menava tanta boria della sua superiorità, che destava l'invidia e ricordava al pensiero d'ognuno l'umile origine, o piuttosto la bassezza della sua estrazione. (cap. XXVII, p. 25)
  • Nei giorni festivi [Thomas Wolsey] non era pago se non diceva la messa secondo il costume praticato dal papa medesimo; e non solo vescovi ed abati lo servivano, ma i nobili primari gli davano l'acqua e l'asciugamano. Affettava un grado superiore a qualunque altro che mai avesse preteso dapprima veruno ecclesiastico in Inghilterra. Avevagli il primate Warham[15] indirizzato una lettera, appiè della quale s'era sottoscritto: Vostro affezionato fratello. Wolsey si lagnò perché presumesse per tal modo intimargli un'uguaglianza di grado; e Warham, allorquando gli si chiese qual fosse l'offesa da lui recata, ne fe' risate: «E non vedete, disse, che costui è briaco, perchè la fortuna gli è troppo propizia?» (cap. XXVIII, pp. 53-54)
  • [Tommaso Moro] Austero nella virtù, santo ne' costumi, senza che ne soffrisse la gentilezza del suo carattere, o ne venisse minorata quella vispa allegria a cui per natura inclinava, soleva egli scherzare fra le vicende della fortuna or prospera or avversa, né mai lo si vide orgoglioso allorquando in alto seggio seduto, o mesto dopo essere ricaduto nella povertà e nel ritiro. (cap. XXX, p. 142)
  • Discendeva Reginaldo Polo, o della Pole, da regia stirpe, poiché era il quartogenito della contessa di Salisbury, figlia del duca di Chiarenza. Apparvero sin dall'adolescenza chiari segni in lui di quell'ingegno elevato e di quell'indole generosa che lo resero illustre per tutta la vita; e come Enrico [VIII] lo teneva caro, ed intendeva innalzarlo alle più alte ecclesiastiche dignità, gli conferì qual arra di futuri favori il diaconato d'Exeter, onde supplire alle spese della sua educazione. (cap. XXXIII, pp. 215-216)
  • Era Surrey un giovane d'altissima speranza, e distinto per quelle doti che s'addicono all'uomo di lettere, al cortegiano ed al soldato. Esperto in tutti gli esercizi ginnastici allora in uso, animatore delle belle arti con ogni mezzo di protezione e d'incoraggiamento dato coll'esempio, egli s'era con buon esito provato in poetiche composizioni, e come peccava dello spirito romanzesco del secolo, aveva celebrato le lodi delle sue belle colla penna, colla lancia, nelle mascherate e ne' tornei. L'ambizione e lo spirito agguagliavano in lui il grado e l'ingegno; ma poco ei si curava di condursi secondo le regole di una cauta riservatezza, siccome esigeva la sua situazione. (cap. XXXIII, p. 287)
  • [Henry Howard, conte di Surrey] Fu accusato di mantenere fra i suoi famigliari alcuni Italiani sospetti di spionaggio. Avendo un suo attenente, mandato in Italia, fatto visita al Cardinal [Reginaldo] Polo, sopra di lui cadde sospetto di tenere corrispondenza con quell'odioso prelato. Si aggiunse ch'egli avea incastrato nel suo sistema[16] l'arme d'Edoardo il Confessore, e si disse perciò sospetto di aspirare alla corona; sebbene sia da notare che egli e i suoi antenati lo avevano fatto palesemente per molti anni, autorizzati dall'ufficio araldico. Tali si erano i delitti pei quali un consesso di giurati sentenziò reo di fellonia il conte di Surrey, malgrado la sua spiritosa ed eloquente difesa; e s'esegui subito la condanna. (cap. XXXIII, p. 288)
  • [Puritani] [...] è a questa setta, i cui principii sembrano così frivoli, e le abitudini così ridicole, che gl'inglesi, vanno debitori di tutta la libertà della loro costituzione. (cap. XL, p. 174)
  • Parker, che ottenne il primo la carica di primate [della Chiesa d'Inghilterra] dopo l'avvenimento al trono della regina [Elisabetta I], era uomo che esigeva una rigida osservanza del culto dominante; e puniva con multe, o degradava que' preti puritani che cercavano d'introdurre novità negli abiti, nelle cerimonie o nella liturgia della Chiesa. (cap. XLI, p. 248)
  • Ma la massima delle pecche di questo signore [Robert Devereux, II conte d'Essex] era posta nella schiettezza del suo carattere, che mal acconcio il rendeva riuscire in imprese difficili e pericolose. Si diede gran libertà nel parlare, e fu udito persino dire che la regina [Elisabetta I] era vecchia, ed aveva l'intelletto storto al pari del corpo. Alcune dame della corte, i cui favori Essex aveva un tempo trascurati, le riportarono ogni cosa, e la incollerirono al massimo grado, giacché Elisabetta era assai gelosa intorno a questo particolare e, sebbene toccasse quasi il settantesimo anno, soffriva ancora i complimenti de' cortigiani ed anche degli ambasciatori stranieri sulla bellezza; né tutto il suo buon senso giovava punto a guarirla d'una vanità cotanto inopportuna. (cap. XLIV, pp. 399-400)
  • Essex diè segni prima di morire, di pentimento e di pietà, anziché di timore, e riconobbe di buon grado la giustizia della sentenza che lo condannava. Il supplizio fu privato nel ricinto della Torre, secondo, che aveva chiesto Essex medesimo, perché temeva che la compassione del popolo servisse ad imbaldanzirlo, mentre sotto la mano castigatrice del cielo l'umiltà era il solo sentimento che gli convenisse. (cap. XLIV, p. 409)
  • Appena di ritorno dall'avventurosa spedizione di Cadice, [il conte d']Essex, in vedendo quanto la regina gli si andasse vieppiù affezionando, colse il destro per lagnarsi che la necessità del servizio l'obbligasse spesso ad allontanarsi da lei, e con ciò lo esponesse ai mali ufizii che i suoi nemici, più assidui nel corteggiarla, sapevano a danno di lui impiegare. Commossa da una tenerezza cotanto gelosa, ella gli fece dono d'un anello, e pregollo a conservarlo qual pegno d'amore assicurandolo che ogni qual volta egli fosse caduto in disgrazia, od avesse ella nutrito qualche storta prevenzione in suo danno, col rimandarle l'anello l'avrebbe richiamata all'usata tenerezza e indotta ad ascoltarlo, anzi persuasa a prestare un orecchio favorevole alle sue difese. (cap. XLIV, pp. 424)

Vol. VI

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  • Il celebre giureconsulto Coke[17], allora procuratore generale, trattò la causa per la corona, e vomitò contro Raleigh ingiurie cosi grossolane da potere ridondare in gran biasimo, non pure della memoria di lui, ma dei costumi del secolo. Traditore, mostro, vipera, ragno dell'inferno sono i termini co' quali egli chiama uno degli uomini i più illustri del regno, mentre, sotto processo, ed in pericolo di perdere beni e vita, questi si difendeva con moderazione, eloquenza e coraggio. (cap. XLV, p. 14)
  • Vedeva [Giacomo I d'Inghilterra] che nessun ramo del governo civile esige cura e squisito criterio quanto il regolare le fazioni religiose, ma non s'era accorto che così è necessaria in un monarca una pratica cognizione di teologia, come è ridicola e dannosa una speculativa ascetica raffinatezza. Coll'entrare caldamente nelle più frivole dispute, Giacomo dava loro un'importanza e dignità che altrimenti non avrebbero acquistata, e, coll'impegnarsi nella contestazione egli medesimo, si privava del mezzo di ricorrere al ridicolo e dileggio, solo espediente per acchetarla. (cap. XLV, p. 15)
  • Ritornava in allora da' suoi, viaggi Giorgio Williers, giovane che d'un anno appena oltrepassava il quarto lustro, ed era notato per la bella persona, l'aspetto gentile l'abbigliamento alla moda. Collocato una sera al teatro sotto gli occhi di Giacomo [I d'Inghilterra], ne attrasse gli sguardi e, quasi nello stesso tempo, ne impegnò gli affetti. Ma vergognando questi di quel così subitaneo attaccamento, cercò, benché invano, di nascondere quella parzialità che gli strascinava il cuore verso l'ignoto bel giovane, ed impiegò tutta la sua profonda politica per fermarlo al proprio servizio, senza mostrare di esserne ansioso. (cap. XLVII, p. 84)
  • [George Villiers, I duca di Buckingham] Non mancava costui di qualche qualità cortegianesca; ma non avea nessuna abilità di ministro. Trasportato nelle passioni, non sapeva né dissimulare né andar cauto; sincero per impeto, non per candore; scialacquatore senza esser generoso; amico caldo o nemico feroce, non però per scelta né discernimento. Fornito di queste doti, egli era presto salito ad altissimo grado, e partecipava ad un tempo dell'insolenza che suole tener dietro ad una rapida fortuna, e dell'impetuosità tutta propria di chi, nato d'alto lignaggio, non conosce ostacoli. (cap. XLIX, p. 135)
  • Era Buckingham divenuto il favorito del Parlamento e del pubblico; echeggiava ogni luogo delle sue lodi; e sir Edoardo Coke[17] giunse persino a chiamarlo nella Camera de' Comuni il salvatore della nazione. Ebbro di una popolarità ch'ei godé poco tempo e mal meritata, pose in non cale ogni riverenza verso il suo indulgente signore [Giacomo I d'Inghilterra]; ordì trame di concerto co' Puritani, nemici instancabili mai sempre della regia autorità; e favorì disegni tendenti all'abolizione dell'episcopato, ed alla vendita dei beni de' diaconati e capitoli, per sopperire alle spese della guerra di Spagna. (cap. XLIX, pp. 148-149)
  • Accadde un giorno che, conversando Buckingham con Soubize ed altri gentiluomini francesi, nacque diversità d'opinione fra loro e la disputa, sebben moderata, produsse taluno di que' gesti veementi, e di quelle vive alzate di voce, cui sogliono gl'individui di quella nazione più degl'inglesi abbandonarsi. Terminata la conversazione, Buckingham s'incamminò verso la porta, e in tale passaggio, rivolgendosi per parlare a sir Tommaso Frizar colonello dei militi, fu da un colpo improvviso di coltello ferito nel petto da persona che stavagli nascosta di dietro. Senza profferir altre parole, fuorché lo sciaurato mi ha ucciso, trattosi dalla piaga il coltello, spirò. (cap. LI, p. 270)

Vol. VIII

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  • Luigi XIV possedeva tutte le qualità che vi vogliono per allettar la plebaglia, e molte ancora di quelle che meritano l'approvazione del saggio. Fornito di una maschia bellezza, avvalorata da un so che di nobile nell'aspetto, egli sapeva temprare con un tratto affabile e gentile la dignità del contegno. (cap. LXIV, p 85)
  • [Luigi XIV] Elegante senza effemminatezza, dedito ai piaceri senza trascurare gli affari, decente persino tra' vizi, amato nel colmo del potere arbitrario, superava in grandezza tutti i monarchi del suo tempo, come li vinceva nella fama e nella gloria. (cap. LXIV, p 85)
  • [Luigi XIV] Moderato nella propria ambizione, se non dalla giustizia, almeno dalla prudenza, egli si era accuratamente munito di ogni mezzo di conquista, e prima di porsi in moto pareva essersi decisamente assicurato del buon esito. Le sue finanze erano ben ordinate; egli avea creata una possanza navale, accresciuti e disciplinati i suoi eserciti, colmati i suoi magazzini, provveduti gli attrezzi da guerra occorrenti. Magnifica era la corte sua al di là d'ogni esempio; però vi si osservava uno spirito economico e di regola: ed il popolo, che si arricchiva coll'arti e col traffico, pagava di sì buon grado le moltiplici impostegli tasse, che la sua forza militare superava di gran lunga qualunque altra si fosse mai posta in piedi da qualsivoglia monarca d'Europa ne' secoli precedenti. (cap. LXIV, pp 85-86)
  • La prigionia arbitraria è un abuso che ha luogo in un certo grado sotto ogni governo, tranne quello della Gran Brettagna: e della nostra assoluta sicurezza in proposito andiam debitori all'attual Parlamento; merito che lo assolve alquanto se, per altri rispetti, si condusse con ispirito di parte e violenza. La Gran Carta fu quella che fondò questa preziosa parte di libertà; la Petizione di Diritto la rinnovò e la estese. Mancavano a renderla compiuta ed impedire che fosse evasa o sospesa da' ministri e da' giudici, alcuni provvedimenti; e servì allo scopo l'Atto di Habeas Corpus, decretato nell'attuale sessione. Fu con esso proibito di mandar chicchesia in prigione oltremare; ingiunto ai giudici, sotto severe pene, di non ricusare a qualunque detenuto un mandato di Habeas Corpus, secondo il quale doveva il carceriere produrre in corte il corpo d'esso detenuto, e giustificare la causa della sua prigionia. (cap. LXVII, pp. 277-278)

Storia naturale della religione

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Citazioni

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  • La credenza in un potere invisibile ed intelligente è stata sempre diffusa largamente nella razza umana, in tutti i luoghi e in tutte le età, ma non è mai stata così universale da non ammettere eccezioni, né ha suggerito idee affatto uniformi. Si è scoperto qualche popolo privo di sentimenti religiosi, se c'è da credere a quel che dicono i viaggiatori e gli storici; ma non esistono due popoli, e neppure due uomini qualsiasi, che siano perfettamente convinti della medesima opinione.
  • Tutti gli uomini generalmente tendono a concepire gli altri esseri come simili a loro stessi, ed a trasferire in ogni oggetto le qualità più familiari, più intimamente presenti alla loro coscienza.
  • In qualsiasi religione, per quanto sublime sia la definizione esteriore della divinità, molti devoti – forse la maggioranza – tentano di propiziarsi il divino favore non con la virtù o con la moralità, che sole possono essere accette a un essere perfetto, ma piuttosto con le futili pratiche, lo zelo intemperante, i rapimenti estatici, la fede in immaginazioni misteriose ed assurde.
  • Ogni superstizione è sempre odiosa e gravosa.
  • L'uomo davvero virtuoso compie il suo dovere senza sforzo.
  • Così, in molti casi, i più grandi delitti appaiono compatibili con la pietà e con la devozione superstiziosa. Così pure appare scorretto trarre qualsiasi netta conclusione a favore della moralità di un uomo dal fervore o dalla assiduità delle sue pratiche religiose, anche se è in buona fede. Anzi, i delitti più terribili alimentano i terrori superstiziosi e il fanatismo religioso.
  • In chi ha commesso delitti sorgono rimorsi e terrori segreti che non danno requie all'anima, inducendola a ricorrere ai riti religiosi, alle cerimonie ed all'espiazione dei peccati.
  • Lo spirito più geniale è prossimo alla follia.
  • Lo zelo più grande ed autentico non ci salva dall'ipocrisia.

Tutto è ignoto: un enigma, un inesplicabile mistero. Dubbio, incertezza, sospensione del giudizio appaiono l'unico risultato della nostra più accurata indagine in proposito. Ma tale è la fragilità della ragione umana, e tale il contagio irresistibile delle opinioni, che non è facile tener fede neppure a questa posizione scettica, se non guardando più lontano e opponendo superstizione a superstizione, in singolar tenzone; intanto, mentre infuria il duello, ripariamoci felicemente nelle regioni della filosofia, oscure ma tranquille.

Trattato sulla natura umana

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  • Subito dopo il ridicolo di negare una verità evidente, c'è quello di darsi molta pena per difenderla, e nessuna verità appare più evidente di questa: gli animali sono dotati di pensiero e di ragione come gli uomini. Gli argomenti in questo caso sono così ovvi che non sfuggono nemmeno alla persona più stupida e ignorante. (I, III, 16; 1994, p. 696)
  • Dalla somiglianza delle azioni esteriori degli animali con quelle che noi stessi compiamo, possiamo inferire che quelle interiori assomigliano anch'esse alle nostre. (I, III, 16; 1994, p. 697)
  • Lo stesso portamento e l'andatura del cigno, o del tacchino, o del pavone, mostrano quale alta idea questi animali abbiano di se stessi, e il loro disprezzo per tutti gli altri. E, cosa ancor più notevole, in queste due ultime specie di animali l'orgoglio accompagna sempre la bellezza, e lo troviamo solo nel maschio. Si son molto spesso notate la vanità e l'emulazione degli usignoli nel canto [...] Tutte queste sono prove evidenti che l'orgoglio e l'umiltà non sono soltanto passioni umane, ma si estendono a tutta la creazione animale. (II, I, 12; 1994, p. 700)
  • Tra gli animali l'amore non ha per suo oggetto soltanto gli animali della stessa specie, ma si estende fino a comprendere quasi tutti gli esseri sensibili e pensanti. È del tutto naturale che un cane ami l'uomo, che è al di sopra della sua stessa specie, e molto frequentemente ne riceve in cambio dell'affetto. (II, II, 12[18])
  • È evidente che la simpatia, ovvero il comunicarsi delle passioni, si riscontra tra gli animali non meno che tra gli uomini. Frequentemente gli animali si comunicano l'un l'altro la paura, la collera, il coraggio […]. Ed è degno di attenzione il fatto che sebbene quasi tutti gli animali adoperino, giocando, la stessa parte del corpo che usano per combattere […], pur tuttavia essi evitano con la massima attenzione di fare del male ai propri compagni, anche quando non abbiano nulla da temere dal loro rancore; tutto ciò rappresenta una chiara prova della sensibilità che le bestie possiedono per il dolore e il piacere reciproco. (II, II, 12; 1994, p. 703)
  • Le norme della moralità non sono conclusioni della nostra ragione. (III, I, 1)[19]
  • In ogni sistema morale in cui finora mi sono imbattuto, ho sempre trovato che l'autore va avanti per un po' ragionando nel modo più consueto, e afferma l'esistenza di un Dio, o fa delle osservazioni sulle cose umane; poi tutto a un tratto scopro con sorpresa che al posto delle abituali copule è o non è incontro solo proposizioni che sono collegate con un deve o un non deve; si tratta di un cambiamento impercettibile, ma che ha, tuttavia, la più grande importanza. Infatti, dato che questi deve, o non deve, esprimono una nuova relazione o una nuova affermazione, è necessario che siano osservati e spiegati; e che allo stesso tempo si dia una ragione per ciò che sembra del tutto inconcepibile ovvero che questa nuova relazione possa costituire una deduzione da altre relazioni da essa completamente differenti.
  • Noi non siamo altro che fasci o collezioni di differenti percezioni che si susseguono con una inconcepibile rapidità, in un perpetuo flusso e movimento. I nostri occhi non possono girare nelle loro orbite senza variare le nostre percezioni. Il nostro pensiero è ancora più variabile della nostra vista, e tutti gli altri sensi e facoltà contribuiscono a questo cambiamento; né esiste forse un solo potere dell'anima che resti identico, senza alterazione, un momento. La mente è una specie di teatro, dove le diverse percezioni fanno la loro apparizione, passano e ripassano, scivolano e si mescolano con un'infinita varietà di atteggiamenti e di situazioni. Né c'è, propriamente, in essa nessuna semplicità in un dato tempo, né identità in tempi differenti, qualunque sia l'inclinazione naturale che abbiamo ad immaginare quella semplicità e identità. E non si fraintenda il paragone del teatro: a costituire la mente non c'è altro che le percezioni successive: noi non abbiamo la più lontana nozione del posto dove queste scene vengono rappresentate, o del materiale di cui è composta.
  • Io sono seduto nella mia camera con la faccia rivolta al fuoco, e tutti gli oggetti che colpiscono i miei sensi sono contenuti in pochi metri intorno a me. La memoria, invero, mi fa presente l'esistenza di molti oggetti; ma questa sua testimonianza non si estende oltre la loro precedente esistenza, né i sensi né la memoria attestano la continuità del loro essere. Mentre sono ancora seduto e rivolgo per la mente questi pensieri, sento ad un tratto un rumore, come di una porta che gira sopra i suoi cardini, e poco dopo vedo il portiere che avanza verso di me. Ciò mi dà occasione a molte riflessioni e nuovi ragionamenti. Anzitutto, io non ho mai osservato che quel rumore possa provenire da altro fuorché dal movimento di una porta, e quindi concludo che il presente fenomeno sarebbe in contraddizione con tutte le precedenti esperienze, qualora io non ammettessi che la porta, che ricordo dall'altra parte della camera, continua ad esistere. Ancora: ho sempre visto che un corpo umano possiede una qualità ch'io chiamo gravità, e che gl'impedisce di volare, come questo portiere dovrebbe aver fatto per giungere nella mia camera, se pensassi che la scala, di cui ho il ricordo, fosse stata distrutta nella mia assenza. Ma non è tutto. Io ricevo una lettera: aprendola, vedo dal carattere e dalla firma che viene da un amico che mi dice esser distante duecento leghe. È evidente che non posso mai rendermi ragione di questo fenomeno in conformità della mia esperienza in altri casi, senza far passare nella mia mente tutto il mare e il continente che ci separano, e senza supporre gli effetti e l'esistenza continuata dei corrieri e dei battelli, conforme alla mia memoria e osservazione. I fenomeni, dunque, del portiere e della lettera, sotto un certo aspetto sono in contraddizione con l'esperienza comune, e possono esser giudicati come obiezioni alle massime riguardanti la connessione tra cause ed effetti. Io, infatti, sono abituato a udire un certo suono nello stesso tempo che vedo un certo oggetto in movimento; in questo caso, invece, non ho ricevuto le due percezioni insieme. Sì che queste due osservazioni sono contrarie, a meno ch'io non supponga che la porta rimanga ancora, e che sia stata aperta senza ch'io ne abbia avuto la percezione. E questa supposizione, da principio arbitraria e ipotetica, acquista forza ed evidenza per essere la sola che possa conciliare quella contraddizione. Di questi casi se ne offrono continuamente nella mia vita, e mi spingono a supporre una continuata esistenza degli oggetti al fine di collegare le passate con le presenti loro apparizioni, e dare loro quella reciproca unione che ho trovato per esperienza convenire alla loro particolare natura e alle circostanze. Io sono, così, naturalmente portato a considerare il mondo come qualcosa di reale e di durevole, che mantiene la sua esistenza anche quando cessa di esser presente alla mia percezione.
  • La ragione è, e deve solo essere, schiava delle passioni, e non può rivendicare in nessun caso una funzione diversa da quella di obbedire e di servire ad esse.
  • Quasi tutti i ragionamenti in questo libro vengono ricondotti all'esperienza; e la credenza, che accompagna l'esperienza, viene spiegata soltanto come un sentimento peculiare, o una concezione vivace prodotta dall'abitudine. Né questo è tutto; quando noi crediamo che qualche cosa abbia un'esistenza esterna, o quando supponiamo che un oggetto esista un istante dopo che esso cessa di essere percepito, questa credenza non è che un sentimento della stessa specie. Il nostro autore insiste su parecchie altre tesi scettiche ed infine conclude che noi prestiamo fede alle nostre facoltà ed adoperiamo la ragione soltanto perché non possiamo farne a meno. La filosofia ci renderebbe interamente pirroniani, se la natura non fosse troppo forte su questo punto. Concluderò la logica di quest'autore dando ragione di due opinioni, che sembrano a lui peculiari, come sono, del resto, la maggior parte delle sue opinioni. Egli afferma che l'anima in quanto la possiamo concepire, non è che un sistema, una serie di percezioni differenti, di caldo e di freddo, di amore e di collera, di pensieri e di sensazioni, tutte unite insieme, ma senza alcuna perfetta semplicità o identità. Cartesio sosteneva che l'essenza della mente è il pensiero, non questo o quel pensiero, ma il pensiero in generale. Ma ciò pare del tutto inintelligibile, poiché ogni cosa che esiste è particolare, e perciò devono essere le nostre distinte percezioni particolari che compongono la mente. Dico, compongono la mente, non appartengono ad essa. La mente non è una sostanza, alla quale le percezioni ineriscano. Questa nozione è altrettanto inintelligibile di quella cartesiana secondo la quale il pensiero o la percezione in generale è l'essenza della mente. Noi non abbiamo alcuna idea di una sostanza di qualsiasi genere, perché non abbiamo alcuna idea che non sia derivata da qualche impressione e non abbiamo impressione alcuna di una qualsiasi sostanza, materiale o spirituale che sia. Noi conosciamo soltanto qualità e percezioni particolari. Come la nostra idea di un corpo, per esempio di una pesca, non è che l'idea di un particolare sapore, colore, figura, grandezza, solidità ecc., così la nostra idea di una mente non è che quella di particolari percezioni, senza la nozione di tutto quello che chiamiamo sostanza, semplice o composta che sia.
    Il solo mezzo per cui possiamo sperare di ottenere un successo nelle nostre ricerche filosofiche è quello di abbandonare il tedioso ed estenuante metodo seguito fino ad oggi; invece d'impadronirci, di tanto in tanto, d'un castello o d'un villaggio alla frontiera, marciamo direttamente sulla capitale, ossia al centro di queste scienze, alla natura umana: padroni di esso, potremo sperare di ottenere ovunque una facile vittoria. Movendo di qui, potremo estendere la nostra conquista a tutte le scienze piú intimamente legate con la vita umana e procedere poi con agio a quelle che sono oggetto di pura curiosità. Non c'è questione di qualche importanza, la cui soluzione non sia compresa nella scienza dell'uomo, e non c'è nessuna che possa venire risolta con certezza se prima non la padroneggiamo. Accingendoci quindi a spiegare i princípi della natura umana, noi miriamo in realtà a un sistema completo delle scienze costruito su di un fondamento quasi del tutto nuovo e tale che solo su esso possano poggiare con sicurezza.

Citazioni su David Hume

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  • David Hume partendosi da principii di quella scuola [del sensismo], la quale non ammette altra sorgente di tutte le nostre conoscenze in fuori delle sensazioni, con severità ineluttabile di critica ne deduceva: essere noi del tutto privi di ogni fondata conoscenza circa i rapporti d'ordine necessario ed immutabile nella successione degli avvenimenti sì fisici e sì morali. E questa conseguenza del Hume, nella quale contiensi il rovesciamento di ogni fondamental garanzia dell'umano sapere, ove si ammetta l'origine esclusiva sopraddetta di tutte le nostre conoscenze, ha il valore di una rigorosa dimostrazione. (Benedetto Monti)
  • Hume ha perfettamente ragione quando afferma che l'induzione non può essere giustificata in alcun modo. (Karl Popper)
  • Il principio di Hume relativo alla teorica ideale è identico a quello di Locke; e benché esposto sotto novella forma, pure enuncia la medesima dottrina con maggior concisione: poiché egli dice: Tutte le nostre idee non sono che copie delle nostre impressioni, o, in altri termini, egli ci è impossibile di pensare ad una cosa se prima non l'abbiamo sentita, sia per lo mezzo de' nostri sensi esterni, sia per lo mezzo del senso intimo. Ed Hume, conseguente a questo principio, ha rigettato ogni credenza non solo alla esistenza del mondo materiale, ma dello spirito umano e di ogni altra cosa che non sia le impressioni o le idee. (Benedetto Monti)
  • Penso che esista almeno una teoria morale di rispettabile lignaggio e di buone e autonome credenziali che può rendere conto di queste intuizioni morali minime sul comportamento che dovremmo tenere verso gli animali.
    Si tratta della teoria di Hume. Non considero Hume un precursore dell'utilitarismo, per cui quanto dirò a sua difesa non deve essere inteso come difesa di una versione dell'utilitarismo. Dal mio punto di vista Hume è molto più vicino a Aristotele che a Mill: egli ci presenta una teoria delle virtù umane, non una teoria relativa alla massimizzazione dell'utilità e ai doveri che ciò può comportare. (Annette Baier)
  1. Citato in AA.VV., Il libro dell'economia, traduzione di Olga Amagliani e Martina Dominici, Gribaudo, 2018, p. 47. ISBN 9788858014158
  2. in Essays, Moral, Political, and Literary (1741-2; 1748), Part I, Essay 9: "Of The Parties of Great Britain".
  3. Da Ricerche sull'intelletto umano, 5, 1; citato in Dizionario delle citazioni, a cura di Ettore Barelli e Sergio Pennacchietti, BUR, 2013.
  4. Citato in Franca Rosti, Tra virgolette. Dizionario di citazioni, Zanichelli, Bologna, 1995, p. 8. ISBN 88-08-09982-2
  5. Da La regola del gusto.
  6. Citato in AA.VV., Il libro della filosofia, traduzione di Daniele Ballarini e Anna Carbone, Gribaudo, 2018, p. 152. ISBN 9788858014165
  7. Da An Enquiry Concerning Human Understanding, 1748, sezione X: "Of Miracles", parte I, 87.
  8. Da Dialoghi sulla religione naturale, parte II, pp. 173-175.
  9. Da Dialoghi sulla religione naturale, prologo, p. 115.
  10. Da Sul suicidio, in Opere, a cura di E. Lecaldano, Laterza, Roma-Bari, 1987, vol. III.
  11. Citato in Giovanni Reale, Dario Antiseri, Il pensiero occidentale dalle origini ad oggi, 2, Dall'Umanesimo a Kant, 2. ed., La Scuola, Brescia, 1983, p. 414.
  12. Da Ricerca sull'intelletto umano, sez. I; citato in Guido Ceronetti, La pazienza dell'arrostito: giornale e ricordi (1983-1987), Adelphi, Milano, 1990, p. 68. ISBN 88-459-0793-7
  13. Da Ricerca sui principi della morale, pp. 41-43.
  14. Incipit de Il suicidio, in Il suicidio e altri saggi morali, Laterza, 2008, p. 3.
  15. William Warham (1450 circa – 1532), arcivescovo di Canterbury e lord cancelliere d'Inghilterra.
  16. Stemma araldico.
  17. a b Sir Edward Coke (1552 – 1634), politico e giurista inglese.
  18. Citato in Aa.Vv., Etica e animali, Liguori Editore, Napoli, 1998, pp. 69-70. ISBN 88-207-2686-6
  19. Citato in Come funziona la filosofia, a cura di Marcus Weeks, traduzione di Daniele Ballarini, Gribaudo, 2020, p. 178. ISBN 9788858025598

Bibliografia

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