Giovanni Stefano Menochio

biblista e gesuita italiano

Giovanni Stefano Menochio (1575 – 1655), biblista e gesuita italiano.

Le Stuore [di Gio. Corona] tessute di varia eruditione sacra, morale, e profana

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È Cosa non solo di molta consolitione, ma anco molto utile, anzi necessaria per l'intelligenza di molti passi del S. Evangelio, il sapere come sia ordinata la genealogia della B. Vergine, e di San Gioseffo. Nel cap. I. di S. Matt. num. 12. si dice che avo di S. Gioseppe fù Matthan, e padre Jacob; ma in S. Luca al cap. 13. num. 23. l'avo del medesimo S. Gioseffo si chiama Mathat,& il padre Heli, la qual diversità, come anco degli altri ascendenti cagiona non poco difficoltà in questo particolare. Sono varii i modi di accordare questi luoghi, che pajono frà di se contrarij. Il più facile, più spedito, e più probabile è, che S. Matteo abbia descritto gli ascendenti di Cristo per linea paterna, e S. Luca abbia descritto gli ascendenti per via materna.

Citazioni

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  • Alfonso Ciaccone lib. de lignis sanctis s. Crucis cap. 30. si sforza di provare, che la Croce del Signore fosse di Quercia. Le ragioni, che egli adduce sono le seguenti. Primo, perche in Terra santa vi sono molti alberi di questa specie, onde spesso nella Sacra Scrittura si fa mentione di quercie, e di boschi di quercie. Secondo, perche questo legno è molto a proposito per quello effetto, per ragione della sua fortezza, e durezza. Terzo, perche la quercia è di grandissima durata, che però insino a nostri giorni si veggono perticelle della Croce di Cristo, che non sono punto tarlate, e guaste dall'antichità. Quarto, perche il legno della quercia è molto pesante, e dall'Evangelio sappiamo, che la Croce di Cristo fu molto grave, onde bisognò imporla a Simeone Cireneo, perche Cristo non poteva più longamente portarla. Quinto, perche conferendo il legno della Croce con altri legni di quercia, pare che sia veramente di quella specie. (da Centuria Prima, p. 7)
  • Il P. Emanuele Sà della Compagnia di Giesù huomo più dotto assai che non mostrino li tre libri da lui dati in luce sopra il vecchio, e nuovo testamento, e in materia morale ne’ suoi aforismi, leggeva nel Collegio Romano la sacra Scrittura l’anno 1582. nel qual anno nel mese d’Ottobre si fece da Gregorio XIII. la riforma del Calendario, aggiungendovi li dieci giorni che erano trascorsi. Hor facendo questo Padre la sua prima lettione o prefatione come s’usa al principio del Novembre seguente, e volendo mostrare che non dobbiamo sbigottirci, né dubitare per le difficoltà che tal volta, anzi bene spesso occorrono nell’intelligenza della sacra Scrittura, valendosi del fatto del Pontefice che il mese precedente aveva corretto l’anno, apportò questa similitudine. Se alcuno, disse egli, ritrovasse dopo alcune centinaia d’anni una Scrittura, che dicesse così: L’anno 1582. à 15. d’Ottobre che fu il giorno dopo S. Francesco etc. nascerebbe subito difficoltà della verità di questa Scrittura. Direbbe uno, ha errato lo Scrittore, il quale volle dire à i cinque, e disse à i quindici. Un altro direbbe che forse anticamente si faceva la festa di San Francesco alli 14. e che però non c’è errore niuno nella Scrittura. Un terzo direbbe che quella lettera, i, è articolo e non nota aritmetica, e che però quello che fece la scrittura non disse à 15. ma à i 5. che scritto disteso, e senza note d’abaco vuol dire à i cinque, e questa interpretatione parrebbe forsi la più probabile, e la più vera, e sarebbe con applauso ricevuta. Con tutto ciò niuno di questi interpreti s’appone, né tocca il vero sentimento, perché la verità è che s’ha da dire à li quindici, che fu il giorno dopo S. Francesco, né è vero che si sia mai fatta la festa di questo Santo alli 14. né è vera la specolatione di quello che si persuade che quella lettera i sia articolo, e non nota aritmetica, ma quello che è vero, e che scioglie le difficoltà, è che veramente l’anno del 1582. la festa di S. Francesco si celebrò alli 4 e per l’aggiunta delli dieci giorni trascorsi si disse il giorno seguente à li 15. e quella scrittura sta bene così come suonano le parole, tutto che ciò sia difficile da capirsi, anzi inintelligibile, da chi non sa quel fatto del Pontefice Gregorio. Così apunto, disse Emanuel Sà, avviene nell’intelligenza delle sacre Scritture, che il non sapere una circonstanza, una istoria, un rito, etc. ci oscura talmente il sacro testo, che non possiamo superare le difficoltà; il che però non deve portar pregiuditio alla ferma credenza che habbiamo della veracità di essa Scrittura, e de gl’autori di essa, che l’hanno scritta seguendo l’indrizzo, e inspiratione dello Spirito Santo, che non può ingannarsi, né ingannare. (da Centuria Prima, pp. 20-21)
  • [Sulla Septuaginta] Al tempo di Tolomeo Filadelfo, il quale visse circa 300 anni avanti di Christo furono li settantadue interpreti chiamati in Egitto da questo Rè, accioche voltassero la Sacra Scrittura del Vecchio Testamento dalla lingua Hebrea nella Greca. [...] Quanto poi tocca al modo di quella tradottione, in alcune cose s'accordano gli Autori, in altre differiscono frà di loro. S'accordano, che li vecchi furono settantadue, sei di chiascheduna delle tribù, tutti intelligentissimi delle due lingue Hebraica, e Greca, e che miracolosamente nello spatio di settanta due giorni compirono la loro interpretatione. Non s'accordano, perche alcuni dicono, che ciascheduno fù rinchiuso nella sua celletta, e che per miracolo riusci la interpretatione di ciascheduno del tutto conforme nel senso, e nelle parole con le versioni degli altri, di modo tale, che furono settandue esemplari ne anco in un sol punto differenti di se. (da Centuria Prima, pp. 30 e 31)
  • Ne' tempi antichi prima, che fossero in uso li alloggiamenti pubblici, dove sono li forastieri alloggiati per danari, era molto in uso l'hospitalità, e li palagi de' gran personaggi non erano mai chiusi à quelli, che veggiando capitavano à casa loro. Si potrebbero in confermatione di questo apportare molte prove, ma io voglio restringermi solamente à quello, che ritrovo in Homero, con toccare alcune usanze di quel tempo, delle quali esso fa mentione. E principalmente mi sovviene un certo Assilo, del quale parla quel Poeta nel lib. 6. dell'Iliade al verso 12. e dice, che egli habitava ad Arisbe, luogo molto bene fabbricato, e che essendo ricco di facoltà, era benigno con tutti, e tutti albergava in casa sua, la quale era situata sopra della publica strada. Nota Eustachio famoso espositore di Homero, che à punto s'era Assilo eletto l'habitatione vicina alla strada per potere più commodamente invitare à se, e dar ricetto ad ogni sorte di passaggieri. Non mancano di quelli, che stimano, che Homero non approvasse quella tanto profusa, indistinta, e liberale hospitalità, perche nel verso 16. soggiunge, che fù ammazzato da Diomede, e quasi che volesse mostrare, che era soverchia quella sua liberalità. (da Centuria Prima, p. 50)
  • Per conclusione di questo capitolo soggiungerò una bellissima consuetudine, che mi è stata riferita da persona degna di fede, pratticata già nella Città di Bertinoro, che è situata nella Romagna in questa materia, che trattiamo dell'hospitalità. Mi diceva quell'amico, che nella piazza della città, & in altri luoghi publici erano fitti nel muro certi uncini, ò anelli di ferro, disposti sparsamente in quei luoghi, per commodità de' passaggeri, che con le loro cavalcature arrivavano à quella Città, e che li cittadini più commodi de' beni di fortuna si havevano frà di loro distribuiti quelli anelli in modo, che ogn'uno sapeva quale fosse il suo, e che quando alcun forastiero attaccava il cavallo ad alcuno di essi, quello di cui era quel tale anello invitava il forastiero, ancorche da lui non fosse conosciuto, ad albergare in casa sua, e gli usava, come se fosse amico, e conoscente di molto tempo, molta cortesia. (da Centuria Prima, pp. 52-53)
  • Il secondo luogo è pigliato dagli Atti degli Apostoli cap. 19. 12. dove si racconta, che Pauli semicinstia facevano miracoli, e che con il tatto loro si curavano le infermità. Rispondo, che semicinstium non era altro, che quello, che in italiano chiamiamo grembiale, che à punto, secondo l'etimologia della voce, e un drapo, che cinge per la metà il corpo, e s'adoperava da S. Paolo mentre s'esercitava nella sua arte di far padiglioni, come fanno anco gli altri artefici, che per non imbrattare le vesti si mettono il grembiale, mentre s'affaticano nelle loro opere manuali, e mecaniche. (da Centuria Prima, p. 92)
  • Così quella veste che noi dimandiamo Piviale, & in latino Pluviale, era propriamente ordinata à difendersi dalla pioggia, ma anco serviva, come serve hoggidì, nel ministerio dell'altare. (da Centuria Prima, p. 93)
  • S. Gregorio nell'homilia 33. sopra gli Evangelii, Beda, Teofilatto, & Eutimio, parlando di questi sette demonii, sono di parere, che si ponga il numero settenario certo, e determinato in luogo di un numero indefinito, & incerto, e che tanto sia dire septem demonia, come multa demonia. Si fondano questi dottori nel costumo, della Scrittura, nella quale questo numero di sette si usa à questo modo, quanto molte volte. (da Centuria Prima, p. 127)
  • Nel cap. 6. dell'historia della sacra Genesi parlandosi delle misure dell'Arca di Noè, si dice così: Trecentorum cubitorum erit arca, quinquaginta cubitorum latitudo, e triginta cubitorum altitudo ejus. Il cubito, secondo la commune opinione, è un piede, e mezo, overo tanto di longhezza, quanto è dal gomito del braccio piegato insino all'estremità della mano stessa, e dal dito di mezzo di essa. Supposte queste misure, la capacità interiore dell'arca, fù di quattrocento cinquanta milla cubiti, ò vogliamo dire cubiti sodi, ò cubi, il che è chiaro, perche se moltiplichiamo li trecento cubiti della lunghezza dell'arca, per li cinquanta della larghezza, ne risultaranno quindici mila cubiti quadrati, e questi, se li moltiplichi per li trenta dell'altezza, arrivano à quattrocento cinquanta milla cubiti sodi, come habbiamo detto, che è capacità sufficiente per poter in essa habitare gli huomini, e gli animali, che la scrittura dice essere stati introdotti in essa, e per potervi allogare tutte le provisioni necessarie per il loro mantenimento. (da Centuria Seconda, pp. 152-153)
  • Primieramente nel fondo dell'arca vi era la zavorra, ò vogliamo dire arena, ò ghiaja, necessaria per fare, che l'arca andasse con quel peso ben bilanciata, & uguale, il che vediamo farsi in tutti li vascelli grossi, che navigano il mare. In questo medesimo fondo ancora era la sentina, nella quale si scaricavano per canali le bruttezze de' superiori tavolati, le quali bruttezze poi si cavavano dalla sentina con machine, e vasi a proposito, e forami fatti à quello effetto nel secondo piano, e si gettavano nel mare. Il Torniello però stima, che si gettassero fuori per fenestra, che sola era nell'arca. (da Centuria Seconda, p. 153)
  • Gll'animali, che si chiamano anfibii, perche vivono parte in acqua, parte in terra, se furono di tal conditione, che non potessero durare in acqua lungamente, hebbero luogo nell'arca. (da Centuria Seconda, p. 153)
  • Quelli, che nascono di putredine come li sorci, non vi furono introdotti, ma sorci naturalmente vi nacquero fra le sordidezze, & immondizie dell'Arca. (da Centuria Seconda, pp. 153-154)
  • Il senso del qual luogo è, che gli Ebrei della Tribù di Dan furono talmente stretti dagli Amorrrei ad habitare nelle montagne, che ne anco hebbero tutte le Città, che in esse erano, ma alcune restarono a gli Amorrei, cioè quelle tre particolari, il Monte Hares, Ajalon, e Salebin. Del primo di questi luoghi dice la Scrittura, che vuol dire Testaceo, & il medesimo dicono li settanta, i quali voltano in monte Testaceo. Potrebbe pensare alcuno, che quel monte fosse così chiamato per la medesima causa per la quale ha il medesimo nome, il monte Testaccio di Roma, che è vicino al Tevere, & è alto piedi 160. e circonda tre ottave parti di un miglio. Fù questo monte fatto à poco, con occasione, che fù proibito, che nel tevere non si gettassero rottami de' vasi per schivare , che il fondo del fiume non s'inalzasse, e conseguentemente restasse impedita, ò sostenuta la corrente dell'acqua, e nelle piene s'ingorgate il Tevere, & allagasse la Città. (da Centuria Seconda, p. 154)
  • Plinio, Strabone, & altri celebrano la grandezza di Tebe nell'Egitto, della qual città si scrive, che haveva cento porte [...] e dicono che il tempo di guerra poteva da ciascheduna porta mandar fuori dieci mila soldati. Queste cose pajono favolose, ma l'autorità de' gravi scrittori, appresso de' quali si leggono, fa, che possono essere stimate non incredibili. E quanto all'ampiezza, e circuito delle Città, minore sarà la maraviglia, se consideraremo, che in alcuni paesi Orientali non s'usa fare le case alte, e di molti palchi, ma tutte le stanze, e sale sono terrene, il che fà, che molto più si stendano in larghezza, che non fanno le nostre d'Europa e d'alcune Città d'Italia in particolare, dove hò visto le case tant'alte, che havevano infino à sette palchi gli uni sopra gli altri valendosi d'alzar le fabbriche ne' luoghi, dove per carestia di sito non si possono molto dilatare. (da Centuria Seconda, p. 197)
  • Gli antichi gentili credettero, che le anime separate da corpi, & arrivate all'inferno per essere ivi castigate delle operationi loro vitiose, e, condotte ai campi Elisi luogo destinato per habitazione de' beati, bevessero prima l'acqua del fiume Lethe, che faceva scordare tutte le cose di questa vita. (da Centuria Seconda, pp. 204-205)
  • Papa Giulio II. l'anno 1509. spedì una bolla contro li duellanti, nella quale toccò le ragioni, per le quali severamente prohibiva così fatti combattimenti, dicendo primieramente, che si venga dalle parti a quelli cimenti per instigatione del Demonio. Secondo, che dalli duelli ne seguivano morti repentine, condannatione delle anime, e peccato degli astanti, e con scandalo di quelli, che dal fatto venivano à notitia. Terzo, perche non si doveva tentar Dio, e volere, che per tal mezzo manifesti, da qual parte de' combattenti sia la ragione, e la giustitia. Quarto, perche questi sanguinosi spettacoli sono prohibiti dalli sacri canoni, & c. gravissime in questo proposito sono le parole del Concilio di Trento. (da Centuria Seconda, p. 209)
  • Dalle cose che, habbiamo fin qui dette, si può rispondere agli argomenti addotti di sopra: oltre che si può dire, che David disse quelle parole in excessu suo, quando vedendosi oppresso da travagli, abbandonato dagli amici, con esageratione proruppe in quelle parole. Così appunto veggiamo avvenire a quelli, che si ritrovano in grandi tribolazioni, & angustie che querelandoli dicono talvolta: Non c'è più fede nel mondo. Tutti seguono gli interessi loro, e cose simili. Quanto a quello, che dice Pietro Damiano: se tutti gli huomini sono bugiardi, sarai tu ancora bugiardo, perché sei huomo, risponde esso stesso: con una gratiosa argutia, dicendo, che non può opporre ciò a David, perche quando disse: Omnis homo mendax, lo disse in excessu, quando sollevatosi sopra di se, già non era più huomo, ma più che huomo. (da Centuria Seconda, p. 231)
  • Il caduceo era una tal verga, che era insegna d'essere messo pubblico quello, che la portava, onde anco lo rendeva sicuro, & inviolabile in mezo alle squadre de' nemici. Hor quelli, che contro quella ragione delle genti, e naturale operano, non solo meritano biasimo, ma anco grave, & esemplare castigo. (da Centuria Seconda, p. 248)
  • Quivi hò detto, che opus interrasile è qual lavoro, che fanno gli scultori, che non è in tutte le sue parti piano, uguale, e liscio; ma parte incavato, sollevato, e per così dire, aspro. Volgarmente nella nostra lingua italiana si chiama, basso rilievo. (da Centuria Seconda, p. 276)
  • Li Publicani, de' quali spesso si fa mentione nell'historia Evangelica, erano gli esattori delle pubbliche gabelle, li quali erano grandemente odiati dagli Ebrei, che li stimavano peccatori; e professori di ufficio infame. (da Centuria Seconda, p. 291)
  • Plutarco ancora nella via di Lucullo, dice, che egli cacciò dall'Asia li Publicani, come Harpie, che delle facoltà de' paesani honestamente guadagnate, e possedute fecero preda. Hor questi Publicani, come detto habbiamo, particolarmente odiati dagli Ebrei, e l'Abulense sopra 'l prologo di S. Girolamo in Evangelia, dice, che la causa di ciò era, perche l'ufficio di Publicano difficilmente poteva esercitarsi senza peccato. Il Giansenio nel capo 13. della sua concordia Evangelica, perche erano avari, ingiusti, e rapaci. Il Cardinal Baronio nel tomo primo de' suoi annali all'anno di Christo trent'uno, perche gli Ebrei stimavano di dovere essere esenti da' tributi, contributioni, e gabelle, le quali erano da' Publicani riscosse. (da Centuria Seconda, p. 292)
  • Il modo di macinare degli antichi, e di cavare la farina dal grano, era al principio il romperlo pistando ne' mortari: al quale poi succedettero le mole, che girare à mano, ò da giumenti, più speditamente, e meglio facevano l'effetto. Le mole à mano erano per ordinario girate da' schiavi, ò dalle schiave, & era ministerio molto faticoso, e vile, che però come di tale se ne fà mentione nel c. II dell'Esodo, mentre si dice: Morietur omne primogenitum à primogenito Pharaonis usque ad primogenitum ancille, quaesi ad molam. Così Sansone fatto prigioniero, e trattato da schiavo da' Filistei, fù condannato alla mola. Homero nel lib. 7. dell'Odissea dice, che Alcinoo Rè de' Feaci haveva nella sua famiglia cinquanta schiave, alcune delle quali attendevano alla macina. (da Centuria Seconda, p. 296)
  • E noto assai, e celebre il fatto di Sansone, che fatto prigione da' Filistei, privato del lume degli occhi, in varie maniere maltrattato, e schernito, alla fine dalla rovina del Tempio di Dagon da lui procurata con scuottere le colonne, insieme con gl'inimici del suo pupolo rimane oppresso. Habbiamo quest'historia nel cap. 16. del libro de' Giudici, dove si racconta che essendo per tradimento di Dalida fatto prigione, e tenuto per qualche tempo in carcere, occupato in girare la mola da mano, con la quale si macinava il formento, finalmente un giorno solenne, nel quale havevano fatto sacrifici al loro idolo Dagon, e poi convito, venne loro voglia di far condurre alla presenza de' convitati il loro prigione, e pigliarsi piacere di vederlo in quello stato, e fargli anco degli insulti per vendetta de' danni, che da lui havevano ricevuti. Sansone colà condotto, accostandosi a due colonne principali, che sostenevano l'edificio, di tal maniera le scosse, che rovinò il Tempio con morte di molti, frà quali fù anco l'istesso Sansone autore di quella rovina. (da Centuria Terza, p. 307)
  • Teodoreto nell'historia de' Santi Padri al cap. 26. parlando di S. Simeone Stilita, che, come habbiamo detto altrove, habitava sopra d'una colonna, e concorreva molta gente da diverse parti per vederlo, conciosiache la sua vita era un continuo miracolo, e racconta quest'autore, che fù, chi osservò, e numerò quante volte dentro lo spatio d'un'hora s'inginocchiò ad adorare la maestà di Dio, con toccare il suolo di quel poco piano, sopra del quale stava sempre in piedi, e furono milleducento, e quarantaquattro, e più ancora, perche si stancò chi numerava, non istancandosi chi faceva quelle profondissime riverenze. (da Centuria Terza, p. 322)
  • L'anno settimo della legge Mosaica si chiamava anco Sabbatico, perche si come Iddio, come habbiamo nella Genesi, sei giorni operò, & il settimo giorno, cioè il Sabbato, si riposò, così commandò, che li Giudei sei anni coltivassero la terra, & il settimo cessassero da ogni coltura. Questa legge l'habbiamo nel Levit. cap. 25. 2. (da Centuria Terza, p. 333)
  • Haveva questo anno Sabbatico quattro privilegii. Il primo era, che non potevano li Giudei quell'anno seminare i campi, ò mietere, potare le viti, ò vendemmiare, ma si lasciava, che le vigne, & i campi riposassero, come si dice nel luogo citato del Levitico, e nell'Esodo cap. 23. 10. [...] Così commandò Dio per più cagioni. Primieramente, perche li Giudei non fossero più di quello, che conviene, solleciti nel provedersi delle cose del vitto, ma imparassero a dipendere dalla divina providenza. Secondo, acciocche quel settimo anno fosse simbolo, e memoriale del giorno settimo, nel quale il Signore si riposò dall'opera della creazione del mondo. Quarto, acciocche li poveri in quell'anno settimo godessero de' frutti, che la terra non coltivata producea spontaneamente conforme a quello, che commandava la legge dell'Esodo al luogo citato, cioè cap. 23. 10. (da Centuria Terza, pp. 333-334)
  • La zazzera copiosa di Absalone, della quale habbiamo parlato nel capitolo passato, m'hà fatto sovvenire del calvitio d'Eliseo, che da' fanciulli con sfacciataggine, e protervia gli fù rinfacciato, come habbiamo nel 4. lib. de' Rè al capitolo 2. 23. [...] Non c'è dubbio che il calvitio è una deformità naturale, che disdice si come disdice, & è cosa deforme un prato senz'herba, overo un'albero senza frondi, onde ben disse Ovidio [...] Et Aristotele che paragonò nel quinto libro de generatione animalium, l'essere calvo negli huomini al non havere piume gli uccelli, e foglie gli alberi, il che dice lancio Sant'Ambrosio lib. in Hexam. cap. 8. (da Centuria Terza, p. 339)
  • Il Sabellico Eneide prima lib. 9. & il Tiraquello legge 11. connurbiali, hanno creduto che il nome proprio di quella Regina fosse Saba, nel che si sono ingannati, perche Saba è il paese, nel quale regnò questa Principessa, del qual paese parleremo poi. Quale fosse il nome proprio di lei non si hà di certo. Gioseffo, e Pietro Comestore nell'historia Scolastica la chiamano Nicaule. Giovanni da Barros nell'historia delle cose di Persia decade 3. lib. 4. cap. 2. & il Genebrardo nella cronologia dell'anno del mondo 3150. tengono, che havesse questi due nomi proprii Macheda, e Nicaule. Altri stimano, che si chiamasse Candace, che fù nome commune della Regina d'Etiopia, come lo dice Plinio lib. 6. c. 9. con queste parole. (da Centuria Terza, p. 340)
  • Quanto alla Religione, Giovanni de Barros citato dice, che quella Regina fù idolatra, & il medesimo accennano molti Santi Padri, S. Gio: Grisostomo, S. Hilario, S. Gregorio Nisseno, & altri. Io per me inclino più al parere di quelli, che la paragonano, e la numerano con Ruth Moabitide; con Raab Cannanea, e con Hiram Rè di Tiro, & altri simili, i quali, se bene non furono di natione Ebrei, ad ogni modo venerarono il vero Dio, il che pare si possa argomentare da quelle parole piene di pietà e religione verso il vero Dio, che habbiamo 3. Reg. 10. 9. (da Centuria Terza, p. 340)
  • Il P. Cornelio a Lapide sopra di questo luogo dice cosa, che fà al proposito nostro, cioè che fù in Frisia presa una Sirena, la parte superiore della quale era donna, & il resto pesce, e che visse molti anni fra gli huomini, e che anco imparò a filare. (da Centuria Terza, p. 343)
  • Così un figlio illegittimo di Ulisse, e di Circe se non scelerato di costumi, almeno sfortunato, del quale, perche inavvedatamente uccise il padre, dice Oratio lib. 3. carmin. ode 39. Telegoni juga parricida. hebbe molto convenientemente questo nome di Telegono, che vuol dire nato in paese lontano, ò quello, che fà al nostro proposito nato nell'ultimo luogo fra i suoi fratelli. (da Centuria Terza, p. 365)
  • L'uso dell'antimonio era ordinato à far comparire nere le ciglia, come dice il Mercuriale nel lib. 2. de compositione medicamentorum al cap. 8. con queste parole: Antimonio non sunt usi majores nostri ad purganda corpora, sed solum ad ornandos oculos, ad denigranda supercilia. Dioscoride nel lib. 5. capit. 53. dice, che l'Antimonio dilata gli occhi, e che però se gli dà quest'epiteto di platyophthalmon, nella lingua greca, che è tanto, come dire, che hà facoltà di far comparire gli occhi maggiori di quello, che sono, credo con il giro, chi si fà ne' cigli tinti di nero con questo minerale. (da Centuria Terza, p. 371)
  • In più d'un luogo dell'Evangelio si legge quel detto di Christo: Nemo propheta est acceptus in patria, cioè in S. Matteo al cap. 13. in S. Marco cap. 6. in S. Luca cp. 4. S. Giovanni pure al capo quarto. Veramente provò Christo ciò esser vero in Nazaret patria sua, dove era stato allevato, perche li suoi cittadini dicevano di lui parlandone con maraviglia insieme, e con dispreggio. (da Centuria Quarta, p. 453)
  • Con questa occasione non voglio lasciare di riferire in questo luogo quello, che ritrovo nel Baronio l'anno di Christo 647. tom. 7. cioè, che volendo Teodoro Papa scommunicare Pirro già Patriarca di Costantinopoli heretico monotelita, accostandosi al sepolcro di S. Pietro, & ivi dal calice consecrato instillando nel calamajo del sangue di Christo, scrisse con questo liquore la sentenza di scommunica, e dispositione contro quel scelerato, & ostinato heretico. (da Centuria Quarta, pp. 464-465)
  • La lettera Ipsilon maiuscola si fà con due corna, per chiamarle così, uno de' quali è largo, e spatioso, ma finisce in stretto; al contrario l'altro, che è il destro, con essere angusto nel principio, nel fine si và dilatando. Questa lettera diceva Pitagora, che era simbolo della strada, che fanno tanto li virtuosi, e buoni, quanto quelli, che si danno in preda al vitio, e questo pensiero fù espresso con quei versi assai vulgati. (da Centuria Quarta, p. 569)

La correttione dell'anno si fece da Gregorio XIII. l'anno del Signore 1582. il giorno di S. Francesco, che è alli quattro d'Ottobre, & il giorno seguente si disse non alli cinque, mà alli quindici. Il P. Lodovico Richeomo nel suo libro de' miracoli al cap. 9. racconta, che egli si ritrovava quell'anno nella città di Digion in Francia, e che con suo gran gusto senti certi contadini, che lavoravano nelle vigne, a' quali era stato detto della riforma dell'anno, il che essi non bene intendevano, e dicevano gli uni à agli altri: Che cosa si può essere fatto di questi dieci giorni, che il Papa ha levato dall'anno? Come possano esser passati senza che se ne siamo accorti, e non habbiamo havuto novella? Quando passarono, era di giorno, ò di notte? Forse noi dormivamo, quando il vento se gli ha portati per aria. Come è possibile, che noi siamo stati dieci giorni senza bere? Tali erano li discorsi di quei semplici contadini, li quali, dice il medesimo autore, seguirono per un poco il calendario vecchio (che non era ancora così ben introdotto il nuovo) e conforme all'uso antico fecero il Natale, e poi di nuovo l'istesso Natale fecero conforme al calendario riformato, mà non velero già fare al medesimo due Pasque, per non haver à fare due Quaresime, che però s'accommodarono ad osservar per l'avvenire le feste del Gregoriano. Questo sia detto per ricreatione del Lettore.

Bibliografia

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  • Giovanni Stefano Menochio, Le Stuore [di Gio. Corona[1]] tessute di varia eruditione sacra, morale, e profana, stampato in Venezia per Stefano Monti, MDCCXXIV, ristampa anastatica senza data, Milton Keynes UK. ISBN 9-781173-654023

Note alla Bibliografia

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  1. Giovanni Corona è lo pseudonimo con cui il padre gesuita Giovanni Stefano Menochio pubblicò nel 1646 a Venezia la prima centuria delle Stuore. L'enorme successo dell'opera indusse successivamente il Menochio a ristamparla, previo imprimatur della Compagnia di Gesù, con il proprio nome. Nell'occasione, la mole delle Stuore, una miscellanea di "historie curiose, e questioni amene, e riti antichi di varie sorti", venne ulteriormente ampliata raggiungendo il ragguardevole numero di 600 storielle. Per favorirne la riconoscibilità presso i lettori, Menochio decise di mantenere nella copertina e nel frontespizio il vecchio pseudonimo. Il titolo Stuore, ossia stuoie, intende rimandare alle stuoie che i romiti cristiani del deserto tessevano per poi venderle a fine anno. Cfr.[1], treccani.it

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