Renato Simoni

giornalista, drammaturgo e critico teatrale italiano (1875-1952)

Renato Simoni, noto anche con gli pseudonimi di Turno e Il nobiluomo Vidal (1875 – 1952), critico teatrale, giornalista, commediografo, poeta, librettista, regista e sceneggiatore italiano.

Renato Simoni con Emma Grammatica (1930 circa)

Gli assenti

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  • Pochi giorni prima che egli ci lasciasse si era sparsa la falsa notizia della sua morte. Alcuni giornali pubblicarono articoli listati a lutto che parlavano di lui e dell'arte sua con accorato rimpianto. Gerolamo Rovetta rise di questa sinistra e bizzarra avventura, ma non troppo. «Meno male, disse tra divertito e seccato, che so quello che diranno di me quando morirò davvero!». (p. 7)
  • Nato di salda schiatta bresciana e vissuto lungamente a Verona egli [Gerolamo Rovetta] aveva insieme la rudezza franca e cavalleresca del suo paese nativo e la gaia finezza veneta. La sua conversazione era tutta tratti vivi, scoperte geniali, luci improvvise; il suo spirito buono, senza malizie, pieno di sorriso allietava lui e gli altri. La sua causticità non lasciava il segno: nasceva sempre dal suo buon umore non mai dal suo astio, e quel caratteristico dialetto mezzo lombardo e mezzo veneto che parlava, conferiva ad essa non so che garbatezza casalinga, non so che disinvoltura signorile. (p. 10)
  • [Giuseppe Giacosa] Mi pare ancora di vederlo e di udirlo parlare: nel suo viso arguto e buono si alternavano insieme una espressione protettrice e paterna e una ingenuità quasi infantile, i suoi occhi erano pieni d'una pacata e forte serenità; le sue robuste mani sapevano stringere le altrui in un modo che era più cordiale ed eloquente della più fervida parola amica. Tutta la sua persona solida e massiccia pareva fatta per sfidare alacremente gli anni; tutto il suo spirito agile, pronto, fecondo, pareva incapace di arrestarsi e d'invecchiare. (p. 23)
  • Rievocare Giovanni Pozza? Chi non l'ha conosciuto non potrà mai immaginare quello che egli fu. La sua straordinaria personalità non si raccolse, non si disciplinò mai in un unico sforzo. Fiorì, scintillò, lampeggiò, si disperse in una quantità di impulsi, di slanci, di abbandoni, di desideri, di curiosità, di attitudini. Racchiuderla in linee definite è impossibile. Non si riprodurrà che una smorta immagine di quest'uomo inimitabile, che affascinò quanti lo conobbero, che dei suoi amici fu il delizioso, il generoso, il gaio tiranno; che, per la naturale vivacità dell'ingegno, fu sempre il principale interlocutore in ogni discorso, in ogni gruppo di uomini, in ogni conflitto di idee; la cui presenza scoloriva ogni altra presenza. (p. 45)
  • Il meglio di lui s'è perduto. Sono parole scintillanti che sono corse di bocca in bocca; è un volo di idee bizzarre e profonde; ironiche ed inaudite, che egli ha lanciato, di qua e di là, con folle signorilità, nel paradosso appassionato dei discorsi polemici, nel gioco ilare ed ingegnoso dei dibattiti sonori. Ma, ridette, quelle parole, ma ripetute da altri, quelle idee, non sono più le stesse. Esse non erano solo il prodotto del suo cervello, ma erano la sintesi di tutto Giovanni Pozza. (p. 46)
  • [Giovanni Pozza] Morì a 61 anni. Ma solo da due dimostrava la sua età. Prima s'era come fermato e definito in un aspetto che pareva immutabile. Un volto bruno, arso con un'espressione corrucciata tra gli occhiali e la barbetta; una figura giovanile, agile, snella, elegantissima. Magro e diritto, tutto nervi, passava per le strade rannuvolato entro la sua forte miopia, con un aspetto di gravità solitaria, e con un'anima fresca e curiosa e squillante, con delle allegrie e dei bronci da ragazzo. (pp. 50-51)
  • [...] De Amicis non ebbe una doppia vita, vita di scrittore e vita di uomo; fu scrittore solamente; e tutto in lui, gli occhi che vedevano, il cuore colmo di tenerezza, erano divenuti a poco a poco alleati e tributari dell'arte sua. Vivere per lui voleva dire preparare materiale per lo scrittore. (pp. 61-62)
  • [Edmondo De Amicis] Si dirà di lui che non ascese alle vette. Può darsi. Ma, se discese, fu per toccare il fondo dei cuori. Fu il maestro del riso tra le lacrime, il più soave che ci sia, quello che si propaga entro le anime, quello che al pari di certe pioggie d'aprile, lascia dietro di sé solo purezza, freschezza ed aroma. Amare era la sua necessità; e, dovunque visse, amò. (pp. 65-66)
  • Egli [Antonio Fogazzaro] poneva nell'opera sua la poesia degli affetti profondi, la bellezza delle memorie, il sacro mistero della morte. Non era, no, uno di quelli uomini alteri che si pongono di fronte all'universo e si illudono di pesarlo e di definirlo. Era l'uomo del piccolo mondo antico e del piccolo mondo moderno, della sua gente, della gente del suo sangue, della gente del suo amore. Cercava, non l'uomo, ma gli uomini, ed in tutti gli uomini quel senso del divino dal quale si sentiva gloriosamente acceso il cuore nel petto. Aveva bisogno della intimità degli spiriti e delle cose. (p. 78)
  • Fogazzaro è il poeta della ereditarietà, come Zola ne è il clinico: ma il segno delle discendenze è, per lui, quasi esclusivamente spirituale; è un brivido rivelatore, è una rapida e commossa intuizione, è la possente trasmissione di due misteri alti e nostalgici: Dio e l'amore. (pp. 79-80)
  • Beati, nel dolore quelli che, oltre all'arte di Arrigo Boito, hanno conosciuto la sua anima! Essi hanno respirato l'aria pura delle vette e intravvisti cieli alti e vasti. In quel misto di fierezza e di condiscendenza, di secche ire generose e di robusti entusiasmi che gli era proprio, nel bagliore conciso e rotto delle sue idee, nel foco mordente della sua intellettuale passione che s'appigliava alle cose per farne quasi vaporare visibile e caldo lo spirito, nel suo lungo tacersi appartato, negli improvvisi confidenti abbandoni pieni di larga umana solidarietà, si rivelava ricca spontanea ingegnosa pensosa alata la continua perfettibilità del suo grande spirito. (pp. 101-102)
  • [...] Arrigo Boito non si può chiamare soltanto musicista. La musica non era per lui un'arte a sé, ma il fiore, il sommo di tutte le arti. Perché la sua musica nascesse, fu necessario che egli fosse, prima, poeta, erudito, filosofo, e anche un po' mago; che la sua poesia avesse cercato di strappare, con i più arditi e bizzarri contrappunti di immagini e di parole quanto, più di impaccio pesante, di durezza restìa ha il verbo; che il poeta e l'erudito e il filosofo si fossero affaticati, sopra tutto, intorno alla tragedia del destino umano; che il mago avesse cercato di intravvedere la faccia di questo destino nella antica guerra del Cielo e di Satana; che dopo aver schernito, ne l'Homunculus – di un chimico demente, la propria acre impotenza a strappare il velo dell'Iside misteriosa, il filosofo, integrandosi nel musicista, emergesse dall'ombra con la sua pallida fronte per sollevarsi fino ai climi cristallini dell'armonia. (pp. 103-104)
  • Egli [Luigi Sugana] era tutto espresso e significato da una grande barba rossiccia e profluente, una barba fastosa, indiscreta, un torrente di barba, che stringeva entro le mani nodose e lisciava o rabbuffava secondo l'ora e l'umore. Il naso si protendeva e si inclinava aquilino per vederla tutta. Sugli occhi, talora, scendevano un po' sonnolente le palpebre pesanti; oppure, quando essi si arrotondavano vividi ed ilari, si inarcavano inquiete le sopracciglia che parevano spingersi più in su nella fronte, per ricacciare in alto e riunire le rughe. Portava quasi sempre una gabbana di falde ampie, maculata di grasso e di cenere, un cappelluccio stinto e sformato che non lasciava mai; credo neppure dormendo. (p. 133)
  • [...] la casa era, per lui, il sonno cieco e nulla più. Il suo mondo era la notte. La notte e Sugana si davano del tu. (p. 135)
  • Ogni passante era per lui [Luigi Sugana] un compare. Afferrava per il petto il primo che gli capitava, lo accarezzava con un «pare» pieno di erre e di paternità, lo incantonava presso un tavolino di marmo, gli offriva un bicchier d'acqua o un caffè e gli intronava le orecchie. Perché non sapeva parlare che forte. I suoi colloqui erano a tiro lungo, come i fucili. Potevano svolgersi da un angolo all'altro di un salone. Aveva la confidenza effusa per un raggio di venti metri. Le sue opinioni nascevano sonore. Gli esplodevano dal petto, facendo sobbalzare la barba rossa. (p. 135)
  • [Sandro Camasio] L'ho visto per l'ultima volta mentre cenava gagliardamente al Molinari di Torino con un cappuccino e un numero cospicuo di paste. [...]. Era un giovane di ventisei anni, con le spalle quadrate, un po' di baffi sotto il naso forte, un viso tra infantile e malizioso con il mento accentuato, un ciuffo calato di sghimbescio sulla fronte. Era tutto acceso di spiriti romantici e di appetiti giovanili. Giuocava con la vita atteggiandosi ad un certo sussiego di uomo spregiudicato ed esperto; ma, in realtà, era fresco, ingenuo, curioso e baldanzoso come un ragazzo. (p. 141)
  • [Sandro Camasio] Tutto in lui era istintivo, facile e gaio. Scriveva le commedie con una disinvoltura impetuosa. (p. 142)
  • Camasio accettò un posto di direttore artistico in una Casa di films cinematografiche. Girava col fischietto del comando nel taschino, e ogni tanto squillava un sufolo acuto da lacerare gli orecchi. Il fischietto era però, ancora, l'unico metallo che popolava le sue tasche. Gli altri, più considerati e correnti, si ostinavano a disertarle. E allora egli inventava i più sottili espedienti per batter moneta. Aveva il discorso persuasivo, una certa graziaccia pudibonda e guascona che avrebbero strappato un anticipo al più duro degli amministratori. Una volta scrisse appunto per averne uno, a chi gliene aveva già concessi parecchi. «Questa volta – gli fu risposto – devo dirle di no». E Camasio, a giro di posta: «Ha avuto ragione, e mi rassegno al rifiuto. Ora torno a chiederle l'anticipo perché, questa, è un'altra volta». Poi aggiungeva «Mi insulti ma mi accontenti». (p. 143)
  • Gandolin: non si può associare questa parola vivida e squillante al gelo e al silenzio entro i quali L. A. Vassallo è dileguato. Gandolin è un vero nome di battaglia, un programma di vita e di strepito, un colore purpureo agitato sopra il grigio monotono delle abitudini quotidiane; è tutto ciò che c'è di più lontano dagli strati negri del mortorio, dalla malinconia del cimitero. (p. 149)
  • Povero Braga! Era la sua esclamazione abituale. Cominciò ragazzo, alle prime pene a sospirare: «Povero Braga». Poi gli rimase quell'intercalare, per il male e per il bene, per le vittorie e per le sconfitte, col riso e con la rabbia: «Povero Braga». E gli amici avevano preso lo spunto, e lo acclamavano così, con quella parola di compianto fiorito sopra un ghignetto tra l'ilare e il satirico. (p. 161)
  • E Braga fischiava: aveva un suo certo modo di raccoglier le labbra a becco di clarinetto, di far passare per lo spiraglio un soffio stridulo che partecipava del sufolo e del nitrito. Era il leitmotif che accompagnava, per la vita, la sua persona. In strada chiamava gli amici così: parlando conchiudeva così il discorso, facendo poi spallucce, girandosi e andandosene. Non vi era modo di farlo star zitto: si trovasse davanti al più solenne barbassore del creato, egli emetteva il suo pazzo strepito labbiale. A Parigi, in casa della principessa Matilde, riscaldò di magnanimo furore il gelo cerimonioso d'un gran diplomatico fischiandogli in faccia. Un'altra volta, in America, a un concerto, mentre suonava il violoncello, chinò il capo e accompagnò la musica con quest'altra sua musica particolare: e il pubblico sorpreso e indignato pensava che fosse entrato qualche uccello sperduto, e vociava che si chiudessero le finestre. Si può dire che di lui non restano altri ricordi che questo fischio, un paio di romanze e una celebre novella di Antonio Fogazzaro, nella quale il Braga è adombrato sotto il nome di Lazzaro Chicco.(p. 162)
  • [Gaetano Braga] [...] scrisse circa venti opere, e musica da camera in gran quantità; e girò il mondo, concertista applaudito. Da vent'anni era un dimenticato. Io l'ho conosciuto molti anni or sono. Dava un concertino in casa sua. Riceveva gli ospiti con dei saltarelli bizzarri da sedia a sedia, con grandi esclamazioni rumorose, agitando le braccia ed il capo adorno di un rosso fez mussulmano. Magro, asciutto, con la barbetta bianca, le carni accese, con quei suoi sgambetti, con quella sua allegria secca che non gli scomponeva la faccia un po' truce e frenetica, pareva una trasformazione moderna della maschera di Pantalone: un Pantalone rauco e invasato, nervoso e burbero, un po' urlante, un po' gracchiante, un po' sibilante. E col nome di Monsieur Pantalon lo presentava a Parigi un suo amico; ma non per ragione dell'aspetto: che allora la canizie non c'era, e la barba e i capelli erano neri come gli occhi indiavolati. Monsieur Pantalon non era che un'allegra traduzione francese del suo nome. (pp. 162-163)
  • [Romeo Carugati] Era una figura tipica: la trascuratezza nel vestire, la poca cura di sé, quel suo modo nebuloso e fantastico di abbigliarsi con vaste giacche sformate e sfibrate, con cravatte stinte sulle quali si immalinconiva e si faceva opaca la lucida virtù dell'oro di qualche spilla inverosimile, contribuivano a far di lui qualche cosa di inusitato, di così sbalorditivo, che, chi lo vedeva per la prima volta entrare nella luce fastosa di una sala di teatro, si domandava chi fosse e di dove venisse. (p. 176)
  • A chi gli chiedeva: «Carugati, perché dai così poca importanza alla tua toilette?», rispondeva: «La mia toilette sarà quello che sarà, ma intanto io non ho debiti». Correvano delle amene leggende sul conto suo: «Io a teatro scrivo i miei appunti sui polsini». Avrebbe detto una volta; e, di rimando, qualcuno gli avrebbe risposto: «Li scriverai col gesso». Vero o immaginario che ciò fosse, una cosa è certa, che la sorpresa, la curiosità, la stessa malizia dei suoi osservatori, non lo conturbavano affatto. Egli se ne andava per la città, sereno, col suo passo un po' strascicato, ostentando come un'originalità i caratteri bizzarri del suo disordine. E, qualche volta, mentre parlava dell'ultima commedia, qualche topolino bianco gli faceva capolino dalle tasche. (p. 176)
  • [Romeo Carugati] Una causticità un po' salace e spesso felice, una certa rudezza nel dire, gli crearono fama di giudice schietto e indipendente. Non tutti i giudizi che diede erano equi; però egli non mancava di bontà, ed era, in ogni modo, incapace di trattenere entro di sé quello che gli pareva il vero. Tentò il teatro e il libretto d'opera, senza fortuna. Ebbe l'amicizia, un po' per paura, un po' per simpatia, soprattutto degli artisti lirici, dei quali conosceva i pregi e i difetti, e satireggiava con vivacità il gergo e le abitudini. Era un uomo di ingegno; di un ingegno un po' rozzo, un po' impreparato, ma appariscente e colorato. (p. 178)
  • Tra i suoi molti libri Jarro, per qualche anno, ha pubblicato una serie di Almanacchi Gastronomici. Questo dolce erudito, questo critico mordace, questo scrittore gaio e versatile, aveva, anche in fatto di cucina, un'autorità, una sapienza, una finezza, ormai giustamente celebrate. (p. 191)
  • [Jarro] Mangiava il pasto di un gigante con la minuzia delicata di una vergine. Quando spolpava un ossicino, pareva un orefice che attorcesse una filigrana. (p. 192)
  • [Victorien Sardou] Difficile immaginarlo taciturno. Gli piaceva il discorso vario ed agile; rompeva la parola in gola ai suoi interlocutori con una garbata e risoluta prepotenza per parlare lui continuamente. (p. 205)
  • [Victorien Sardou] Difficile immaginarlo inerte. Si levava di buon mattino e lavorava con una vivacità e una freschezza invincibile, nella sua casa piena di fiori. Abbozzava piani di commedie, intrecciava tele di libretti d'opera, passava dallo scrittoio al palcoscenico dei teatri a dirigere le prove delle opere sue vecchie e nuove; rannicchiato in una poltrona presso la cuffia del suggeritore, tutto raccolto entro uno scialle pesante; poi si svincolava dalla coperta, saltava nel mezzo della scena, insegnava i gesti, suggeriva le intonazioni di voce, recitava interamente le varie parti, indicava particolari sottili, coloriva effetti irresistibili, un po' curvo per gli anni, ma sempre animoso e fervido. (p. 206)
  • [Victorien Sardou] Impossibile immaginarlo fuori dai quadri. Pareva infatti che la sua attività creatrice non dipendesse in nessun modo dalle condizioni di vita e di forza che la regolano e la dominano negli altri uomini. Da più di un decennio si diceva: «il vecchio Sardou». E il vecchio Sardou inventava, componeva, rappresentava, come se la vecchiaia non volesse dire per lui aridità e riposo; e finita una commedia ne cominciava un'altra. (p. 206)
  • Noi che abbiamo conosciuto il Treves illustre e potente, il Treves un po' scettico e un po' caustico degli ultimi anni, un po' malinconico per la solitudine nella quale l'avevano lasciato, morendo, i suoi più splendidi amici, appartato ormai da tutto quello che non era il mondo abituale dei suoi affari, il Treves, al quale la ricchezza conquistata e l'abilità con la quale sapeva accrescerla avevano dato una fama d'uomo positivo e preciso, non possiamo immaginarlo ai primi passi, quando egli batteva le vie un poco zingaresche della letteratura. Eppure aveva cominciato con un dramma, e a tredici anni, all'età nella quale, di solito, l'unico teatro che si fa è quello dei burattini. Il dramma s'intitolava Ricchezza e miseria. Che egli sia riuscito a farlo rappresentare è sorprendente; ma è più sorprendente ancora che sia riuscito a farlo applaudire nella nativa Trieste. (p. 233-234)
  • I due fratelli uniti [Giuseppe ed Emilio Treves] diedero alla Casa [editrice] un grandissimo impulso. Essa raggruppò attorno a sé gli scrittori più celebri e più popolari. Opere d'ogni genere uscivano dai suoi attivi e già illustri torchi: collezioni storiche, collezioni di romanzi, raccolte teatrali, collezioni di scrittori stranieri, collezioni scientifiche, giornali e riviste fra i quali primeggiò prestò l'Illustrazione Italiana. Aver Treves per editore significava già, per uno scrittore, appartenere a una specie d'aristocrazia. Per quarant'anni la Casa Treves partecipò a tutti i più grandi avvenimenti della letteratura italiana. Dalia modestia piccolo-borghese del Museo di famiglia, quanta strada aveva fatto [Emilio] il correttore di bozze del Lloyd triestino! (pp. 236-237)
  • [...] la serenità di Emilio Treves fu straordinaria. In principio egli opponeva agli uomini e ai casi la sua imperturbabile calma; poi, con una specie di seria amenità, e un po' di sordità tra reale e leggendaria. Con quella sua magnifica adattabilità egli aveva tratto profitto anche da questa disgrazia. Talvolta non sentiva; spesso si rifiutava di sentire. E intanto rimoveva le carte sul suo tavolo, con le mani minute, con le dita che si raggruppavano in una specie di punta fatta di cinque punte come intorno a una penna, o piantava gli occhiali bassi sopra una bozza di stampa, e assaporava il virginia, e correggeva qua e la una virgola, un carattere, una parola. Correggeva tutto e tutti. Era un dominatore. (pp. 239-240)
  • La fortuna stessa s'era presto accorta che era inutile far la ritrosa con Emilio Treves. Un po' con l'ostinazione, molto col suo grande talento, più ancora con quella malizia contenta che disarmava anche i nemici, egli l'avrebbe ridotta a secondare i suoi desideri. E allora gli fu amica. Dove andava Emilio Treves ella andava; fosse pure presso a un pacato tavolino da giuoco. Ammirava certo quell'ometto un po' ansante, dal mento ampio roseo e ben rasato, dagli scopettoni candidi, dagli occhi frizzanti sotto molto peso di palpebre, divenuto ormai il patriarca di una vasta famiglia; quell'uomo al quale tutti volevano bene perché aveva la candida ostentazione dei suoi pittoreschi difetti e la scanzonata modestia delle sue immense qualità; quell'uomo che era uno degli spiriti più vivi, più pronti, più originali del nostro tempo, quell'uomo che costruì un superbo edificio di lavoro e di coltura che onora il nostro paese, quell'uomo che pareva celare entro una breve statura, la grandezza della sua forza. (p. 240)
  • [Luigi Illica] A vederlo con il cappello che, nella foggia moderna, mostrava una certa voglia di assomigliare al feltro spavaldo d'un moschettiere, e, con quella guardatura tra gaia e feroce, e la barbetta, e, dietro la guancia sinistra, il mezzo orecchio che gli era rimasto dopo un duello bolognese, nel quale ebbe a padrino Giosuè Carducci, egli si rivelava quello che fu in giovinezza: un uomo dagli impulsi travolgenti, inquieto, intemperante nell'azione e nella parola. (p. 245)
  • [Luigi Illica] Tipo singolarissimo, formatosi in quell'ultima bohème lombarda dei Fontana e dei Ghislanzoni, e in quel giornalismo pittoresco e bersagliere dei Cavallotti e dei Bizzoni, attratto verso il verismo in pieno romanticismo, e avendo tutti gli atteggiamenti romantici. Ingegno ricco e incomposto, fertile e chiassoso; uomo di teatro nato, non affinatosi, ma esercitato a tutte le scaltrezze dell'effetto scenico; spirito capace di alti entusiasmi e di crudeli scetticismi, pronto a passare dalla più calda affettuosità alla più bollente ira: irresistibile nella burla bonaria, potente nel sarcasmo; incapace di tacere o di temperare la sua opinione, qualunque essa fosse. (p. 245)
  • [...] quel teatro di Illica, appassito e morto assai presto, aveva una certa grandiosità di struttura, mezzo alla Scribe e mezzo alla Sardou, e un certo desiderio di rappresentare nei personaggi l'intera classe sociale alla quale appartenevano, che dimostravano nell'autore una interessante immaginosità e, per lo meno, il presentimento di forme d'arte maggiori e più difficili. Ma allo scrittore mancavano l'originalità del pensiero e la conoscenza seria dei problemi che pure intuiva superficialmente e definiva con una certa enfasi. (p. 247)

Citazioni su Renato Simoni

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  • Esiste già, in questa prima commedia del Simoni [La vedova], quel pudico e controllato timore del sentimento, quell'aborrire gli effetti troppo facili e di maniera, una sicura e coerente coscienza della teatralità. L'autore, ventisettenne, sa già quel che vuole: un teatro sobrio, vigilato al colmo, ma non rigido, bensì abbandonato quel tanto che giovi a dare scioltezza e naturalezza alla finzione scenica. V'è insomma in ogni nodo drammatico una controllata ricerca di poesia. Poesia che traspare più dalle pause sapienti del testo, dal quasi avaro dosaggio delle parole e degli effetti, che da quanto vien detto e ostentato dai personaggi. (Massimo Grillandi)
  • Renato Simoni abita a Milano in un museo. Il suo. Un museo teatrale che l'illustre e maggior critico italiano ha potuto salvare dalla guerra, ed ora sta riordinando. Apparterrà alla Nazione, un giorno, questa mirabile raccolta teatrale, che non è soltanto preziosa per le opere e gli oggetti che contiene, ma perché Simoni vi ha rinchiuso il suo cuore, la sua grande passione, il suo entusiasmo sempre giovanile, i suoi ricordi. (Lucio Ridenti)
  • Renato Simoni ha [...], tutte le qualità per essere uno dei maggiori scrittori del nostro teatro drammatico. Ha la materia nel cervello e lo strumento nella sua mano. Inoltre, egli è un poeta. La sua opera è ricca di bella, di sana, di profonda poesia. Dovunque – nella delicata e commovente Vedova, nei quadri così ricchi di colore e di sapore goldoniano del Carlo Gozzi, nel vigoroso dramma del Tramonto – noi ritroviamo il tocco leggero, delicato, squisito d'un vero poeta, la grazia nel tempo stesso seducente e potente d’un vero artista. (Lucio D'Ambra)
  • Renato Simoni scrisse in dialetto veneto per pura coincidenza, forse perché mosso dalle pressanti e fraterne sollecitazioni del Benini[1] [...]. Infatti, la poesia e i sentimenti che agitano le opere del Simoni hanno poco o nulla di regionale e di «particulare», ed egli stesso, con la molteplicità dei suoi interessi culturali, era ben lontano nelle proprie ambizioni, pur essendo goldoniano convinto, dal voler racchiudere la propria opera nel solo ambito della mentalità di una regione. Certo è che il teatro di Renato Simoni, anche nella sua mole ridotta e nelle sue discontinuità di resa, ha acquistato pieno diritto di far parte del più qualificato repertorio italiano, con le opere di altri grandi, fra i quali egli, sebbene minore, certo non sfigura. (Massimo Grillandi)
  1. Ferruccio Benini (1854 – 1916), attore teatrale italiano.

Bibliografia

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  • Renato Simoni, Gli assenti, Casa editrice Vitagliano, Milano, 1920.

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