Vittorino Andreoli

psichiatra e scrittore italiano (1940-)
(Reindirizzamento da I miei matti)

Vittorino Andreoli (1940 – vivente), psichiatra e scrittore italiano.

Citazioni di Vittorino Andreoli

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  • Alla fine, anche lo psichiatra abitava il manicomio come gli altri matti. Una vita strana, forse paradossale, forse assurda, ma tutto sommato vera. Quando si doveva stabilire che le cose non andavano, il confronto era con la vita dei sani. Una normalità che, dovendo definirlo, saprei descrivere solo come patologia, in quanto per gli abitanti del manicomio è il "fuori" ad essere anomalo. (da I miei matti)
  • Credo che la percezione di essere figli di Dio, nel senso non di un'affermazione di principio ma di esperienza che ne attesti il coinvolgimento, debba essere una condizione esistenziale straordinaria, capace di dare forza, di togliere molti dei dubbi e delle delusioni che la condizione umana attiva e alimenta.[1]
  • Il non credente è a suo modo un frequentatore di chiese: le ama come luoghi intimi, come musei speciali dove può ammirare l'arte e la musica, ma da lì gli capita di interrogarsi sul miracolo di quella presenza che dopo duemila anni sa riempire di sé ancora tutta la terra, e la vita di tanta gente.[2]
  • Il non credente è persona che sente i limiti del proprio esistere, e che pur usando la ragione e considerandola la via maestra per risolvere molti problemi esistenziali, e certamente come strumento scientifico, vuole spingerla oltre fino a interrogare il mistero.[2]
  • Il sacerdote mi pare la figura più indicata a parlare della morte: lui sa che non è un argomento di disperazione.[3]
  • Il vecchio prete sa ormai che l'uomo sbaglia, e che questi produce spesso effetti solo transitori, per cui ciò che finisce per avere un senso compiuto è appunto la preghiera.[4]
  • Io non so se il tempo presente ci ha donato grandi benefici, di sicuro ha inventato un sacco di paure.[5]
  • La dimensione più bella è quella del sacerdote che non ha nulla, ma che è parte integrante di una comunità attiva e attenta, dentro un gregge che gli vuole bene.[6]
  • La disperazione è follia. La follia, la percezione della impossibilità di vivere: esserci, ma come non esserci. La disperazione come esperienza di follia è incompatibile con la vita. Vede morte, progetta morte e ammazza sé e l'altro. La disperazione è una follia possibile all'uomo, a tutti gli uomini; è anzi una prospettiva dell'uomo, si lega al suo bisogno di stare con l'altro, al fatto che da solo non può vivere, perché la vita umana non è solitudine ma condivisione, appartenenza, attaccamento. L'uccidere è un attimo di disperazione infinito e insanabile, e allora il mondo appare inutile e dannoso e un individuo si percepisce come irriducibile al mondo, come un alieno, come un alienato. Un sentimento umano, possibile, compatibile alla normalità. L'ammazzare si lega alla follia della normalità, a quella capacità dell'uomo che, se entrato in crisi, invece che aiutarlo a vivere lo trasformano in morte e lo spingono ad uccidere e rovinarsi, uccidersi. Diversa è la follia dal punto di vista clinico, ma anche da quello giuridico (l'incapacità di intendere e di volere: un'infermità che è sopravvenuta impedendo alla macchina umana di funzionare). Io vedo la follia come un meccanismo che ricalca quello della disperazione, della sensazione di fine: l'incomprensibilità del mondo, il tirarsene fuori. Stare ancora sul pianeta senza saperlo. Vicino agli altri senza aver bisogno dell'altro. Perdendo persino il ricordo delle parole e del loro significato, rinunciando a comunicare. La schizofrenia ne è un esempio straordinario: essere nel mondo come il mondo finisse e come se l'essere non avesse alcun senso, poiché ogni significato si pone in una relazione. Lo schizofrenico è un'isola, una monade chiusa in una cella dell'esistere, in una prigione del mondo. In isolamento perché così può ancora respirare. La vita che più si avvicina alla morte. Insomma, la follia ha già a che fare con la morte, anche se non nella sua rappresentazione corporea, bensì in quella psicologica, la personalità, e in quella sociale, le relazioni. Vi sono tre morti: quella del corpo, la più emblematica e assoluta, quella psicologica, che permette al corpo di essere ancora attivo e di rivestirsi persino di eleganza, e poi la morte sociale: privati di ogni dimensione, come se fossimo diventati trasparenti e, pur dentro una moltitudine, nessuno ci vedesse. Il folle è un morto che cammina e che respira. Se uccide lo fa senza disperazione, forse per stizza, è un cadavere che uccide. La follia ha già superato la disperazione e per questo vive senza vivere, vive da morta e, se uccide, uccide già morta.[7]
  • La memoria delle immagini si deposita in noi ed è quella a cui leghiamo i sentimenti.[8]
  • La paura è un meccanismo di difesa che ci permette di avere coscienza di un pericolo e quindi di mettere in atto risposte per evitarne le conseguenze.[5]
  • La scelta non è forse già espressione, anche se elementare, di libertà?[9]
  • La solitudine è una pace inaccettabile. Una contenzione dei sentimenti per sembrare normali mentre si avverte il desiderio di esplodere, di esistere per qualcuno. E allora si può anche litigare, colpire e colpirsi, pur di non essere soli. Inutile per tutti. Inutile a se stesso. (da Tra un'ora, la follia)
  • Nutro una convinzione profonda, che il sacerdote cioè sia un personaggio di grande rilievo per i non credenti.[2]

Anatomia di un capolavoro dell'orrore

Prefazione al libro Dracula, di Bram Stoker, novembre 2001, pp. III-XXI.

  • Il dottor John Seward è direttore del manicomio di Purfleet, e per tutto il tempo che ho dedicato alla lettura di Dracula di Bram Stoker, mi è parso di ritornare al San Giacomo della Tomba, il mio vecchio manicomio. Una lettura che mi ha, anche per questo, letteralmente portato dentro le pagine con una partecipazione che sanno imprimere i grandi scrittori. [...] Se un romanzo ha queste capacità è un capolavoro e non ha bisogno di altre dimostrazioni. È il marchio che ciascun lettore vi imprime e riponendolo in uno scaffale gli sembra quasi di separarsi da una cosa in cui egli stesso è entrato e se ne può allontanare soltanto sapendo che il libro è lì ad aspettare e lo si può rileggere in ogni momento.
  • Dracula è un romanzo psichiatrico nel senso che l'attenzione si rivolge a comportamenti strani. Frequente è la parola pazzia.
  • [Su Abraham Van Helsing] È uno psichiatra, anche se con molte altre specialità: fa il chirurgo ma applica anche la ipnosi e lo farà regolarmente con Mina. È stato uno dei maestri del dottor Seward. Si occupa di scienze dell'occulto: un termine che ben esprime il tentativo di sanare la contraddizione tra positivismo e mistero.
  • Il caso Renfield, sia pure romanzato, non perde una connotazione propria della psichiatria e di quella del tempo. Anzi, serve a porre un problema molto vivo allora: il rapporto tra malattia di mente, dunque un fenomeno naturale, e possessione demoniaca, che è un fatto extra-naturale. La categoria psichiatrica che meglio si presta a questa problematica è quella che permette rapidi cambiamenti di comportamento e di pensiero. Renfield passa da una fase di eccitamento e di delirio a una condizione di quiete e di apparente normalità. Il delirio di Renfield è la necessità di cibarsi di vivi per ottenere energia vitale per sé e dunque non morire e a questo scopo chiede zucchero che mette sul davanzale della sua cella d'ospedale per attirare mosche che poi ingoia. Una fase successiva è quella di favorire lo sviluppo dei ragni che si nutrono di mosche e dunque di ingoiarli. E il piano seguente, di avere dei topi che mangiano dei ragni e dei gatti che mangiano topi, per cui egli mangiando gatti assume un'energia vitale straordinaria. Tutta la sua vita è condizionata e finalizzata a questa idea.
  • Una malattia a due fasi, disturbo-scomparsa del disturbo (normalità), accentra l'attenzione poiché è la più vicina alla invasione demoniaca: quando il demonio possiede il corpo, il posseduto mostra atteggiamenti che scompaiono immediatamente quando il demonio esce a seguito di qualche terapia (esorcismo). Probabilmente il motivo dell'interesse per Renfield da parte del dottor Seward prende l'avvio dalla scoperta, nel 1895, fatta da Kraeplin, della malattia maniacodepressiva: in uno stesso paziente si può avere in sequenza temporale una fase di mania e una di depressione.
  • Se con Renfield siamo dentro le psicosi, con Lucy entriamo nelle nevrosi. L'isteria che Bram Stoker usa per questo suo romanzo è quella che oggi definiremmo «dissociativa», quella che conduce allo sdoppiamento di personalità. E con questa forma egli ci riporta dentro alla tematica del comportamento antitetico in una stessa personalità: l'isteria di Lucy si esprime con il sonnambulismo, che si manifesta con azioni che la signorina compie in stato di incoscienza, di trance, anche se una trance in movimento. Una condizione straordinaria poiché si possono avere esperienze, fare incontri senza ricordarli quando si passa allo stato di veglia. Ed è in fase sonnambulica che diventa preda di Dracula.
  • Il sangue è vita, senza sangue si è sfiniti, prossimi alla fine: dopo aver succhiato sangue Dracula ha forza e diventa persino giovane. Senza non può vivere tra i morti. Anche nel tempo presente sono infiniti i riferimenti a questa simbologia e assumono espressioni religiose: Cristo trasforma il pane in corpo e sangue del Signore e così dà la vita agli uomini. Lo trasforma in sangue perché il corpo senza sangue non vive. Del resto, quando muore sulla Croce, dà tutto il suo sangue, tanto che l'evangelista nota: dal costato usciva acqua. Aveva dato tutto.
  • Il succhiare è il gesto della vita, la modalità con cui il neonato vive. Si attacca al seno e lo divora. Dalla madre passa la vita al bambino che così la succhia. Rimane un gesto pieno di fascino e nei giochi erotici dell'adulto il succhiare ha un ruolo importante: ancora una volta un simbolo di forza vitale. Dracula non ha nulla della aggressività orale di chi mangia, anzi egli non mangia mai, succhia soltanto. E in questo si è fermato al gesto della vita neonatale, il movimento primario per eccellenza: se il bambino non sapesse succhiare morirebbe.
  • Tra le metamorfosi possibili a Dracula, la più significativa, tanto da diventare quella nota a tutti, è in un uccello, un pipistrello. La simbologia dell'uccello è sconfinata ed è anch'essa parte della vita. Il pene è popolarmente chiamato uccello: proprio perché si eleva e in quel volo dà la vita, il seme. Il pipistrello è un essere strano, potremmo dire perverso: sia perché appartiene ai mammiferi e non alla specie degli uccelli, sia perché è notturno e nella notte diventa un uccello del peccato, del proibito. Ha inoltre le caratteristiche di attirare e di divenire repellente. Di giorno poi non ha vita e rimane appeso, molle, in una caverna, mentre con il buio rinasce e cerca continuamente in quel volo inarrestabile la propria preda. Il sangue richiama dunque l'uccello-pene ed è suggestiva l'immagine del «battesimo di sangue» con la signora Mina attaccata al petto di Dracula, in una posizione che richiama la fellatio.
  • Occorre avere ora il coraggio di dire che il conte giunge persino a intenerire, a fare pena. In fondo non è il mostro dalla forza sovrumana e incontrastabile, uno di quelli che si presentano sugli schermi della stupidità di oggi. Dracula è pur sempre un uomo, lo è stato mentre era in vita, nel senso storico del termine; era un eroe, uno che ha salvato il proprio popolo dai Turchi e a quel tempo dire turco richiamava alla mente il male e la violenza estrema. Un personaggio morto eppur pieno di bisogni: di giorno deve ritornare dentro una bara nascosto nella terra del cimitero in cui è stato sepolto, tanto da doversela portare sempre con sé. È terrorizzato dal bene o dai segnali del bene; i crocifissi d'argento, le particole consacrate che il professor Van Helsing usa come proprie armi di difesa. È un mostro che ha paura e che può essere vinto, tant'è che questa è la conclusione della storia.
  • La forza di questo romanzo sta però nel grande e sempre vivo tema della lotta tra Bene e Male. Una lotta titanica che dalla scena del quotidiano si sposta nelle tragedie del periodo classico e in tutta la letteratura maiuscola. In fondo Dracula è il Male, anche se con un fascino che talora ammalia, e il gruppo di personaggi che lo eliminano rappresentano il Bene, anche perché aggiscono in nome del Bene.
  • Il professore Van Helsing è il sacerdote del Bene che qui, dati i tempi, non indossa le vesti di un frate o di un sacerdote, ma l'abito della scienza. E così interpreta bene il periodo in cui l'azione si svolge: il positivismo. Un sacerdote dunque che usa la ragione, la forza della scienza, ma che non dimentica gli strumenti sacri, magici.

Andrea Purgatori, Huffington Post, 6 agost 2013.

  • [Intervistatore: Esibizionisti] Ma certo, è questa la maschera che nasconde il masochismo. E poi tenga presente che, generalmente, l'esibizionismo è un disturbo della sessualità. Mostrare il proprio organo, ma non perché sia potente. Per compensare l'impotenza.
  • [Secondo sintomo della malattia mentale dell'Italia] L'individualismo spietato. E badi che ci tengo a questo aggettivo. Perché un certo individualismo è normale, uno deve avere la sua identità a cui si attacca la stima. Ma quando diventa spietato...
  • [Gli inglesi] Non parlano mai. Invece noi parliamo anche quando ascoltiamo la musica, quando leggiamo il giornale.
  • [Intervistatore: Con la fede non si scherza.] Mica quella in dio, lasciamo perdere. Io parlo del credere. Pensare che domani, alle otto del mattino ci sarà il miracolo. Poi se li fa dio, San Gennaro o chiunque altro poco importa. Insomma, per capirci, noi viviamo in un disastro, in una cloaca ma crediamo che domattina alle otto ci sarà il miracolo che ci cambia la vita. Aspettiamo Godot, che non c'è. Ma vai a spiegarlo agli italiani.
  • [Intervistatore: Masochismo nascosto, individualismo spietato, recita, fede nel miracolo. Siamo messi malissimo, professor Andreoli.] Proprio così. Nessuno psichiatra può salvare questo paziente che è l'Italia. Non posso nemmeno toglierti questi sintomi, perché senza ti sentiresti morto.

L'uomo di vetro

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  • Bastano cento persone con la voglia di morire come kamikaze, e dunque imbottendosi di esplosivo, per rendere ridicolo il sistema della certezza e della certezza del potere di questa terra, dei potentati di questo mondo.
  • Ebbene, se sono stato, e sono, un buon psichiatra, se ho aiutato i miei matti, ciò è avvenuto per la mia fragilità, per la paura di una follia che si annida dentro di me, per la fragilità che avverto capace di sdoppiarmi, di togliermi la voglia di vivere e di rendermi simile a un depresso che chiede soltanto di scomparire per cancellare il dolore di cui si sente plasmato.
  • Il Cantico dei Cantici parla dell'amore necessario: essere in due rende possibile esistere a chi separatamente non ce l'avrebbe fatta, si sarebbe rotto.
  • Il dolore è una qualità dell'essere fragile.
  • Il dolore è la fonte prima della fragilità poiché ti rompe e ti senti frantumato, incapace di attaccare insieme i pezzi che vedi in te, anzi, sei un cumulo di frammenti, di granelli di sabbia che dovrebbero unirsi e disegnare, scolpire un uomo.
  • Il dolore fa più rumore di qualsiasi rumore.
  • Il limite dell'energia diventa il limite della civiltà, della civiltà che sembra del benessere e che in certi momenti appare essere la civiltà dello spreco.
  • Il matrimonio è la mia vita assieme a lei e ai nostri figli, ma nessuno di noi potrà dire che si è trattato di una gita fuori porta durata quarant'anni.
  • Il matrimonio è la più grande delle fragilità interumane, capace di produrre beni e incapace di evitare mali.
  • Il potente non crede di dover risorgere poiché pensa di essere tetragono, come la Tour Eiffel fatta di ferro e non di carne, senza anima, fredda come una rotaia.
  • Il potente non sa amare; l'uomo di ferro è freddo, sa avvolgere e legare per sottomettere, per schiavizzare.
  • Il senso di appartenenza. Questo è il matrimonio.
  • Il vecchio vive di morti e attende la morte.
  • L'amore non ha nulla di libero, perché la paura non permette di esercitare questa utopia.
  • L'uomo non resisterebbe al buio, senza una lampadina che rischiari una pagina da leggere o che alimenti un computer su cui digitare un nuovo mondo, che dipende anch'esso dall'energia.
  • La fine non è un appuntamento più o meno lontano, ma un presente che si perpetua, e così si muore continuamente e si è morti anche quando si respira.
  • La fragilità di un vetro pregiato di Murano o di un cristallo di Boemia: bello, elegante, ma basta poco perché si frantumi e si trasformi in frammenti inservibili. Conoscendone la natura, si deve stare attenti a come lo si usa, a come lo si conserva: occorre tenerlo lontano da luoghi in cui si compiono azioni d'impeto, perché altrimenti quel vetro pregiato si fa nulla, solo ricordo.
  • La fragilità rifà l'uomo, mentre la potenza lo distrugge, lo riduce a frammenti che si trasformano in polvere.
  • La gelosia è il timore di rimanere soli, adesso che si è trovata la formula perfetta dell'insieme, che significa completamento, sicurezza.
  • La mia fragilità mi porta ad amare, dunque l'amore è la risposta a un bisogno, nato dalla fragilità, dalla percezione che senza l'altro il mio essere nel mondo è votato solo alla morte, al non esserci; e la solitudine dell'uomo di vetro è la peggiore delle malattie, delle malattie del vivere.
  • La paura non si lega solo al dolore fisico, alla sensazione di non funzionare più, si attacca anche al ben d'essere che ha una dimensione mentale e sociale, del come si vive con la propria personalità nell'ambito di quell'ambiente fatto di relazioni.
  • La percezione della fine è dentro ciascuno di noi, è uno stigma della specie, un marchio della sua caducità.
  • La presenza del divino nel mondo dovrebbe servire a calmare l'orgoglio sviscerato e il senso di onnipotenza umana che esaltano il potere e il dominio.
  • La ripetizione è da sempre la fonte della certezza.
  • Le vecchie certezze si presentano come errori grossolani e si richiede ora la necessità di educare e di farlo urgentemente, in un momento in cui nessuno più sa cosa significhi, poiché da qualche generazione, per tutto il Novecento, non si è applicato questo termine, desueto e con il sapore di qualche cosa di sporco e di perverso.
  • La violenza non fa storia, non è una difficoltà che possa essere elaborata, ma semplicemente una guerra che porta solo alla morte dell'amore e talora anche dei suoi protagonisti.
  • Le fedi nel cielo, popolato di vivi, esprimono bene la negazione della morte e la voglia di restare.
  • Nella famiglia, in cui sono spariti i dissidi quotidiani, si presentano drammi fatti di comportamenti estremi.
  • Per accettare la sconfitta bisogna credere in chi la decreta, bisogna essere certi che le gare non siano truccate, non divengano motivo di affari, ma si svolgano all'insegna dell'assoluto rispetto delle capacità e dei talenti, in qualsiasi settore si pongano.
  • Se il tuo vicino è un asociale e non ama il tuo rumore, accende il proprio e cancella il tuo.
  • Si vendono loro armi, poiché dappertutto si è diffusa la malattia del potere, e buttano ogni risorsa, persino le vite umane, per fare e vincere le guerre, le guerre della miseria.
  • Talvolta si perde perché non si è scelto bene il campo della prova.
  • Un uomo adulto non può esser ridotto a un uomo attivo e produttivo.

Un secolo di follia

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Per tutto il Medioevo il folle è appartenuto al sacro: una manifestazione di Dio e del demonio. Una macchina del mistero, e pertanto rispettato anche se poteva intimorire. Era difficile separare il folle di Dio dall'indemoniato, come del resto stabilire se una malattia somatica era da attribuire agli «spiriti» del male che accumulandosi nel corpo lo corrompevano.

Citazioni

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  • [Commentando la legge sui manicomi del 1904, ispirata ai principi della scuola antropologico-positiva e di Cesare Lombroso] Il carcere e il manicomio sono coerentemente due modalità di difesa dall'uomo delinquente e dall'uomo folle, in particolare dalla loro pericolosità. Il folle non è responsabile delle sue azioni (e dunque non punibile), ma perciò stesso non si può rispettarne la volontà quando si tratta di portarlo in manicomio: alla volontà del singolo deve imporsi quella della comunità. La follia, del resto, non poteva guarire, si poteva solo imbrigliare, contenere: questo il compito della psichiatria. (Il manicomio del 1904, p. 50)
  • La follia è parte integrante della cultura e il folle è cittadino della società, anche quando è internato in un asilo. Non è possibile comprendere la follia occupandosi solo di follia. D'altra parte non si ha il quadro completo d'una società senza il capitolo della sua follia. (Intorno alla follia, p. 62)
  • Anche per la storia esiste un «principio di indeterminazione» e anche qui, nel definire alcuni fatti, si deve rinunciare a descriverne altri. Sorge l'impressione che di un periodo storico siano possibili tanti racconti in funzione di ciò che si sceglie e conseguentemente si elimina. Ed è impossibile raccontare senza scegliere. (Intorno alla follia, p. 63)
  • Il nome di Gustave Le Bon richiama quello di Gabriel de Tarde che nel 1890 pubblica Le leggi dell'imitazione e sostiene che il fenomeno psicologico dell'imitazione è in grado di spiegare ogni forma di legame sociale e tutti i segreti della vita delle società. Con Tarde è già viva la disputa sociologica. Fu proprio questo autore, in contrasto con il sociologo dominante del tempo Emile Durkheim, ad affermare che l'èra della sociologia non psicologica (di Durkheim appunto) è morta. Se Auguste Comte è il fondatore della sociologia, a Tarde spetta il merito di aver fondato la psicologia sociale. (Intorno alla follia, p. 65)
  • Mentre le scoperte della scienza, pur grandissime, possono non avere immediate ripercussioni sullo stile di vita e sul quotidiano, è proprio della tecnica apportare subito qualche pratico sconvolgimento, considerato di solito positivamente. La scienza modifica sempre le idee (della stessa scienza o della cultura), mentre la tecnica ha su di esse scarso rilievo e per lo più solo indirettamente attraverso il sovvertimento dei processi di esistenza ordinari. (Intorno alla follia, p. 70)
  • Frank Wedekind, attore-commediografo, centra le sue rappresentazioni sul sesso e sulle sue perversioni con l'intento di smascherare un perbenismo di maniera e ipocrita della borghesia del tempo. Propone la morale dell'impulso erotico in alternativa alla morale borghese. (Intorno alla follia, p. 79)
  • Nel 1950-51 Maxwell Jones aveva inventato, come alternativa agli ospedali psichiatrici, delle piccole comunità formate da malati e da operatori psichiatrici e sociali, gestite sulla partecipazione collettiva e su dinamiche che dovevano realizzare le disposizioni e le qualità di ciascuno. Il modello della famiglia allargata o del villaggio andrà oltre la psichiatria per applicarsi ai problemi della emarginazione (dai carcerati, ai tossicodipendenti, agli handicappati e anziani). (La società o la fabbrica della follia, p. 131)
  • Falsificazione è un termine entrato dappertutto. Lo ha introdotto Karl Popper. Ogni risultato scientifico deve essere dubitabile e, dunque, imperfetto, punto di partenza di nuovi esperimenti per una progressiva, ma mai definitiva perfezione. La ricerca scientifica è la storia infinita delle correzioni di dati precedentemente raggiunti, una storia che ha il limite di Tantalo. Il definitivo è dogmatismo, può venire affermato ma non dimostrato. Il grande sistema di Bacone e di Galileo è decisamente distrutto, proprio nel metodo che lo aveva fondato. (Requiem per la verità, pp. 333-334)
  • Paul Feyerabend ha descritto la scienza come un luogo d'anarchia fondato non sul metodo logico-razionale ma sui protocolli, i mezzi del mestiere. La scienza è, dunque, una disciplina «relativa», in grado di affermare la verità solo in relazione a dati posti convenzionalmente a confronto: una verità-errore. (Requiem per la verità, p. 334)
  • Sta morendo anche la sessualità. Un tempo il pene aveva un grande significato e poteva essere fondamento ideologico. Oggi è un'appendice del corpo senza qualità. Sul pene non si fa più alcun programma. È un organo intrigante e pericoloso. Può generare in un mondo sovrappopolato. Meglio la potenza di un motore. L'impotenza non è mai stata così elevata come nel mondo contemporaneo. Si è maschi per la moto, per un tatuaggio, per i muscoli dell'addome e i peli della barba, il pene non c'entra. (Requiem per la verità, p. 335)

Incipit di alcune opere

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I miei matti

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Ho deciso di fare lo psichiatra nel 1959.
Avevo terminato gli studi liceali e, come tutti i miei compagni, stavo pensando a quale indirizzo prendere all'università. Scegliere una facoltà, a quei tempi, significava scegliere il proprio futuro. E io mi sentivo piuttosto combattuto.
Ero un "secchione", un "secchione" orrendo anche se bene integrato tra i miei coetanei. Al di là dei voti che erano i più alti e non differenziavano nulla, io adoravo la filosofia.

Lettera a un adolescente

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Carissimo,
è bene ti dica subito che sono vecchio, faccio parte non solo della categoria dei padri ma anche di quella dei nonni.
Un vecchio convinto che non sia accettabile il mutismo tra generazioni, che vuoi dire tra padri e figli dentro la stessa casa, mentre ci si trova fianco a fianco. È meglio parlare che stare muti. Nel mutismo prendono il sopravvento rancori e odi, e allora bisogna non stancarsi di provarci e proprio per questo, per oppormi al dolore della non comunicazione, ho deciso di scriverti. Ho molte cose da dirti, emozioni e sentimenti da trasmetterti. Mi rivolgo a te senza giovanilismi forzati, semplicemente da vecchio. Assumo nei tuoi confronti l'atteggiamento di un padre e di un nonno. Incarnerò insomma il mio ruolo e lo farò fino in fondo.

Preti di carta

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Nel 1560 don Narcisso Pramper (o di Prampero) scrive un'opera, Specchio de verità, in cui viene combattuta la messa e, in particolare, l'Eucaristia, come pratiche non istituite da Dio, ma inventate dalla Chiesa per fini che non solo sono contro i princìpi dell'Antico Testamento e del messaggio di Cristo, ma vi si contrappongono, provocando comportamenti contrari alle pratiche vere della religione.
Già in quest'affermazione, il rimando alla Riforma protestante è molto chiaro, sia nelle espressioni di Lutero che di Zwingli.
Siamo nel XVI secolo e quindi nel clima della Riforma protestante e anche del diffondersi in Italia di un movimento contrapposto alla visione cattolica ufficiale. Ciò sta a indicare che la Riforma ha attecchito anche nel nostro paese e, cosa più curiosa, tra i preti.

Preti. Viaggio fra gli uomini del sacro

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Il sacerdote è un personaggio della nostra società. Una figura che ha una lunga storia nella nostra cultura, che ha assolto compiti diversamente riconosciuti e sovente anche contrastati. Un personaggio che è cambiato perché è cambiato l'ambiente in cui si pone. Così, pur perseguendo un identico obiettivo, legato al ruolo istituzionale che ricopre, l'ambiente in cui vive lo ha modificato, mutando persino il modo esteriore con cui si presenta al popolo. Dalla veste talare lunga e nera con berretta a punte e pompon o cappello rigido a larghe tese, lo si vede talora in abito "borghese", in jeans e t-shirt, non più identificabile o immediatamente riconoscibile. E questo lo ha fatto per nascondersi, quando la sua missione, contrastata, doveva svolgersi in maniera clandestina; oppure per la convinzione che dovesse essere notato non per l'abito ma per il suo modo di essere e per il suo comportamento, invertendo il detto popolare che è l'abito a fare il monaco.

Tra un'ora, la follia

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È sera e nella piazzetta del paese si raduna la gente. Suona la banda di Vigo di Fassa, con i maestri nei tipici costumi della valle. Il giovane direttore ha la serietà e l'espressione dei grandi conduttori: quelli che invece di venire a Bellamonte vanno a Salisburgo o a Vienna o a Bayreuth.
Un'atmosfera particolare perché vi partecipano anche i villeggianti, i «siori» giunti da Milano, Parma, Bologna, i grandi del mondo che hanno bisogno di riposo.
I paesani hanno indossato l'abito migliore, per esprimere la loro ospitalità.

  1. Da Fierezza nel sacerdote, Avvenire, 11 giugno 2008.
  2. a b c Da Il sacerdote e i non credenti, Avvenire, 24 settembre 2008.
  3. Da Il sacerdote e la morte, Avvenire, 17 settembre 2008.
  4. Da Il sacerdote anziano, Avvenire, 30 luglio 2008.
  5. a b Da Le paure non vanno in vacanza, Corriere della Sera, 19 luglio 2009, p. 45.
  6. Da Conflitti interiori: essere senza avere, Avvenire, 9 luglio 2008.
  7. Da Il lato oscuro, Rizzoli, 2002.
  8. Citato in Corriere della Sera, 2 giugno 2008.
  9. Da Le nostre paure, Rizzoli, 2010.

Bibliografia

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  • Vittorino Andreoli, I miei matti, Rizzoli, 2004.
  • Vittorino Andreoli, L'uomo di vetro, Rizzoli, 2008.
  • Vittorino Andreoli, Lettera a un adolescente, Rizzoli, 2004.
  • Vittorino Andreoli, Preti di carta. Storie di santi ed eretici, asceti e libertini, esorcisti e guaritori, Piemme, 2010.
  • Vittorino Andreoli, Preti. Viaggio fra gli uomini del sacro, Piemme, 2010. ISBN 9788856615197
  • Vittorino Andreoli, Tra un'ora, la follia, Rizzoli, 1999.
  • Vittorino Andreoli, Un secolo di follia, Biblioteca Universale Rizzoli, Milano, 1998. ISBN 88-17-11838-9

Altri progetti

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