Gruppo di UR

sodalizio esoterico italiano

Gruppo di UR, sodalizio esoterico attivo in Italia nella seconda metà degli anni venti, i cui aderenti tra cui Julius Evola, Arturo Reghini, Giovanni Colazza, pubblicarono dietro pseudonimo una serie di fascicoli, a cadenza mensile, sulle riviste UR (1927-28) e KRUR (1929), poi ristampati nel 1955 e nel 1971 nella raccolta in tre volumi intitolata Introduzione alla Magia quale Scienza dell'Io.

Citazioni del Gruppo di UR modifica

  • Nella vita di alcuni uomini vi sono momenti, in cui essi sentono vacillare tutte le loro certezze, venir meno tutte le loro luci, tacere le voci delle passioni e degli affetti e di quanto altro animava e muoveva la loro esistenza. Ricondotto al proprio centro, l'individuo avverte allora a nudo il problema di ogni problema: Che sono, io? [...] In alcuni casi una crisi del genere può avere un esito catastrofico. In altri si reagisce. [...] Un'altra soluzione equivalente è il passivo rimettersi a strutture tradizionalistiche, a forme dogmatiche svuotate di un contenuto vivente e presentantesi come semplici complessi dogmatici e devozionali. Altri, però, tengono fermo. Qualcosa di nuovo e di irrevocabile si è determinato nella loro vita. [...]
Questo è uno dei modi con i quali, soprattutto nell'epoca moderna, alcuni possono avvicinarsi alle discipline che, in genere, sono designate come iniziatiche. (Introduzione, su UR, 1927)
  • «La «Materia dell'Opera» è qui, nella brama tua, nella tua volontà profonda, più vicina di quel che a te tu non sii vicino. Eccitala, dèstala. Creale resistenza. (Abraxa, La conoscenza delle acque, su UR, 1927)
  • Alla sera, prima di addormentarsi, in uno stato calmo, non stanco, tersa la mente da assilli, si realizzi meditativamente che ci si trova nelle prime ore della notte ai piedi di un monte, e che si inizia l'ascesa – lentamente mentre le caligini a poco a poco si dileguano e le prime luci, e poi il Sole, sorgono. Si continuerà ad ascendere pensando all’ascendere simultaneo del Sole in cielo, al crescente trionfare ed espandersi e folgorare della sua luce sulla cose, e, nel momento di sentirsi sulla vetta del monte, si realizzi che il Sole è allo Zenit, al vertice della sua ascesa, nel cielo sgombro e tutto luce. Si arresti la contemplazione a questo punto e si realizzi il tutto come senso di quel che effettivamente accadrà interiormente di là della soglia del sonno, sino a metà della notte. Naturalmente l'ascendere di me sul monte e del Sole dall'alba al meriggio debbono essere vissuti in una stretta correlazione e il tutto va assunto in una progressione di risveglio che al limite della vetta deve dar luogo ad un senso di identificazione con la stessa luce meridiana – radiosa, silente, compiuta purità di luce nell'essere senza limiti.
Alla mattina, appena desti, sgombra la mente da ogni residuo di sonnolenza, ci si riprenda contemplativamente dalla cima del monte al meriggio, in cui si era rimasti, e ci si veda discendere lentamente fino alla pianura. Nel contempo anche il Sole discende, volge al tramonto ed ogni luce sarà scomparsa quando la pianura sarà da noi raggiunta. Ciò sia imaginato, ricordato, come il significato del tratto fra la metà della notte e il mattino. Nell'oscurità del giorno, in cui ci si trova svegliandosi, permanga pertanto l'eco della Luce dall'alto, del Sole di mezzanotte, nel senso, che io sono il portatore di questa Luce, che essa ora è nel centro di me nel cuore. (Luce e Leo, Glosse all'«Opus magicum» pel II capitolo, su UR, 1927)
  • Varrebbe tracciare un parallelo fra i metodi della «via secca» e della «via umida». [...] Nell'un caso come nell'altro bisogna destare un fuoco, uno stato di intensa vibrazione o emozione che, trasportandoci di là da se stessi, renda possibile ad una forza della personalità lo spezzare la personalità stessa. I mistici qui agiscono col disgusto del mondo, con l'angoscia, la preghiera, l'orrore per sé stessi, la fede nel Cristo e l'ardente dedizione a Dio. La caratteristica del mistico è di attribuire a tutto ciò un significato religioso e morale, anziché pragmatico e tecnico. Manca, in altre parole, l'attitudine scientifica e manca chi diriga l'operazione (il «regime del Fuoco») sapendo perfettamente perché fa ciò che fa - come accade invece nella «via secca». Considerando che lo scopo positivo è di produrre quello stato di «esaltazione», nel quale avviene il «salto» e l'«uscita» [...], tutti i metodi, dato che riescano, sono da dirsi egualmente legittimi. (Arvo ed Ea, La dottrina esoterica dei centri segreti del corpo in un mistico cristiano, su UR, 1928)
  • Agli Dèi bisogna farsi simili: non già agli uomini da bene. Non l'essere esenti dal peccato, ma l'essere un Dio – è il fine.[1] Queste massime staccano nettamente la via dell'iniziato dalla via degli uomini. La «virtù» degli uomini, in ultima analisi, è cosa indifferente: imagine di una imagine – dice Plotino. La «moralità» non ha a che vedere con l'iniziazione. L'iniziazione è una trasformazione radicale di uno stato di esistenza in un altro stato di esistenza. Un «Dio» non è un «modello morale»: è un altro essere. L'uomo buono non cessa di essere «uomo» per il suo esser «buono». In qualsiasi tempo e luogo si sia capito che significhi «iniziazione», l'idea è stata sempre la stessa. (Plotino, Massime di saggezza pagana, su KRUR, 1929)
  • Sulla fine del 1913 cominciarono a manifestarsi segni, che qualcosa di nuovo richiamava le forze della tradizione italica. Questi segni, ci furono direttamente palesi. Nel nostro «studio», senza che mai si potesse spiegare per quali vie fosse giunto, rinvenimmo, in quel periodo, un foglietto. Vi era tracciata, schematicamente, una via, una direzione, un luogo. Una via oltre la Roma moderna; un luogo, là dove nel nome e nelle silenti auguste vestigia sussiste la presenza dell'Urbe antica. [...] Sulla benda, erano tracciati i segni di un rito.
Ed il rito fu celebrato per mesi e mesi, ogni notte, senza sosta. E noi sentimmo, meravigliati, accorrervi forze di guerra e forze di vittoria; e vedemmo balenar nella sua luce le figure vetuste ed auguste degli «Eroi» della razza romana; e un «segno che non può fallire» fu sigillo per il ponte di salda pietra che uomini sconosciuti costruivano per essi nel silenzio profondo della notte, giorno per giorno.
La guerra immane, che divampò nel 1914, inaspettata per ogni altro, noi la presentimmo. L'esito, lo conoscevamo. L'una e l'altra furono visti là dove le cose sono, prima di essere reali. E vedemmo l'azione di potenza che una occulta forza volle dal mistero di un sepolcro romano; e possedemmo e possediamo il breve simbolo regale che le aprì ermeticamente le vie del mondo degli uomini. (Ekatlos, La «Grande Orma»: la scena e le quinte, su KRUR, 1929)

Citazioni sul Gruppo di UR modifica

  • Fra gli appartenenti a questo gruppo operativo due elementi almeno erano dotati di reali poteri. Quanto alle finalità, quella più immediata era il destare una forza superiore da servire d'ausilio al lavoro individuale di ciascuno, forza di cui eventualmente ciascuno potesse far uso. Vi era però anche un fine più ambizioso, cioè l'idea che su quella specie di corpo psichico che si voleva creare potesse innestarsi, per evocazione, una vera influenza dall'alto. In tal caso non sarebbe stata esclusa la possibilità di esercitare, da dietro le quinte, un'azione perfino sulle forze predominanti nell'ambiente generale di allora. Quanto alla direzione di tale azione, i punti principali di riferimento sarebbero stati più o meno quelli di Imperialismo Pagano e degli ideali «romani» di Arturo Reghini. (Julius Evola)[2]

Note modifica

  1. Trad. da Enneadi, I, II, 6-7.
  2. Julius Evola, Il Cammino del Cinabro, cap. 5, "Il Gruppo di Ur", terza edizione corretta e aumentata, a cura di Gianfranco de Turris, Andrea Scarabelli, Giovanni Sessa, Roma, Edizioni Mediterranee, 2014.

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