Carlo Levi

scrittore, pittore, politico e antifascista italiano (1902-1975)

Carlo Levi (1902 – 1975), pittore e scrittore italiano.

Carlo Levi

Citazioni di Carlo Levi modifica

  • [Sul Partito Liberale Italiano] Alcune di queste ombre hanno, per uno strano miracolo di persistenza (che auguro di tutto cuore eterna), i loro propri e autentici vecchi corpi, come se l'anima di Giolitti, sempre presente e viva, avesse costretti in un certo modo all'eterna giovinezza gli Orlando, i Nitti, i De Nicola e tanti altri. Ma anche quelli che non hanno avuto la pazienza di aspettare, e sono morti anzi tempo, anche i Salandra, i Sonnino, i Tittoni, i Luzzatti, hanno semplicemente cambiato di corpo e siedono sempre là, sui banchi della destra, con spiriti imperterrito.[1]
  • Chiunque veda Matera non può non restarne colpito, tanto è espressiva e toccante la sua dolente bellezza.[2]
  • Mario Farinella mi aveva accompagnato in qualcuno di quei miei viaggi, che non erano soltanto, per me, la scoperta di una Sicilia vera, degli uomini nuovi che andavano creando un mondo nuovo, ma la scoperta di una parte di me, la più autentica e legittima, che in quegli uomini, in quelle terre, si ritrovava.[3]
  • La Lucania mi pare più di ogni altro, un luogo vero, uno dei luoghi più veri del mondo [...] Qui ritrovo la misura delle cose [...] le lotte e i contrasti qui sono cose vere [...] il pane che manca è un vero pane, la casa che manca è una vera casa, il dolore che nessuno intende un vero dolore. La tensione interna di questo mondo è la ragione della sua verità: in esso storia e mitologia, attualità e eternità sono coincidenti.[4]
  • [Descrivendo Ferruccio Parri] Mi pareva che egli fosse impastato della materia impalpabile del ricordo, costruito col pallido colore dei morti, con la spettrale sostanza dei morti, dei torturati, con le lacrime e i freddi sudori dei feriti, dei rantolanti, degli angosciati, dei malati, degli orfani, nelle città e sulle montagne. Il suo corpo stesso pareva fatto di questi dolori, essi scorrevano nel suo sangue.[5]
  • [Sul libro di Rocco Scotellaro, Uno si distrae al bivio] Resta e si accresce una giusta immagine di lui, che non si può chiudere in schemi, né sfuocare in commosse esaltazioni, ma che sempre più chiaramente si mostra in un suo carattere unico e esemplare, una realtà vera che va al di là del suo mondo di allora, dei suoi dolori, delle sue lotte, che non si ferma agli scritti, e che parla sempre più chiaramente, in modo nuovo, non solo della Lucania e del Mezzogiorno, ma della vita dell'uomo e della sua pericolante giovinezza [...].[6]
  • Se il contenuto reale di un libro é sempre in parte altro da quello che si mostra, come lo è la natura di un uomo sotto le forme fissate del volto, cerchi, se vorrà, il lettore, quel miele, anche a me sconosciuto.[7]

Da Il Pandit Nehru

La Stampa, 3 marzo 1957

  • Guardavo quell'uomo, seduto vicino a me, che parlava: il suo viso pallido, i suoi occhi miti, languidi e penetranti, sotto le pesanti palpebre pigmentate, la sua esitante sicurezza; e mi domandavo chi fosse realmente, quello statista illustre, quel capo adorato di trecentosessanta milioni di indiani, quel potente della terra; e perché mai paresse naturale guardarlo cercandovi senza difficoltà una somiglianza, guardarlo senza il ritegno e il distacco, né il disdegno, e neppure la pietà, con la quale si guardano appunto, sia pure ammirandoli, i potenti della terra.
  • Il pandit Nehru ha un immenso potere. L'India è nelle sue mani, e l'adora. La sua immagine è come quella di un dio, letteralmente posta tra gli dèi familiari nelle stanze sacre, nei frontoni, sopra le porte delle case di questi adoratori di idoli.
  • Nehru non è Gandhi, né Vinoba: è impegnato con la ragione, con la pratica, con la pianificazione, la burocrazia, la diplomazia: nell'empireo dei nuovi santi indiani, il suo posto è quello di Paolo. E tuttavia è staccato da tutto questo, ci sta sopra (lo si sente). C'è in lui una profonda solitudine, la solitudine del prigioniero libero, del contadino nella campagna; egli vive (lo dice) «sotto la luna». E, appunto per questo, c'è in lui, fondamento della azione, della fraternità e del distacco, molla essenziale, una somiglianza con gli uomini, con tutti: un rapporto di amore.
Citato in Giovanni Russo, Carlo Levi: De Gasperi è rigido e senza intuito, Corriere della sera, 29 luglio 2005, p. 33
  • [Piero Gobetti] Era un giovane alto e sottile; disdegnava l'eleganza della persona, portava occhiali a stanghetta da modesto studioso; i lunghi capelli arruffati, dai riflessi rossi, gli ombreggiavano la fronte e gli occhi vivissimi, così penetranti che era difficile sostenerne lo sguardo a chi non fosse ben sicuro di sé.
  • [Don Luigi Sturzo] Ha grandi qualità personali e politiche, che si leggono con chiarezza sul suo viso femminile, mobile, espressivo.
  • [Alcide De Gasperi] Sarcastico e burocratico, aiuta Sturzo con mediocre abilità. Asciutto e occhialuto, è privo d'intuito e agilità.
  • [Il fascismo] Sotto forme diverse, sotto diversi nomi, con maggiore o minore virulenza, esso ha serpeggiato in tutte le nazioni, come un' infezione diffusa in tutto l'organismo e che si localizza qua e là.

Cristo si è fermato a Eboli modifica

Incipit modifica

Sono passati molti anni, pieni di guerra, e di quello che si usa chiamare la Storia. Spinto qua e là alla ventura, non ho potuto finora mantenere la promessa fatta, lasciandoli, ai miei contadini, di tornare fra loro, e non so davvero se e quando potrò mai mantenerla. Ma, chiuso in una stanza, e in un mondo chiuso, mi è grato riandare con la memoria a quell'altro mondo, serrato nel dolore e negli usi, negato alla Storia e allo Stato, eternamente paziente; a quella mia terra senza conforto e dolcezza, dove il contadino vive, nella miseria e nella lontananza, la sua immobile civiltà, su un suolo arido, nella presenza della morte.
– Noi non siamo cristiani, – essi dicono, – Cristo si è fermato a Eboli –. Cristiano vuol dire, nel loro linguaggio, uomo: e la frase proverbiale che ho sentito tante volte ripetere, nelle loro bocche non è forse nulla piú che l'espressione di uno sconsolato complesso di inferiorità. Noi non siamo cristiani, non siamo uomini, non siamo considerati come uomini, ma bestie, bestie da soma, e ancora meno che le bestie, i fruschi, i frusculicchi, che vivono la loro libera vita diabolica o angelica, perché noi dobbiamo invece subire il mondo dei cristiani, che sono di là dall'orizzonte, e sopportarne il peso e il confronto. Ma la frase ha un senso molto piú profondo, che, come sempre, nei modi simbolici, è quello letterale. Cristo si è davvero fermato a Eboli, dove la strada e il treno abbandonano la costa di Salerno e il mare, e si addentrano nelle desolate terre di Lucania. Cristo non è mai arrivato qui, né vi è arrivato il tempo, né l'anima individuale, né la speranza, né il legame tra le cause e gli effetti, la ragione e la Storia. Cristo non è arrivato, come non erano arrivati i romani, che presidiavano le grandi strade e non entravano fra i monti e nelle foreste, né i greci, che fiorivano sul mare di Metaponto e di Sibari: nessuno degli arditi uomini di occidente ha portato quaggiú il suo senso del tempo che si muove, né la sua teocrazia statale, né la sua perenne attività che cresce su se stessa. Nessuno ha toccato questa terra se non come un conquistatore o un nemico o un visitatore incomprensivo. Le stagioni scorrono sulla fatica contadina, oggi come tremila anni prima di Cristo: nessun messaggio umano o divino si è rivolto a questa povertà refrattaria. Parliamo un diverso linguaggio: la nostra lingua è qui incomprensibile. I grandi viaggiatori non sono andati di là dai confini del proprio mondo; e hanno percorso i sentieri della propria anima e quelli del bene e del male, della moralità e della redenzione. Cristo è sceso nell'inferno sotterraneo del moralismo ebraico per romperne le porte nel tempo e sigillarle nell'eternità. Ma in questa terra oscura, senza peccato e senza redenzione, dove il male non è morale, ma è un dolore terrestre, che sta per sempre nelle cose, Cristo non è disceso. Cristo si è fermato a Eboli.

Citazioni modifica

  • E poi, forse è vanità, ma mi pareva stonato che il luogo dove ero costretto a vivere non avesse in sé un'aria di costrizione, ma fosse sparso e quasi accogliente; così come al prigioniero è di maggior conforto una cella con inferriate esuberanti e retoriche piuttosto che una che assomigli apparentemente a una camera normale. (1990, p. 7)
  • Il delinquente umiliato chiese di andare volontario, pensando che avrebbe così espiato le sue colpe, si sarebbe riconciliato, al ritorno, con la moglie, e intanto avrebbe preso lo stipendio di capitano, assai superiore a quello di maestro di scuola; e parti. Il suo esempio, purtroppo, non fu seguito da nessuno. Il capitano Cuscianna e il tenente Decanto di Grassano di cui ho parlato furono i soli volontari in questi due paesi. Ma, seppure a pochi, anche le guerre servono a qualche cosa. Il capitano Cuscianna era dunque un eroe, donna Caterina la moglie di un eroe, e nessuno del partito avverso poteva vantare, a Matera, simile benemerenza. (1990, p. 51)
  • I contadini risalivano le strade con i loro animali e rifluivano alle loro case, come ogni sera, con la monotonia di una eterna marea, in un loro oscuro, misterioso mondo senza speranza. Gli altri, i signori, li avevo ormai fin troppo conosciuti, e sentivo con ribrezzo il contatto attaccaticcio della assurda tela di ragno della loro vita quotidiana; polveroso nodo senza mistero, di interessi, di passioni miserabili, di noia, di avida impotenza, e di miseria. (1990, p. 54)
  • – Proprio così, il paese è fatto delle ossa dei morti –. Aveva ragione, il vecchio, in tutti i modi, sia che lo si dovesse intendere in modo figurato e simbolico, sia che lo si dovesse prendere alla lettera. [...] Qui, dove il tempo non scorre, è ben naturale che le ossa recenti, e meno recenti e antichissime, rimangano, ugualmente presenti, dinanzi al piede del passeggero. (1990, p. 61)
  • I signori erano tutti iscritti al Partito, anche quei pochi, come il dottor Milillo, che la pensavano diversamente, soltanto perché il Partito era il Governo, era lo Stato, era il Potere, ed essi si sentivano naturalmente partecipi di questo potere. Nessuno dei contadini, per la ragione opposta, era iscritto, come del resto non sarebbero stati iscritti a nessun altro partito politico che potesse, per avventura, esistere. Non erano fascisti, come non sarebbero stati liberali o socialisti o che so io, perché queste faccende non li riguardavano, appartenevano a un altro mondo, e non avevano senso. Che cosa avevano essi a che fare con il Governo, con il Potere, con lo Stato? Lo Stato, qualunque sia, sono «quelli di Roma», e quelli di Roma, si sa, non vogliono che noi si viva da cristiani. C'è la grandine, le frane, la siccità, la malaria, e c'è lo Stato. Sono dei mali inevitabili, ci sono sempre stati e ci saranno sempre. Ci fanno ammazzare le capre, ci portano via i mobili di casa, e adesso ci manderanno a fare la guerra. Pazienza!
    Per i contadini, lo Stato è più lontano del cielo, e più maligno, perché sta sempre dall'altra parte. Non importa quali siano le sue formule politiche, la sua struttura, i suoi programmi. I contadini non li capiscono, perché è un altro linguaggio dal loro, e non c'è davvero nessuna ragione perché li vogliano capire. La sola possibile difesa, contro lo Stato e contro la propaganda, è la rassegnazione, la stessa cupa rassegnazione, senza speranza di paradiso, che curva le loro schiene sotto i mali della natura. (1990, pp. 67-68)
  • – Un esiliato? Peccato! Qualcuno a Roma ti ha voluto male –. E non aggiungeva altro, ma rimetteva in moto la sua cavalcatura, guardandomi con un sorriso di compassione fraterna.
    Questa fraternità passiva, questo patire insieme, questa rassegnata, solidale, secolare pazienza è il profondo sentimento comune dei contadini, legame non religioso, ma naturale. Essi non hanno, né possono avere, quella che si usa chiamare coscienza politica, perché sono, in tutti i sensi del termine, pagani, non cittadini: gli dèi dello Stato e della città non possono aver culto fra queste argille, dove regna il lupo e l'antico, nero cinghiale, né alcun muro separa il mondo degli uomini da quello degli animali e degli spiriti, né le fronde degli alberi visibili dalle oscure radici sotterranee. Non possono avere neppure una vera coscienza individuale, dove tutto è legato da influenze reciproche, dove ogni cosa è un potere che agisce insensibilmente, dove non esistono limiti che non siano rotti da un influsso magico. (1990, p. 68)
  • Il vedermi con una sorella muoveva uno dei loro più profondi sentimenti: quello della consanguineità, che, dove non c'è senso di Stato né di religione, tiene, con tanta maggiore intensità, il posto di quelli. Non è l'istituto familiare, vincolo sociale, giuridico e sentimentale; ma il senso sacro, arcano e magico di una comunanza. (1990, p. 78)
  • Il prevalente rapporto matriarcale, il modo naturale e animalesco dell'amore, lo squilibrio dovuto all'emigrazione devono tuttavia fare i conti con il residuo senso familiare, col sentimento fortissimo della consanguineità, e con gli antichi costumi, che tendono a impedire il contatto degli uomini e delle donne. (1990, p. 90)
  • La ragione soltanto ha un senso univoco, e, come lei, la religione e la storia. Ma il senso dell'esistenza, come quello dell'arte e del linguaggio e dell'amore, è molteplice, all'infinito. Nel mondo dei contadini non c'è posto per la ragione, per la religione e per la storia. Non c'è posto per la religione, appunto perché tutto partecipa della divinità, perché tutto è, realmente e non simbolicamente, divino, il cielo come gli animali, Cristo come la capra. Tutto è magia naturale. Anche le cerimonie della chiesa diventano dei riti pagani, celebratori della indifferenziata esistenza delle cose, degli infiniti terrestri dèi del villaggio. (1990, p. 102)
  • Essi non sentono alcuna prevenzione contro questi strumenti moderni, né alcuna contraddizione fra di essi e i loro antichi costumi. Prendono volentieri quello che arriva da New York, come prenderebbero volentieri quello che arrivasse da Roma. Ma da Roma non arriva nulla. Non era mai arrivato nulla, se non l'«U. E.», e i discorsi della radio. (1990, p. 115)
  • Gli Stati, le Teocrazie, gli Eserciti organizzati sono naturalmente più forti del popolo sparso dei contadini: questi devono perciò rassegnarsi ad essere dominati: ma non possono sentire come proprie le glorie e le imprese di quella civiltà, a loro radicalmente nemica. Le sole guerre che tocchino il loro cuore sono quelle che essi hanno combattuto per difendersi contro quella civiltà, contro la Storia, e gli Stati, e la Teocrazia e gli Eserciti. Sono le guerre combattute sotto i loro neri stendardi, senz'ordine militare, senz'arte e senza speranza: guerre infelici e destinate sempre ad essere perdute; ferocie disperate, e incomprensibili agli storici. (1990, p. 120)
  • Il loro cuore è mite, e l'animo paziente. Secoli di rassegnazione pesano sulle loro schiene, e il senso della vanità delle cose, e della potenza del destino. Ma quando, dopo infinite sopportazioni, si tocca il fondo del loro essere, e si muove un senso elementare di giustizia e di difesa, allora la loro rivolta è senza limiti, e non può conoscere misura. È una rivolta disumana, che parte dalla morte e non conosce che la morte, dove la ferocia nasce dalla disperazione. I briganti difendevano, senza ragione e senza speranza, la libertà e la vita dei contadini, contro lo Stato, contro tutti gli Stati. Per loro sventura si trovarono ad essere inconsapevoli strumenti di quella Storia che si svolgeva fuori di loro, contro di loro; a difendere la causa cattiva, e furono sterminati. Ma, col brigantaggio, la civiltà contadina difendeva la propria natura, contro quell'altra civiltà che le sta contro e che, senza comprenderla, eternamente la assoggetta: perciò, istintivamente, i contadini vedono nei briganti i loro eroi. La civiltà contadina è una civiltà senza Stato, e senza esercito: le sue guerre non possono essere che questi scoppi di rivolta; e sono sempre, per forza, delle disperate sconfitte; ma essa continua tuttavia, eternamente, la sua vita, e dà ai vincitori i frutti della terra, ed impone le sue misure, i suoi dèi terrestri, e il suo linguaggio. (1990, p. 122)
  • Il brigantaggio non è che un accesso di eroica follia, e di ferocia disperata: un desiderio di morte e distruzione, senza speranza di vittoria. [...]
    Questo desiderio cieco di distruzione, questa volontà di annichilimento, sanguinosa e suicida, cova per secoli sotto la mite pazienza della fatica quotidiana. Ogni rivolta contadina prende questa forma, sorge da una volontà elementare di giustizia, nascendo dal nero lago del cuore. (1990, p. 125)
  • Nell'uguaglianza delle ore, non c'è posto né per la memoria né per la speranza: passato e futuro sono come due stagni morti. (1990, p. 184)
  • Così sono sempre le violente ed effimere esplosioni di questi uomini compressi; un risentimento antichissimo e potente affiora, per un motivo umano; e si dànno al fuoco i casotti del dazio e le caserme dei carabinieri, e si sgozzano i signori; nasce, per un momento, una ferocia spagnola, una atroce, sanguinosa libertà. Poi vanno in carcere, indifferenti, come chi ha sfogato in un attimo quello che attendeva da secoli. (1990, p. 201)
  • Tutti mi avevano chiesto notizie del mezzogiorno; a tutti avevo raccontato quello che avevo visto: e, se tutti mi avevano ascoltato con interesse, ben pochi mi era parso volessero realmente capire quello che dicevo. Erano uomini di varie opinioni e temperamenti: dagli estremisti più accesi ai più rigidi conservatori. Molti erano uomini di vero ingegno e tutti dicevano di aver meditato sul «problema meridionale» e avevano pronte le loro formule e i loro schemi. Ma così come queste loro formule e schemi, e perfino il linguaggio e le parole usate per esprimerli sarebbero stati incomprensibili all'orecchio dei contadini, così la vita e i bisogni dei contadini erano per essi un mondo chiuso, che neppure si curavano di penetrare. Erano, in fondo, tutti (mi pareva ora di vederlo chiaramente) degli adoratori, più o meno inconsapevoli, dello Stato; degli idolatri che si ignoravano. Non importava se il loro Stato fosse quello attuale o quello che vagheggiavano nel futuro: nell'uno e nell'altro caso era lo Stato, inteso come qualcosa di trascendente alle persone e alla vita del popolo; tirannico o paternamente provvidente, dittatoriale o democratico, ma sempre unitario, centralizzato e lontano. Di qui la impossibilità, fra i politici e i miei contadini, di intendere e di essere intesi. Di qui il semplicismo, spesso ammantato di espressioni filosofeggianti, dei politici, e l'astrattezza delle loro soluzioni, non mai aderenti a una realtà viva, ma schematiche, parziali, e così presto invecchiate. Quindici anni di fascismo avevano fatto dimenticare a tutti il problema meridionale; e, se ora dovevano riproporselo, non sapevano vederlo che in funzione a qualcosa d'altro, alle generiche finzioni mediatrici del partito o della classe, o magari della razza. (1990, pp. 219-220)
  • Infine c'è il lato sociale del problema. Si usa dire che il grande nemico è il latifondo, il grande proprietario; e certamente, là dove il latifondo esiste, esso è tutt'altro che una istituzione benefica. Ma se il grande proprietario, che sta a Napoli, a Roma, o a Palermo, è un nemico dei contadini, non è tuttavia il maggiore né il più gravoso. Egli almeno è lontano, e non pesa quotidianamente sulla vita di tutti. Il vero nemico, quello che impedisce ogni libertà e ogni possibilità di esistenza civile ai contadini, è la piccola borghesia dei paesi. È una classe degenerata, fisicamente e moralmente: incapace di adempiere la sua funzione, e che solo vive di piccole rapine e della tradizione imbastardita di un diritto feudale. Finché questa classe non sarà soppressa e sostituita non si potrà pensare di risolvere il problema meridionale. (1990, pp. 221-222)
  • Senza una rivoluzione contadina, non avremo mai una vera rivoluzione italiana, e viceversa. Le due cose si identificano. Il problema meridionale non si risolve dentro lo Stato attuale, né dentro quelli che, senza contraddirlo radicalmente, lo seguiranno. Si risolverà soltanto fuori di essi, se sapremo creare una nuova idea politica e una nuova forma di Stato, che sia anche lo Stato dei contadini; che li liberi dalla loro forzata anarchia e dalla loro necessaria indifferenza. [...] Dobbiamo ripensare ai fondamenti stessi dell'idea di Stato: al concetto d'individuo che ne è la base; e, al tradizionale concetto giuridico e astratto di individuo, dobbiamo sostituire un nuovo concetto, che esprima la realtà vivente, che abolisca la invalicabile trascendenza di individuo e di Stato. L'individuo non è una entità chiusa, ma un rapporto, il luogo di tutti i rapporti. Questo concetto di relazione, fuori della quale l'individuo non esiste, è lo stesso che definisce lo Stato. Individuo e Stato coincidono nella loro essenza, e devono arrivare a coincidere nella pratica quotidiana, per esistere entrambi. Questo capovolgimento della politica, che va inconsapevolmente maturando, è implicito nella civiltà contadina, ed è l'unica strada che ci permetterà di uscire dal giro vizioso di fascismo e antifascismo. Questa strada si chiama autonomia. (1990, pp. 222-223)
  • L'Italia è il paese dei diplomi, delle lauree, della cultura ridotta soltanto al procacciamento e alla spasmodica difesa dell'impiego.
  • Se le conseguenze non sono spesso mortali, non è certo mancanza di buone intenzioni, ma soltanto il fatto che, per uccidere con arte un cristiano, ci vuol pure una qualche briciola di scienza.
  • Per i contadini, lo Stato è più lontano del cielo, e più maligno, perché sta sempre dall'altra parte.
  • Tutti i giovani di qualche valore, e quelli appena capaci di fare la propria strada, lasciano il paese. I più avventurati vanno in America, come i cafoni; gli altri a Napoli o a Roma; e in paese non tornano più. In paese ci restano invece gli scarti, coloro che non sanno far nulla, i difettosi nel corpo, gli inetti, gli oziosi: la noia e l'avidità li rendono malvagi.
  • Che cosa avevano essi a che fare con il Governo, con il Potere, con lo Stato? Lo Stato, qualunque sia, sono «quelli di Roma», e quelli di Roma, si sa, non vogliono che noi si viva da cristiani. C'è la grandine, le frane, la siccità, la malaria, e c'è lo Stato. Sono dei mali inevitabili, ci sono sempre stati e ci saranno sempre.
  • Egli finì per chiedermi se sarei stato capace di fare un ingrandimento a olio della fotografia della sua mamma morta: che è, per un carabiniere, il massimo punto d'arrivo della pittura.
  • Questa fraternità passiva, questo patire insieme, questa rassegnata, solidale, secolare pazienza è il profondo sentimento comune dei contadini, legame non religioso, ma naturale.
  • Questo, fraterno, è il più forte legame fra gli uomini.
  • Non c'è abitudine o regola o legge che resista a una contraria necessità o a un potente desiderio: e anche quest'uso si riduce, praticamente, a una formalità: ma la formalità è rispettata.
  • Giudicato da un punto di vista storico, nel complesso del Risorgimento italiano, il brigantaggio non può essere difeso.
  • I contadini lucani nella loro secolare storia hanno avuto tre guerre collocate nel tempo, la prima delle quali fu contro i greci che conquistarono queste terre. Da un lato c'erano gli eserciti organizzati degli Achei con le loro armi; dall'altro i contadini con le loro scuri, le falci e i coltelli. La seconda guerra fu quella contro i Romani che permise la diffusione della teocrazia statale con tutte le sue incomprensibili leggi. Infine la terza e ultima fu quella dei briganti: i contadini non avevano cannoni come "l'altra Italia" che li stava sottomettendo, ma avevano la rabbia dovuta alla povertà, all'emigrazione, all'ingiustizia sociale che il nuovo stato savoiardo stava perpetrando nelle terre meridionali.
  • I monachicchi sono esseri piccolissimi, allegri, aerei, corrono veloci qua e là, e il loro maggior piacere è di fare ai cristiani ogni sorta di dispetti. Fanno il solletico sotto i piedi agli uomini addormentati, tirano via le lenzuola dei letti, buttano sabbia negli occhi, rovesciano bicchieri pieni di vino, si nascondono nelle correnti d'aria e fanno volare le carte e cadere i panni stesi in modo che si insudicino, tolgono la sedia di sotto alla donne sedute, nascondono gli oggetti nei luoghi più impensati, fanno cagliare il acre, danno pizzicotti, tirano i capelli, pungono e fischiano come zanzare. Ma sono innocenti: i loro malanni non sono mai seri, hanno sempre l'aspetto di un gioco, e, per quanto fastidiosi, non ne nasce mai nulla di grave.
  • Ma, per i contadini, queste non sono che briciole degli immensi tesori celati nelle viscere della terra. Per loro i fianchi dei monti, il fondo delle grotte, il fitto delle foreste sono pieni di oro lucente, che aspetta il fortunato scopritore. Soltanto, la ricerca dei tesori non va senza pericoli perché è opera diabolica, e si toccano delle potenze e spaventose. È inutile frugare a caso la terra: i tesori non compaiono che a colui che deve trovarli. E per sapere dove sono, non ci sono che le ispirazioni dei sogni, se non si ha avuto la fortuna di essere guidati da uno degli spiriti della terra che li custodiscono, da un monachicchio.
  • Decisero allora, per poter in qualche modo difendersi dai suoi giochi fastidiosi, e prendere un po' di riposo, e lasciare a turno uno di loro di sentinella mentre gli altri dormivano, con l'incarico di tenere almeno lontano il monachicchio, se la fortuna non consentiva di afferrarlo. Tutto fu inutile: quell'inafferrabile folletto continuava i suoi dispetti come prima, ridendo allegramente della rabbia impotente degli operai. Disperati, essi ricorsero allora all'ingegnere che dirigeva i lavori: era un signore istruito, e forse sarebbe riuscito meglio di loro a domare il monachicchio scatenato. L'ingegnere venne, accompagnato dal suo assistente, un capomastro: tutti e due armati col fucile da caccia a due canne. Al loro arrivo il monachicchio si mise a fare sberleffi e risate, dal fondo della grotta, dove tutti lo vedevano benissimo, e saltava come un capretto. L'ingegnere imbracciò il fucile, che aveva caricato a palla, e lasciò partire un colpo. La palla colpì il monachicchio, e rimbalzò indietro verso quello che l'aveva tirata, e gli sfiorò il capo con un fischio pauroso, mentre lo spiritello saltava sempre più in alto, in preda a una folle gioia. L'ingegnere non tirò il secondo colpo: ma si lasciò cadere il fucile di mano: e lui, il capomastro, gli operai e Carmelo, senza aspettar altro, fuggirono terrorizzati. Da allora quei manovali si riposano all'aperto, sotto il sole, coprendosi il viso col cappello: anche tutte le altre grotte dei briganti, in quei dintorni di Irsina, erano piene di monachicchi, ed essi non osarono più metterci piede.
  • La sconsolatezza di Orlando, che era quella di tutti i meridionali che pensano con serietà ai problemi del loro paese, derivava, come in tutti, da un radicale complesso di inferiorità.
  • Non può essere lo Stato, avevo detto, a risolvere la questione meridionale, per la ragione che quello che noi chiamiamo problema meridionale non è altro che il problema dello Stato.
  • Senza una rivoluzione contadina, non avremo mai una vera rivoluzione italiana, e viceversa.
  • Il problema meridionale non si risolve dentro lo Stato attuale, né dentro quelli che, senza contraddirlo radicalmente, lo seguiranno.

Explicit modifica

Ma già il treno mi portava lontano, attraverso le campagne matematiche di Romagna, verso i vigneti del Piemonte, e quel futuro misterioso di esili, di guerre e di morti, che allora mi appariva appena, come una nuvola incerta nel cielo sterminato.

Citazioni sul libro modifica

  • Certo, l'esperienza intera che quel giovane (che forse ero io) andava facendo, gli rivelava nella realtà non soltanto un paese ignoto, ignoti linguaggi, lavori, fatiche, dolori, miserie e costumi, non soltanto animali e magia, e problemi antichi non risolti, e una potenza contro il potere, ma l'alterità presente, la infinita contemporaneità, l'esistenza come coesistenza, l'individuo come luogo di tutti i rapporti, e un mondo immobile di chiuse possibilità infinite, la nera adolescenza dei secoli pronti ad uscire e muoversi, farfalle dal bozzolo; e l'eternità individuale di questa vicenda, la Lucania che è in ciascuno di noi, forza vitale pronta a diventare forma, vita, istituzioni, in lotta con le istituzioni paterne e padrone, e, nella loro pretesa di realtà esclusiva, passate e morte. (1990, p. XVIII)
  • C'è nel libro un alto livello intellettuale, vi si respira la cultura europea in cui Carlo Levi ha affondato le sue radici, diciamo la cultura europea fino a quell'epoca, fino alla seconda guerra mondiale; c'è la passione di sistemarne tutti i dati di un discorso coerente, e non ancora il timore di spezzare l'armonia d'una sistemazione con nuove acquisizioni, con nuove messe in questione; non ancora insomma l'olimpicità culturamente paga di se stessa che Carlo Levi si forgiò in seguito come una corazza contro tanta parte del problematismo contemporaneo. Con Paura della libertà la passione dell'intelligenza in un momento di scacco generale muove a inglobare e classificare istituzioni, miti, personaggi storici, movimenti profondi dell'animo umano. (Italo Calvino)

Le parole sono pietre modifica

Incipit modifica

Quando l'automobile del sindaco di New York, una bella Pontiac grigia avuta in prestito per l'occasione, si fu fermata all'ingresso del villaggio di Isnello, e il signor Impellitteri, e la signora, furono scesi, nel frastuono degli applausi e della banda municipale, e nella confusione dei carabinieri, dei motociclisti del seguito, dei giornalisti, dei fotografi, dei curiosi, degli infiniti cugini, procugini e parenti, dei borghesi, dei contadini, dei pastori, delle donne, e, insomma, dei 4000 abitanti di Isnello che lo aspettavano, i ragazzi del paese le si affollarono intorno, chiamandosi l'un l'altro a gran voce, spingendosi, urtandosi, facendosi largo a gomitate per toccarla.

Citazioni modifica

  • [Su Vincent Impellitteri] Il rappresentante del Governo Regionale parlò dell'orgoglio del povero emigrante, diventato illustre «non per magnanimi lombi, ma per le due leggi di Sicilia: la legge dell'onore e quella dell'amore». E disse come «l'orgoglio personale di Impellitteri si placa e si ingrandisce in quello dei quattromila cittadini di Isnello, e, se permettete, dei quattro milioni di siciliani». -Tu hai dimostrato, – aggiunse, – quello che è il senso vero del nostro Impero e del dominio della nostra popolazione, il primato della sua civiltà. Tu, siciliano autentico sin dalla culla, siciliano col certificato di nascita, sei uno di quei meravigliosi coloni che solcando il mare che tu oggi hai rifatto con volo d'aquila, hanno fatto l'Impero: l'Impero del Lavoro. (pp. 21-22)
  • E poiché era tornato da poco dall'America, mi raccontava di quei cimiteri e di quelle imbalsamazioni di laggiù, fatte per nascondere la morte [...] Qui, in questa terra antica, è tutto l'opposto. La morte è la morte, e perché è morte conserva in sé piena l'immagine della vita. Ci sono anche in altre parti d'Italia, anche a Roma, cimiteri di questo genere, ma qui, in Sicilia, questa familiarità con i morti, questa loro presenza, sembra naturale e non desta terrore. (pp. 60-61)
  • [Sulle catacombe] Ma in nessun luogo come qui a Palermo vi è un popolo intero di morti, con le varietà di un popolo e il costume, e una sorta di intesa e di serietà silenziosa. Ciascuno ha il suo viso e il suo carattere individuale, ma vi è in tutti qualche cosa di comune, un'ombra di espressione, l'immagine forse di quella testa di morto che è, come dice il poeta romano, nella testa di ciascuno dei vivi. Vi è qualche cosa di comune in quel grigio, in quello spento, che assomiglia stranamente a ciò che vi è di comune nei volti dei poveri: ed è la morte, un piccolo passo più in là della miseria; la morte che, come la miseria, più ancora della miseria, dà a tutti i volti un'aria vera. (p. 61)
  • L'estate cala sulla Sicilia come un falco giallo sulla gialla distesa del feudo coperta di stoppe. La luce si moltiplica in una continua esplosione e pare riveli e apra le forme bizzarre dei monti e renda compatti e durissimi il cielo, la terra e il mare, un solo muro ininterrotto di metallo colorato. Sotto il peso infinito di quella luce gli uomini e gli animali si muovono in silenzio, attori forse di un dramma remoto, di cui non giungono alle orecchie le parole: ma i gesti stanno nell'aria luminosa come voci mutevoli e pietrificate, come tronchi di fichi d'India, fronde contorte di ulivo, rocce mostruose, nere grotte senza fondo. (p. 95)
  • Anche noi siamo scesi dal cielo come il falco dell'estate. Dopo un'ora di volo navigante in un paese liquido di nubi grigie, di squarci improvvisi e teneri di azzurro di cielo, e di grigio lucente di mare, tra fiumi, nebbie, liquide esalazioni, rinserrati in un universo aereo di acqua, ad un tratto, come se una mano con un gesto improvviso avesse scostato i vapori e aperto alla luce gli orizzonti, ecco apparire, tragico, ardente e inverosimile, il blu di Sicilia, e la costa, e lo scheletro bruciato di Monte Pellegrino. Quasi succhiati da quella terra attrattiva e divorante, prima di aver tempo di contemplarla, eccoci sulla pista dell'aeroporto, a Bocca di Falco. (p. 95)
  • Gli operai hanno terminato di appendere agli alberi grappoli di lampade gialle e rosa, aranci e limoni di fuoco, e festoni e archi sulle strade e i palazzi, e col calare della notte, d'un tratto, tutta la città si accende. Splende la grande strada che attraversa Palermo, via Maqueda, via Ruggero Settimo, come un portico sterminato di luci, splende il viale della Libertà come un aranceto sfavillante: visto di lontano, dalle vie più strette che lo continuano pare una grande distesa in salita coperta da una folla innumerevole, o un prato di montagna, o una immensa muraglia obliqua che salga a toccare il cielo. Brillano le vie laterali; i Quatto Canti di città con le statue e le modanature sono le quinte di un fastoso teatro seicentesco. Tutto un popolo coi suoi infiniti occhi si aggira silenzioso in quel bagno di luce, esce dai palazzi dei principi e dei baroni e dai «catoi» dei vicoli, e si mescola per le strade. Le tre cupole rotonde della moschea, all'ombra del campanile romanico, della chiesa barocca e del neoclassico teatro Bellini, stanno rosse sul cielo. (p. 101)
  • Mi infilo in un vicolo in discesa, sotto via Maqueda, attirato dalla meraviglia rilucente di banchi di frutta e di pesce; mucchi preziosi di gemme sotto i balconi dei poveri; e continuo a scendere in un labirinto di strade, di stradette, di vicoli, in un mercato senza fine, dove ogni frutto della terra e del mare pare animato di una bellezza impossibile, dove il pescespada drizza la sua arma e la sua pinna nera verso il cielo, e i meloni rosseggiano di fiamma, chiusi sotto il tetto di lampade colorate come un segreto di Mille e una notte. E' la Vucceria. Venga il suo nome da boucherie come vogliono alcuni filologi, o più semplicemente da voce, voceria, come sostengono altri, questo luogo esaltato e brulicante è uno zaffiro d'Oriente che splende di teatrale vitalità. Scendo tra i banchi, ciascuno dei quali è una imprevedibile architettura di fiamme vegetali e animali, colorate, eccessive, gigantesche, di una misura e di una intensità quasi intollerabile, coi cartelli dei prezzi dipinti in rosso e in giallo, coi numeri dai bordi dentellati nello stile dei carri, per vicoli sempre più stretti, verso il mare. (p. 103)

Citazioni sul libro modifica

  • Le parole sono pietre – mai titolo di libro fu più felicemente duro e capace di colpire – è il frutto di un viaggio in Sicilia in tre tempi: nel 1951, nel 1952 e nel 1955, anno, questo stesso in cui fu pubblicato per la prima volta. [...] Ultimo, allora, di una lunghissima e illustrissima schiera di viaggiatori in Sicilia, viaggiatori che spesso, in questa terra antica e composita, enormemente stratificata, sono stati ingannati o fuorviati da superfici arditamente colorate o da monumentalità incombenti, fino a giungere qualche volta allo smarrimento (come successe a quel povero inglese di nome Newman, divenuto poi cardinale, che dalla Sicilia scappò confuso e febbricitante), ultimo, dicevo, Levi, non ha distrazioni e incertezze. (Vincenzo Consolo)

Incipit de L'orologio modifica

La notte, a Roma, par di sentire ruggire i leoni.[8]

Citazioni su Carlo Levi modifica

  • Cristo si è fermato a Eboli, L'Orologio, sono i momenti di un'autobiografia che non può svolgersi altrimenti che ricostruendo la storia della società italiana, dal fascismo ai primi anni del dopoguerra. Carlo Levi — qui è il centro della sua arte — non dipinge un quadro d'insieme di codesta società per poi, subito dopo, inserirvisi; non procede verso l'universale astratto. Nella sua opera il moto di universalizzazione è tutt'uno con l'approfondimento del concreto. Dai suoi inizi ci ha posto, sempre, contemporaneamente su due piani: quello della Storia e quello delle sue storie, specchiantisi l'uno nell'altro. Mi sia consentito affermare, in questa occasione, il mio totale consenso a un'arte dello scrivere così concepita. Io credo che, attualmente, non possiamo tentare nient'altro che collocare i nostri lettori in questa doppia prospettiva: di una vita che si singolarizza, avida di gustare il sapore di tutte le altre vite, e di una universalità strutturata del vissuto che si totalizza soltanto nelle vite particolari. [...] Quella curiosità di cui poco fa ho parlato, e che ha fatto di lui lo scrittore di cui non possiamo mai dimenticarci, è nata dalla passione di vivere, che lo induce a cogliere come un valore, in se stesso e negli altri, ogni esperienza vissuta. In Levi tutto si accorda, tutto si tiene. Medico dapprima, poi scrittore e artista per una sola identica ragione: l'immenso rispetto per la vita. E questo stesso rispetto è all'origine del suo impegno politico, così come alla sorgente della sua arte. (Jean-Paul Sartre)
  • Questa dell'amore per le cose di cui parla è una caratteristica che bisogna tener presente se si vuole riuscire a definire la singolarità dell'operazione letteraria di Levi. Perché quest'uomo che si dice sempre che mette se stesso al centro d'ogni narrazione, che fa scaturire sempre attorno alla sua presenza incontri straordinari, è poi lo scrittore piú dedito alle cose, al mondo oggettivo, alle persone. Il suo metodo è di descrivere con rispetto e devozione ciò che vede, con uno scrupolo di fedeltà che gli fa moltiplicare particolari e aggettivi. La sua scrittura è un puro strumento di questo suo rapporto amoroso col mondo, di questa fedeltà agli oggetti della sua rappresentazione. (Italo Calvino)

Note modifica

  1. Da Guerra e pace, L'Italia socialista, 16 novembre 1947; citato in Giovanni De Luna, La Repubblica inquieta: L'Italia della Costituzione. 1946-1948, Feltrinelli, ]https://books.google.it/books?id=OuWLDwAAQBAJ&pg=PT115 pp. 115-116]. ISBN 9788858830147
  2. Da Le mille patrie, Donzelli, 2000, p. 193.
  3. Da prefazione a Mario Farinella, Profonda Sicilia, Palermo, Edizioni Libri Siciliani, 1966, p. 5.
  4. Citato in Gigliola De Donato, Sergio D'Amaro, Un torinese del Sud, Dalai, 2005, p. 162-163.
  5. Da L'orologio. Citato in Corrado Stajano, Gli impuniti del dopoguerra, Corriere.it, 28 aprile 2017.
  6. Dalla prefazione a Rocco Scotellaro, Uno si distrae al bivio, Basilicata editrice, 1982, p. 162.
  7. Dalla avvertenza Tutto il miele è finito, Einaudi, Torino, 1964.
  8. Citato in Giacomo Papi, Federica Presutto, Riccardo Renzi, Antonio Stella, Incipit, Skira, 2018. ISBN 9788857238937

Bibliografia modifica

  • Carlo Levi, Cristo si è fermato a Eboli, con saggi introduttivi di Italo Calvino e Jean Paul Sartre, Einaudi, 1990.
  • Carlo Levi, L'orologio, Einaudi, 1950.
  • Carlo Levi, Le parole sono pietre. Tre giornate in Sicilia, Mondadori, 1986.

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