Utente:SunOfErat/Citazioni cinematografiche
Generiche
modifica- - I wanna confess.
- What is you sin?
- The movies. (Fuga da Hollywood, Dennis Hopper)
- If filmmakers are expected to constantly answer for the worst things their audiences might ever think, no art of value would ever get made. (Emily Todd VanDerWerff, Once Upon a Time in Hollywood’s many, many controversies, explained, Vox.com, 15 aprile 2019.)
- Vorrei che ci fossero più pellicole disponibili allo stato grezzo, come una fonte primaria di materiale lasciata così com'è per chiunque, come testimonianza incontaminata da una compulsiva ed erroneamente applicata abilità artistica, dal "montaggio", dal voler intenzionalmente evidenziare le cose, da tutto ciò che indica una strada dritta nella cine-giungla. Ci inscatoliamo pensando di andare da qualche parte quando invece ci stiamo perdendo.
- I wish more stuff was available in its raw state, as primary source material for anyone to consider, and to leave for others in just that way, the evidence uncontaminated by compulsive proprietary misapplied artistry, 'editing', the purposeful 'pointing things out' that cuts a road straight and narrow through the cine-jungle; we barrel through thinking we're going somewhere and miss it all. (Ken Jacobs, Films That Tell Time: A Ken Jacobs Retrospective, American Museum of the Moving Image, 1989; citato in Jeffrey Skoller, Shadows, Specters, Shards: Making History in Avant-garde Film, University of Minnesota Press, 2005, p. 197)
- Man mano che i diversi generi si adeguano al colore, gli spettatori sono invitati a confrontarsi con nuove serie annesse alla visione cromatica: paesaggi, architetture, automobili, arredi, corpi, parrucche, vestiti, oggetti, manifesti pubblicitari, insegne luminose. Grazie alla proliferazione di queste serie visive, era il mondo stesso ad apparire come qualcosa di infinitamente più colorato. Il colore si delineava come un elemento sempre più determinante nella rappresentazione di un mondo che, dialetticamente, sembrava esso stesso stimolare la moltiplicazione di immagini a colori. (Federico Pierotti, La seduzione dello spettro. Storia e cultura del colore nel cinema, Recco (GE), Le Mani, 2012, p. 212. ISBN 9788880126157)
- La fotografia ha smesso di essere immobile. Ora perpetua l'immagine del movimento. La bellezza di questa invenzione risiede nella novità e nell'ingegnosità del dispositivo. Quando simili macchine saranno a disposizione di tutti, quando tutti potranno fotografare i propri cari senza più ridurli all'immobilità, ma ritraendoli nei loro movimenti, nelle loro azioni, nei loro gesti familiari, con la parola sulle labbra, allora la morte cesserà di essere assoluta.[1]
- La photographie a cessé de fixer l'immobilité. Elle perpétue l'image du mouvement. La beauté de l'invention réside dans la nouveauté et l'ingéniosité de l'appareil. Lorsque ces appareils seront livrés au public, lorsque tous pourront photographier les êtres qui leur sont chers dans leur mouvement, dans leur action, dans leurs gestes familiers, avec la parole au bout des lèvres, la mort cessera d'être absolue. (La Poste, 30 dicembre 1895)
- [Su Viaggio nella Luna] In realtà il fascino di questo quadro, divenuto una sorta di emblema del cinema di Méliès, sta nella sua ambiguità che sarebbe un errore voler sciogliere: nella sua trovata tecnica, insieme arcaica e arditissima, Méliès riesce a sintetizzare quello che fu il nucleo ispiratore del romanzo di Verne, cioè l'intuizione di una connessione tra il cannone e il telescopio, vale a dire della possibilità di mettere in relazione l'eccezionale energia propulsiva prodotta dal cannone con la possibilità del telescopio di seguire le fasi del lancio spaziale. In pochi quadri e con dei mezzi estremamente limitati Méliès ci fa percepire dunque la connessione tra la balistica e l'ottica. Nella successione dei "quadri" c'è un passaggio da una resa per così dire realistica del tondo della Luna a una decisamente allegorica [...] l'azione combinata di cannone e telescopio ci consente di riguadagnare il mondo magico della féerie. (Andrea Costa, Viaggio sulla luna / Voyage dans la lune, Milano-Udine, Mimesis, 2013, pp. 47-48)
- Ma davvero il bianco e nero è meno realistico? Io ho sempre sostenuto che la Tv a colori è più surreale della Tv in bianco e nero. Dove dicendo "surreale" sottolineo che esso ha una componente informativa ma anche una componente di sogno più alta. Che il colore si presenta in prima istanza come un'aggiunta di realtà, ma poi si svela per meno reale di altre forme di comunicazione tecnicamente più arretrate. Ad esempio l'immagine dell'Undici settembre è così potente anche perché è un'immagine quasi incredibilmente perfetta. Una volta ho detto a un'intervistatrice che quelle immagini sono straordinariamente belle. [...] Si tratta di immagini a bassa definizione, ma con dei colori nitidissimi. C'era un cielo azzurrissimo, che chi vive a New York avrà visto pochissime volte in vita sua. (Peppino Ortoleva, citato in Silvio Alovisio e Enrico Terrone (a cura di), Conversazione con Peppino Ortoleva - Una forza diversa. La bassa definizione (e la bassa intensità) nella storia dei media, SegnoCinema, n. 172, p. 19.)
- La fotografia cinematografica che compone in una scena migliaia di immagini e che formandosi tra una fonte luminosa e un lenzuolo bianco fa alzarsi e camminare i morti e gli assenti, questo semplice nastro di celluloide impressionato, costituisce non soltanto un documento storico ma una porzione di storia, e della storia che non è svanita, che non ha bisogno di un genio per essere resuscitata. (Bolesław Matuszewski, Une nouvelle source de l'histoire: création d'un dèpot cinématographique historique, Paris, Noisette & C.ie, 1898; traduzione italiana Una nuova fonte della storia (creazione di un deposito di cinematografia storica) in G. Grazzini (a cura di), La memoria degli occhi. Bolesław Matuszewski: un pioniere del cinema, Roma, Carocci, 1999, p.65; citato in Francesco Casetti, L'occhio del Novecento: cinema, esperienza, modernità, Milano, Bompiani, 2005, p. 119.)
- Non mi piace questa idea che c'è il cinema muto e quello sonoro, per me c'è solo il cinema. (Jay Weissberg, da un'intervista condotta da Giampiero Raganelli, Jay Weissberg: "Non c'è il cinema sonoro e quello muto. C'è solo il cinema", Quinlan.it, 9 ottobre 2017.)
- [Su La passione di Giovanna D'Arco] Non ho mai visto così tanti primi piani, eccetto forse in Blow Job (1963) di Andy Warhol. (Ehsan Khoshbakht, Sketch to Screen: "The Passion of Joan of Arc", MUBI.com, 27 ottobre 2016)
- I haven't ever seen so many close-ups in one film, maybe except in Andy Warhol's Blow Job (1963).
- Andare al cinema è ridurre all'immobilità il corpo. Non molto ostacola la percezione. Tutto ciò che si può fare è guardare e ascoltare. Ci si dimentica dove si è seduti. Lo schermo luminoso diffonde un torbido chiarore attraverso l'oscurità. Fare un film è una cosa, guardarlo un'altra. Impassibile, muto, fermo siede lo spettatore. Il mondo esterno svanisce quando lo sguardo sonda lo schermo. Importa che film si sta guardando? Forse. Una cosa che tutti i film hanno in comune è il potere di portare la percezione da un'altra parte. (Robert Smithson, A cinematic Atopia, Artforum, settembre 1971, pp. 53-55.)
- Going to the cinema results in an immobilization of the body. Not much gets in the way of one's perception. All one can do is look and listen. One forgets where one is sitting. The luminous screen spreads a murky light throughout the darkness. Making a film is one thing, viewing a film another. Impassive, mute, still the viewer sits. The outside world fades as the eyes probe the screen. Does it matter what film one is watching? Perhaps. One thing all films have in common is the power to take perception elsewhere.
- Il cinema è l'arte perversa per eccellenza: non ti dà quello che desideri, [ma] ti insegna a desiderare. (Slavoj Zizek)
- Molti sono i punti in comune tra i mondo sexy e i mondo crudeli, anche se il pubblico non sempre è lo stesso per i due filoni. Entrambi i generi puntano in maniera incisiva sull'esotismo ch si sprigiona dalle pellicole, rafforzato da musiche accattivanti e appropriate, unito al sensazionalismo shock dell'immagine; non è raro, inoltre, trovare pellicole che si situano a cavallo dei due filoni, alternando a immagini di nudo sequenze che puntano all'orripilante e viceversa. Tuttavia si può dire che se i mondo sexy erano nati per soddisfare il bisogno proibito degli spettatori dei primi anni Sessanta, i mondo crudeli, invece, hanno in qualche modo percorso quel desiderio di immagini shock che poi avrebbe fatto fiorire i filoni italiani sugli zombi o sui cannibali. In prratica se i documentari sexy si possono considerare un contraltare "realistico" dei film erotici, quelli crudeli sono il corrispettivo documentaristico delle pellicole horror-splatter. (da Antonio Bruschini, Antonio Tentori, Nudi e crudeli: i mondo movies italiani, Bloodbuster, Milano, 2013, p. 47)
- Mi sono tornate in mente le immagini della sequenza onirica che Ingmar Bergman ha posto come introduzione ad uno dei suoi film più belli e psicopatologicamente significativi, “Persona” 1: al termine di un incubo, popolato da immagini di morte e di cadaveri, un bambino cerca con il palmo della mano di toccare il volto di una donna (la madre?) proiettato su uno schermo. Un gesto concreto, rivolto a sentire o, forse, a risentire le sensazioni legate ad un rapporto vivificante, un gesto ripetuto e protratto, che va a vuoto, perché cerca di afferrare qualcosa che non c’è, che è assente, non tanto perché l’imago materna è sepolta dalla rimozione, ma perché nessuna immagine ha corpo. Si potrebbe discutere a lungo su chi rappresenti questo enorme volto di donna, sullo schermo su cui il bambino fruga lentamente, sacralmente, in effetti si tratta solo dei volti delle due attrici protagoniste che qui si succedono insensibilmente, mentre nel film, per esprimere la natura simmetrica e fusionale del loro rapporto, Bergman li farà sovrapporre. Che si tratti della madre, o della madre in quanto prima femmina cui si rapporta il piccolo d’uomo, o di ogni donna adulta che rinvia all’immagine della madre, cambia poco. Più interessante è la sensazione che trasmette il gesto di questo bambino, la matrice angosciosa della sua ricerca che cerca di dare corpo ad un’immagine esterna perché dentro di sé ha solo immagini morte. (Riccardo Dalle Luche, L'amore perverso. Eros melanconico e perversificazione, PsychoMedia.it)
- L'espressionismo è essenzialmente il gioco intensivo della luce con l'opaco, con le tenebre. (Gilles Deleuze, L'immagine-movimento. Cinema 1, ubulibri, 2006)
- Non sa muoversi, non sa cantare, non sa ballare. È multiforme. (Cantando sotto la pioggia)
Busby Berkeley
modifica- Two matinee idols actors sing a pretty melody. About two minutes in everything goes nuts. Our singers disappear into the background, replaced by untold, leggy dancers moving together in bizarre, dense patterns. [...] Sometimes they look like kaleidoscopes made of body parts — legs twisting in unison into abstract patterns, shapes so complex that the eyes can’t help but pop out. (Matt Prigge, Film Forum's Busby Berkeley series is set to pop your eyes out, metro.us, 7 dicembre 2016)
- What on screen were supposed to be stage numbers, viewed by rapt theatergoers, suddenly and unexplainably drift off into a purely cinematic realm. The dancers spread out into unlimited space, performing only for a camera. Usually it takes a god’s eye view; sometimes it glides through an army of legs spread just enough for it to slink by. (Matt Prigge, Film Forum's Busby Berkeley series is set to pop your eyes out, Metro.us, 7 dicembre 2016)
- But the most surprising aspect of The Gang's All Here is the ending, which quite literally comes out of nowhere. After a brief segment of the performers with lighted, floating hoops while wearing what look like space suits... the film literalizes the kaleidoscopic effect that Berkeley had received acclaim for, turning the dance into completely abstract images, before the faces of all the principal players zoom out of the screen and the heads of the entire cast sings in unison. It is an eerie, almost scary effect, one that would shock almost any viewer. (Sam "Burgundy Suit" Scott, Forgotbusters: The Early Years | The Gang’s All Here by Ryan Swen, The-Solute.com, 15 luglio 2016)
- The finale of The Gang's All Here contains cinematic effects never before seen on the screen. Berkeley's mobile camera angles, the fluidity of movement, his dance compositions in the group numbers, his fondness for bizarre devices like water curtains tinted with rainbow lights, and his love affair with the kaleidoscope make this picture an amazing visual experience. The ending is film magic of vivid and fabulous abstractions. Recalls Berkeley, "I built a great kaleidoscope — two mirrors fifty feet high and fifteen feet wide which together formed a V design. In the center of this I had a revolving platform eighteen feet in diameter and as I took the camera up high between these two mirrors, the girls on the revolving platform below formed an endless design of symmetrical forms. In another shot, I dropped from above sixty neon lighted hoops which the girls caught and used in their dance maneuvers." The finale, built around the song The Polka Dot Polka, was orchestrated and developed into a ballet by composer David Raksin, giving Berkeley and his beautiful girls ample opportunity for involved movements. Whatever the merits of The Gang's All Here as a movie musical, it contains some of Berkeley's most imaginative work, proof that he refused to acknowledge any limitations in the medium of the screen. (Tony Thomas, Jim Terry, Busby Berkeley, The Busby Berkeley Book, New York Graphic Society, 1973, p. 153 - autore preciso non identificato)
- [Sulla scena finale di Banana split] Ho costruito un enorme caleidoscopio composto da due specchi alti 50 piedi e larghi 15 piedi [alti 15 metri e larghi 4 metri] a formare una "V". Al centro ho posto una piattaforma rotante del diametro di 18 piedi [5 metri e mezzo] cosicché, posizionando la macchina da presa tra i due specchi, le ragazze sulla piattaforma girevole componessero un infinito disegno di forme simmetriche.
Climax
modifica- From director Gaspar Noé (Irreversible; Enter the Void; Love) comes a hypnotic, hallucinatory, and ultimately hair-raising depiction of a party that descends into delirium over the course of one wintry night. In Climax, a troupe of young dancers gathers in a remote and empty school building to rehearse. Following an unforgettable opening performance lit by virtuoso cinematographer Benoît Debie (Spring Breakers; Enter the Void) and shot by Noé himself, the troupe begins an all-night celebration that turns nightmarish as the dancers discover they’ve been pounding cups of sangria laced with potent LSD. Tracking their journey from jubilation to chaos and full-fledged anarchy, Noé observes crushes, rivalries, and violence amid a collective psychedelic meltdown. (Gaspar Noé Made a Satanic 'Step Up' In This CLIMAX Trailer, Plus Poster!, RamaScreen.com, 14 agosto 2018)
- It’s Busby Berkeley by way of Hieronymus Bosch, with God’s-eye shots of bodies whirling and whizzing through whiplash geometric patterns on their way to mass hysteria. It’s a dance party set in an upper-circle tier of hell. It’s a great approximation of a very, very bad trip. (David Fear, 'Climax' Review: Sex, Drugs and Gaspar Noe’s Dance Party in Hell, RollingStone.com, 28 febbraio 2019)
Coreografia
modifica- Writer and director Gaspar Noé created a unique set of challenges for the cast and crew of his movie, Climax, about a dance party in France that transforms into a drugged tour through hell. With almost no script, few professional actors, and rough plans to build the movie from as many long takes as possible, he leaned heavily on his choreographer, Nina McNeely. While he directed and operated the camera, it was her job to wrangle 20 dancers with different skill sets and backgrounds, almost none of whom had performed together before (except for a few from the group Electro Street). There were a few more hurdles she had to leap over: McNeely only had two days of preproduction rehearsals to get everyone on the same page. Worse, the first time her dancers would all be in the same room was the day she started shooting. Oh, and none of them knew what if felt like to be psychotically high. “They had never done hallucinogens before" [...] (Jordan Crucchiola, The Climax Choreographer Explains Its Two Most Hellish Dance Scenes, Vulture.com, 14 maggio 2019)
- The shooting schedule for Climax fit appropriately with the movie’s frenzied vibe: 12-hour days that started at 3 p.m. and ended at 3 a.m. Every shooting day was a bit of a surprise, so McNeely had her dancers warm up with daily battles. “We just put on the music super-loud and let them kind of like show off,” says McNeely. “They love to anyway, and I think them starting to get a little bit competitive was exactly the energy it needed. They had to be show-offs for the whole film.” Including warm-ups, Boutella says they’d have about five hours of rehearsals before taking lunch, with the remainder of the days spent shooting 14 to 17 takes of each scene. (Jordan Crucchiola, The Climax Choreographer Explains Its Two Most Hellish Dance Scenes, Vulture.com, 14 maggio 2019)
- The opening number took a whole day of shooting, during which time McNeely reminded her dancers, “If [Noé] picks this take and you fucked it up, that fuck up is forever. It is in the film.” That meant they had to bring it in absolutely every long shot. The version you see in the film is was what Noé captured on the 17th try, near the end of a 12-hour day. (Jordan Crucchiola, The Climax Choreographer Explains Its Two Most Hellish Dance Scenes, Vulture.com, 14 maggio 2019)
- Similar to the opening sequence, McNeely was behind Noé’s shoulder during the scene (he also did his own cinematography) guiding Boutella through each of the seven takes. “It was a bit heartbreaking,” the actress says of Selva’s experience. “I think that end moment is just her admitting that she has failed and that it didn’t go the way she wanted it to go.” (Jordan Crucchiola, The Climax Choreographer Explains Its Two Most Hellish Dance Scenes, Vulture.com, 14 maggio 2019)
a24films
modificaNina McNeely
Choreographing a Dance Party From Hell, a24films.com, 14 marzo 2019.
- When Gaspar and I first started chatting, I put together a whole inspiration video for the opening number. It’s kind of funny because my reference video had [Bob] Fosse numbers in it, and A Chorus Line, and all of these classic dance films because I’m obsessed with the camera work and the blocking. I knew the Climax opening number was gonna be a single take, so I was like, “Alright, this is going to be all about blocking and staging.”
- I love the Rich Man’s Frug, the Fosse number from Sweet Charity. It has some really incredible staging. There’s a crane shot that captures all these little tweaking moves. It’s amazing. Possession was also a big inspiration.
- It was crazy, but I do think it’s gotten exaggerated in a few publications. I got three days to choreograph with them in person [before filming began]. One reporter wrote like, “Nina choreographed this whole movie in 24 hours.” Not true! When I got to France, the first thing I did was finally meet Gaspar in person. Then I hired an assistant, Julie Dorval. She was really helpful because she could curse at the dancers in French and tell them to be quiet because they’re like the rowdiest group I’ve ever encountered. They’d always steal my microphone and pretend like they were having a voguing ball.
- Each had a different background and style. There were two crumpers, some girls that are whackers who do the crazy arms, Vogue-ers, electro which is an evolved version of tectonics like what goth kids do at raves but with more flexing and bone breaking, a contemporary gaga dancer, and a contortionist from the Congo. I realized Gaspar picked them more for their personalities. They’re not all precision dancers, but when they danced it was almost on a transcendent level. They had so much interactive energy with each other. That was the most important thing. If they didn’t interact, it would have felt really dry and you wouldn’t have felt like you were on the outside wishing that you were on the inside.
- I mean, you have to have some balls to say we’re going to shoot this whole movie in 15 days and not have a script.
David Lynch
modificaMatteo Marino, I segreti di David Lynch
modifica- C'è una scena in The Elephant Man (1980), o meglio una serie di scene, che mi ha sempre colpito. Mi riferisco a tutti quei momenti in cui John Merrick è impegnato nella realizzazione di un modellino della cattedrale di San Filippo mentre è ricoverato al Royal London Hospital. La prima cosa che colpisce dell'impresa è che è soggetta a un grosso ostacolo. Dalla finestra della stanza dove è per così dire confinato, Merrick non può vedere tutta la cattedrale ma soltanto una guglia: un muro impedisce di scorgere altro che non sia quell'unico elemento che svetta nel cielo. Una sola guglia: per ricostruire tutta l'architettura che la sostiene L'uomo Elefante può affidarsi soltanto all'immaginazione. Lo dice lui stesso a un'attrice di teatro che, toccata dalla sua vicenda, è andata a fargli visita: «Devo affidarmi alla mia immaginazione per quello che da qui non vedo.» (da Introduzione, p. 9) [incipit]
- [Su The Elephant Man] [...] potremmo pensare che Merrick non avesse proprio intenzione di andare a vedere la cattedrale. Sarebbe una sua precisa scelta. Non vuole vederla perché in questo modo può continuare a costruirla come vuole lui, secondo il suo punto di vista [...]. Quel modellino prima di ogni altra cosa è un'elaborazione mentale e sentimentale fatta in basa alle sue possibilità e alla porzione di realtà inquadrata dalla finestra. Non è quello che fa ogni spettatore attraverso la finestra dello schermo? (da Introduzione, p. 11)
- [...] alla stazione dello sceriffo gli occhi di Dale Cooper[2] occupano in trasparenza tutto lo schermo mentre la scena che lo vede protagonista prosegue, apparentemente indipendente e assolutamente teatrale, con tutti i personaggi a raccolta come per l'inchino finale... Queste sovrimpressioni gemelle a distanza di trentasette anni vogliono forse sottolineare due momenti di consapevolezza, momenti in cui "ci guardiamo guardare", e la realtà in entrambi i casi appare come un treatro in cui il sipario si solleva come il velo di Maya [...] l'opera così com'è si fonde sempre con le nostre elucubrazioni, i nostri gusti, le nostre competenza, insomma con la nostra immaginazione, che la completa. O la rifiuta, anche violentemente [...]. (da Introduzione, p. 12)
- [Su The Elephant Man] [...] l'idea alla base di quella serie di scene con il modellino è come un segreto che Lynch ci sussurra all'orecchio. Il segreto è questo: il compito del regista è quello di mostrare sullo schermo solo una guglia; il compito dello spettatore è quello di ricostruire la cattedrale. (da Introduzione, p. 12)
- [Su Strade perdute] Una cinica presa in giro dello spettatore, e la spia di un'impasse creativa. (da Il Mereghetti 2001; citato in Matteo Marino, I segreti di David Lynch, Becco Giallo, 2018, cap. Strade perdute, p. 15)
- [Su Strade perdute] Il regista sembra essersi questa volta spinto davvero oltre: oltre il limite della comprensibilità da parte del pubblico, oltre la strutturazione del discorso come qualcosa di intellegibile, persino oltre il giudizio critico. (da Riccardo Caccia, David Lynch, Il Castoro, Milano, 2004; citato in Matteo Marino, I segreti di David Lynch, Becco Giallo, 2018, cap. Strade perdute, p. 15)
- Raramente un film ha saputo elaborare a tal punto le immagini e racconto come una materia in stato di fuzione, elevando la regia a nuova arte. (da Cahiers du Cinéma, 1997; tradotto in Matteo Marino, I segreti di David Lynch, Becco Giallo, 2018, cap. Strade perdute, p. 15)
- [...] sembra più produttivo segliere i passaggi di maggiore pregnanza, che sono spesso i passaggi più oscuri, più contraddittori [...] che ne sono anche i punti di vibrazione, i momenti di maggiore intensità, i luoghi in cui il senso è meno chiaro e, proprio per questo, più problematico e forse più interessante. (da Paolo Bertetto, Introduzione; l'analisi interpretativa. "Mulholland Drive" e "Une femme mariée", l'analisi come interpretazione. Ermeneutica e decostruzione in Metodologie di analisi del film, Laterza, Roma-Bari, 2006; citato in Matteo Marino, I segreti di David Lynch, Becco Giallo, 2018, cap. Strade perdute, p. 17)
- Ci troviamo in un posto, una città, che non è né qui né là, una forma senza tempo. E la struttura del film non è lineare, ma si ispira ll'anello di Mobius, che si avvolge su se stesso senza che sia più possibile identificare la parte esterna da quella interna. Di questo io e David abbiamo discusso surante la stesura della sceneggiatura. (da Barry Gifford, David Lynch, Strade perdute, a cura di Roberto Di Vanni, traduzione di Giulio Lupieri e Fabio Paracchini, Bompiani, Milano, 1998; citato in Matteo Marino, I segreti di David Lynch, Becco Giallo, 2018, cap. Strade perdute, p. 18)
- Cosa succede quanto il nostro "discorso interiore" si trova a intavolare una conversaione con Starde perdute? Uno dei primi effetti è che diventiamo acutamente consapevoli della nostra attività mentale. Il che di per sé è già affascinante. Strade perdute è uno di quei film che lavora sulla decostruzione dell'illusione di coerenza attraverso al percezione sempre più "derealizzata" e "depersonalizzata" del protagonista (ancora termini psichiatrici), mettendo in scena continui paradossi dello spazio, del tempo e del soggetto, rendendo cioè ardua la ricostruzione di uno spazio-tempo attendibile, di personaggi stabili (non lo sono letteralmente) e di una fabula lineare. Prese singolermente le scene (quai tutte) rispettano le regole e le aspettative, ma man mano che il film va avanti alcune tessere non si inastrano proprio tra di loro. (da Strade perdute, p. 30)
- Con quel vestito nero da cui spunta una faccia priva di sopracciglia, truccata teatralmente di bianco come a cancellarne i lineamenti, l'Uomo Mistero è vistoso, ma nessuno sembra trovarlo strano o fuori luogo. È vagamente ridicolo eppure così a suo agio da mettere in soggezone. La sua alterità e superiorità sono in qualche modo evidenti. Inizia con Fred una conversazione estremamente criptica che presto scivola nell'impossibile. I suoi modi pacati e cortesi ci fanno accapponare la pelle perché sono in contrasto con l'assurdità della situazione e con la minaccia che sottintende. È una delle scene più perturbanti del cinema lynchiano. (da Strade perdute, pp. 32-33)
- Ci siamo. La cosa grigia è apparsa sullo specchio. Mi avvicino e la guardo, non posso più andarmene. È il riflesso del mio volto. Spesso in queste giornate perdute rimango a contemplarlo. Non ci capisco nulla di questo volto. Quelli degli altri hanno un senso. Ma non il mio. [...] Avvicino il viso allo specchio fino a toccarlo. Gli occhi, il naso e la bocca spariscono: non resta più nulla di umano. [...] Non posso dire di riconoscerne i particolari, Ma l'insieme mi fa un'impressione di già visto che m'intorpidisce [...] (Jean-Paul Sartre, La nausea; ; citato in Matteo Marino, I segreti di David Lynch, Becco Giallo, 2018, cap. Strade perdute, pp. 35-36)
- Convincersi che "quello che sta accadendo non è reale", anzi "non sta accadendo a me", è una strategia psichica di difesa chiamata derealizzazione, che si somma alla depersonalizzazione: Fred esclude dal proprio senso di identità la parte di sé che sta subendo un evento traumatico. In questo caso, ciò avviene sotto forma di fuga psicogena. L'illusione è potentissima. (cap. Strade perdute, pp. 40-41)
Recycled Cinema
modificaFilm citati
modifica- CAP 1 - Ombre mosse
- Rose Hobart (1936) di Joseph Cornell - cortometraggio, found footage (19 min) - uno dei primi film di found footage, ma anche di fanvid - rimontaggio di scene del film Borneo selvaggio (East of Borneo, George Melford, 1931) con inserti di un documentario sulle eclissi.
- A Movie (1958) di Bruce Conner - cortometraggio, found footage (12 min) - "L’alternanza fra the end, a movie, e il countdown d’inizio pellicola viene utilizzata da Conner per rivoluzionare la ricezione del film e scardinare qualsiasi riferimento sintattico. Il montaggio di frammenti provenienti da opere diverse – ufficiale che scruta il periscopio / donna seducente / esplosione nucleare / barche di pescatori fra le onde in tempesta – esalta la ridefinizione del senso e i processi di messa in forma simbolica."
- Perfect Film (1986) di Ken Jacobs - cortometraggio, found footage, ready-made (22 min) - filmato tratto da un telegiornale del 1965 con interviste ai testimoni dell'assassino di Martin Luther King. Dopo aver trovato la pellicola Jacobs decise di ristamparla così come è stata trovata: il montaggio è quello originale del 1965.
- Il museo dei sogni (1949) di Luigi Comencini - cortometraggio (? min) -
- Lyrical Nitrate (1991) di Peter Delpeut - lungometraggio, found footage (50 min) - realizzato con materiali dell’Amsterdam Film Museum. Il film è una elegia al nitrato, una poesia d’archivio composta con frammenti di opere presenti nel catalogo di Jean Desmet, un importante distributore del cinema muto.
- Visual Essays: Origins of Film di Al Razutis - serie di cortometraggi, found footage (? min) - progetto sul cinema delle origini:
- L'Arrivée d'un train à la Ciotat (Fratelli Lumière, 1895) 1 2;
- Voyage dans la Lune (Georges Méliès, 1902) 1 2;
- Metropolis (Fritz Lang, 1927)
- ?
- il teatro delle crudeltà di Antonin Artaud 1
- La passion de Jeanne d'Arc (Carl Theodor Dreyer, 1928)
- La corazzata Potëmkin (Sergej Ėjzenštejn, 1925), Ottobre (Sergej Ėjzenštejn, 1928) 1.
- Passio (2007) di Paolo Cherchi Usai - lungometraggio, found footage (74 min) - concepito per la proiezione con musica dal vivo, una «meditazione per i sensi» realizzata con immagini d’archivio provenienti da cineteche di tutto il mondo. «Le immagini scelte per Passio sono tratte dalla miriade di documenti di una memoria collettiva oscura o repressa, che vanno dalle espressioni dell’intolleranza politica e razziale agli esperimenti scientifici, alla sofferenza umana trasformata in spettacolo, fino alla deliberata distruzione delle immagini stesse e di ciò che le contiene».
- Histoire(s) du cinéma - serie di lungometraggi, documentario, found footage (266 min) - gigantesco cantiere di founf footage dal montaggio fortemente evocativo, una stratificazione di senso e di emozioni, di citazioni e di memorie. Deriva da un ciclo di conferenze poi pubblicate in Introduzione alla vera storia del cinema (1978).
- CAP 2 - Una forma che pensa
- La verifica incerta - Disperse Exclamatory Phase (1964) di Alberto Grifi e Gianfranco Baruchello - mediometraggio, found footage (35 min) - Il film nasce come ludica rivisitazione del cinema di genere americano, un documentario metafilmico dedicato a Marcel Duchamp che utilizza 150.000 metri di pellicola hollywoodiana sottratta alla distruzione programmata.
- Tableau film di Virgil Widrich - serie di cortometraggi (12 capitoli)
Fast Film (2003) di Virgil Widrich - secondo corto della serie (14 min) - cartone animato su un inseguimento con quadri del film stampati
- Statici di Jacopo Quadri - serie sperimantale di found footage
- Marisa (2000) di Jacopo Quadri - elegia dedicata alla madre scomparsa
- Grizzly Man (2005) di Werner Herzog -
- Formato ridotto: Libere riscritture di cinema amatoriale (2012) - lungometraggio a segmenti, found footage, home movies (52 min)
- Il mare d'inverno di Ermanno Cavazzoni - filmini familiari girati in Adriatico negli anni cinquanta e sessanta. La voice over ha una bassa qualità di registrazione e piena di errori. "L’interpretazione in chiave apocalittica della vacanza al mare, probabilmente vista da un narratore di un altro pianeta che scruta il comportamento degli abitanti del globo terracqueo. Perchè gli umani occupano questo strano spazio che è la spiaggia? Come fa il mare a riappropriarsene?" (dal sito formatoridotto.com)
- [www.vimeo.com/video/41991953 estratto]
- Very Nice, Very Nice (1961) di Arthur Lipsett - cortometraggio, found footage (7 min) - frammenti di volti e sfilate militari, missili e grattacieli, babbi natale e corpi straziati, gente che urla e sguardi attoniti, risultano coesi da improvvisi scarti musicali, assoli di sax, pezzetti di frasi.
- Plagium di CANECAPOVOLTO - serie che epslora i ribaltamenti di senso.
- Plagium 1 - Angeli su due ruote / Street Angels with Virus (1993) - cortometraggio della serie (9 min) - gli speaker leggono definizioni di patologie veneree sulle immagini di un sexy B-movie con motocicliste tettone. Parodia delle impostate voice over da documentario scientifico. "The first approach to Plagiarism and to the accidents in the course of learning. An audiocassette on venereal diseases together with glamorous sequences from Penthouse produce an “Educational”." da MUBI.com
- La parola che cancella (Istituto di obbedienza animale) (1999) di CANECAPOVOLTO - cortometraggio (8 min) - Le reiterate immagini di un uomo che estrae un libro da un mattone e il busto di un altro uomo circondato da fasci elettro-acustici, sono accompagnate da modulazioni di frasi del tipo: «Leggendo questo libro, assicuratevi di non oltrepassare mai una parola che non avete capito»; oppure «Vi è mai capitato di leggere una pagina e di rendervi conto di non ricordare assolutamente nulla?»; o, ancora, «Se ciò che state leggendo diventasse confuso, o se aveste l’impressione di non avere capito, non continuate a leggere ma tornate indietro. Poi trovate la parola che non avete compreso e definitela».
- "A single non-comprehended word can lead to the progressive destruction of the building of human thought. An introduction to the Institute of Animal Obedience." MUBI.com
[mancano dei film citati nel cap 2]
- CAP 3 - La scena degli affetti
- Private Hungary di Péter Forgács - serie di cortometraggi, found footage, home movies - un cineviaggio nell’Ungheria vista “dal basso”. Si tratta di una storia audiovisiva basata sulla rielaborazione di home movies recuperati in archivi non tradizionali e compulsati in maniera originale.
- estratti: [1] 2 3 4 5 [6] 7 - Bourgois Dictionary (1992) 8 - The Notes of a Lady (1994) 9 10 - Free Fall (1996) 11 12 13 14
- Miss Universe 1929 (2006) di Péter Forgács - lungometraggio, found footage (70 min) - narra la storia di Lisl Goldarbeiter, nata umile a Vienna e divenuta Miss Universo, costantemente ripresa dal cugino cineamatore.
- Meanwhile Somewhere... (1940-43) (1994) di Péter Forgács - lungometraggio, found footage (^ min) - Forgács seleziona frammenti di diversa provenienza nazionale (dalla Polonia al Belgio, dalla Cecoslovacchia alla Francia) che fanno riemergere la vita quotidiana negli anni dal 1940 al 1943. esalta cioè la possibilità del cinema di famiglia di essere testimonianza e, al tempo stesso, mistificazione, documentazione e contraffazione.
- Un’ora sola ti vorrei (2002) di Alina Marazzi - lungometraggio, documentario (55 min) - L’opera ricostruisce la memoria della madre, suicida quando la regista aveva sei anni.
- Daughter Rite (1980) di Michelle Citron - lungometraggio, found footage, home movies (49 min) - scandaglia ritualità familiari e mal indossati teatrini della genitorialità alternando film di famiglia, sequenze documentarie in stile cinéma-verité, considerazioni intime della voice-over.
- Nitrate Kisses (1992) di Barbara Hammer - lungometraggio, documentario, found footage, home movies (67 min) - riutilizza sequenze marginalizzate della cultura omosessuale, obbligando le nuove generazioni a pensare al mondo queer prima che le immagini avessero potuto raccontarlo.
- Tender Fiction (1995) di Barbara Hammer - lungometraggio, documentario (58 min)
- History Lessons (2000) di Barbara Hammer - lungometraggio, documentario (70 min)
- Is This What You Were Born For? di Abigail Child - serie
- Mayhem (1987) - cortometraggio (20 min) - parte 6 della serie - Ludico, surreale, inquietante, il suo punto di visto privilegia corpi e volti di donna destrutturati da qualsiasi finalità cinematografica o di genere.
- Mirror World (2006) - cortometraggio, found footage (12 min) - in cui smonta ipnoticamente i classici film bollywoodiani di Mehboob Khan, sovvertendo consequenzialità narrative e texture cromatiche per evocare nuove percezioni del mondo.
- Vogliamo anche le rose (2007) - importante film sulla liberazione sessuale delle donne italiane negli anni settanta. Tre vicende differenti – raccolte fra le storie conservate all’Archivio diaristico di Pieve Santo Stefano – ci raccontano il cambiamento della società italiana in quegli anni: la sfera sessuale, il rapporto uomo-donna, quello con il proprio corpo subiscono una radicale messa in discussione.
- Guglielmo Baldassini - cinema pittorico
- Sotto la neve - Luciano in battaglia (del 30 gennaio 1927) diviene una allucinata visione dei Bastioni di Milano dopo una forte nevicata.
- Self Portrait Post Mortem (2005) Louise Bourque - mediometraggio (35 min) - i fotogrammi scorrono piano, come ostacolate eruzioni vulcaniche, una massa fluida e ipercromatica dalla quale emerge il volto di una giovane donna, la regista. Il rumore del vento accompagna l’apparizione dell’immagine, in un film nato dal processo di decomposizione della pellicola sotterrata dall’autrice per cinque anni.
- Lontano, ancora (1983/2008) di Roberto Nanni - pellicola interrata per otto mesi prima di essere inviata al laboratorio di sviluppo.
- Dolce vagar in sacri luoghi selvaggi (1989/2008) - cotrometraggio, found footage (11 min) - combattimento di Cassius Clay con Joe Frazier., il corpo del pugile lotta con la materia stessa di cui è costituito il supporto cinematografico.
- Decasia (2002) di Bill Morrison - lungometraggio, found footage (67 min)
- Il nostro secolo (1982) di Artevazd Peleshian - lungometraggio (50 min) - il regista armeno racconta il tentativo di conquistare lo spazio soffermandosi sulla disfida sovietico-americana per il controllo dei cieli.
- CAP 4 - Memorie private e tempi storici
- Les plages d’Agnes (2008) di Agnes Varda - il cinema è rivisitato dall’esperienza autobiografica: le immagini di filmini familiari, documentari, film di finzione (e sequenze girate appositamente per il film) cuciono un tappeto iconografico sul quale la regista traccia geografie sentimentali di intenso spessore emotivo. Set privilegiato che fa da collante è la spiaggia.
- Santiago (2007) di João Moreira Salles - presa di coscienza dei propri demoni e delle proprie ingenuità cinematografiche, recupera immagini girate nel 1992 e mai montate. Santiago, maggiordomo nella casa natale del regista, era un uomo dai mille interessi che segnò profondamente la vita familiare e l'infanzia del regista. Vengono mostrate le scene ripetute diverse volte, il regista non è contento, forse la “realtà” ripresa non è uguale a quella prevista. A posteriori il regista dichiara che era il modo di condurre l’intervista a determinare la distanza e l'imbarazzo tra i due. E proprio quando il maggiordomo tenta di parlargli in modo intimo, lui non riesce ad accendere la camera. È un'analisi dei propri limiti, di barriere al tempo stesso sociali ed estetiche, fa comprendere i processi di messa in forma pseudo realistica, gli imbarazzi prossemici, le volontà registiche e le difficoltà dei non attori a “far come se niente fosse”. Un fallimento cinematografico riscattato dalla lucidità del regista nel rivisitare in modo nostalgico il footage personale: il diritto di andare alla ricerca del proprio cinema perduto diviene un piacere legato alla mancanza, a qualcosa che avrebbe potuto essere e che, alla fine, non è mai stato (o è stato solo in parte, nel nuovo film, dopo la morte di Santiago).
- Le fond de l'air est rouge (1978) di Chris Marker - film-saggio, racconto del 900 e dei suoi conflitti che mette alla prova la verità delle immagini. la scalinata di Odessa, ripresa in [[La corazzata Potemkin] di Ejzenstejn viene accostata in montaggio alternato alle repressioni poliziesche in varie parti del mondo. In voice over si sovrappongono testimonianze di ricordi personali e fatti vissuti in quel periodo. Marker sembra esaltare prossimità tra finzione e documentario: la relazione fra racconto personale e immagine storica esalta la memoria come spazio ontologicamente cinematografico.
- Memoire pour Simone (1986) di Chris Marker - un omaggio a Simone Signoret in cui la revisione di scritti, fotografie, film del passato e del presente mostrano verità mutevoli.
- Sans soleil (2002) di Chris Marker - riflessione sul senso dell'immagine e sul suo rapporto con il tema della memoria affidandosi a frammenti audiovisivi come lettere, repertori d’archivio, sequenze girate ex novo, fotogrammi congelati, immagini elaborate al computer. Il rinnovato valore del rapporto memoria/immagini si instilla nella poetica di Marker: il riciclo delle immagini che si sviluppa in tre periodi:
- 1 - privilegia immagini filmate da altri
- 2 - riutilizza immagini girate da lui stesso, in occasioni diverse
- 3 - per comporre cinema d'archivio, gira immagini originali che servono esplicitamente per il nuovo film.
- Padenje Dinastij Romanovych (La caduta della dinastia dei Romanov) (1927) di Ėsfir' Šub – primo episodio di una trilogia sull'epica affermazione del proletariato, in un'idea di progresso politico che parte dai decadenti fasti dei Romanov per terminare nell'apoteosi del primo piano quinquennale di Stalin. È stato realizzato in occasione del decennale della rivoluzione d'Ottobre con i fondi filmici degli anni 1913-1917, originariamente appartenuti all'archivio dello zar Nicola II, poi requisiti dal Cinecomitato di Pietrogrado. Šub risemantizza immagini «che devono insieme insegnare ed essere prova scottante del passato». Eppure alcuni significati si dileguano, altri si aggiungono, e le immagini dicono sempre meno, o sempre più, di quello che si suppone.
- Sinfonia del DonBassa / Entusiasmo (1931) di Dziga Vertov - film sul piano quinquennale di Stalin è uno dei primi tentativi di lavorare sperimentalmente sul sonoro: all’inizio del film una donna che ascolta le voci, disturbate, della rivoluzione.
- Gloria (1934) di Roberto Omegna - primo lungometraggio italiano a base d’archivio, prodotto dall’Istituto Luce come testimonianza dei valori del regime fascista.
Le sequenze, girate da vari operatori durante la prima guerra mondiale evidenziano il tentativo di riscrivere il conflitto in prospettiva nazional-fascista, con precise scelte contenutistiche (i valorosi combattenti), verbo-visive (le didascalie patriottiche), occultamenti (la disfatta di Caporetto). Ma qualcosa sfugge all’intento politico: i frammenti di giovani soldati colti nell’ansia e nella stanchezza, lo sguardo disperato dei prigionieri, l’attenzione agli aspetti quotidiani della guerra, le estenuanti attese e la vita nelle trincee evocano qualcosa di tragico anziché glorioso.
- Why we Fight (1942-1945) – serie di 7 documentari propagandistici di found footage, per la quale viene mobilitato il cinema americano con animazioni di Walt Disney, materiali selezionati da professionisti di Hollywood e montati con la supervisione di Frank Capra. I film, composti da cinegiornali americani e anche riprese dei nemici di guerra, hanno inizialmente una funzione interna, motivare le forze armate, ma ben presto vengono proiettati al più vasto pubblico americano, per allargare gli immaginari della guerra necessaria.
- Giorni di gloria (1945) di Luchino Visconti, Franco Pagliero, Giuseppe De Santis, Mario Serandrei - film manifesto, documentario storico-resistenziale realizzato con materiali cinematografici girati durante la seconda guerra mondiale. Di forte impatto emotivo, parla con i toni della guerra e la rabbia della liberazione tra processi, fucilazioni e linciaggi.
- All’armi, siam fascisti (1961) di Cecilia Mangini, Lino Del Fra e Lino Micciché - riflette sul ventennio per contrastare la vulgata rappacificatoria di un antifascismo generico e umanista, sulla scia delle manifestazioni del 1960 contro il convegno nazionale del neofascisti e contro il governo Tambroni (appoggiato dai monarchici e dal Movimento sociale italiano), poi costretto alle dimissioni.
- La rabbia (1963) di Pier Paolo Pasolini - film a base d'archivio con brani tratti dal cinegiornale Mondo Libero e sequenze di documentari sovietici. Il tema della guerra è affrontato partendo dalla politica per giungere all'antropologia in una prospettiva internazionalista e pacifista, contro il perbenismo e l’intolleranza. Il commento vibrante della voice over si sovrappone a immagini di esplosioni atomiche, guerre di liberazione, operai di fabbrica, borghesi ingioiellati, del Papa, Fidel Castro, Marilyn Monroe e Jurij Gagarin.
Per volere dei produttori nelle sale viene distribuito in associazione a un analogo film diretto da Giovannino Guerreschi, autore di Don Camillo e Peppone. Al contrario de La rabbia, è il simbolo dell’Italia conservatrice post-bellica, tacciato dallo stesso Pasolini di qualunquismo, razzismo, retorica fascista e uso di dati indimostrabili.
- Forza Italia! (1977) di Roberto Faenza - film di satira politica a base d'archivio, un affresco che tenta una riscrittura della storia della Democrazia Cristiana e dei vari governi nazionali che si sono succeduti remixando cinegiornali di repertorio. Con qualche trucco di montaggio che fa emergere l'ironia dell'operazione, i veri protagonisti dei cinegiornali sembrano divenire attori di loro stessi.
Capitolo 1 - Ombre mosse
modifica- [Su Retour de Flamme di Serge Bromberg] Di solito l’esibizione cominciava con la richiesta della “démo” (la dimostrazione): un’invocazione corale per l’anfitrione Serge Bromberg, che non si faceva pregare ad appiccare il fuoco a un’antica pellicola. Assistevo ammutolito, qualcuno inorridiva, altri sorridevano. Distruggendo qualcosa di sacro, Bromberg voleva avvisarci della pericolosità di conservare film muti in ambiente domestico. Poi, per renderlo esplicito, estraeva dalle tasche una seconda pellicola, le avvicinava l’accendino ma questa stentava a incendiarsi. Si trattava di una pellicola safety, il che serviva a Serge per spiegare la necessità di trasferire i film in tale supporto e l’urgenza di farlo presto, per evitare rischi di perdita e d’incendio. (pp. 10-11)
- Tutti partecipavamo allo stesso Retour de Flamme, un moderno rito sacrificale in cui si esorcizzava lo sfuggito alla pubblica cernita, all’organizzazione scientifica e tassonomica dei cataloghi, alla cura istituzionale per il cinema come bene culturale. (p. 11)
- [...] tutto il cinema prodotto sino a ora è manipolabile e oggetto di rinnovate messe in forma. Tutta la storia del cinema è un serbatoio per il found footage, uno sterminato giacimento visivo dal quale partire per (re)inventare processi metaforici, critiche mass-mediali, riflessioni ritimico-figurative. (p. 13)
- [...] la capacità dell’autore nell’utilizzare immagini ritrovate si compie attraverso una serie di interventi che forzano i materiali primigeni verso nuovi valori estetici. Un riciclo segnato dalla speranza che la visione “strabica”, la nuova messa in serie di quei materiali, possa fare emergere qualcosa di non immediatamente visibile. (p. 13)
- [Su A Movie di Bruce Conner] L’alternanza fra THE END, A MOVIE, e il countdown d’inizio pellicola viene utilizzata da Conner per rivoluzionare la ricezione del film e scardinare qualsiasi riferimento sintattico. Il montaggio di frammenti provenienti da opere diverse – ufficiale che scruta il periscopio / donna seducente / esplosione nucleare / barche di pescatori fra le onde in tempesta – esalta la ridefinizione del senso e i processi di messa in forma simbolica. (p. 14)
- [Bruce Conner] è probabilmente il più famoso regista a mescolare e combinare frammenti di found footage.
- [...] is probably the best known film maker to mix and match fragments of found footage. (William C. Wees, Recycled Images: The Art and Politics of Found Footage Films, Anthology Film Archives, New York, 1993, p. 13; citato in Marco Bertozzi, Recycled cinema: Immagini perdute, visioni ritrovate, Marsilio Editori, Venezia, 2012, p. 14)
- Nel found footage film il gesto investe la materia, e questo può far male: al film originale, ai nuovi spettatori, a coloro che esigono una visione il più possibile vicina all'originale. (p. 15)
- Il video in cui si è immerso totalmente con Histoire(s) du cinéma non è qualcosa che realizza o fa; è divenuto ciò che egli è effettivamente: un corpo di immagini, un pensiero di immagini, un mondo di immagini – un essere-immagine di ogni cosa. (da Philippe Dubois, Il video pensa quello che il cinema crea. Annotazioni sulle opere video e televisive di Jean-Luc Godard, in Valentina Valentini (a cura di), Video d’autore 1986-1995, Gangemi, Roma, 1995, p. 123; citato in Marco Bertozzi, Recycled cinema: Immagini perdute, visioni ritrovate, Marsilio Editori, Venezia, 2012, p. 25)
- Nella seconda metà del secolo scorso, c’è qualcosa che ha avuto più influenza del super-8 di Abraham Zapruder sull’assassinio di Kennedy? (David Shields, Fame di realtà, Roma, Fazi, 2010, pp. 9-10. citato in p. 38)
- Personalmente amo il cinema, ma non perché costruisce delle storie. Per quello c’era già la letteratura. E non ricordo quasi mai le trame o i nomi degli attori. Amo il cinema proprio come forma di pensiero visivo, di sguardo che scardina i limiti e le frontiere del visibile. (p. 39)
- [...] apprezzo i film di Thomas Darshan in cui un tripudio di immagini- frammento suscita un sentimento di irrequieto stupore. Originato da varie fonti, l’impasto produce un senso di abbandono, come se il flusso di quelle immagini conducesse alla composizione di un polisensuale altrove. (p. 39)
- [...] il tentativo di tradurre il lavoro della Fontaine in linguaggio verbale – come, del resto, per tutta l’arte del found footage – resta vago, probabilmente incapace di descrivere la peculiarità delle opere. Raccontare la natura figurale di testi così complessi fallisce proprio nell’illusione di una transcodifica magica. (pp. 40-41)
- I mean, my contribution was leaving it alone. It was outtakes from a television studio, the news report. This was the stuff that they had discarded and someone, instead of just throwing it in the wastebasket decided, who knows, it might have some future use, so without any kind of order the film clips were attached one to the other... I looked at the discard and in my eyes it was good. Very revealing. So I just let the evidence be the way it was. I looked at it and said, “perfect.” From beginning to end, “perfect”. (da Ken Jacobs Ken Jacobs Interview: Conversations with History; Institute of International Studies, UC Berkeley - Film Artist: Substance, globetrotter.berkeley.edu, 1999.)
- [Su Pefect Film] Un film che definisce uno dei poli radicali del found footage, quello del mostrare, senza elaborare, un oggetto rinvenuto più o meno fortuitamente. Il grado zero del riuso d’archivio, una purezza epistemica che lascia il segno: a volte presentare, così come ci è giunto, un film (o una serie di sequenze ritrovate) può costituire un gesto artisticamente dirompente, ben oltre la messa in serie di frammenti rielaborati in montaggio. (p. 41)
- Film ist. (7-12) (2002) decostruisce una serie di opere dei primi quarant’anni di storia del cinema nell’intento di svelarne l’ordine strutturale, le regole sintattiche e quelle formali. Una riflessione sulla fenomenologia del dispositivo – elaborata con la collaborazione di cinque archivi internazionali, compulsando migliaia di frammenti filmici – che ci consegna a un’aria rarefatta, un tono metafisico aleggiante sulla dissezione in atto. (p. 43)
Capitolo 2 - Una forma che pensa
modifica- Alcune riconversioni a bassa qualità assomigliano all’atto del risveglio, quando mal ricordiamo le forme dell’esperienza onirica. Si tratta di nebulose che permettono di non credere solo ai simulacri del reale, al «cinema chiaro», e portano con loro un nocciolo oscuro della percezione, «una immagine che va al di là di una immagine». (p. 29)
- [...] mi sembra che il decadimento della pellicola richiami alcune categorie del diafano: una trasparenza, una suscettibilità, una modifica costante di stato data da elementi esterni (la luce, l’umidità, la emperatura, sino al fuoco) che fanno saltare la riconoscibilità dell’immagine. (p. 29)
- [...] per aprire gli occhi bisogna saperli chiudere. L’occhio sempre aperto, sempre in stato di veglia – come quelli di Argo – diventa secco. Un occhio secco, in permanenza, forse vede tutto, ma guarda male. Paradossalmente, per guardare bene ci occorrono tutte le lacrime di cui disponiamo. (Georges Didi-Huberman, Ninfa moderna. Saggio sul panneggio caduto, Milano, Il Saggiatore, 2004, p. 1; citato p. 30)
- [Su La verifica incerta] L’idea è di scardinare il “cinema della trasparenza” trasformandolo in una straniante forma ibrida. Un reimpasto di psicogeografia del cinema classico: con l’inserimento di tempi e movimenti destrutturati l’immagine realistica vive un’altra sequenzialità e non risponde più alla narrazione originale. (p. 30)
- [Su La verifica incerta] [...] una dis-elegante decostruzione fra il pop e il ready made, un'avventura nel surreale filmico fra pratiche situazioniste del détournement e libertà della cultura underground. (p. 30)
- [Su La verifica incerta] Così, attraverso questi slittamenti di montaggio, facevamo emergere le pulsioni che quei film rimuovevano: la temutissima omosessualità maschile di quegli eroi muscolosi, virili e maccartisti, allevati a latte e bistecche; i nipoti dei pionieri che avevano ripulito l'America dai pellerossa e che avevano a loro volta "salvato" la Corea dai comunisti e il mondo dai giapponesi con le bombe di Hiroshima e Nagasaki. (da Alberto Grifi, [www.albertogrifi.com/106?post=145 Filmografia anni 60 - La verifica incerta], albertogrifi.com; citato p. 31)
- [Su La verifica incerta] A conclusione della resurrezione delle immagini, il progetto di Grifi e Baruchello ne prevedeva la distruzione: la prima proiezione avrebbe dovuto terminare con la distribuzione di pezzi della pellicola al pubblico, in una “Disperse Exclamatory Phase” in grado di riportare le immagini momentaneamente salvate al loro inesorabile destino. Con un anacronismo felice, la forza propulsiva dell’imperfezione sottrae queste immagini a una storia lineare del cinema e le getta nella condizione di materiali elettivi per una riflessione, senza pregiudizi, sul destino delle immagini. (p. 31)
- [...] il tempo del found footage passa dunque alla creazione di un nuovo significante. Una ricomposizione continua, non tanto per svelarci il senso ultimo del mondo, la verità nascosta o la psiche dell’artista sottesa alla creazione dell’opera. Quanto per un principio di godimento estetico: che è quello compositivo, della continua elaborazione/ricomposizione del mondo. Del dar forma all’informe. Della forza-flusso. Al capolinea della teoria moderna della forma e del suo controllo, dell’opera ritenuta compiuta, ecco una libertà espressiva capace di stressare il materiale, di farlo tornare grezzo. (p. 31)
- [I bambini] nei prodotti di scarto riconoscono la faccia che il mondo delle cose rivolge proprio a loro, loro soli. In quanto essi non riproducono tanto le opere degli adulti quanto piuttosto pongono i più svariati materiali, mediante ciò che giocando ne ricavano, in un rapporto reciproco nuovo, discontinuo. (da Walter Benjamin, Strada a senso unico, Einaudi, Torino, 2006 (i ed. 1926), pp. 11-12.; citato a pp. 31-32)
- In Fast Film lo spazio scenico allude a mondi in stile videogame, in furiose battaglie aeree in velivoli di cartapesta, con stampigliati sulle ali volti di celebrità del cinema classico. La prospettiva è ludica, l’ironia investe il cinema del Novecento abbattuto da scariche di proiettili antropomorfi. Musiche da noir, western, peplum, fantasy accompagnano un’operazione spettacolare, in cui il cinema esalta le sue esplosive memorie pop per ridonarsi a nuovi pubblici e inedite narrazioni. (p. 32)
- Negli interstizi fra suono e immagine, nelle latenze di senso, nelle pause immotivate, negli imbarazzi di sguardi alla ricerca di un interlocutore perduto, nel fato in agguato – un colpo di vento, un oggetto che cade –, nei paesaggi solcati da un’ombra, nei giochi di luce e di ombra, nella texture pittorica dell’immagine, nel timbro delle voci e dei soundscape, nel rallentato/reinquadrato/ricolorato, nel serendipico trovato in montaggio, in tutto questo sta la materia del found footage film. (p. 32)
- In Grizzly man (2005) Werner Herzog parte da una voice over classica, al referenziale servizio delle immagini: la narrazione sembra ingenua, tradizionale, quasi incapace di opporsi alla forza dei documenti visivi girati dal protagonista, salvatore degli orsi. Poi, via via che il film avanza, la voce di Herzog diviene dubitativa e si rapporta filosoficamente alle immagini riprese dal protagonista. Il rapporto con una natura che si vorrebbe benevola muta di segno, sino a tornare tragicamente biologico. (p. 35)
- [In Il mare d'inverno] Ermanno Cavazzoni sembra un antropologo sbarcato dallo spazio a illustrare la condizione apocalittica dell’uomo balneare contemporaneo. (p. 35)
- [...] il cinema d’archivio utilizza tracce audio scaturite dall’accavallamento di voci decontestualizzate o dall’accostamento di frammenti uditivi. Se c’è catastrofe del linguaggio questa coinvolge anche il soundscape del film, in opere che ammettono parti mute, fruscii, palpitazioni, gorgoglii metasemantici, musichine arrivate da molto lontano. (p. 36)
Capitolo 2 - La scena degli affetti
modifica- Una presunta zona d’immunità iconografica, quella dell’album privato di fotografie, esplode in film girati in normali contesti familiari: i rituali laici e religiosi, la vita di casa e le vacanze, i sogni autoriali dei padri di famiglia. Quei film, girati sino agli anni settanta, sembrano palpitare da un altro pianeta: psico-geografie incastonate in volti-paesaggio, sguardi in macchina e imbarazzi prossemici, lontananze che inducono a riflettere sul rapporto fra micro e macro storia. Un valore iconico inestimato riposa, attendendo solo di essere risvegliato. (p. 45)
- [...] l’opera Amatoriale, e di conseguenza in un riferimento di condivisione più ampia, l’estetica Amatoriale, ha piena consapevolezza dell’atto audiovisivo e della sua condizione materiale. Parte dalla propria condizione di povertà, per ricercare in totale libertà, senza essere schiavo della prigione monopolistica del mercato, lo studio e l’espressione libera, di colui che ama in profondità la vita nelle sue espressioni e nelle sue condizioni. (da Gruppo amatoriale, Lettera aperta ad un amatore, www.gruppoamatoriale.org (Fabrizio Ferraro, Pulika Calzini, Vania Castelfranchi, Fernando Birri...; citato in p. 47)
- [Su Un'ora sola ti vorrei] Marazzi ricorda che alla visione delle sequenze girate dal nonno si rendeva conto di quale costruzione scenica sottintendesse quella società, di come essere spensierati e felici costituisse quasi una necessità pubblica, ben al di là dell’apparente ingenuità del film di famiglia.
- [Sull'opera di Barbara Hammer] Una nuova estetica del cinema Queer? Sicuramente una potente energia creativa nutrita dell’arte del riciclo, una ricalibratura di pensieri e desideri del corpo femminile ritrovati grazie al cinema d’archivio. Un riuso delle immagini che investe proprio la natura sociale del cinema, gli usi che i gruppi, le tribù e, in ultima analisi, le culture, ne fanno. (p. 49)
- [...] the home movie archive is always open and recombinant, active rather than static, evolving not fixed. It opens to the future. The home movies archive is a process and not a product. It is never finished and always revised. It is dialogic and transversal, creating new forms of understanding, explanation, relation. (da Patricia Rodden Zimmermann, Speculations on Home Movies. Thirty Axioms for Navigating Historiography and Psychic Vectors, in Sonja Kmec, Viviane Thill (edited by), Private Eyes and the Public Gaze: The Manipulation and Valorisation of Amateur Images, Trier, Kilomedia, 2009, p. 20. Della Zimmermann ricordo anche Morphing History into Histoires. From Amateur Film to the Archive of the Future, in «The Moving Image», 1, 1, Spring 2001.; citato a pp. 52-53)
- Mentre le tecnologie digitali, la moltiplicazione dei canali, il trionfo dell’alta definizione spingono a produrre sempre nuove immagini, il recupero d’archivio si gode una latenza che richiama esperienze della lentezza. Non è un caso che il found footage esiga tempi lunghi e spazi di osservazione dilatati, che fanno della riflessione, più che dell’azione, il centro filosofico della loro “messa in serie”. Una prospettiva di ecologia del visivo che si oppone all’inarrestabile flusso della società liquida: un ozio, una inoperosità che vuole essere accurata scelta amatoriale (dove, lo abbiamo visto, il termine non è più sintomo d’inconsapevolezza tecnica ma di rivalutazione passionale) e competenza cinematografica. (p. 57)
Note
modifica- ↑ Traduzione parziale da Paolo Fabbri, Angela Andrisano, La favola di Orfeo: letteratura, immagine, performance, UnifePress, 2009, p. 121. ISBN 9788896463017.
- ↑ Twin Peaks - The Return, Part 17 - The past dictates the future.