Sergio Ricossa

economista italiano (1927 - 2016)
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Sergio Ricossa (1927 – 2016), economista italiano.

Sergio Ricossa

Citazioni di Sergio Ricossa

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  • Molto spesso gli intellettuali sono teorici che faticano ad immedesimarsi nella vita di tutti i giorni.[1]
Intervista della Redazione, Libertà è ribellarsi allo Stato predone, in Il Giornale, 02 dicembre 2006
  • La gente non è impazzita, è spaventata. Questa è una Finanziaria alluvionale.
  • Qualche volta l'evasione è un bene non un male. Se c'è un sistema fiscale perverso viva l'evasione.
  • La caccia all'evasore può fare più danno che l'evasione stessa perché è provato che lo Stato spenderà quei soldi ricavati dall'evasore peggio dell'evasore stesso.
  • I politici hanno inventato una strana filosofia per la quale si può sottrarre la ricchezza a chi la produce senza neanche esserne incolpati. Anzi provando a far ritenere agli altri tutto questo come un atto meritorio e di giustizia.
  • Continuo a essere convinto che c'è ancora troppo denaro nelle mani pubbliche e che sottrarlo ai privati vuol dire aumentare lo spreco di denaro e derubare gli onesti.
  • Non si può riassumere in una formuletta la complessità dell'economia. Per andare in cattedra dovetti farlo anch'io ma poi la vita è tutt'altra cosa.
  • L'economia è una parte consistente della vita e va considerata con semplicità da una parte e consapevoli che rispondere alle questioni economiche vere è rispondere a questioni umane.
  • Bisogna lasciare le forze produttive di un Paese il più libere possibile di fare il loro mestiere: produrre con efficienza e nella maggiore quantità possibile.
  • Lo Stato non può pagare sempre per gli sbagli o l'inefficienza di tutti.
  • Chiedersi se il liberismo ha ragione di esserci è come chiedersi se ha ragione di esserci la libertà.
  • La libertà economica ha anche una dimensione spirituale. La libertà economica è gran parte della libertà tout court.
  • Difficilmente chi non si occupa della libertà economica potrà occuparsi delle altre libertà dell'uomo.

Straborghese

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«È tale la confusione indicibile sulle idee venute fuori intorno alla parola 'borghesia', da rendere necessario di escluderla dal novero di quelle adoperate dalle persone decise a non imbrogliare il prossimo»: così credette Luigi Einaudi in un momento di malumore. Ma «borghesia» è parola tanto bella e gloriosa, che toglierla dal vocabolario sarebbe fare un piacere esclusivamente ai nemici della borghesia. Sarebbe come ammainare una bandiera storica. Se ci arrendessimo ai corruttori del linguaggio, gente che sbraita nei megafoni, i «logocrati», dovremmo mai più pronunciare Dio, patria, famiglia, libertà, giustizia, e innumerevoli altri vocaboli, che essi hanno insozzati o distorti.

Citazioni

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  • [...] perfino la migliore virtù, se portata all'eccesso, diventa vizio. (p. 9)
  • Il borghese crede nella gerarchia, non crede nelle classi sociali: la sua gerarchia è individuale. (p. 11-12)
  • Fu Marx a dire: «La borghesia ha avuto da svolgere nella storia un còmpito sommamente rivoluzionario». (p. 14)
  • Il borghese ha fede in Dio, il Dio creatore, ma gli sfugge una dimensione del cristianesimo. Non può ammettere che il mondo terreno sia nulla, e l'altro mondo sia tutto. (p. 15)
  • Il borghese è scarsamente missionario: la gente faccia quel che vuole, purché non dia fastidio. (p. 17)
  • I borghesi vanno in chiesa a differenza degli anarchici. Adottano la divisa di Goethe: «Curiosità per il conoscibile, riverenza per l'inconoscibile». (p. 20)
  • La condizione borghese per ammettere la democrazia è che la maggioranza sia moderata negli intenti, non rivoluzionaria nel costringere. (p. 25)
  • I plebisciti non giustificano gli Hitler e i Mussolini, né l'esecuzione di Cristo. (p. 25)
  • Per il borghese la società è un espediente, la politica un'opera di rattoppo. (p. 27)
  • L'ideale borghese è la scomparsa del gregge, anche per l'egoistico interesse, a non averlo contro; è quanto meno la riduzione del gregge ai minimi termini, senza nessuna voglia di pascolarlo e tosarlo. Un ideale che non sarebbe tanto lontano se tanta gente non avesse tanta voglia di farsi pascolare e tosare. (p. 28)
  • [Leonardo Sciascia «Il cretino di sinistra ha una spiccata tendenza verso tutto ciò che è difficile. Crede che la difficoltà sia profondità.»] Il non cretino di «sinistra» ama farlo credere, e ci guadagna. Come tutti i dogmatici, ama la cavillatio. (p. 76)
  • La matematica, ahinoi, si presta ai colpi bassi. C'è un «terrorismo matematico», che consiste nello spaventare l'avversario sparandogli contro raffiche di equazioni, derivate, integrali, logaritmi, matrici, teoremi e corollari. (p. 79)
  • Il peggior uso della statistica è quando la si dedica a fini retorici o propagandistici, non per sapere, bensì per far credere ai semplicioni. (p. 80)
  • La fabbrica del nulla produce scatole rigorosamente vuote, però difficili da aprire, di forma pretenziosa e artificiosa, e sovrapposte così da formare vaste architetture, che si estendono fino a occupare ogni angolo della cultura. Il borghese che vi capiti in mezzo può sentirsi prigioniero fra mura di macigno, sulle quali legge la sua condanna. (p. 82)

I pericoli della solidarietà

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Lettera 1
A un qualunque eventuale lettore

O quam gravis est scriptura: oculos gravat,
renes frangit, simul et omnia membra contristat.
Tria digita scribunt, totus (sic) corpus laborat.
Anonimo scriba visigoto, VIII secolo

Egregio signor lettore,
se lei esiste, lei è certamente egregio, cioè fuori dal gregge. È stravagante, isolato. Tutti i miei pochi lettori sono sempre stati così, ed essendo così son sempre stati pochi. Le mie tirature stentano a esaurirsi, se non andando al macero e diventando, mi auguro, carta verdolina riciclata. Una o due volte, per eccezione, fui ristampato, e proprio quelle volte, conoscendomi, avevo accettato dall'editore una somma fissa, non proporzionale alle vendite.

Citazioni

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  • Mi è quasi indifferente scrivere pro o contro la solidarietà, sebbene a scriverne contro mi annoi meno. Ormai la solidarietà ha ricevuto tutto l'incenso che merita e un tantino di più, e qualche lettore egregio comincia a sentire il bisogno di cambiare profumo per evitare il voltastomaco. (Lettera 1. A un qualunque eventuale lettore, p. 10)
  • La morale implica la libertà. Il valore morale della solidarietà obbligatoria, non libera, è nullo. (Lettera 2. A una sconosciuta triste, p. 23)
  • Vi sono [...] due tipi di solidaristi, coloro che offrono solidarietà come se fossero certi di fare un bene, e coloro che domandano solidarietà come se fossero certi di ottenerne un bene. È questo connubio di atteggiamenti che rende esplosiva la materia. Lo stato assistenziale, [...], è nato da tale connubio: i politici, che ci credessero o no, lo spacciarono facilmente a causa della acritica golosità dei cittadini. (Lettera 3. A un cugino innominato, p. 30)
  • Consideriamo alcuni dei massimi devoti all'Uomo e intolleranti all'uomo. Rousseau: adotta l'Umanità, abbandona i propri cinque figli all'orfanatrofio o brefotrofio di Parigi, anni dopo ribadisce con entusiasmo «lo rifarei»; e meno male, l'autore dell'Emilio sarebbe stato, credo, un pessimo educatore. Marx: santifica il Proletario, sposa un'aristocratica, si preoccupa della iattura che le figlie possano fidanzarsi a un operaio. C'è un solo proletario col sangue di Marx, ed è il figlio della serva di casa, mai riconosciuto dal padre e destinato a vita miseranda. (Lettera 4. A un fratello inesistente, p. 40)
  • Edulcorare le favole è un doppio errore: è ingannare i piccoli e allontanarli da un genere potenzialmente utile in pedagogia. I piccoli normali, diligenti torturatori di mosche cui strappano le ali e le zampe a una a una, preferiscono decisamente le favole orride e scabrose, e hanno ragione da vendere. Diamogli le favole più orride e scabrose, le rileggeranno da adulti, ancora con profitto. Mi conforta in questa opinione il parere contrario di Rousseau, che trovava corruttore di fanciulli perfino il poeticissimo La Fontaine. Rousseau, bada alla trave del tuo occhio! (Lettera 5. A un nipote futuro, p. 46)
  • L'educazione scolastica degli esseri umani è probabilmente peggiore di quella che una qualsiasi mamma gatta dà ai suoi gattini, i quali sono immediatamente e realisticamente istruiti su come cavarsela in un mondo zeppo d'insidie. Al contrario i bambini, [...], sono allevati spesso da maestri pericolosi e inconseguenti, predicatori del paradosso che non si debba cercare il proprio «vile» interesse. (Lettera 6. Alla mia gatta, p. 57)
  • La vanità degli intellettuali è ben remunerata da ogni totalitarismo sia di sinistra sia di destra, purché alla vanità si accompagni l'ubbidienza, la capacità di servire utilmente. (Lettera 7. A un collega fra i tanti, p. 69)
  • Gli intellettuali si alleano alla forza politica illudendosi talvolta di orientarla; più spesso ne diventano i burattini, sia pure burattini di lusso. (Lettera 7. A un collega fra i tanti, p. 69)
  • A coloro che ci spingono ad amare gli altri, suggerisco di riflettere che forse perfino amare se stessi è meno frequente di quanto comunemente si creda. (Lettera 8. A me stesso, p. 76)
  • Un industriale incompetente non soddisfa la clientela. Se lasciamo fare al mercato, la concorrenza porta costui inesorabilmente al fallimento. L'industriale, incompetente in economia ma astuto in politica, chiede un aiuto «sociale» cioè chiede denaro pubblico per non licenziare, dice, cento o mille operai. In effetti egli è nove volte su dieci un asociale egoista, che spreca risorse della collettività (risorse che la collettività potrebbe impiegare meglio) fingendo di preoccuparsi dei dipendenti, fingendosi solidale con essi. Arriva l'aiuto politico, con o senza tangenti, e cento o mille onesti operai, si trasformano in complici del farabutto, guadagnando e costringendo la collettività a pagare più del valore di quanto essi producono. L'industriale aiutato diventa un concorrente sleale, che danneggia gli industriali non aiutati. L'industriale cattivo scaccia gli industriali buoni, l'economia di mercato a poco a poco cessa di funzionare e la si accusa di essere un sistema disastroso. (Lettera 10. A uno studente di economia, pp. 90-91)

Come si manda in rovina un paese

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Esiste veramente un mio diario autografo, che è circa più voluminoso di quello qui stampato. Il libro elimina quasi tutto quanto non riguarda la politica economica, e diventa il diario di un economista, anziché il diario di un essere umano. Ho cercato tuttavia di lasciare all'economista il maggior numero possibile di tracce di umanità.

Citazioni

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  • Sui muri della facoltà dove insegno sta scritto: "Al professor Ricossa, noi scaverem la fossa". Invece spaccano il naso a uno dei miei figli. Non ci si può fidare delle promesse, neanche di quelle dei rossi. (1977, p. 137)
  • Oggi si sfugge al potere politico o ingrandendosi oltre le frontiere (multinazionali) o rimpicciolendo fino a scomparire alla vista dell'autorità. (1985, p. 195)
  • Statalismo non vuol dire molti e buoni servizi pubblici. Vuol dire lasciare le città senz'acqua, gli ospedali senza letti, le università senza aule, i cittadini senza protezione da ladri, rapinatori e assassini, ma costruire stadi enormi e strapagarli e consentire all'Italia di vantarsi di ospitare i campionati mondiali di calcio. (1990, p. 227)
  • Con l'enciclica Centesimus annus la Chiesa sembra accettare apertamente il sistema dell'economia di mercato, e riesce perfino a scorgere i difetti del Welfare State. Peccato non condanni i cattocomunisti, che formano una seconda Chiesa. (1991, p. 238)
  • In fatto di morale, il fisco è due volte peccatore: quando fa pagare tributi ingiusti, e quando concede sanatorie, amnistie e condoni agli evasori. (1991, p. 238)
  • [P]erché la televisione pubblica, per farci vedere le stesse ballerine delle televisioni private, esige una tassa oltre i proventi pubblicitari? (1992, p. 245)
  1. Da "Non abbiamo la puzza sotto il naso", La Stampa, p. 39, 28 novembre 2001.

Bibliografia

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  • Sergio Ricossa, Straborghese, Editoriale Nuova, Milano 1980.
  • Sergio Ricossa, I pericoli della solidarietà. Epistole sul dosaggio di una virtù, Rizzoli, Milano 1993. ISBN 88-17-84269-9
  • Sergio Ricossa, Come si manda in rovina un paese. Cinquant'anni di malaeconomia, Rizzoli, Milano 1995.

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