Paolo Di Stefano

scrittore italiano

Paolo Di Stefano, (1956 – vivente), scrittore, poeta, critico letterario e giornalista italiano.

Citazioni di Paolo Di Stefano modifica

  Citazioni in ordine temporale.

  • Suicidi dovuti [di Aldo Busi] è un monologo interiore attraverso il quale il lettore percorre d'un fiato sessant'anni di storia degli italiani "standard" narrata in una lingua colorita e carnale, in un fuoco d'artificio di immagini esuberanti.[1]
  • E mentre ci si affanna a tirar fuori dagli armadi lessicali i peggio improperi atti a «demonizzare» l'avversario («magnaccia!»), fa un po' sorridere la raffinatezza sciasciana con cui Franceschini definisce il premier [Silvio Berlusconi]: un «ominicchio». Ma come, neanche «quaquaraquà»? (da Corriere della Sera, 14 ottobre 2009)
  • Mentre la Merini puntava tutto sull'ispirazione dall'alto, Saviano sembra scommettere sull'ispirazione dal basso, condannando gli altri veri scrittori alla sua stessa condanna: realtà e impegno. Come se bastasse un travaso acritico dal piano civile a quello estetico per fare vera letteratura. E come se l'etica non si trovasse altrove che nella realtà. Ambedue, Merini e Saviano, propongono il loro tragico destino come principio universale e capolavoro in sé. (da Corriere della Sera, 10 novembre 2009)
  • Per la Merini, i versi dovevano venir fuori di getto, come un fiotto di sangue da una ferita sempre aperta. Questa idea semplificata di poesia, che si lega intimamente a una vita maledetta (spesso messa a nudo in tv), ha favorito la popolarità di una poetessa che nei suoi testi migliori non è per nulla semplice. (da Corriere della Sera, 10 novembre 2009)
  • Le parole sono pietre, ha scritto Carlo Levi. Ecco, eravamo sicuri che le parolacce fossero più che pietre semplicemente tabù per tre o quattro cariche istituzionali tenute (per missione) a controllare l'equilibrio nervoso (e verbale): il Papa, il presidente della Repubblica e pochi altri, intendiamoci. Esattamente come un figlio non vorrebbe mai sentir bestemmiare suo padre. (da Corriere della Sera, 22 novembre 2009)
  • La generale caduta di stile politico – del piacione di turno che ambisce a guadagnare consensi mescolando il piano pubblico con quello privato, salvo poi invocare la privacy – fa rimpiangere i tempi in cui un sano pudore (ipocrita finché volete) impediva almeno alle maggiori cariche di oltrepassare i limiti del bon ton. Senza arrivare all'anacronismo bacchettone dei «pofferbacco» o dei «maramaldo». Ma ci sarà pure una via di mezzo tra il bizantinismo forense da Prima Repubblica e l'intemperanza da bar, tra l'allusività in punta di fioretto e lo svacco. (da Corriere della Sera, 22 novembre 2009)
  • [Giorgio Gaber] Perché un ingenuo? Perché anche lui tutto sommato aveva nutrito la sua bella utopia: l'idea di cambiare il mondo con le parole. Lui che dai Settanta aveva cantato con ironia la psicopatologia dell'individuo lasciato solo con i propri tic ma ancora ansioso di ritrovare se stesso in una matura collettività civile, doveva riconoscere che, tramontate le ideologie e stramorti i partiti, l'unico luogo di condivisione era ormai il mercato dio e demonio.[2]
  • «Datemi qualche pensiero» è l'ultimo urlo di Gaber. C'è un filo resistente (o un elastico?) che percorre l'opera di Gaber: è la fiducia in un individuo capace, nonostante il disincanto (anzi, forse in virtù di quel disincanto), di costruire una nuova coscienza anche partendo dal nulla, abbandonata per sempre ogni ambizione di appartenenza vecchio stile. E se fin dentro gli anni Novanta tornano le canzoni più «private» di un tempo – da «Chiedo scusa se parlo di Maria» al «Dilemma»: un capolavoro! – è perché per ripartire, appunto, non resta che guardare dentro se stessi.[2]
  • Scabia, l'ultimo cavaliere errante di Re Artù. (da Corriere della Sera, 29 novembre 2009)
  • Arbasino, il più cosmopolita e il più italiano dei nostri autori, il più serio e il più satirico, il più variabile e il più fedele a se stesso. (da Corriere della Sera, 1º dicembre 2009)
  • Il baricentro geografico della letteratura di questi anni si è indubbiamente spostato verso Sud. Ce lo dicono, per una volta, anche le classifiche: i nomi si conoscono. [...] Piaccia o no, c'è anche, nei romanzi, il Sud globalizzato, postmoderno, tecnologico, una miscela molto creativa di vecchio e nuovo narrata senza furori moralistici e senza facili incantamenti. (da Corriere della Sera, 22 dicembre 2009)
  • Intanto i protagonisti: il padre è don Cesare Lanza, conte di Mussomeli; la vittima si chiama Laura Lanza di Trabia, moglie del barone di Carini, Vincenzo La Grua-Talamanca. Le due famiglie appartenevano al rango della nobiltà siciliana di origine catalana. L’amante è Ludovico Vernagallo, cugino del barone di Carini. Il tradimento ci fu, ma il barone «cornuto» e il padre fingevano di ignorare che la giovane abitualmente cenava e dormiva con l’amante, dal quale aveva già diversi figli. L’incarico dell’omicidio fu assegnato in un primo tempo al marito, il quale fallì il tentativo: il primo sparo richiamò diversa gente nella camera in cui la baronessa fu sorpresa con il Vernagallo. A quel punto, sopraggiunse il padre, don Cesare, che uccise brutalmente amante e figlia con un archibugio. Perché? Dovendo del denaro al povero Vernagallo, don Cesare non trovò di meglio, per estinguere il debito, che eliminarlo. E la figlia? L’eliminazione dell’adultera serviva a occultare la vera ragione del delitto. Tutt’altro che una questione d’onore offeso. La giustizia spagnola del Regno di Sicilia chiuse un occhio, anzi due, e l’assassino se la cavò senza pena.[3]
  • È il 15 luglio 1933 quando una giovane alta e snella, occhi azzurri, i capelli corti a caschetto, si presenta al Gabinetto Vieusseux per chiedere del direttore. Si chiama Irma Brandeis, è un'italianista ebrea americana ed è rimasta folgorata dalla lettura degli Ossi di seppia, la prima raccolta di poesie di Eugenio Montale, che dal marzo 1929 dirige la biblioteca fiorentina. Lo troverà solo il giorno dopo. «Siamo diventati amici! – scrive con entusiasmo la Brandeis in una lettera –. Abbiamo parlato di Ezra Pound, di T.S. Eliot, dell'Inghilterra, dell'America e dell'Italia». «Vestito con buon gusto», ma già vecchio a 37 anni (lei 28), molto gentile, «davvero semplice, alquanto brutto e spesso, persino, piatto». Mai una conversazione da cui salvare «dieci parole degne di essere ricordate», postilla la ragazza, che poi però torna a casa e ricomincia, incantata, a leggere il suo libro. Il mese dopo aggiungerà: «Il grande poeta non sa parlare. Mi dice, umilmente, delle cose stupide. E mi piace adesso, non perché somiglia tanto alla sua opera, ma perché non ci somiglia affatto!». Così parlò la futura Clizia, la musa ovidiana di tante poesie de Le occasioni.[4]
  • Irma parte e a Montale rimane la «schiavitù» volontaria di Drusilla, detta la Mosca (il «Caro piccolo insetto» di una famosa poesia), con la quale Arsenio è legato da tempo: «una catena che nessuno gli ha messo al collo», [...] ma che lo trattiene per sempre.[4]
  • All'inizio di agosto, Montale è a Parigi e poi a Londra, e già scrive alla «My dearest Irma», alternando l'italiano a un inglese spesso ironico e approssimativo, come farà in seguito. In vacanza con il poeta c'è l'«ex signorina» Drusilla Tanzi, che vive con suo marito, il critico d'arte Matteo Marangoni, in via Benedetto Varchi 6. Lì Montale, lasciata la Pensione Colombini, aveva trovato, a pagamento, un «giaciglio notturno».[4]
  • Il poeta andrà a vivere con la Mosca. La sposerà nell'aprile 1962, poco più di un anno prima della morte di lei. Il «pessimo epistolografo» (parole sue) consegnerà probabilmente alle fiamme, per precauzione, le lettere della dama di cuori americana, alla quale (cifrata nelle sole iniziali I.B.) dedicherà Le occasioni a partire dall'edizione del '49. Quella che rimarrà a lungo nei sogni, nei pensieri, nei ricordi e nelle fantasie del poeta non è più Irma ma Clizia: non l'amante appassionata, ma un'immagine sempre più angelicata, che nell'ultimo bigliettino, del giugno 1981, la mano tremolante del poeta ormai vecchio (morirà tre mesi dopo) definisce ancora «my divinity».[4]
  • [In riferimento all'idillio con Irma Brandeis] Sull'idillio tanto atteso, sui «bei desideri» è calata l'ombra di Drusilla, dei suoi ricatti e delle minacce di suicidio, la stricnina, il cappio al collo, il volo dal settimo piano. Ciò che trasformerà l'esistenza di Montale, tra disperazione, pietà e persino paura, in una «dog's life» insostenibile.[4]
  • La relazione fra Montale e la Brandeis finisce nel 1939. Irma lascia l’Italia a causa delle leggi razziali, ma il poeta decide di non trasferirsi negli Stati Uniti.[4]
  • La «funzione vendetta» è un filo rosso sangue che percorre il cinema fino a oggi. V per Vendetta evoca sistemi oppressivi alla Orwell, ma i propositi di rivalsa del misterioso protagonista sono mossi non solo da ragioni ideali o civili.[5]
  • C'è una Gentile Signora, nella letteratura italiana, alla quale parecchi scrittori devono essere grati. Elio Vittorini, Eugenio Montale, Carlo Emilio Gadda, il poeta ligure Camillo Sbarbaro e altri. La Gentile Signora si chiama Lucia Morpurgo e dopo il matrimonio con il pittore Paolo Rodocanachi detto Cian, celebrato nel 1930, sarà nota con il cognome del marito. Nata a Trieste nel 1901, trasferitasi a Genova, figlia di un imprenditore di coloniali, ottiene il diploma magistrale nel 1920, coltiva le lingue e le letterature straniere (inglese, francese, tedesco e spagnolo), diventa amica e musa degli artisti liguri, nonché sodale e corrispondente di scrittori anche dopo essersi trasferita ad Arenzano, la «casa rossa» tra le agavi, progettata dal marito Cian, sarà il luogo oltre che della sua personale malinconia, il crocevia di raduni (per Santo Stefano e per il Lunedì di Pasqua) con gli «amici degli anni Trenta» attorno alla torta pasqualina preparata dalla cordiale ospite.[6]
  • La fame di novità letterarie porta Lucia a stabilire contatti intensi con il fiorentino Gabinetto Vieusseux che dal 1928 è diretto da Montale e la cui biblioteca circolante può offrirle in tempi rapidi i suoi oggetti del desiderio. È grazie a Montale che Lucia Rodocanachi conosce Vittorini, il quale tra il 1929 e il 1930 ha traslocato da Siracusa a Firenze, dove frequenta l'ambiente della rivista «Solaria» e il giro del caffè letterario delle «Giubbe Rosse». In una lettera del 9 maggio 1933, Eugenio chiede all'amica se è disponibile ad aiutare Vittorini che «deve consegnare fra non molto il St. Mawr di Lawrence a Mondadori». Il tempo stringe, aggiunge il poeta, e Elio deve tradurre ancora la metà del libro, ovvero 150 pagine: «Accetterebbe di farle lei, solo letteralmente, a tamburo battente?». La Signora accetta e con il romanzo di D.H. Lawrence prende avvio una decennale collaborazione, editorialmente proficua ma ricca di equivoci e di ambiguità [...][6]
  • Il lavoro dietro le quinte della Rodocanachi permette a Vittorini di accettare una quantità di incarichi (26 libri tradotti dal '33 al '49, solo alcuni dei quali in autonomia) che altrimenti non riuscirebbe a sostenere da solo. E soprattutto gli consente di procedere con la sicurezza che un «anglofono» autodidatta come lui non potrebbe permettersi: sulla traduzione quasi parola per parola dell'amica (una «prima stesura») lo scrittore sarebbe intervenuto con il suo stile.[6]
  • [...] la erre arrotata, l'autoironia, lo strascicato accento piemontese, la voce sottile, quasi femminea. E le ossessioni vegetariane: invitato al ristorante, anche nel migliore, immancabilmente tirava fuori dalla cartella il suo olio e le sue tisane, mangiava semi di chissà che, grani di miglio. In quell'aspetto di uccello rapace (agli amati barbagianni aveva dedicato un libro di aforismi) si riassumeva il suo stesso carattere, che consisteva nel tenersi fuori dalla mischia per comparire inaspettatamente con il suo becco ricurvo e ritirarsi di nuovo nella sua casa di Cetona, in Valdichiana, con la moglie Erica Tedeschi, insieme alla quale aveva fondato nel 1970 ad Albano Laziale il Teatro dei Sensibili. (da Morto Guido Ceronetti Antimoderno, non apocalittico, corriere.it, 13 settembre 2018)
  • Quando voleva far capire che cos'era per lui l'impegno in letteratura, Mario Lavagetto citava Sartre: nessun bisogno di parlare della bomba atomica, si può anche descrivere una pera.[7]
  • Era nato nella stessa città dei Bertolucci, amico in gioventù di Bernardo, e come tanti della sua generazione e delle generazioni precedenti, nei primi Anni 50 aveva lasciato la provincia per trasferirsi con la famiglia a Roma. Nella capitale, suo padre, che aveva partecipato attivamente alla lotta antifascista, lavorava all'Anonima petroli italiana. Nel 1963 Lavagetto si laurea su Dino Campana, un primo indizio di quello che sarà l'interesse prevalente per i nessi tra scrittura e inconscio.[7]
  • Temperamento solo in apparenza impolitico, dalla politica Lavagetto fu attratto in età giovanile, quando si dedicò all'attività del Partito comunista.[7]
  • Dopo la guerra e la lotta civile vissuta attivamente da ragazzo, Loi cominciò a lavorare come disegnatore di ceramica e poi come operaio agli appalti della ferrovia, da lì l'Ufficio pubblicità della Rinascente per poi passare, ottenuto il diploma di ragioniere nelle scuole serali, all'Ufficio stampa della Mondadori dal 1960 al '67, continuando a collaborarvi fino all'83. Fu iscritto al Fronte della gioventù e alla Federazione giovanile comunista, militò nel Pci fino al '62 ma continuò a svolgere attività politica nell'ambito della sinistra per tutti gli anni Settanta.[8]
  • Franco Loi è un caso di incredibile immedesimazione. Era nato nel 1930 a Genova da padre sardo (spedizioniere e poi direttore di uno scalo merci) e madre emiliana di Colorno. Trasferitosi nel '37 a Milano con la famiglia, Loi assorbe la parlata lombarda e l'habitus morale dei ceti popolari urbani.[8]
  • Loi è una figura culturalmente del tutto atipica nel panorama politico italiano, e lo dimostra anche il fatto che si è avvicinato alla poesia in età piuttosto tarda, nel 1965, per una «spinta sentimentale e volontaristica», come ha scritto: «Mi ero innamorato e mi ingegnai di dar parola alle mie effusioni passionali. Questa effervescenza amorosa mi pareva poesia».[8]
  • In realtà, come è stato sottolineato da diversi illustri estimatori della sua poesia (tra i quali Dante Isella, Pier Vincenzo Mengaldo, Franco Brevini, quello di Loi è un milanese estraneo alla tradizione di Carlo Porta e di Delio Tessa, poiché mescola in sé la parlata proletaria cittadina con elementi della campagna e con contributi linguistici degli immigrati di diverse origini.[8]
  • Il 5 settembre scorso è morta a Zurigo, dove era nata nel 1947, ma Mariella Mehr non aveva vissuto una sola vita. Da bambina, figlia di madre Jenisch (la terza popolazione nomade europea dopo i Rom e i Sinti), fu vittima del programma eugenetico Kinder der Landstrasse (figli della strada) organizzato dalla Pro Juventute dal 1926 al 1973: era un'«opera di soccorso» svizzera che prevedeva di «estirpare il fenomeno zingaro» sottraendo i figli alle madri (che venivano sterilizzate). I bambini venivano rinchiusi in istituti dove veniva cambiato loro il nome perché i genitori non potessero rintracciarli, infine finivano in affido presso famiglie contadine.[9]
  • Nei suoi libri autobiografici Mehr raccontò degli elettroschock subiti, della sterilizzazione forzata cui fu sottoposta a 24 anni, dopo aver messo al mondo un figlio, che le era stato portato via.[9]
  • Chiusa, come sua madre, in un centro psichiatrico, Mariella aveva passato buona parte dell'infanzia senza parlare, poi affidata a una famiglia ticinese e ricondotta in manicomio. A 19 anni si sposò con la speranza di riavere il bambino, lo ottenne ma dopo il divorzio finì per perderlo di nuovo.[9]

Note modifica

  1. Da L'ultimo peccato di Aldo Busi, Corriere della Sera, 28 settembre 1996.
  2. a b Da Quella coscienza mai lavata dallo shampoo, Corriere della Sera, 23 novembre 2009.
  3. Da Baronessa di Carini un falso dell’800. Alberto Varvaro ricostruisce il giallo, Corriere della Sera, 14 gennaio 2011.
  4. a b c d e f Da «Semplice, piatto e bruttino»: Montale secondo la sua musa. Il poeta e Irma Brandeis. Delusione al primo incontro. Ma poi la passione fu travolgente, corriere.it, 19 luglio 2011.
  5. Da Quel filo rosso da Mosè a Tarantino. L'eterna sofferenza dei giustizieri, Corriere della Sera, 1º novembre 2011.
  6. a b c Da Gentile Signora, saluti e grazie Archinto pubblica le lettere di Elio Vittorini a Lucia Rodocanachi, che lo aiutò nei lavori di traduzione: ruolo decisivo a lungo nascosto. Amica di artisti e scrittori, la donna ottenne gratitudine e un tardo riconoscimento , Corriere della Sera, 17 ottobre 2016
  7. a b c Da Mario Lavagetto, il critico sottile dei nessi tra inconscio e letteratura Addio al grande studioso di Svevo e Saba, Corriere della Sera, Milano, 30 novembre 2020.
  8. a b c d Da Franco Loi cantò l'utopia reinventando il dialetto, Corriere della Sera, 5 gennaio 2021.
  9. a b c Da Le tante vite di Mariella Mehr, poetessa ribelle della Svizzera, Corriere della Sera, 7 settembre 2022.

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