Michail Ivanovič Rostovcev

storico russo

Michail Ivanovič Rostovcev, indicato anche come Michael Rostovtsev o Rostovtzeff (1870 – 1952), storico russo.

Michail Rostovcev

Storia economica e sociale dell'impero romano

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L'impero romano, quale venne costituito da Augusto, fu il risultato di quel turbolento e confuso periodo di guerra civile, che, con pause più o meno lunghe, aveva imperversato sia in Italia sia nelle province romane per più di ottant'anni. Due cause principali avevano dato origine alle guerre civili e ne avevano determinato il corso: da un lato, la posizione dominante assunta nel III e II sec. a. C. da Roma e dall'Italia nella vita politica di tutto il mondo civile e il conseguente stabilimento dello Stato mondiale romano, dall'altro lato il graduale sviluppo dell'antagonismo di classe in Roma e in Italia; sviluppo strettamente connesso a sua volta con l'incremento dello Stato mondiale romano.

Citazioni

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  • L'opera politica di Augusto consisté [...] non nel restaurare ciò che esisteva prima delle guerre civili, ma nel consolidare e riadattare con le necessarie modificazioni ciò ch'era stato creato dalle guerre civili. Egli prese alcuni provvedimenti per rendere quant'era possibile innocuo l'esercito nei riguardi politici. Le legioni, infatti, furono stanziate non già in Italia, ma alle frontiere dello Stato romano: in Italia stazionava soltanto un piccolo corpo di truppe, la guardia pretoriana dell'imperatore. Tanto le legioni quanto la guardia erano composte soltanto di cittadini romani, e comandate da ufficiali appartenenti esclusivamente alle due classi superiori della cittadinanza romana, alla classe senatoria, cioè, e alla classe equestre. Le forze ausiliarie, fornite dalle province, erano considerate come truppe irregolari, truppe di «alleati», e stavano al comando di ufficiali romani. La flotta di stazione in Italia aveva ciurme levate nello strato inferiore della cittadinanza romana, tra i liberti, e i provinciali. Liberti prestavano servizio anche nei sette reggimenti di vigili urbani, che insieme con le coorti urbane facevano il servizio di polizia nella capitale. Tutti questi ai accorgimenti tuttavia furono vani. In realtà l'esercito era padrone dello Stato e nella restaurata repubblica romana l'imperatore governava soltanto in quanto disponeva dell'esercito e finché questo era disposto a tenerlo e ad obbedirgli. (cap. II, p. 46)
  • Tutti gli imperatori della dinastia augustea sentirono acuto bisogno di dare stabilità al loro potere, di conferirgli più che una base meramente legale. Naturalmente la sanzione legale era data al potere imperiale dall'atto del Senato che concedeva al nuovo princeps poteri ch'erano stati già posseduti da Augusto e che di questo avevano fatto il primo magistrato della città di Roma e dell'impero romano; ma gli imperatori avevano bisogno d'una più alta e più solida sanzione, che fosse indipendente dal Senato e s'applicasse non soltanto all'istituto dell'impero, ma anche alla persona dell'imperatore. A tal fine due dei successori di Augusto, Caligola e Nerone, fecero reiterati sforzi per porre le basi del culto imperiale e farne un'istituzione dello Stato. Da ciò nacquero anche i tentativi fatti da quegli stessi imperatori per collegare i sentimenti religiosi della popolazione dell'impero con la persona dell'imperatore, dando a questo nomi e attributi divini e identificandolo con qualcuna delle divinità del pantheon greco-romano, specialmente con Apollo e con Ercole, entrambi promotori di vita civile e protettori del genere umano contro le forze delle tenebre. (cap. III, p. 86)
  • [Claudio] In più d'un campo egli fece i passi decisivi e creò i precedenti sui quali doveva poi fondarsi, specialmente sotto i Flavii e gli Antonini, il futuro svolgimento della burocrazia imperiale. L'attenta diligenza con cui egli seguiva i particolari anche più minuti della vita amministrativa dell'impero è provata, per esempio, dal gran numero di iscrizioni e papiri pervenutici, che riproducono lettere ed editti di lui, e dalla frequente menzione che di siffatti documenti si fa nelle nostre fonti letterarie. Di essi, i più notevoli sono forse i frammenti trovati a Tegea, di un editto relativo all'ordinamento del servizio imperiale di posta (cursus publicus), e la già menzionata lettera agli Alessandrini. Occupandosi, in quest'ultimo documento, del complesso problema dell'ordinamento municipale d'Alessandria (la questione della βουλή) e del delicato argomento delle relazioni tra gli Ebrei e i Greci di quella città, Claudio mostra una sorprendente quantità di conoscenze, una perfetta comprensione delle condizioni attuali, osservate dal loro lato pratico e non già teoricamente, e un tatto squisito. (cap. III, pp. 88-89)
  • [Claudio] Non si riesce a capire come mai un tal uomo possa essere stato contemporaneamente uno zimbello nelle mani di mogli e di liberti. Tutti i documenti firmati da lui sono stati certamente o scritti o accuratamente riveduti da lui personalmente, dacché tutti presentano non solo lo stesso stile peculiare, ma anche la stessa peculiare logica e la stessa maniera di ragionare. Il vero è [...] che soltanto negli ultimi suoi anni, quando il suo potere mentale andava continuamente declinando, Claudio si lasciò dominare dalla volontà di coloro che lo attorniavano; e può darsi che anche per questo periodo la realtà dei fatti sia stata alquanto esagerata da Tacito e dagli altri scrittori di parte senatoria. (cap. III, p. 89)
  • Le centinaia di migliaia di cittadini romani dimoranti a Roma poco si curavano dei diritti politici, e s'adattarono facilmente a veder ridotta, sotto Augusto, l'assemblea popolare a mera formalità, né protestarono minimamente quando Tiberio abolì anche questa formalità; ma insistettero sul diritto, acquisito nel corso delle guerre civili, di essere nutriti e divertiti dal Governo. Nessun imperatore, neppure Cesare o Augusto, osò contestare questo sacro diritto del proletariato romano: essi si limitarono a ridurre e fissare il numero degli aventi diritto alla distribuzione del grano e a disporre un sistema efficace di distribuzione. Fissarono anche il numero dei giorni in cui la popolazione romana era ammessa a godere un bello spettacolo nei teatri, nei circhi, negli anfiteatri: ma non misero mai in questione l'istituzione in sé stessa. Non già ch'essi temessero la plebaglia romana: avevano sottomano i pretoriani per reprimere ogni eventuale rivolta; ma preferivano tener di buon umore la popolazione della capitale. (cap. III, p. 91)
  • [...] la scandalosa vita privata degli imperatori romani, i loro delitti spaventevoli, la loro cinica condotta non s'accordavano al concetto che i Romani, e particolarmente i soldati degli eserciti provinciali, avevano del primo cittadino e capo dello Stato romano. Soprattutto Nerone, l'uccisore della madre e del fratello, l'istrione e l'auriga, l'imperatore che non aveva mai visitato gli eserciti e aveva sciupato tutta la sua vita tra la feccia urbana e i Greci, distrusse completamente il prestigio della dinastia augustea. (cap. III, p. 96)
  • Nessun documento formulò i termini in cui fu concluso il compromesso tra le classi colte e gli imperatori. La costituzione dell'impero romano rimase non scritta, com'era stata sin dagli inizi della storia romana. Ciò che avvenne fu un nuovo adattamento del potere imperiale alle condizioni reali, non una riduzione di esso. Il potere degli imperatori romani non fu sminuito, rimase anzi accresciuto: il governo d'un solo era stato ormai riconosciuto come fatto e come necessità da tutte le classi della popolazione, e senza una volontà singola l'impero romano era destinato ad andare in frantumi. (cap. IV, p. 141)
  • [...] l'imperatore non era un monarca di tipo orientale, era il magistrato supremo dell'impero romano, sia dei cittadini romani sia dei provinciali. Egli non era eletto da alcun corpo costituzionale, ma il potere non si trasmetteva di padre in figlio per virtù di mere relazioni di sangue. L'imperatore adottava l'ottimo fra gli ottimi, scegliendolo cioè tra i membri della classe senatoria, tra i suoi pari, nel seminario degli imperatori. La classe senatoria era di per sé ben preparata a siffatto compito, in quanto i suoi membri dedicavano la propria vita al servizio dello Stato. Il potere imperiale inoltre venne considerato non come un privilegio ma come un onere, un servizio imposto da Dio e dal Senato al detentore del potere. L'imperatore personificava, per così dire, l'impero; quindi il suo potere e la sua persona erano sacri ed egli medesimo era oggetto di culto. In lui assumeva corpo la maestà dell'impero. Egli non era il padrone dello Stato, ma il suo primo servitore: servire lo Stato, ecco il suo dovere. (cap. IV, p. 141)
  • Quando si trovava al campo, [l'imperatore] doveva sostenere tutti i disagi della vita militare al pari di un semplice soldato. Se si trovava alla capitale, doveva attendere ai suoi doveri di reggitore dello Stato, lavorando accanitamente giorno e notte per la sicurezza e la prosperità dell'impero. Doveva quindi condurre la vita di chi cammina al vertice dell'umanità, non già d'un comune mortale, e tuttavia esser quanto era possibile modesto e alieno da stravaganze. La sua fortuna privata era fusa nel patrimonio dello Stato: ciò ch'era dell'imperatore era dello Stato, e viceversa. Soltanto sotto questo aspetto si può intendere un detto d'Antonino Pio. Discutendo con la moglie dopo essere stato adottato da Adriano egli disse (Script Hist. Aug., Ant. Pius, c. 4): «Pazza, ora che siamo stati promossi all'impero, abbiamo perduto quel che avevamo prima!». Il motto può essere inventato, ma mette in evidenza quale fosse l'opinione dei contemporanei circa la posizione dell'imperatore. (cap. IV, p. 141)
  • Sappiamo ben poco intorno al modo con cui si svolgeva nell'impero romano l'attività commerciale. Il Governo centrale non mutò in nulla la sua condotta nei riguardi del commercio: tanto nel primo quanto nel secondo secolo fece politica di libertà commerciale. Come già abbiamo messo in rilievo precedentemente, gli imperatori conservarono i moderati dazi prelevati alle frontiere di tutte le province, e favorirono l'iniziativa di quei mercanti e armatori, che erano necessari allo Stato, concedendo loro privilegi che li mettevano in condizione di potere svolgere i loro affari e le loro organizzazioni professionali. Sicché nel campo del commercio sia interno che esterno, sia tra le province che all'interno di esse, la politica del Governo rimase quella del laissez faire. (cap. V, p. 191)
  • Il tranquillo regno di Antonino Pio, che svolse i germi posti da quello di Adriano, ha dei tratti interessanti. Sembra che gli sforzi fatti da Adriano per restaurare la prosperità dell'impero non fossero stati completamente fortunati. Le province si riavevano solo lentamente: la loro guarigione era ritardata dai numerosi viaggi dell'imperatore, dall'ulteriore sviluppo da lui dato alla burocrazia, e dall'attività costruttrice da lui spiegata in tutto l'impero: tutte cose che richiedevano grandi somme di denaro. Antonino volle ridurre al minimo anche queste spese. Adriano aveva molto edificato così a Roma come nelle province. Pio in questo campo fece le più grandi economie. Deliberatamente s'astenne dall'addossare ai bilanci delle città i gravi pesi imposti dalle visite imperiali alle province; non accrebbe il numero dei funzionari governativi, anzi accedendo al desiderio del Senato lo ridusse, restituendo a questo corpo l'amministrazione dell'Italia; giunse perfino a vendere le suppellettili superflue della casa imperiale e alcune delle sue tenute. (cap. VIII, p 425)
  • Il governo di Settimio Severo, della sua moglie orientale, e dei suoi figli semi-orientali, ha grande importanza nella storia dell'impero romano. Intorno al carattere e al significato storico di esso si giudica in due diverse maniere: mentre infatti alcuni studiosi tra i più eminenti ritengono che Settimio Severo sia stato il primo ad allontanarsi dalle tradizioni e dalla politica degli Antonini e ad iniziare l'imbarbarimento completo dell'impero romano, altri pensano ch'egli sia stato «un governante patriottico e di larga mente, desideroso di estendere anche alle province di frontiera la cultura e i beni materiali posseduti dall'Italia e dalle antiche province». Sembra che vi sia qualche cosa di vero in entrambe le opinioni. (cap. IX, p 459)
  • [...] è errato che Settimio abbia stabilito un dispotismo militare di tipo orientale. La sua monarchia militare non era orientale: nella sua vera essenza era romana. Settimio militarizzò completamente il principato augusteo, il cui capo era ora anzitutto imperator, generalissimo dell'esercito romano; ma l'imperatore continuò ad essere il magistrato supremo dell'impero romano, e l'esercito continuò ad esser composto di cittadini romani. (cap. IX, p 463)
  • Nella sua politica Caracalla affermò chiaramente e francamente, più francamente del padre[1], d'esser deciso a fondare il suo potere non sulle classi elevate – la borghesia cittadina e l'aristocrazia italica – ma sulle classi inferiori e sui soldati che le rappresentavano. È noto ch'egli favorì appunto i soldati e volle apparire uno di essi, a non parlare degli aumenti di soldo e di pensioni e dei donativi straordinari loro profusi. Ciò potrebbe spiegarsi col desiderio di comperare la fedeltà e l'appoggio dei soldati dopo l'uccisione di Geta. Ma più di una volta Caracalla fece aperta mostra del più grande disprezzo e della più risoluta ostilità verso le classi possidenti e intellettuali: Dione è esplicito su questo punto, e le sue affermazioni s'accordano benissimo con la notoria tendenza di Caracalla ad uguagliarsi ai più umili soldati. (cap. IX, p 481)
  • Svariati erano i problemi che Diocleziano e i suoi successori dovettero affrontare. Uno dei più importanti era quello relativo al potere centrale, al potere imperiale per sé. Non poteva neppure pensarsi a sopprimerlo: se vi era un elemento che ancora tenesse insieme l'edificio dell'impero e ne garantisse l'esistenza, se vi era istituzione popolare tra le masse, erano appunto il potere imperiale e la personalità dell'imperatore regnante. Ogni altra cosa era caduta in discredito. (cap. XII, p. 590)
  • Era profondamente radicato nell'animo di tutti gli abitanti dell'impero il sentimento che senza imperatore Roma non poteva esistere e non sarebbe esistita. (cap. XII, p. 590)

Bibliografia

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