Maurizio Ferraris

filosofo e accademico italiano (1956-)

Maurizio Ferraris (1956 – vivente), filosofo italiano.

Maurizio Ferraris mentre tiene un discorso nel 2014

Citazioni di Maurizio Ferraris

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  • [...] a ben vedere, la friabilità del tufo, la sua eterna disponibilità a ritornare alla natura, proprio come accade nei templi Maya affondati nelle foreste dello Yucatan, costituisce l'insegnamento più profondo che si può trarre da quella città fatta di tufo che è Napoli. Una simile riflessione getterebbe un ponte ideale verso la lenta ginestra di Leopardi, verso la natura indifferente alla storia.[1]
  • «Cazzimma», in napoletano, significa pressappoco «cattiveria maligna». «Pulicana» è un'aggravante, e si riferisce alla faccia, notoriamente aggrondata, del pellicano. Sicché la cazzimma pulicana sarebbe il cipiglio che avrebbe un pellicano, già torvo al naturale qualora fosse incazzato.[2]
  • [Napoli] è rimasta città di corte. Come Torino. Solo che Torino è una città piccola, poco più di un villaggio, ma i pochi plebei che l'hanno da sempre abitata sono sta­ti messi in riga, facendogli fare pri­ma i soldati e poi gli operai. A Na­poli, invece, non c'è mai stato un vero esercito; ma un milione di per­sone che non osserva nessun tipo di regole e dei borghesi subordina­ti ad essi, subalterni, che ne hanno paura.[3]
  • [Su Friedrich Nietzsche] Era un accanito lettore di giornali e se fosse vissuto oggi sarebbe sul Web tutto il giorno, nonostante i problemi di vista.[4]
  • I libertini, spiega [il Marchese de Sade], hanno nel sangue le forze telluriche del Vesuvio, mentre le persone ordinarie sono piatte come le pianure del vercellese.
    È con questo mantra per la testa che giro per le vie di Napoli infastidito come un leghista di una volta e insieme sottomesso a una realtà più profonda infinitamente più antica di quelle che posso trovarmi tra le vie squadrate che portano i nomi di arciduchesse sabaude: proprio la vita dell'antichità, commentava Nietzsche e ripeteva Wilamowitz. Nelle insensate processioni della Madonna dell'Arco riemergono le usanze delle fratrie greche che nessun cristianesimo è riuscito ad addomesticare. Nelle donne grassissime e panterate che girano in moto come se le ruote facessero parte del loro corpo riappare il Pantheon pittoresco che, non dimentichiamocelo, era bianco e composto solo per i gentiluomini della Virginia del diciottesimo secolo. Il tratto dominante nascosto sotto la dolcezza dei paesaggi e la mitezza delle persone è in effetti l'orrore.[1]
  • In un recente scambio epistolare che abbiamo avuto a proposito di Non per profitto la Nussbaum ha sottolineato che il suo progetto comporta tre esigenze fondamentali. «La prima è l'attività socratica del promuovere la capacità di ogni persona di auto-esaminarsi e auto-chiarirsi, favorendo una cultura pubblica deliberativa più riflessiva, in cui si sia meno influenzati di quanto lo siamo ora dagli altri, dall'autorità e dalla moda. La seconda è la capacità di pensare come "cittadini del mondo", con una conoscenza adeguata della storia del mondo, dell'economia globale, e delle principali religioni mondiali. La terza è coltivare l'immaginazione simpatetica. Già i bambini sono capaci di immedesimarsi nella posizione degli altri, ma questa capacità ha bisogno di essere sviluppata, se deve rendere i cittadini capaci di pensarsi al di fuori del loro circolo ristretto e assumere le posizioni di gente molto diversa da loro. Una democrazia non può durare molto senza queste tre abilità. E non possiamo assumere che esse compariranno magicamente dal nulla, senza che vengano deliberatamente coltivate attraverso l'educazione».[5]
  • [...] la grande creatività, così come la grande imbecillità, è involontaria, l'imbecillità spinge a creare non solo imbecilli ordinari e senza pretese, ma istituzioni (scuole speciali, corsi di scrittura creativa) che dovrebbero aumentare la creatività per formare degli imbecilli speciali. Lo sappiamo bene: il mondo è pieno di babbei, la maggior parte dei quali si crede originale, geniale, creativa. È così che il mito della creatività è una delle cause principali di imbecillità, mirando, per così dire, alla libera manifestazione di un imbecille a volte nascosto, sopito, silenzioso.
[...] la grande créativité, tout comme la grande imbécillité, est involontaire, l'imbécillité pousse à créer non seulement des imbéciles ordinaires et sans prétentions, mais des institutions (écoles spéciales, cours de creative writing) qui sont censées accroître la créativité pour former des imbéciles spéciaux. On le sait bien : le monde est plein de couillons dont la majorité pensent être originaux, géniaux, créatifs. C'est ainsi que le mythe de la créativité est l'une des causes principales de l'imbécillité, en visant, pour ainsi dire, à la manifestation libre d'un imbécile parfois caché, en sommeil, silencieux.[6]
  • Le «legioni di imbecilli» c'erano già, prima del Web. Solo, stavano in silenzio: pochissimi erano quelli che, avendo un qualsiasi accesso al sistema dei media, potevano manifestarsi. Questa rarità non era una garanzia di intelligenza (basta fare un giro in una biblioteca e sfogliare a caso), ma almeno dava consapevolezza all'autore di essere in pubblico. Non è così nel Web: tutti parlano – peggio, scrivono, e Verba volant, scripta manent – come se fossero a casa loro, in un piccolo comitato familiare e indulgente, mentre sono sotto gli occhi di tutti, molto più che se fossero in una biblioteca, ma nessuno rilegge il testo, segnala le sciocchezze, corregge le bozze. Ed eccoci, benvenuti nella post-verità che è l'arco di trionfo e l'aquila imperiale dell'imbecillità.
Les «légions d'imbéciles» étaient déjà là, avant le Web. Seulement, elles étaient silencieuses : rares étaient ceux qui, ayant un accès quelconque au système des médias, pouvaient se manifester. Cette rareté n'était pas une garantie d'intelligence (il suffit de faire un tour dans une bibliothèque et feuilleter au hasard), mais donnait au moins conscience à l'auteur d'être en public. Ce qui n'est pas le cas dans le Web : tous parlent – pire, écrivent, et Verba volant, scripta manent – comme s'ils étaient chez eux, dans un petit comité familier et indulgent, là où ils sont sous les yeux du monde, beaucoup plus que s'ils étaient dans une bibliothèque, mais personne ne relit le texte, signale les bêtises, corrige les épreuves. Et nous voilà, bienvenus dans la post-vérité qui est l'arc de triomphe et l'aigle impérial de l'imbécillité.[6]
  • Napoli non ha mai creduto alla modernità ed è per questo che è naturalmente postmoderna e decostruzionista.[1]
  • Non è lontano il giorno in cui lo specismo ci risulterà altrettanto inaccettabile che il razzismo, ma perché ciò avvenga bisogna non cedere alla retorica e lavorare con finezza di analisi e con sottigliezza dialettica. È quello che fa in questo libro [Il maiale non fa la rivoluzione] Leonardo Caffo, il più promettente, versatile e originale tra i giovani filosofi italiani.[7]
  • Ogni epoca ha i suoi tromboni, così come ha i suoi bugiardi, i suoi furfanti, e ovviamente i suoi imbecilli.[8]
  • [Su Benedetto XVI] Pontefice molto moderno: è un conservatore ma sotto questo profilo è molto innovatore, molto aperto alle tecnologie anche perché, storicamente, c'è una dottrina sociale della Chiesa estremamente attenta ai mezzi di comunicazione di massa come la radio e la tv. C'è un'idea che bisogna fare apostolato attraverso strumenti più evoluti.[9]
  • Siamo vissuti sotto il peso di due grandi illusioni molto ideologiche e che non riflettevano minimamente la realtà. La prima è appunto che la modernità e la postmodernità siano epoche di grande fluidità. Immagino che ci si riferisca al fatto che non ci sono più i lavori fissi, i matrimoni eterni, le appartenenze nazionali forti. Ma basta questo a dire che viviamo in un mondo evanescente? È vero il contrario: ogni nostra azione è registrata, dalla mail che spediamo al biglietto che compriamo. Non abbiamo mai lavorato tanto come adesso, picchiando su tasti di ogni sorta e spesso facendolo gratuitamente, sotto il peso di quella che a ben vedere è una responsabilità implacabile e nel quadro di una mobilitazione totale. In queste condizioni ha senso parlare di modernità liquida? Solo a patto che con liquido si intenda qualcosa di molto diverso da ciò che intende qualsiasi parlante normale, cioè si intenda qualcosa di pietroso, granitico, imperioso. Cioè solo a patto che si intenda che la modernità liquida è in realtà l'epoca più solida che l'umanità abbia conosciuto sinora. Meglio parlare di modernità solida, allora, e, venendo all'altra illusione, quella della immaterialità, di un mondo del virtuale che sarebbe un mondo dell'immateriale e dello spirito, meglio riconoscere che è più materiale che mai: il silicio è un minerale, non dimentichiamolo. Si tratta, semmai, di un mondo molto fragile, nel senso che basta poco (che so, un black out elettrico) per farlo scomparire. Ma la fragilità è una proprietà della materia, non dello spirito.[10]

la Repubblica, 8 agosto 2011.

  • Nei telegiornali e nei programmi politici abbiamo visto regnare il principio di Nietzsche "non ci sono fatti, solo interpretazioni", che pochi anni prima i filosofi proponevano come la via per l'emancipazione, e che in effetti si è presentato come la giustificazione per dire e per fare quello che si voleva. Si è scoperto così il vero significato del detto di Nietzsche: "La ragione del più forte è sempre la migliore". È anche per questo, credo, che a partire dalla fine del secolo scorso si sono fatte avanti delle rivendicazioni di realismo filosofico.
  • Ontologia significa semplicemente: il mondo ha le sue leggi, e le fa rispettare. L'errore dei postmoderni poggiava su una semplice confusione tra ontologia ed epistemologia, tra quello che c'è e quello che sappiamo a proposito di quello che c'è. È chiaro che per sapere che l'acqua è H2O ho bisogno di linguaggio, di schemi e di categorie. Ma l'acqua bagna e il fuoco scotta sia che io lo sappia sia che io non lo sappia, indipendentemente da linguaggi e da categorie. A un certo punto c'è qualcosa che ci resiste. È quello che chiamo "inemendabilità", il carattere saliente del reale. Che può essere certo una limitazione ma che, al tempo stesso, ci fornisce proprio quel punto d'appoggio che permette di distinguere il sogno dalla realtà e la scienza dalla magia.
  • L'umanità deve salvarsi, e certo mai e poi mai potrà farlo un Dio. Occorrono il sapere, la verità e la realtà. Non accettarli, come hanno fatto il postmoderno filosofico e il populismo politico, significa seguire l'alternativa, sempre possibile, che propone il Grande Inquisitore: seguire la via del miracolo, del mistero e dell'autorità.

Manifesto del nuovo realismo

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  • Il postmodernismo ha trovato una piena realizzazione politica e sociale. Gli ultimi anni hanno infatti insegnato una amara verità – e cioè che il primato delle interpretazioni sopra i fatti, il superamento del mito della oggettività si è compiuto, ma non ha avuto gli esiti emancipativi profetizzati dai professori. [...] Il mondo vero certo è diventato una favola, anzi [...] è diventato un reality, ma l'esito è stato il populismo mediatico, un sistema nel quale (purché se ne abbia il potere) si può pretendere di far credere qualsiasi cosa. Nei telegiornali e nei talk show si è assistito al regno del "Non ci sono fatti, solo interpretazioni", che – con quello che purtroppo è un fatto non una interpretazione – ha mostrato il suo significato autentico: "La ragione del più forte è sempre la migliore". (pp. 5-6)
  • L'ambito in cui lo scetticismo e l'addio alla verità hanno mostrato il loro volto più aggressivo è stata la politica. Qui la deoggettivizzazione post-moderna è stata, esemplarmente, la filosofia della amministrazione Bush, che ha teorizzato che la realtà fosse semplicemente la credenza di "comunità basate sulla realtà", cioè di sprovveduti che non sanno come va il mondo. Di questa prassi abbiamo trovato la più concisa enunciazione nella risposta di un consulente di Bush al giornalista Ron Suskind[11]: "Noi siamo ormai un impero, e quando agiamo creiamo una nostra realtà. Una realtà che voi osservatori studiate, e sulla quale poi ne creiamo altre che voi studierete ancora". Una arrogante assurdità, certo: ma otto anni prima il filosofo e sociologo Jean Baudrillard aveva sostenuto che la Guerra del Golfo altro non era che finzione televisiva. (p. 23)
  • Invece di riconoscere il reale e immaginare un altro mondo da realizzare al posto del primo, [il postmodernismo] pone il reale come favola e assume che questa sia l'unica liberazione possibile: sicché non c'è niente da realizzare, e dopotutto non c'è nemmeno niente da immaginare: si tratta al contrario, di credere che la realtà sia come un sogno che non può fare male e che appaga. (p. 24)
  • Il realismo è la premessa della critica, mentre all'irrealismo è connaturata l'acquiescenza, la favola che si racconta ai bambini perché prendano sonno. (p. 30)
  • Nel costruzionista osserviamo [...] una strategia [...] che esalta la funzione del professore nella costruzione della realtà: il suo testo fondamentale è Le parole e le cose di Foucault, dove si legge che l'uomo è costruito dalle scienze umane, e che potrebbe scomparire con loro.[12] (pp. 43-44)
  • Affermare che tutto è socialmente costruito e che non ci sono fatti, solo interpretazioni, non è decostruire ma, al contrario, formulare una tesi – tanto più accomodante nella realtà quanto più è critica nella immaginazione – che lascia tutto come prima. (p. 70)
  • Ben lungi dall'essere fluida, la modernità è l'epoca in cui le parole sono pietre, e in cui si attua l'incubo del verba manent. (p. 78)
  • Esattamente come in "non ci sono fatti, solo interpretazioni", si può sempre ritorcere contro il pensiero debole l'argomento per cui, se l'esplicitazione del nesso tra violenza e verità è una verità, allora il pensiero debole si rende responsabile di quella stessa violenza che condanna. (p. 91)
  • Le obiezioni che il pensiero debole muove alla verità come violenza sono, anche a un esame superficiale, obiezioni alla violenza, non alla verità, e dunque si fondano su un equivoco. Omettere queste circostanze ci porta a situazioni senza vie d'uscita: il potere ha sempre ragione; o, inversamente, il contropotere ha sempre torto; e addirittura, in forma piuttosto perversa, il contropotere e controsapere – fosse pure quello di un mafioso o di una fattucchiera – ha sempre ragione. (p. 91)
  • Nel suo manifestarsi prima facie, quella della verità come puro potere è una affermazione molto rassegnata, quasi disperata: "la ragione del più forte è sempre la migliore". Ma, appunto, c'è da essere più speranzosi: proprio la realtà, per esempio il fatto che è vero che il lupo sta a monte e l'agnello sta a valle, dunque non può intorbidargli l'acqua, è la base per ristabilire la giustizia. Giacché, diversamente da quanto ritengono molti postmoderni, ci sono fondati motivi per credere, anzitutto in base agli insegnamenti della storia, che realtà e verità siano sempre state la tutela dei deboli contro le prepotenze dei forti. Se viceversa un filosofo dice che "La cosiddetta "verità" è una questione di potere", perché fa il filosofo invece che il mago? (Laterza, Roma-Bari, 2014, p. 49)
  • Da qui l'impasse: se il sapere è potere, l'istanza che deve produrre emancipazione, cioè il sapere, è al tempo stesso l'istanza che produce subordinazione e dominio. Ed è per questo che, con un ennesimo salto mortale, l'emancipazione radicale si può avere solo nel non-sapere, nel ritorno al mito e alla favole. L'emancipazione, così, gira a vuoto. Per amore della verità e della realtà, si rinuncia alla verità e alla realtà, ecco il senso della "crisi dei grandi racconti" di legittimazione del sapere. (p. 101)
  • Vivere nella certezza, per quello che abbiamo detto sin qui, non è vivere nella verità. E proprio in nome della verità dovremo osservare che la promessa di certezza [...] dà pace. Ma è anche vero che la pace, come diceva Kafka, è ciò che si augura alle ceneri. (p. 106)
  • Sbagliando si impara, o altri imparano. Dire addio alla verità è non solo un dono senza controdono che si fa al "Potere", ma soprattutto la revoca della sola chance di emancipazione che sia data all'umanità, il realismo, contro l'illusione e il sortilegio. (p. 112)
  1. a b c Da Adorno vide Napoli e non morì, repubblica.it, 6 luglio 2019.
  2. Da Il tunnel delle multe: ontologia degli oggetti quotidiani, Einaudi, 2008. ISBN 88-06-19134-9
  3. Da Angelo Agrippa, Filosofi borseggiati, il torinese Ferraris: Altro che cuore, Napoli è una città feroce, corrieredelmezzogiorno.corriere.it, 15 aprile 2009.
  4. Citato in Focus Storia, n. 64, febbraio 2012, p. 108.
  5. Da Martha Nussbaum, repubblica.it, 22 febbraio 2011.
  6. a b (FR) Dall'intervista di Anastasia Vécrin, Maurizio Ferraris : «Le monde est plein de couillons dont la majorité pensent être originaux, géniaux, créatifs», liberation.fr, 25 agosto 2017.
  7. Citato in Leonardo Caffo, Il maiale non fa la rivoluzione: manifesto per un antispecismo debole, Sonda, Casale Monferrato, 2013, quarta di copertina. ISBN 978-88-7106-701-8
  8. Da L'imbecillità è una cosa seria, citato in Francesco Neri, L'ottimismo ovvero l'indispensabile presupposto per ogni bene, gazzettafilosofica.net, 15 aprile 2020.
  9. Citato in "Papa più moderno dello Stato", lastampa.it, 24 gennaio 2011.
  10. Dall'intervista di Gianluca Barbera, La verità è assoluta Sono relativi i nostri strumenti per raggiungerla, ilgiornale.it, 22 marzo 2017.
  11. (EN) Cfr. R. Susskind, Faith, certainity and the presidency of George W. Bush, nytimes.com, 17 ottobre 2004.
  12. In nota Ferraris richiama un brano di Michel Foucault: «L'uomo è un'invenzione di cui l'archeologia del nostro pensiero mostra agevolmente la data recente. E forse la fine prossima.» Cfr. Michel Foucault, Le parole e le cose, Rizzoli, Milano, 1967 (1966), p. 444, ma in realtà 414.

Bibliografia

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  • Maurizio Ferraris, Manifesto del nuovo realismo, GLF editori Laterza, 2012. ISBN 88-420-9892-2

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