Lingua napoletana
lingua romanza
Citazioni sulla lingua napoletana.
Citazioni
modifica- Austera nobbeltà napoletana, | a te sti vierze mieie porto 'mpresiento[1], | mente sto ttasseiare a la paesana[2]| t'ha grazia[3], perché ssaie c'ha fonnamiento. | Tenimmoce lo nnuosto, e stia 'n Toscana | la Crusca, e ccà rommanga pe spremmiento[4]: | sta lengua nosta è lengua de tresoro, | e fuorze[5]ha ccose che no' ll'hanno loro. (Gabriele Fasano)
- Con una ovvietà potremmo ricordare che le tre grandi lingue del teatro sono il veneto, il napoletano e il siciliano. Lingue che consentono di rappresentare comportamenti, allusioni, doppi fondi capaci di alimentarsi nel gesto, come accade nell’inglese di Shakespeare. (Toni Servillo)
- È assai particolare ed estremamente difficile: per capirla ci vorrebbe almeno un anno di pratica costante. Non somiglia all'italiano più di quanto l'inglese non somigli al gallese. E poiché non dicono nemmeno la metà delle cose che intendono, sostituendo intere frasi con strizzate d'occhio o calci, mi meraviglio che riescano a comprendersi. (Charles Dickens)
- Il dialetto napoletano è gaio e faceto. È ricco di frasi spiritose che si prestano talvolta ad arguti doppi sensi. La sua armonia imitativa è incomparabile; così in nessun dialetto del mondo si dirà schizzichèa, per esprimere la prima pioggia; spaparanza per esprimere l'aprirsi di una porta; sciuliare per indicare chi scivola; sfrocoliare per stuzzicare; arripicchiato per aggrinzito; ha chiuoppete, per ha piovuto; arteteca per argento vivo; ammarrare per chiudere, ecc.
Permette quasi sempre una satira pungente e penetrante mentre agevola in maniera meravigliosa le immagini fresche e naturali che sgorgano dalla fantasia dei napoletani.
I napoletani, dotati di una gaiezza e di un sentimentalismo introvabili altrove, sono i degni possessori di un linguaggio così faceto e così diffuso. Noi diremmo quasi che l'uno e gli altri si armonizzano e si completano. Il dialetto ed il carattere di questo immaginoso popolo meridionale contribuiscono a rendere più belli i suoi gridi che debbono essere considerati come la migliore espressione della sua natura. (Cesare Caravaglios) - In ordine alle iperboli, c'è da rilevare che le stesse si apparentano con la abituale coloritura conferita al nostro esprimerci anche per avvalorare quanto si afferma e meglio sensibilizzare l'interlocutore. Esse consentono un forse inconsapevole transfer dalla limitatezza del reale alla incommensurabilità dell'immaginario, non escludendone una collegabilità alla ambientale componente di quella solarità che fa più grandi tutte le cose... (Renato De Falco)
- Le parole de Napule mpastate | non songo, frate mio, d'oro pommiento, | ma de zuccaro e mele, e famma vola | se fanno a tutte lengue cannavola. (Giulio Cesare Cortese)
- Il napoletano non divenne lingua nazionale ma resistette alla penetrazione degli idiomi di occupazione, per così dire; specialmente lo spagnolo. [...] Nonostante il secolare dominio della Spagna e contrariamente a ciò che se ne dice dai poco informati, il napoletano è scarsamente imbevuto di spagnolismi. La sua struttura fondamentale, ciò che si dice lo «spirito» della lingua è rimasto legato fortemente ai secoli classici della grecità e della latinità. Di qui le implicazioni del carattere, del costume, della spicciola morale del popolo; di qui quel sapore «antico» nell'intonazione e nei riflessi del linguaggio. Sulle settemila voci del Dizionario dialettale di Altamura, la maggioranza degli étimi tocca al greco e al latino. La stessa andatura musicale del napoletano appartiene al greco antico o, come precisa l'abate Galiani, al dialetto dorico «per le vocali più aperte, le voci pronunciate con maggiore espressione, le consonanti battute con maggiore impulsione». Gli spiriti dell'antichità, insomma, folleggiavano freschi e sapidi nella gran parte delle parole napoletane. (Giovanni Artieri)
- [Il dialetto napoletano del '600] Però... quanto è bello questo napoletano antico, così latino, con le sue parole piane, non tronche, con la sua musicalità, la sua dolcezza, l'eccezionale duttilità e con una possibilità di far vivere fatti e creature magici, misteriosi, che nessuna lingua moderna possiede più! (Eduardo De Filippo)
- Solo pare che, in tanto progresso, resti indietro e resti irreparabilmente negletto ed incapace più di ristoro e di fortuna il nostro volgar dialetto napoletano: quello stesso dialetto pugliese che, primogenito tra gl'italiani, nato ad esser quello della maggior corte d'Italia, destinato ad esser l'organo de' pensieri de' più vivaci ingegni, sarebbe certamente ora la lingua generale d'Italia se quella felice Campania e quell'Apulia che lo produssero e l'allevarono si fossero sostenute quali prime, e non qual infime e le più derelitte delle provincie italiane. (Ferdinando Galiani)
- Tanto si sono incarnate le idee colle voci, che pare ormai, che parlar Napoletano, e buffoneggiare sia una stessa cosa. Alle menti filosofiche è manifesto, che sì fatta connessione d'idee non è figlia della natura, ma della sola abitudine; e quando anche non fosse così, e fossevi nel suono del dialetto Napoletano qualche occulto difetto, che ne togliesse la dignità e la gravità, quell'aureo detto di Orazio ridentem dicere verum quid vetat basterebbe a convincere, che anche in un dialetto scherzoso si possan pronunziare le più serie, e le più importanti verità. (Ferdinando Galiani)
- Una specifica particolarità della favella napoletana è quella della sua incisiva adesività: la rigorosa proprietà del nostro linguaggio è scevra da approssimazioni e pressappochismi, fornendo la più totale ed immediata concordanza tra il veicolo semantico ed il concetto che si intende esprimere: essa rende l'homo neapolitanus un autentico cesellatore delle parole, che devono riprodurre con caparbia precisione l'idea da comunicare. (Renato De Falco)
- Copioso d'assonanze e di ritmi il nostro idioma popolare non pur seguitava, in quel secolo[6], ad accarezzare l'orecchio, ma, con gli armonici elementi che conteneva, quasi generava in Napoli la incantevole e insigne scuola musicale che vi prosperò fino a tardi. Saporosa composizione di sentimentale e di burlesco esso s'attagliava così agl'istromenti della piazza come alla delicata concordanza di due violini e di una spinetta: l'opera buffa era un poco in ogni manifestazione poetica e la nostra poesia dialettale suscitava, in que' tempi, un riso spontaneo, figlio non del ragionamento o del giudizio ma di una natura espressiva.
- Ecco dunque il nostro dialetto che davanti a un soffio così novo e così classico[7]s'arretra a mano a mano e finalmente, dopo quasi dugento anni, ripara alla fonte primitiva che lo contenne, e torna a que' rivi gonfi ed aperti i quali da' loro facili margini già lo avevan visto traboccare e diffondersi. Ed eccolo dunque ridiventato, nel secolo decimosesto, cosa affatto particolare e propria della plebe, cosa più umile e però quasi spregiata e oscurata, ancora, dalla nobiltà dell'opera e della voce sopravveniente.
Ma l'anima popolana, la quale sente sempre il bisogno di manifestarsi, s'agitò pur allora. Ella, impaziente, frugò in fondaci e vicoli e strettole; ella ne snidò, fremente, i suoi poeti sinceri – e a questa gente povera ma ingegnosa, intinta ancora d'un non so che di letterario che l'addestrava a metri armoniosi o suonanti, a questa gente che non mai aveva asceso scale di principi o di università, l'anima popolana, quasi inebriata da tanto e così onorevole conflitto, disse: Va, e parla, e canta pure in mio nome! - Il nostro dialetto, fino al trecento, era stato scritto. Lo aveva posto negli atti suoi pubblici la Cancelleria della Corte Aragonese, lo avevano usato le medesime opere letterarie di quel tempo, i poemi, le cronache, i trattati: ed esso era sembrato – e fu davvero – una lingua di tutte le voci più popolari e più vivaci, sincera, spontanea, facile per ogni comune necessità e accessibile a ogni uso e a ogni persona.
Appresso, tutto il secolo decimoquinto s'era continuato a giovare di quel pittoresco ed efficace vocabolario: ma già esso era sceso più basso, l'accademia alfonsina già stimolava, nel quattrocento, le più singolari intelligenze, e il Cariteo, Iacopo Sannazzaro, Pietro Summonte, Gabriele Altilio avevano per le mani la cosa pubblica e le lettere a un tempo. - Nel maggio del '900, sovvenuto nella città di Dante dalla cortese ospitalità del luogo, io non seppi non ricordare a' fiorentini la sentenza generosa che l'Alighieri si piacque d'esprimere in una delle sue opere minori: Con l'aiuto che Dio ci manda dal Cielo noi ci sforzeremo di dar giovamento al parlare delle genti volgari. Questo egli disse, quando pel primo, e con la divinatrice mente che rivolse pur alle prime questioni filologiche, andò radunando, e raccogliendo e sceverando ogni più sparso suono perché, come quasi stillati e mescolati, essi componessero per la nostra lingua armoniosa una concorde e sonora melodia.
E questo io ripeto ancora non perché già non numeri nella lingua nostra secoli di affermazione gloriosa e non abbia dato nitidi e vaghissimi attestati, ma appunto per osare di credere che da tanta ricchezza non sia per essere spregiata, ancor oggi, una dimessa voce, la quale pur offerse all'Italia la più antica pruova di sé: una voce che serbò quasi intatto il suo suono e che se ne vuol giovare, agli anni nostri, per dir cose che pur appartengono alla Verità e alla Vita.
Note
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