Voci tematiche modifica

Figlio (o forse una nuova voce-confronto "Genitore e figlio"?)

  • Mia figlia aveva il potere di mettermi le mani nel sangue. Si infilava nelle pieghe dei miei pensieri e delle mie paturnie come se fossi trasparente. Forse un figlio è anche questo, un prolungamento del nostro modo di sentire e pensare. Per questa ragione crescere e scrollarsi di dosso i genitori costa tanta fatica. (Bruno Morchio)
  • Nessun genitore lo ammetterà di buon grado, ma gli impegni con i figli, una volta diventati adulti, assumono il colore un po' sbiadito dell'incombenza. Questo non ha niente a che fare con i sentimenti: è una faccenda di sana economia esistenziale. Dopo una certà età i figli fanno la loro vita e i genitori diventano importanti per quello che gli hanno lasciato dentro. Entrambi devono farsene una ragione e prepararsi all'inevitabile distacco, che prima o poi diventerà definitivo. Per esorcizzare questa elementare verità si allestiscono rituali e cerimonie, dai compleanni alle feste comandate con annessi banchetti propiziatori, che in sostanza si confermano per quello che sono: funzioni apotropaiche di elaborazione preventiva del lutto. (Bruno Morchio)



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  • Abbiamo attraversato un ampio salone open space con cinque o sei scrivanie multicolori dotate di computer fantascientifici ai quali lavoravano altrettanti giovani, uomini e donne, tutti attraenti, presumibilmente architetti e ingegneri con contratto a tempo determinato. In questo paese funziona così, chi fa un lavoro creativo e appassionante, che richieda studi di alta specializzazione, deve pagare lo scotto di tale privilegio accontentandosi di un lavoro precario e sottopagato. I compensi miliardari restano appannaggio dei calciatori e dei buffoni della televisione.
  • Annuì, e riaprì i grandi occhi lucidi di pianto. In fondo a quelle pozze verdi si accese un bagliore che forse era gratitudine, forse il modo che hanno gli occhi di sorridere quando il dolore che schiaccia il cuore si alleggerisce e diventa altro: respiro, parola, pensiero, memoria.
  • Avrei potuto aggiungere che diffido della pulizia eretta a valore sociale. Avrei potuto dirgli che non mi piacciono quelle case dove per non sporcare non si cucina. E quei centri storici dove tutto è perfettamente lindo e ordinato, e la spazzatura, l'immigrazione e la povertà vengono pudicamente rimossi e occultati agli occhi dei turisti. Dove trovi i fiori in bella mostra e in giro non vedi uno zingaro, una bagascia né un accattone. Dove al restauro delle case vecchie e fatiscenti segue la derattizzazione della dolente umanità che le abita. Come se le città fossero vetrine che vendono scorci da cartolina. Giusto per mandare in vacanza il cervello e dimenticare che il mondo è un'altra cosa.
  • «Bisogna riconoscere che gli americani hanno dato all'umanità tanti dolori, ma anche alcune cose buone».
    «Per esempio?»
    «I libri di Faulkner e il manhattan», rispose scrollando le spalle.
  • «Che ne diresti di un Negroni?»
    «Giusto o sbagliato?»
    «Non c'è ragione di sbagliarlo quando si può farlo giusto.»
  • Come fuori dalla porta, anche sopra al banco svettavano due grandi stemmi. Il grifone rossoblu e il baciccia blucerchiato, con tanto di rispettive bandiere. Pensai che il padrone del caffè doveva essere uno di quelli che non vogliono inimicarsi nessuno, ottenendo esattamente l'effetto opposto. Perché un genoano non andrebbe mai in un bar dove penzoli la bandiera sampdoriana. E viceversa.
  • «Crede che non mi sia accorto di quanto le risultiamo insopportabili? La nostra ricchezza urta la sua suscettibilità di proletario che non s'è ancora rassegnato di appartenere a una classe subalterna. Sa qual è il problema? L'invidia sociale. È una malattia dalla quale non si guarisce mai.»
    «Si sbaglia, la cura c'è e si chiama televisione. Il tempo dell'invidia sociale è finito e quelli come me si stanno convincendo che la ricchezza è alla portata di tutti. I personaggi come lei, che hanno creato una fortuna dal nulla, costituiscono la prova che è davvero così e sono diventati oggetto d'una sconfinata ammirazione.»
  • Crede che si possa andare lontano promovendo su larga scala ignoranza e disprezzo per la cultura, additandola come accozzaglia di futili sottigliezze? Non c'è bisogno di essere radical chic per vedere che un paese non progredisce in assenza di una classe dirigente che abbia qualcosa da insegnare a chi la vota. Vantarsi di dire quello che pensa la gente non significa essere democratici, ma ingannare gli elettori. Una democrazia per funzionare ha bisogno di un ceto politico che guardi all'interesse generale, anche contro quello che pensa la gente.
  • Durante i miei soggiorni in Germania ho avuto l'impressione che lo sforzo di voltare pagina senza cancellare la memoria sia stato più serio e profondo nei tedeschi che in noi. Le colpe di cui si sono macchiati sono state mostruose, apocalittiche. Tuttavia anche noi, nel nostro piccolo, abbiamo promulgato le leggi razziali e costruito lager come la risiera di San Sabba, spedito i dissidenti al confino, picchiato, torturato e assassinato gli oppositori del regime. Il fatto è che non abbiamo imparata la sola lezione che la storia impartisce ai popoli per umanizzarli, quella di riconoscere le sconfitte. Nonostante siamo sempre stati dei perdenti, fingerci vincitori è stato il nostro modo per illuderci di fottere la storia.
  • Finché sei chiuso in una cella il tempo non costituisce un problema, perché a scandirlo provvedono gli altri: i pasti, i bisogni fisiologici, l'ora d'aria, i libri. Ma quando devi riappropriarti dell'esistenza la musica cambia. In principio ti sembra che tutto sia possibile, poi ti accorgi che senza darti un metodo non riesci a tenere niente: amici, affetti, sicurezza economica. C'è mancato poco che la banca mi pignorasse la casa. Allora ti convinci che vivere non è altro che sopravvivere, e la sopravvivenza richiede una pianificazione del tempo e un'organizzazione mentale.
  • «Gli uomini non piangono».
    Mi ripeteva sempre mio nonno Baciccia. Finché un giorno mi portò al cinema e vedere Via col vento e lo pescai che piangeva di nascosto come un bambino. Quell'episodio mi ha insegnato che alla gente tutta d'un pezzo manca qualcosa di essenziale a cui non avrei mai più rinunciato. Il coraggio dell'incoerenza.
  • I rapporti tra detenuti e secondini sono una faccenda complicata per diverse ragioni, prima fra tutte la natura contrapposta dei rispettivi ruoli. I primi stanno rinchiusi in gabbia contro la loro volontà e i secondi sono pagati per sorvegliarli. In genere tra i due gruppi corrono sentimenti di reciproca insofferenza, sospetto e talvolta perfino odio e disprezzo. Un gioco che fomenta i peggiori impulsi, da una sottile ferocia a un'aperta, sfacciata brutalità. Tuttavia i rapporti umani sono caratterizzati da fattori imponderabili che possono anche rovesciare gli stereotipi e dar luogo a inedite e sorprendenti costellazioni emotive. Nel crogiuolo di una relazione gli affetti ribollono con esiti spesso violenti e catastrofici, ma creano talvolta legami solidi, destinati a durare nel tempo.
  • «I sentimentalismi non mi sono mai piaciuti. Preferisco le donne nude.»
    «Ma cosa è una donna nuda senza un po' di sentimento?»
    «Un'occasione da non perdere.»
  • Il comunismo è caduto anche perché i suoi metodi non funzionavano più. Nell'era di Internet è diventato impossibile censurare una notizia. Tutto quello che si può fare è evitare che essa venga recepita, facendola scomparire in una pletora di informazioni. Tecnicamente, si chiama azzerare la differenza accrescendo la ridondanza. Sopprimere e reprimere è costoso e poco remunerativo. Molto meglio allungare e diluire, come il caffè americano rispetto al vostro espresso.
  • In silenzio ci avviammo a piedi lungo via Balbi, quasi completamente deserta sotto i suoi nobili palazzi seicenteschi. Gli ultimi cantieri stavano smobilitando e anche questa strada si preparava a sfoderare lo smalto del trionfale recupero dei suoi fasti storici. I muri degli antichi palazzi restaurati erano stati purgati dai graffiti tracciati con la vernice a spruzzo. «Libertà per i compagni arrestati», «Polizia fascista», «No alla globalizzazione», «Produci consuma crepa». Tutto era perfettamente lindo e ripulito. Abili professionisti del restauro avevano ripristinato una storia più antica a scapito di quella che ancora brucia sulla pelle. La rabbia di una generazione ricca di proteine e di carboidrati ma altrettanto cosciente che l'età dell'oro dei loro padri sta per finire sotto la spinta di una globalizzazione selvaggia dominata dal mercato e dal profitto.
  • Io sto in pensione, guaglio', e non pretendo di insegnare nulla a nessuno. Non c'è niente di peggio che voler restare attaccato a una scrivania e a una poltrona quando ormai sei fuori dai giochi. Si corre il rischio di diventare patetici. Hai sempre l'impressione che gli altri ti stiano ad ascoltare per benevolenza, ma dietro la benevolenza cova la condiscendenza, e ti assicuro che è un cocktail amaro da mandare giù. I galloni sono come le medaglie: valgono qualcosa finché li porti addosso. Appesi al muro danno lustro ma non servono a un cazzo. (Totò Pertusiello, p. 34)
  • L'indignazione dei vecchi è sempre sospetta [...] E sai perché? [...] Perché puzza di rancido, come la mozzarella andata a male. Quando un vecchio s'indigna non si sa mai se lo fa perché il presente fa schifo, o perché vorrebbe portare indietro le lancette dell'orologio. (Totò Pertusiello, p. 34)
  • L'ineffabile privilegio di plasmare qualcuno a nostra immagine, propiziando un'affinità così profonda da rendere naturale capirsi senza parlare, col tempo diventa un grosso impaccio. E liberarsene procura sofferenza.
  • La presunzione che l'amore renda commestibili anche le pietre [...] produce nelle donne intelligenti guasti più profondi che nelle stupide. Esse infatti sanno che non è così, ma il desiderio di smentirsi le induce a mettere i loro uomini alla prova, trasformando la vita di entrambi in un inferno.
  • Le strade sono già tutte un brulicare di gente. Tanti stranieri – soprattutto arabi e africani – che muovono verso via Turati, dove ogni mattina allestiscono un mercatino di ravatti che ha fatto scorrere fiumi di parole sui giornali cittadini e sui social network. È una questione di decoro – parola che mi fa venire l'orticaria – hanno scritto in molti, lo spettacolo della povertà fa scappare i turisti e appanna l'immagine della città. Punti di vista. Quando la povertà non può essere estirpata, bisogna spazzarla sotto il tappeto e renderla invisibile, trattando gli esseri umani alla stregua di acari.
  • Li vede quei disgraziati? Vengono dall'Africa. Terra povera di acqua e sovrabbondante di calura e di sudore. Da loro non necessariamente ci aspettiamo ignoranza o crudeltà. Ormai è risaputo che non sono selvaggi tagliatori di teste e mangiatori di uomini. Il fatto è che un africano povero puzza anche se ha fatto l'università. E la puzza tira su fra gli uomini barriere ben più alte della lingua e della religione. In fondo, coi gesti ci si può sempre capire. E ognuno può credere al suo Dio, senza disturbare gli altri. Queste sono faccende che riguardano la testa. Ma il corpo, il naso e la pancia sono un'altra cosa.
  • Ma come? Hai letto tutti i miei romanzi e definisci la città una location? Non ti sei accorto che Genova è molto di più? È un luogo dell'anima e della memoria, un'aria che si respira, un modo di essere e guardare al mondo...
  • Nel nostro mestiere la verità è un po' come l'infinito di Leopardi, sempre esclusa allo sguardo da un colle e da una siepe. E il più delle volte, il colle e la siepe sono proprio l'ovvio e la normalità del quotidiano, che non bisogna mai dare per scontati.
  • «No, dottore. La mamma è morta dieci anni fa. Di un brutto male».
    Un brutto male. Come se potesse esserci un male bello, o almeno decente. Quell'eufemismo da sempliciotti che pensano che chiamare le cose col loro nome sia una mancanza di riguardo mi avrebbe fatto sorridere, se non fosse stato per la paura di ferirla.
  • Oh, certamente, ho letto anch'io qualcosa sulle tecniche della comunicazione televisiva. Per risultare efficaci bisogna mettersi al livello dello spettatore — non è stato lei a citare il Bar dello Sport? — e ripetere ossessivamente concetti semplici e scontati, senza scostarsi dal più trito senso comune. La regola aurea è evitare ad ogni costo l'invidia di chi ci guarda e favorire la sua identificazione con noi. Peccato che la stretta osservanza di questi principi nel giro di vent'anni abbia fatto a pezzi la lingua italiana, la scuola, il tessuto culturale e la convivenza civile, a tutto vantaggio di una cricca di arricchiti a cui interessano solo due cose, i soldi e il potere.
  • Pensai anche a come gli uomini siano riusciti a compiere il miracolo di trasformare la natura. E ricavare dalla fragranza di un arbusto contorto, battuto dai venti, un'elaborata mistura di gusti capace di risolvere la rabbia in una fatua risata, e il dolore in un guscio vuoto come le conchiglie disseminate dal mare sulla spiaggia di Quirra.
  • Per me che sono un irriducibile ateo [...] il solo beneficiario della gratitudine non può che restare il destino, quella complessa di trama di accidenti che, intersecandosi nei modi più imprevedibili, decidono della nostra felicità e della nostra disperazione, della vita e della morte. Portare gratitudine al caso è un ossimoro, un controsenso, ma questo è il solo modo in cui riesco a concepire l'esistenza: una sequenza di alternative cominciata molto prima della nostra nascita e che finirà quando non ci saremo più. Se, ogni volta che la sfanghi, tutto quello che riesci a pensare è che ti è andata di culo, dove altro puoi riporre la tua gratitudine?
  • Potrei imbarcarmi in una dissertazione filosofica e sostenere come nelle nostre vite geografia, storia e memoria si incrocino, riducendo nella carne viva del passato percorsi che restituiscono senso al presente e al suo disordine. Ma a una condizione: che si profili un futuro all'orizzonte.
  • Quando cessano le frequentazioni regolate dalla routine e dalle necessità quotidiane – come gli assetti familiari, il lavoro, le incombenze pratiche, le abitudini che ci legano a particolari contesti – quanto tempo impiegano le persone che escono dai radar a svanire dalla nostra memoria? Non sarà un caso che una delle malattie emblematiche del nostro tempo sia il morbo di Alzheimer: non solo per via dell'invecchiamento della popolazione, ma per una ragione più profonda, legata al dissolversi dei legami sociali, che si sono fatti sempre più aleatori, casuali e precari. Invecchiando mi sono convinto che il problema non sono le relazioni in sé, quanto la nostra inettitudine a custodirle dentro di noi. La liquidità dei rapporti umani produce una scoraggiante elusività degli affetti. Dimentichiamo non per un difetto della memoria, ma per incapacità di amare, di legarci agli altri e sentirne la mancanza nel tempo. La nostra disabilità non ha a che fare con i ricordi, ma con l'indifferenza.
  • Quando sulla porta del bar ci siamo congedati è uscito il sole. La tramontana ha compiuto il miracolo, spingendo le nuvole sul mare e restituendo alla città colori smaglianti e un cielo così azzurro che guardarlo fa male agli occhi e al cuore.
    Quante volte mi sono chiesto perché, in certe giornate terse, quando il freddo rende l'aria rarefatta, il cielo sereno mi procuri questo struggimento che assomiglia a uno spasimo. Forse perché squarcia gli orpelli e rivela l'essenziale, il vuoto. Il nulla.
  • Quante volte ti ho ripetuto che i sogni infantili sono trappole micidiali che rovinano l'esistenza della gente? Andrebbero asportati sul nascere per via chimica, o con l'elettroshock. E invece la lacrimevole retorica del miraggio infantile continua a fare proseliti fra le mamme cinquantenni con figlio unico partorito sull'orlo della menopausa, e l'infame slittino di Quarto potere miete vittime a tutto spiano.
  • Terminato il pranzo siamo finiti a letto e il resto della giornata è trascorso sotto le lenzuola. Tra sesso, parole sussurrate a mezza voce e un breve sonno, è stato come se il tempo si fosse fermato. L'amore, o quello che ne resta dopo avere raschiato il fondo dell'esistenza, sospende il tempo degli orologi e regala uno stato di grazia che sembra frutto d'un incantesimo. Si tratta di rari momenti che il destino ci riserva quando è in buona, scampoli di silenzio strappati al frastuono del quotidiano, ma è difficile non provare gratitudine per queste pause ristoratrici che restituiscono regolarità al nostro respiro.
  • «Tu mi hai fatto capire che il futuro può essere altrettanto illusorio del passato, se ad alimentarlo sono la rabbia o la nostalgia. Non serve interrogarlo se non si fanno le domande giuste. Sai qual è la maledizione che impedisce al futuro di diventare presente, di farsi realtà d'ogni giorno e dare una casa ai nostri sogni?»
    «Quale?»
    «La ripetizione.»
    «La maledetta ripetizione», sillaba inespressiva, quasi a suggellare la conclusione del discorso.
  • Tutto era cominciato da lì. I primi comitati di base nell'autunno del '68, i cortei studenteschi, i volantinaggi. L'impossibile che profumava di possibile. La militanza che intrecciava la nostra giovinezza con quella del mondo. Prima che ciascuno, prigioniero del proprio ego in suppurazione, cominciasse a seminare paletti per delimitare recinti dove correva obbligo pensarla allo stesso modo. Per quanto ti sentissi rivoluzionario, c'era sempre qualcuno più rivoluzionario di te. La diaspora gruppettare è stata nient'altro che questo. Se l'immaginazione non riusciva ad andare al potere, tanto valeva sostituirla con l'idiozia e accaparrarsi comunque una fetta di dominio, per quanto miserabile. Questa e non l'ideologia comunista è stata la vera matrice del partito armato. La rincorsa alla visibilità a ogni costo. Non a caso trent'anno dopo molti hanno finito per aderire al partito-azienda delle televisioni, dimenticando lezioni e proclami comunisti blaterati alle assemblee come se piovesse.
? GENOVA
  • Appena giunti sulla terrazza restammo sopraffatti dallo spettacolo del golfo. Il sole era sorto e la sua luce dorata lambiva i contorni del promontorio, esaltava i brulli picchi rocciosi, il verde denso delle gole folte di alberi e quello più tenue della gariga. La sottile lingua pietrosa di Punta Chiappa si insinuava nell'acqua come un cetaceo pronto a immergersi. Il mare era una distesa color cobalto con ampie plaghe opalescenti che si allungavano sull'orizzonte.
  • Attraversare in Vespa il ponente genovese, da Sampierdarena a Multedo, era compiere un viaggio nel tempo prima che nello spazio, incunearsi nella città perduta dove i vuoti lasciati dalla smobilitazione industriale erano ferite ancora aperte che sanguinavano, edifici fatiscenti di fabbriche dismesse che presto avrebbero cessato di essere nobilitati anche dalla memoria, perché in quegli anni l'unica cicatrizzazione possibile sembrava l'oblio.
    I fumi ferrosi delle acciaierie di Cornigliano, la tecnologia d'eccellenza del biomedicale in via Siffredi e il cantiere navale di Sestri rimanevano le ultime testimonianze vive a presidiare il cimitero della storia, sacrario d'un passato glorioso destinato a essere archiviato per sempre, insieme al grido composto d'una classe operaia che aveva segnato un'epoca prima di venire inghiottita dalla meritata e confortevole tana del pensionamento anticipato.
  • Coi piedi allungati su un pavimento dove la graniglia lucidata a piombo disegnava, sullo sfondo scuro, i contorni bianchi e verdi di figure geometriche che si intrecciavano come in una danza. Un tipico pavimento genovese, fino a qualche decennio fa diffusissimo per via dell'economicità dei materiali. Oggi quel tipo di pavimentazione non si usa quasi più, ed è stato rimpiazzato dalle piastrelle di ceramica, assai più economiche e pratiche. Facili da impiantare e da tenere pulite. Un'arte, quella di impastare la graniglia, che si è quasi completamente perduta. Tuttavia, almeno fino agli anni sessanta, anche nelle case popolari i pavimenti erano rivestiti di graniglia.
  • Dalla rampa mi sfugge un'occhiata oltre la valletta del rio Torbido dove il sole tintinna sui colori sgargianti delle case di Campo Pisano. Il rosso, il kaki, il color vinaccia. Uno sberleffo contro quell'insulso groviglio di strade, cemento e pessima speculazione che ha rimpiazzato la vecchia via Madre di Dio. L'erba riarsa dei giardini di plastica avrebbe la pretesa di fargli da foglia di fico. Quando si dice che il rimedio è peggiore del male.
  • La casa di Totò Pertusiello sta imbriccata sulle alture, in una strada inventata dagli ottusi speculatori degli anni sessanta tra la serpentina di via Napoli e il quartiere popolare di Oregina, con le sue vecchie case dai minuscoli poggioli abitate da vecchi pensionati che un tempo sono stati portuali e marittimi. Una strada stretta e ripida, dove anonimi palazzoni si ammucchiano e si rubano il sole tra mostruosi muraglioni di sostegno. Neppure un marciapiede. E la quotidiana lotteria serale per posteggiare l'automobile.
  • La nostalgia è il veleno che la sinistra ha sparso su questa città [Genova], ripeteva un giovane architetto davanti a una crêpe del Capitano.
  • — Maniman.
    Una espressione genovese quasi intraducibile. Più o meno significa "non si sa mai". E meglio di qualsiasi altra esprime tutto il carattere di questa città e dei suoi abitanti. L'atteggiamento di Genova e dei genovesi verso il mondo e verso la vita. Non ti sbilanciare, non aprirti troppo, non rischiare.
    Maniman... (p. 144)
  • Posteggiai la Vespa davanti alla crêperie del Capitano e cominciai a scendere per lo stradone di Sant'Agostino. Svoltai in piazza Negri, davanti al teatro della Tosse, e mi avviai verso vico Re Magi. L'occhio si soffermò sul campo da basket e sui giardini appena costruiti, maldestri tamponamenti delle macerie postbelliche. Grate di ferro li chiudevano, aggiungendo inutilità al cattivo gusto. Grazie a dio, al di là di quelle brutture della modernità, le facciate multicolori delle Erbe splendevano gioiose al sole del mattino.
  • Sulla sinistra la mattonata scende fino allo Stradone Sant'Agostino, sulla destra risale verso l'università e le case medievali di via di Mascherona, ristrutturate anch'esse dopo lo Colombiane del '92, quando Genova si è decisa a cambiare stile di vita e look, dopo essersi risvegliata dai fasti della modernità industriale con l'angoscia di sprofondare in un'irreversibile agonia segnata da spopolamento, senescenza e dilagante disoccupazione. Nel tentativo, in parte riuscito, di attrarre visitatori dall'Italia e dal mondo e sviluppare nuove attività commerciali, la città che ha sempre nascosto le proprie bellezze, quasi gelosa che qualcuno le violasse, ha provato a inventarsi un'inedita e imprevedibile vocazione turistica. Ha fatto come certe donne che, perso il marito nell'età di mezzo, decidono di frequentare una palestra, accorciare la gonna e indossare il push-up, cominciando a mettere in mostra quanto di buono hanno salvato dall'usura del tempo.
  • Ho visitato lo Spedale grande, vasto, magnifico. Là la miseria alloggia ed è soccorsa nella grandezza e nel fasto.
  • Sortimmo con lui dalla città montando fino a S. Nicola ove in una sua casa ci diede da colazione. La visita di que' luoghi dai quali si scuopre tutta la città ed il mare e il porto ed i circonvicini ed i lontani palazzi, un'aria purissima e salubre, tutto m'inspirava una dolce malinconia: che non pagherei, pensavo tra me, a poter qui abitare lontano dallo strepito ed in una tanto bella parte di creazione! La rimembranza dei disgusti della vita, se non si venisse a torre del tutto si adolcirebbe almeno di molto, per quanto mi sembra, in un così bel luogo e così variato. Non si se in Val d'Arno esser vi possino simili incantatrici situazioni. (Giovanni Battista Biffi)
  • [Su Palazzo Doria a Pegli] Ove principia il monte e finisce il giardino si ascende per molti scaglioni, sempre tra i cedri, le statue ed i profumi, ed eccoti aperta inanzi la scena del più bell'orido che mente imaginare opure occhio veder possi mai. Un foltissimo bosco, parte declinante, parte sull'erto, folto, opaco, praticabile pei bei sentieri tortuosi e non afettatamente tirati a cordone, incanta per varietà e non annoia per simetria: ove forma un piano tra tronco e foglia si scuopre dell'acqua ed il mormorio d'un ruscello assicura che pur vi scorre. (Giovanni Battista Biffi)
  • [Su Palazzo Doria a Pegli] Ero in estasi, ero attonito ed il mio cuore sentiva e quiete e diletto quale un si fatto luogo inspirar doveva. Perchè se gli orti d'Alcinoo ancor verdeggiano ne' versi d'Omero, non sono questi celebrati da un Algarotti o dal buon Frugoni? Milton gli descrisse non conoscendoli nel descrivere come comparve, il primo mattino dell'esistenza di Eva, il Paradiso agli occhi della sorpresa madre degli uomini. (Giovanni Battista Biffi)
  • (quadri citati da Edward Gibbon in Viaggio in Italia: palazzo Reale 85-86, palazzo Carrega e palazzo Giacomo Balbi 87-88, palazzo Rosso 88-89, Palazzo Ducale 112, abbazia di Santa Caterina 114-115, chiesa del Gesù 116)
  • Non so se fosse per la luce del cielo, che sembrava raddoppiata, quasi sull'orizzonte nascosto dai palazzi fossero, sul finire del giorno, apparsi degli altri soli, ma la via Gramsci, e poi certe strade del centro, e poi la via XX Settembre mi sembravano pervase da un'amministrazione straordinaria, cui, per contrasto, la regolarità delle prospettive, lo splendore dei giardini, il colorato brillio delle luci che cominciavano ad accendersi nei negozi, nei caffè, sulle terrazze più alte, conferiva l'incantata fissità di un'antica stampa. (Anna Maria Ortese)
  • Le strade interne di Genova generalmente parlando sono tortuose e strette che a vichi potrebbonsi assimigliare. Ma da non molti anni alcune se ne riformarono e di nuovo se ne costrussero che hanno dato anima, vita e aspetto ben diverso ad una città di singolari bellezze. Tal è la via che muove dalla piazza Aquaverde, passa a rettilineo la contrada Balbi, ed attraversata la piazza dell'Annunciata, va ad unirsi alla via Novissima, la quale dopo il suo semicerchio si congiunge con l'altra nuova che, bella ed ampia, introduce su la piazza delle Fontane Amorose dove inalzansi i sette palazzi fabricati con architettura veramente suntuosa. (Giacinto Amati)
  • [...] ricorderemo la magnifica villa del marchese Marcello Durazzo, resa celebre non solo per la magnificenza delle sue costruzioni, dei molti ornamenti d'ogni genere, per il copioso gabinetto di storia naturale che si può vantare per uno dei più ricchi e più ordinati d'Italia. Questo gabinetto è stato formato dal marchese Filippo Durazzo, il quale ha saputo con molta industria riunire sì gran numero di oggetti appartenenti al regno animale come a quello minerale. La collezione dei zoofiti, cioè di quelli animali che all'esterna forma s'assomigliano alle piante, può dirsi, nel suo genere e per la sua conservazione, quasi unica in Europa. Non parlo poi del vago giardino, bastando dire che ivi ritrovasi quanto si può desiderare di aggradevole e delizioso. (è a Cornigliano: villa Bombrini?) (Giacinto Amati)
  • L'opera però che accrescerà maggior fama alla famiglia Durazzo è il magnifico ponte su la Polcévera, monumento colossale che richiama i bei tempi d'Augusto, e che paleserà alla più tarda posterità quanto valsero nel cuore dei Durazzo le ricchezze impiegate al ben publico perpetuo e alla gloria della loro patria. (Giacinto Amati)
  • Palazzo Durazzo, via Balbi. La facciata, i grandi appartamenti, la ricchezza dell'addobbatura, il cortile, le colonne, le statue, i giardini pénsili formano un complesso di suprema magnificenza. La galleria dei quadri gareggia con le più insigni di tal genere. (Giacinto Amati)
  • Palazzo Pallavicini, via Carlo Felice. Grande e magnifico palazzo con un vasto porticato adorno di diversi busti. Basterà accennare fra tutte le bellezze di questo singolare edifizio il salone a destra che reca sorpresa a chiunque vi entra; l'oro vi è sparso con tutta profusione; come anche altre sale sono decorate di preziosi dipinti e di quadri appartenenti ai capi-scuola del secolo della pittura. (Giacinto Amati)
  • Ogni parte di queste due sale [di palazzo Serra], o piuttosto quest'unica sala divisa in due parti, ciascuna di quaranta piedi quadrati, presenta agli occhi un lusso prodigioso di dorature, di sculture, di marmi, di specchi immensi, di pietre preziose e rare, di colonne di porfido, d'incrostazioni di madreperla, di pitture, di quadri di grandi maestri, di ricchi lavori al cesello, che par di vedere nella realtà le meraviglie descritte nei racconti orientali. [...] Questa sala dev'essere la disperazione dei ricchi e la consolazione dei poveri: i primi non potranno mai arrivare a tanta magnificenza nei loro arredamenti, gli altri non saprebbero invidiare un lusso scomodo, di cui non gode neppure colui che lo possiede: poiché egli, come tutti i genovesi, vive relegato in un piccolo appartamento al quarto piano. (Victor-Joseph Étienne de Jouy, dice la Rue Novissima, ma in via Cairoli non mi sembra ci siano Palazzi Serra)
  • Ma ora che il tempo ha fatto il suo lavoro | non li ascolto quasi più gli studenti, | né sbircio i titoli dei libri | che studiano seduti sulle scale in Balbi 4. | L'infinito intrattenimento non pacifica, | rende soltanto più sottili | e finissimi gli occhi torturandoli | nell'idea di fare a meno dell'idea del senso | o di scoprirlo, il senso, soprannaturale. (Massimo Morasso)
  • ...

Vito Elio Petrucci modifica

  • I genovesi hanno sempre voluto bene alle loro circonvallazioni, quella a Mare e quella a Monte, perché sono state la prima occasione di un passeggio in una città così avara di spazio. Ed è bello anche il nome scelto: circonvallazione, una strada che passa da valle a valle legando le varie località e le loro genti che da secoli si guardavano in cagnesco. Alla fine dell'Ottocento ed ai primi del Novecento erano il passaggio obbligato di tutte le famiglie patriarcali, che uscivano dalle vecchie case in processione, e si incolonnavano, bambini in testa e serve in coda, lungo i viali alberati.
  • Magia d'una necessità d'ascesa, in queste vecchie strade della città, sempre in salita, tutte in salita, come se l'appuntamento fosse dove l'orizzonte è più vasto e dove l'uomo, come i terreni ovattati dei prati — calvizie dei lieti bricchi — non ha padroni. Fuga di scale, continue ininterrotte, tappeti di mattoni e arabeschi di ciottoli per la strada segreta che due muri intarsiati di muschio e di calce fanno sonora e strette curve chiudono in recinti: bagni di sereno.
  • Terralba è un nome fascinoso, come magico doveva apparire questo vasto piano, questa terra coltivabile, nell'impervia orografia della nostra regione. Era un pezzo di terra verso il levante, verso l'alba; questa potrebbe essere la fantasiosa etimologia del nome. Ora è un'alba grigia, una grigia simmetria di binari e traversine, capannoni e treni fermi che aspettano il segnale per cercare stazioni nuove.

Anastasija Ivanovna Cvetaeva modifica

  • C'è a Nervi un meraviglioso giardino, Lavarello, dove sono verdi prati folti d'erba e grandi alberi ombrosi che profumano tanto (sono allori. No, non allori. E allora cos'erano?). Si sta d'incanto e, sdraiati sull'erba con Volodja, abbracciati ai bianchi volpini Fido e Stella, ci si dimentica di tutto...
  • Dove può mai trovarsi un luogo come questo? Quale il suo nome? «Kennst du das Land, wo die Zitronen blühen?».[1] Il verso di Goethe si limitava a domandare, ad esso rispondeva il silenzioso Röver. La sua risposta stava scritta negli album di fanciulle e bambini: il paradiso terrestre, magica visione fiorita, «Es kann ja nur die Riviera sein...».[2]

Mario Soldati modifica

  • Adagio, partendo dalle Fontane Marose, faccio tutta via Garibaldi, via Cairoli, via Balbi. A destra e a sinistra, uno dopo l'altro, i colossali portoni, gli atri, gli altissimi cortili degli antichi palazzi, testimoni ancor vivi di ricchezza, di potenza e di gloria.
    La strettezza dell'area obbligò gli architetti, naturalmente aizzati dalle famose famiglie rivali, a salire; a sviluppare verticalmente i loro disegni; a raddoppiare e triplicare, l'uno sull'altro, porticati e colonnati; a soddisfare, sfuggendo verso l'alto, questo bisogno di grandiosità. Anche il colore: fasce e lesene rosse su fondi gialli, o viceversa, e le persiane verdi, e il bianco e il rosa delle logge più alte: anche il colore ha questa funzione, di liberare in qualche modo gli edifici dall'angustia in cui sono costretti.
    E il risultato è quello che è: di sproporzione, di esagerazione, di follia: ma soprattutto di vita, di allegria. (Mario Soldati)
  • Comunque, è il più fantasticamente violento complesso architettonico che io conosca: come la creazione di una seconda natura. E penso a un genovese nato e vissuto in questa parte della città, ma non colto, non particolarmente istruito: un artigiano, un usciere, un impiegato che abbia fatto soltanto le elementari, tutt'al più le medie: penso a quest'uomo, come deve aver assorbito, senza accorgersene, la follia e l'umorismo, la grandiosità e la gioia, la violenza e l'intelligenza di un'architettura così speciale. (Mario Soldati)
  • Adesso ancora, tal e quale come da bambino, tutte le volte, appena odo quella strana, forte, veloce, inquieta, sibilante, sferzante, insinuante cadenza piena di u e di i, mi sento rimescolare il sangue. La cadenza genovese serpeggia come una frusta e come la via di Pré: oscura, invita alla vita, odorosa e fetida evoca il mare e i porti di tutto il mondo... (Mario Soldati)

Beppe Gambetta modifica

  • Il musicista genovese è per eccellenza il musicista che viaggia, cioè che abbandona la città e ritorna. (Beppe Gambetta)

Edoardo Sanguineti modifica

  • Guardala qui, questa città, la mia: | È in riva al Tejo che io cerco Campetto, | Nel Bairro Alto ho trovato Castelletto, | O un Cable Car su in Vico Zaccaria: | Vedilo, il mondo: in Genova è raccolto | A replicarne un po' la psiche e il volto. (Edoardo Sanguineti)


  1. "Conosci la terra dove fioriscono i limoni?"
  2. "Può essere solo la Riviera"